Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 28 febbraio 2020

Sequela Christi. Gesù e il buon ladrone

Bisogna seguire il Cristo in tutto, soprattutto nelle sofferenze, poiché l'amicizia si testimonia nella prova. "Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me" (Mt 10,38). Simone di Cirene ha portato la croce dietro a Cristo, ma non è giunto fino al supplizio della croce. Bisogna seguire Cristo, si deve aderire a lui: non si deve abbandonarlo fino alla morte. (...) Settantadue discepoli seguivano il Cristo, ma dopo avere udito una parola che non potevano comprendere, tornarono indietro. Pietro seguiva Gesù nella passione, ma da lontano, perché stava per rinnegarlo. Solo il ladrone lo ha seguito fino alla morte di croce. Che dire? È il ladro che ha seguito il Cristo fino alla morte di croce o è il Cristo che ha seguito il ladro? In verità Cristo ha inseguito il ladro per lungo tempo, finché il ladro non poté più fuggire; e quando il ladro non ebbe più via di scampo, allora seguì il Cristo ed entro con lui nel Paradiso.

        Guigo II (+1192/93), certosino


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Tiziano, Gesù Cristo e il buon ladrone, 1563 circa, Pinacoteca Nazionale di Bologna

Martin Bucer. Il riformatore di Strasburgo

Il 28 febbraio 1551 muore esule a Cambridge Martin Bucer, riformatore della chiesa di Strasburgo.
Era nato a Sélestat, in Alsazia, da una famiglia umile. Essendo un giovane con spiccate qualità intellettuali, l'unica via possibile nella sua povertà per poter studiare era entrare in convento, e così avvenne nel 1506, quando Martin fu accolto dai domenicani della sua città natale.
I suoi superiori lo mandarono dieci anni dopo ad affinare la sua conoscenza teologica presso i domenicani di Heidelberg; fu nell'università di quella città che Bucer conobbe Martin Lutero e fu conquistato alla causa riformatrice. Uscito dapprima dall'Ordine, ma rimasto prete secolare, Bucer fu tuttavia scomunicato quando si sposò con Elisabeth Silbereisen. Perseguitato per le sue idee luterane, egli si rifugiò nel 1523 a Strasburgo, dove divenne il principale protagonista della riforma nel capoluogo alsaziano. Nei venticinque anni dedicati alla riforma, Bucer fu un predicatore convinto del ritorno al vangelo in tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Egli organizzò il sinodo locale, grazie al quale tentò poi di creare una rete di piccole «comunità cristiane» confessanti, che dovevano costituire nei suoi intenti le unità evangeliche di base della chiesa, secondo il modello degli Atti degli Apostoli.
Ma Bucer fu anche un sincero uomo di pace. Egli si adoperò in tutti i modi per tenere unite le varie anime della Riforma, per reintegrare gli anabattisti e per giungere a un'intesa con i teologi romani.
La posizione di Bucer riguardo al sacramento dell'eucaristia era simile a quella di Zwingli ma, prevalendo il suo desiderio di mantenere l'unità con i luterani, si impegnò costantemente – specie dopo la morte di Zwingli – nella formulazione di una professione di fede che potesse essere accettata sia dai luterani sia dai riformatori svizzeri e della Germania meridionale. Questi tentativi di conciliazione - che si concretizzarono nella sua partecipazione a molti incontri, fra i quali quello di Basilea del 1536 da cui uscì la prima delle due Confessiones Helveticae - furono all'origine dell'accusa di oscurità che gli venne mossa. Esiliato nel 1549 su ordine di Carlo V, fu felice di accettare l'invito di Cranmer a stabilirsi in Inghilterra. Al suo arrivo, nel 1549, fu nominato regius professor of Divinity all'Università di Cambridge. Egli fu consultato quando si decise di rivedere il Book of Common Prayer (Libro delle preghiere comuni), testo base della comunione anglicana; fondamentale fu il suo contributo, insieme a quello di Pietro Martire Vermigli, per l'edizione del 1552. Bucer terminò la sua vita a Cambridge il 28 febbraio 1551 e fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa dell'Università. Nel 1557 i commissari della regina Maria esumarono e bruciarono il suo corpo e ne demolirono la tomba, che fu poi ripristinata dalla regina Elisabetta I.

Tracce di lettura

Fratelli, per quanto riguarda il primo punto della nostra riforma, cioè la predicazione della parola di Dio, dobbiamo ringraziare incessantemente l'onnipotente ed eterno Dio per la sua immensa grazia e misericordia, perché in questi ultimi tempi egli ha mediante la sua sovrabbondante grazia riacceso in noi a tal punto la luce del suo santo vangelo e ci ha salvati e liberati da errori e idolatrie orrendi e perniciosi. E così anche l'insegnamento è talmente radicato nella parola di Dio che non abbiamo coscienza di alcun errore in nessun articolo di fede, ma abbiamo predicato, sul fondamento della santa Scrittura, secondo le nostre capacità, in modo limpido e chiaro, il puro vangelo, dal momento in cui Dio ci ha portati a questa vera conoscenza.
La questione, tuttavia, non è solo che la parola sia predicata fedelmente, ma soprattutto che la gente orienti la propria vita conformemente ad essa, perché non sono gli uditori della parola, ma i facitori di essa che saranno beati. Cristo stesso dice per questo: «Insegnate loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate»; in altre parole la gente, attraverso una tale predicazione, sia indotta a cambiare vita, a convertirsi a Dio col cuore. (Martin Bucero, Le carenze e i difetti delle chiese 2,1)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose e Enciclopedia Treccani


giovedì 27 febbraio 2020

George Herbert. Innografo anglicano

Il 27 febbraio la Chiesa Anglicana celebra la memoria di George Herbert (Montgomery, 3 aprile 1593 – Bemerton, 1º marzo 1633), presbitero, poeta e oratore inglese.

Nonostante sia vissuto solo fino a 40 anni, la sua importanza, come poeta è sempre più aumentata anche se, è da notare, nessuna delle sue opere è stata pubblicata mentre era in vita. I poemi dei suoi ultimi anni, scritti quando era pastore a Bemerton vicino a Salisbury sono tra i più riusciti della letteratura del suo tempo, combinando una profonda spiritualità con una inesausta sperimentazione ed il loro linguaggio rimane fresco e ispirato anche ai nostri giorni.

La famiglia di Herbert era ricca, eminente, intellettuale ed amante dell'arte, la madre, Magdalen, era patrona e amica di John Donne e altri poeti, il fratello Edward Herbert, primo barone di Cherbury, nominato cavaliere e Lord Herbert di Cherbury da re Giacomo I d'Inghilterra, fu un poeta e filosofo che cercava di riconciliare il cristianesimo con il razionalismo ed è spesso citato come il "padre del deismo inglese".
Herbert bilanciò una iniziale carriera secolare con gli ultimi anni di contemplazione teologica e di umile lavoro parrocchiale.

Dopo aver conseguito la laurea al Trinity College di Cambridge Herbert ebbe il posto di "pubblico oratore" di Cambridge, responsabile di porgere ampollosi saluti in latino ai visitatori importanti; una posizione cui probabilmente teneva date le sue capacità poetiche. Nel 1624 divenne membro del Parlamento. Entrambe queste attività indicano un intento di intraprendere una carriera a corte. Tuttavia, nel 1625 si verifico la morte di Giacomo I, che aveva mostrato di favorirlo e forse di volerlo nominare ambasciatore. Da qui la scelta - per certi versi pragmatica - di Herbert di scegliere quella che probabilmente era la sua iniziale inclinazione: una carriera nella Chiesa d'Inghilterra.
Nel 1626 prese gli ordini e la cura di una parrocchia rurale nel Wiltshire a circa 75 miglia a sud ovest di Londra dove si rivelò un onesto e coscienzioso pastore, attento alla cura spirituale e anche fisica dei parrocchiani, dei quali cercò di alimentare la vita spirituale attraverso la recita quotidiana dell'ufficio delle ore, e mediante la composizione di una grande quantità di inni e di poemi liturgici. 

Sul letto di morte consegnò il manoscritto "The Temple" (il Tempio), la sua raccolta di poesie, a Nicholas Ferrar, il fondatore di una comunità religiosa semi-monastica a Little Gidding (un nome oggi molto più conosciuto attraverso le poesie di T. S. Eliot). Herbert chiese a Ferrar di pubblicare le poesie se le riteneva capaci di "essere di aiuto a qualche anima bisognosa" oppure di bruciarle. Prima del 1680 The Temple aveva raggiunto le tredici edizioni. Sempre postumo nel 1652 venne pubblicato Priest to the Temple, or, The Country Parson his Character and Rule of Holy Life (Sacerdote al tempio o il parroco di campagna, suo carattere e ruolo nella vita spirituale), trattato sulla devozione, in prosa.

Tracce di lettura

L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare 
fin dal mio primo passo, 
mi si accostò, con dolcezza 
domandandomi se qualcosa mi mancava.. 
«Un invitato» risposi «degno di essere qui». 
L’Amore disse: «Tu sarai quello». 
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, 
non posso guardarti. 
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: 
«Chi fece quest’occhi, se non io?» 
«È vero, Signore, ma li ho insozzati; 
che vada la mia vergogna dove merita». 
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?» 
«Mio diletto, allora servirò». 
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo».
Così mi sedetti e mangiai. (George Herbert, Love)

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Gregorio di Narek. padre e poeta della chiesa armena

Secondo gli antichi sinassari armeni, il 27 febbraio veniva un tempo celebrata la memoria di Gregorio di Narek, monaco e innografo vissuto tra il X e l'XI secolo.
Nato probabilmente nell'odierno villaggio di Narek, nei pressi del lago di Van, in Armenia, attorno al 945, Gregorio rimase presto orfano della madre. Affidato dal padre al locale monastero, Gregorio vi trascorrerà tutta la vita. Lì egli ricevette una ricchissima formazione dall'igumeno Anania, che gli permise di leggere tutte le grandi opere patristiche, sia greche che orientali, e di nutrire la sua meditazione quotidiana con un immenso tesoro di letture spirituali.
In un incessante alternarsi di lavoro e di preghiera, Gregorio cominciò a manifestare una forte propensione a rielaborare la tradizione ricevuta in un linguaggio poetico fra i più alti della storia cristiana. Compose così, per chiunque glielo chiedesse, inni, trattati, commenti alla Scrittura, panegirici; fu un predicatore amato e apprezzato dai più dotti ma anche dai più semplici. Il suo Libro di preghiere è uno dei massimi capolavori della letteratura cristiana. Nersēs di Lambron lo definirà «un angelo rivestito di un corpo». La chiesa armena ricorda Gregorio assieme ai «santi traduttori» nella prima metà di ottobre.

Tracce di lettura

Tu sei questo meraviglioso canto
nel quale noi troviamo il nostro impulso,
musica al cui seno le forme sono costruite.
Tu sei il segreto del pensiero
grazie a cui tutto insieme è in movimento,
ogni splendore si trova in te riunito
come nell'anfora si accostano le canne.
Tu sei il dito del cipresso che indica la via
e le tue sopracciglia sono riunite in un sol arco.
Dio del mezzogiorno che domini sugli astri
(Gregorio di Narek, Libro di preghiere)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose




Gabriele dell'Addolorata. I piani di Dio spesso non sono i nostri, ma sono migliori

Nella sua vita non ha fatto in tempo a diventare sacerdote. Non ha fatto in tempo a fare nulla di quello che egli ritenne importante nella vita. Ma fece in tempo a soli 24 anni a vivere eroicamente le virtù cristiane, raggiungendo la santità mediante una piena sottomissione alla volontà di Dio.

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San Gabriele dell'Addolorata (1838-1862)

Nasce ad Assisi, con il nome di Francesco Possenti, il primo marzo 1838, figlio del Governatore della città allora parte dello Stato Pontificio, undicesimo di tredici figli. Per stare vicino alla numerosa prole il padre si fa trasferire a Spoleto come “assessore”, cioè giudice.

Gabriele ha appena 4 anni quando gli muore la madre quarantaduenne. A Spoleto trascorre la sua fanciullezza fino ai 18 anni. E’ inquieto, in occasione di due malattie alla gola decide che se guarisce si farà religioso, ma poi dimentica.

Un giorno, quando ha 17 anni, torna a casa e trova morta la sorella maggiore, quella che in qualche modo aveva sostituito la mamma. Cresce l’inquietudine, che si risolve il 22 agosto 1856 quando passa davanti all’Icona, una piccola immagine bizantina della Madonna, protettrice della città: gli sembra che il volto dell’immagine si animi e sente dentro sé una voce: “Francesco il mondo non è fatto per te, fatti religioso”. In meno di 3 settimane riesce a vincere le resistenze del padre ed entra nel noviziato passionista. I suoi compagni di scuola rimangano sorpresi e scommettono che non ce la farà: “Il ballerino frate?”. Invece Lui nel chiuso del convento trova non solo la serenità ma la gioia e la canta in ogni lettera che scrive alla famiglia: “La mia vita è un continuo godere, la mia gioia è inesprimibile, non cambierei un quarto d’ora di questa vita con tutti i piaceri del mondo”. Si sente finalmente realizzato, anche se la vita in convento è dura. La giornata comincia alle 01,30 con il canto del Mattutino.

Com’era allora costume, cambia nome e sceglie Gabriele dell’Addolorata. Studia teologia, sogna di diventare missionario, s’immerge nella meditazione, brucia dal desiderio di migliorarsi e chiede al direttore di aiutarlo. Gli ultimi due anni della sua vita li trascorre nel remoto conventino alle falde del Gran Sasso. E’ già ammalato di tisi e “sul levar del sole” del 27 febbraio 1862 spira sorridendo.

- Ciro Benedettini, C. P., intervista ad acistampa, 19 febbraio 2018

mercoledì 26 febbraio 2020

Papa Francesco e l'ecologia del cuore in Quaresima

Nel Mercoledì delle Ceneri Francesco all’udienza generale esorta i fedeli a connettersi al Vangelo, a dare del “tu” al Signore, a dedicarsi a una sana "ecologia del cuore" perché oggi, constata, siamo inquinati da “troppa violenza verbale” che “la rete amplifica”.

Il frastuono che ci circonda

Riflettendo sul Vangelo di Luca e sull’entrata di Gesù - “pieno di Spirito Santo” - nel deserto, dove rimane per quaranta giorni, “tentato dal diavolo”, Francesco spiega il senso del cammino quaresimale, quaranta giorni verso la Pasqua, “cuore dell’anno liturgico e della fede”, e si sofferma sul significato spirituale del deserto che, anche per chi vive “in città”, è luogo di “grande silenzio”.

Il deserto è il luogo del distacco dal frastuono che ci circonda. È assenza di parole per fare spazio a un’altra Parola, la Parola di Dio, che come brezza leggera ci accarezza il cuore. Il deserto è il luogo della Parola, con la maiuscola.

Moretto da Brescia, Gesù Cristo nel deserto con gli animali selvatici (1540 ca.), olio su tela
Moretto da Brescia, Gesù Cristo nel deserto con gli animali selvatici (1540 ca.), olio su tela
Aprire la Bibbia

Nella Bibbia, prosegue il Papa, il Signore “ama” parlarci nel deserto: consegna - ricorda - a Mosè i dieci comandamenti e parla al “cuore” del popolo. “Si ascolta la Parola di Dio, che è come un suono leggero”. Francesco cita il Libro dei Re, quando si paragona Parola di Dio a un “filo di silenzio sonoro”. Proprio nel deserto “si ritrova l’intimità con Dio, l’amore del Signore”. Gesù, che amava ritirarsi a pregare in luoghi deserti, ci ha insegnato “come cercare il Padre, che ci parla nel silenzio”. Anche se “non è facile”, l’invito è a cercare il “silenzio nel cuore”. La Quaresima allora è il tempo “propizio” per “fare spazio alla Parola di Dio”.

È il tempo per spegnere la televisione e aprire la Bibbia.

È il tempo per staccarci dal cellulare e connetterci al Vangelo. Quando ero bambino non c’era la televisione, ma c’era l’abitudine di non ascoltare la radio. La Quaresima è deserto, è il tempo per rinunciare, per staccarci dal cellulare e connetterci al Vangelo. E’ il tempo per rinunciare a parole inutili, chiacchiere, dicerie, pettegolezzi, e parlare e dare del “tu” al Signore. È il tempo per dedicarsi a una sana ecologia del cuore, fare pulizia lì.

martedì 25 febbraio 2020

Robert d'Arbrissel e i fratelli e le sorelle di Fontevraud

Nel 1116, in Francia, muore Robert d'Arbrissel, eremita, predicatore itinerante e fondatore dell'Ordine di Fontevraud.
Nato ad Arbrissel, nella diocesi bretone di Rennes, verso la metà dell'XI secolo, Roberto era pienamente partecipe delle contraddizioni al vangelo che caratterizzavano la chiesa del suo tempo. 

Robert d'Arbrissel, miniatura del Graduale di Fontevraud, XIII sec.

Recatosi a Parigi per compiere gli studi, egli fu toccato dall'esigenza di riforma che si andava profilando nella chiesa, e iniziò un autentico cammino di conversione. Fece ritorno in diocesi, ma il suo cambiamento non fu gradito, e fu costretto a ritirarsi in solitudine. Teologo erudito, dotato di un'eloquenza straordinaria, egli visse un tempo di deserto, durante il quale si radunarono attorno a lui numerosi discepoli. Fra essi vi furono soprattutto gli emarginati dalla società e dalla chiesa, come i lebbrosi o le mogli dei parroci abbandonate agli inizi della riforma gregoriana. Roberto diede quindi inizio al suo ministero di predicatore itinerante, trascinando al proprio seguito una folla di uomini e donne di ogni condizione, che accettarono di farsi poveri per Cristo.
Nel 1101 Roberto, ritenuto folle dai vescovi e dai potenti del suo tempo, stimò opportuno dare ai suoi discepoli una dimora permanente, che stabilì nella foresta di Fontevraud, dove suddivise la nuova comunità in quattro nuclei: le donne, i monaci, i penitenti e i lebbrosi. L'Ordine misto che ne scaturì fu un ordine prevalentemente femminile: gli uomini avevano il compito di proteggere le donne, ma la direzione delle comunità era affidata a queste ultime.
Roberto trascorse gli ultimi anni della sua vita continuando a predicare e difendendo ovunque quanti erano vittime di sfruttamento e di sopraffazione.

Tracce di lettura

Roberto fece chiamare l'arcivescovo di Bourges e gli disse: «Signore, tu sei il mio caro padre, il mio arcivescovo. Sai come sempre ti ho amato e ti ho obbedito. Sai anche come, per amor tuo, io sia venuto a stabilirmi in questa regione. Desidero manifestarti la volontà del mio cuore. Non desidero essere sepolto né a Betlemme, né a Gerusalemme, né a Cluny. Non desidero altro luogo che il cimitero di Fontevraud. Ma non ti chiedo affatto di essere sepolto in monastero o nei chiostri, ma in mezzo ai miei fratelli poveri, nel cimitero. Là sono sepolti, infatti, i miei buoni presbiteri e chierici, i miei amati laici e le mie sante vergini. Là riposano i miei poveri lebbrosi, là i compagni del mio pellegrinaggio terreno, coloro che mi hanno seguito per amore di Dio, quanti hanno portato assieme a me stenti e fatiche, miserie e calamità, disfacendosi di ogni loro bene all'udire la mia predicazione. Se sarò sepolto in tale luogo, i viventi lo ameranno di più e su di esso verranno a invocare la misericordia del Signore. (Vita di Roberto d'Arbrissel )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 24 febbraio 2020

Pregare le Scritture. LECTIO. Parte IV. Leggere con il cuore

Di fatto la Lectio conduce a una persona; è orientata alla comunione. Bisogna amare colui che parla e l'amore è la via più efficace di conoscenza.

La nostra santificazione, secondo San Benedetto, avviene per ducatum Evangelii: attraverso il cammino della Parola.

Lo studio da solo corre il rischio di separare la questione accademica dalla preghiera. Anche San Gerolamo si accorse a un certo punto di essere piuttosto "ciceroniano" che "cristiano". Aveva detto che "l'ignoranza elle Scritture è ignoranza di Cristo": Cristo, allora, è il termine ultimo della conoscenza!

Bisogna leggere "con un cuore che ascolta" diceva Origene perché "tutto ciò che è detto nella Scrittura è apportatore dello Spirito. Poiché la parola della Scrittura è ispirata dallo Spirito, noi entriamo in contatto con lo Spirito che vive nella Parola di Dio".
È l'esperienza di Geremia: "Quando le tue parole mi vennero incotnro  le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore" (Ger 15,16).

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Beato Costanzo da Fabriano. Anima di preghiera e di pace

L'Ordine Domenicano celebra il 24 febbraio la memoria del Beato Costanzo da Fabriano.
Costanzo fu un religioso tutto dedito alla preghiera: oltre all'Ufficio divino era solito celebrare ogni giorno l'intero Ufficio dei defunti. 
Uomo di vita austera e zelante nel promuovere la pace, fu tra coloro che con maggior successo riformarono la vita regolare nell'Ordine.

Beato Costanzo Servoli da Fabriano (+1481)

Gli antichi storici dell’Ordine Domenicano chiamano Costanzo da Fabriano “illustre e lucidissima stella del cielo domenicano". Nato a Fabriano agli inizi del XV° secolo, da Bernardo Servoli, uomo di modeste condizioni sociali, entrò nell’Ordine a quindici anni, dove ebbe come maestri Sant’Antonino e in seguito Corradino da Brescia. Sotto si abili guide divenne un compito modello di Frate Predicatore. Grande fu la sua azione, sia nell’Ordine, lavorando efficacemente a propagare e a stabilire nei vari conventi quella rinnovata vita domenicana instaurata da quei generosi figli di S. Domenico accesi dalla nobile brama di far rivivere nella sua integrità l’ideale del Fondatore, sia tra il popolo fedele, riconducendo con la potente parola le anime a Dio, e ricomponendo gli atroci odi di parte. Nel 1440 e 1467 fu Priore a Fabriano, nel 1445 a Perugia, e nel 1459 e 1470 ad Ascoli. Nella città di Ascoli, vicina a distruggersi per le discordie civili, egli riportò il sereno e la pace. Restaurò dalle fondamenta il convento di S. Domenico, dove fece rifiorire gli studi e la disciplina regolare e dove chiuse la sua carriera. 
Anima di preghiera, diceva che nessuna grazia il Signore non gli aveva mai negata alla recita dell’intero Salterio, e quando volle dirlo per ottenere che i Turchi desistessero dall’infliggere alla Grecia l’estrema rovina, non gli riuscì mai di finirlo, comprendendo egli con questo che nessuna preghiera non poteva mai placare l’ira divina, provocata da tanta ostinazione. Morì ad Ascoli Piceno il 24 febbraio 1481 e il suo corpo riposa nella chiesa di San Pietro Martire. Fabriano, sua città natale, e dove con grande venerazione, in cattedrale, si conservano il suo capo, lo ha eletto suo Patrono. Papa Pio VII il 22 settembre 1821 ha concesso la Messa e l’ufficio propri.

- Franco Mariani 

Il re Etelberto e la diffusione del cristianesimo tra gli Angli orientali

Gregorio Magno e Agostino di Canterbury vengono ricordati come gli apostoli degli Angli. Al loro fianco bisogna ricordare anche re Etelberto.
Nato verso il 552, Etelberto ancora in giovane età divenne il più potente sovrano anglo dell’epoca. Verso il 588 sposò Berta, la figlia cattolica del re franco Cariberto. Dando prova di tolleranza, permise alla sua sposa di continuare a professare la sua fede. Ancora più magnanimo egli si mostrò nel 597 quando accolse la delegazione di monaci inviata da papa Gregorio e guidata da Agostino. Egli ascoltò i missionari e concesse loro di stabilirsi presso Canterbury con facoltà di predicare e convertire. Lo stesso Etelberto ricevette il battesimo nel giorno di Pentecoste del 597. Saggio e prudente, non costrinse i sudditi a seguire la sua scelta, ma certo favorì quanti si facevano battezzare. La svolta favorevole al cristianesimo venne consolidata dalla costruzione, non lontano da Canterbury, di un monastero dedicato ai santi Pietro e Paolo. Inoltre il re concesse ad Agostino dei terreni per edificare la sede episcopale di Canterbury e lo sostenne nell’organizzazione di un sinodo cui parteciparono vescovi e dottori dalla vicina regione dei Britanni. 
Nel 601 arrivò in Inghilterra una nuova spedizione di monaci. Tra di loro vi erano Paolino, Mellito e Giusto. Con l’aiuto di Etelberto, diverranno vescovi rispettivamente di York, Londra e Rochester.  Favorevole al cristianesimo, Etelberto rimase un sovrano saggio ed equilibrato che procurò benefici a tutta la sua nazione. Morì il 24 febbraio del 616 dopo un regno di più di 50 anni e venne sepolto accanto alla moglie Berta, anch’ella venerata come santa.

- Santiebeati.it


Re Etelberto (560-6161)

venerdì 21 febbraio 2020

Discepoli del Verbo

L'uomo non doveva imitare che Dio,
ma non poteva imitare che l'uomo.
Allora l'uomo fu assunto [Nell'unità della persona del Verbo]
affinché imitando ciò che poteva,
imitasse ciò che doveva.
Allo stesso modo non gli era utile conformarsi se non a Dio,
a cui immagine fu creato (cfr. Genesi 9,6)
ma non poteva (conformarsi) se non ad un uomo.
Per questo Dio si fece uomo
affinché, mentre l'uomo si conformava all'Uomo, cosa che può fare,
si conformasse anche a Dio, come gli è utile.

        - Guigo I, (+1136), certosino, Meditationes, 476

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Guigo I, quinto Priore della Grande Chartreuse di Grenoble

Pier Damiani. Dotto eremita e riformatore della Chiesa

Nei calendari romano e ambrosiano si fa oggi memoria di Pietro (Pier) Damiani, eremita e vescovo nell'XI secolo. Pietro nacque a Ravenna nel 1007. Rimasto orfano in tenera età, egli compì gli studi classici a Faenza e a Parma grazie all'aiuto del fratello Damiano, del quale, in segno di riconoscenza, assumerà il suo secondo nome. Cresciuto in mezzo ai fermenti dell'eremitismo sviluppatisi attorno alla figura di Romualdo, Pietro entrò non ancora trentenne nell'eremo di Fonte Avellana, di cui in seguito divenne priore e per il quale scrisse anche una regola. 

Negli anni avellaniti egli compose tra l'altro la Vita del beato Romualdo, documento di fondamentale importanza per la conoscenza degli ideali monastici nell'XI secolo. Uomo di straordinario vigore, tendente all'estremo in tutte le sue attività, egli riuscì a contemperare nella propria vita una forte passione per la vita solitaria, di cui è forse il più convinto teorizzatore in occidente, e un impegno ecclesiale e politico che lo portò a girare l'Europa per fungere da paciere in situazioni difficili fra papi, vescovi, monaci e regnanti di ogni sorta. Pier Damiani si batté dapprima con parole veementi per la riforma dei costumi corrotti del clero; poi, eletto vescovo di Ostia e cardinale attorno al 1057, si mostrò un uomo capace di misericordia e di perdono, capace di accondiscendere alle debolezze altrui al fine di ricomporre i conflitti e acquietare le tensioni.

Pur rinunciando al cardinalato dopo pochi anni per ritrovare la libertà e la pace, egli non cessò di compiere missioni conciliatrici ovunque ve ne fosse bisogno. Morì a Faenza, la notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072, di ritorno dall'ennesima missione a servizio della pace. Le sue spoglie mortali riposano nella cattedrale di Faenza.

Tracce di lettura

Chi darà una fontana di lacrime ai miei occhi? Velatevi, o mie pupille, nel pianto: guai a me che sono caduto!
Le gocce del mare, l'arena del lido, non uguagliano la moltitudine dei miei peccati: essi sono più delle stelle e delle piogge, pesano più delle montagne.
Sono indegno di vedere il cielo coi miei occhi, non merito di pronunciare con le mie labbra il nome di Dio. Mi sforzo al pianto, ma il cuore resta di pietra. Insisto nella preghiera, ma lo spirito si perde altrove. Cerco la luce, ed ecco giungono le tenebre della mia mente perversa. Io piango questa mia povera anima ferita: tu che morendo annientasti l'impero della morte, risuscitala! Per le tue viscere di misericordia, ti prego: liberami dai lacci del peccato. Merito sdegno: largiscimi perdono, o fonte di pietà. Fammi sempre obbediente ai tuoi comandi, e guidami alla vita celeste, tu che con il Padre e con lo Spirito santo tutto disponi nelle nostre vite. (Pier Damiani, Carmi )

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

Pier Damiani (1007-1072)

mercoledì 19 febbraio 2020

Corrado Confalonieri da Piacenza. Nobile eremita

Nato nel 1290; morto tra il 1351 ed il 1354; il suo culto fu approvato con il titolo di Santo dal Papa Paolo III. Di nobile origine Corrado amò i divertimenti e la vita di corte.
Un giorno su ordine di Corrado , i suoi servi appiccarono il fuoco al sottobosco per stanare una preda che il loro signore desiderava uccidere. Il fuoco dei suoi servi divampò e ben presto investì l'intera zona e danneggiò diverse case. Incapaci di gestire il fuoco, Corrado ed i servi tornarono a casa e non proferirono parola su ciò che era accaduto. Un pover'uomo che si trovava in quelle zone a fare legna, fu accusato ingiustamente di aver appiccato il fuoco e fu condannato a morte. La coscienza di Corrado era profondamente turbata , ed egli preso da profondo rimorso confessò di essere il responsabile del fuoco, al fine di salvare la vita del disgraziato. I danni che dovette risarcire furono enormi, grandi infatti erano state le distruzioni apportate dall'incendio; Corrado e la sua sposa si impoverirono enormemente!
Ma questa profonda trasformazione aveva arricchito la sua spiritualità. Sembrò ad entrambi che il buon Dio li avesse chiamati all'abbandono di quella vita, tutta dedita ai piaceri di quel rango tanto potente. La coppia vendette gli averi restanti e ne diede il ricavo ai poveri del posto e abbracciate le regole di Francesco e Chiara decisero di diventare religiosi. Corrado quindi divenuto terziario francescano si ritirò in eremitaggio.

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Corrado Confalonieri da Piacenza (1290-1351/54)
Da quel giorno la vita di Corrado cambiò, attratto dalla fede visse con grande austerità il resto della sua vita. Egli vagò per tanto tempo in solitudine e si trasferì in varie località, finché approdò nell isola di Malta, dove ancora esiste la grotta chiamata di San Corrado. Dall'isola di Malta ripreso il mare giunse al porto di Palazzolo e da qui a Noto Antica.
Nel Capovalle arrivò tra il 1331 e il 1335, per poi scegliere un posto isolato per la sua scelta vita eremitica. Fino a quando arrivo nel Val di Noto, dove passò trent'anni della propria vita. Gran parte della sua attività nel territorio netino fu trascorsa al servizio dei malati presso l'Ospedale di San Martino a Noto Antica ma poi vista la crescente fama di santità ed il continuo numero di visitatori decise di allontanarsi dalla città; passando gli anni restanti in eremitaggio insieme ad un altro monaco anacoreta oggi santo: Guglielmo Buccheri ( nobile netino).
Nella completa solitudine egli visse nella Grotta dei Pizzoni vicino Noto. Quì le sue preghiere rivolte a salvare gli uomini perduti, ad implorare grazie per i disastri, a soccorrere gli ammalati furono ascoltate da Dio ed a migliaia giungevano a lui,da tutto il Vallo. Numerosi sono i miracoli che a lui si ascrivono uno dei più i importanti è quello che vide per protagonista il Vescovo di Siracusa. Durante i suoi viaggi per la Diocesi, il prelato decise di fare visita all'eremitaggio ( siamo alla fine della vita terrena di Corrado), gli attendenti del Vescovo stavano preparando le provvigioni per il ritorno quando il Vescovo, sorridendo, chiese a Corrado se avesse avuto qualcosa da offrire ai suoi ospiti. Corrado replico che sarebbe andato a vedere nella sua cella; egli tornò portando due pani appena sfornati, che il prelato accettò come miracolo! Corrado ricambiò la visita del vescovo, confessandolo, ed al ritorno lungo la strada egli fu circondato da uccelli cinguettanti che lo scortarono fino a Noto. Corrado morì mentre era in preghiera, il 19 Febbraio 1351, ed alla sua morte tutte le campane delle chiese netine per miracolo suonarono a festa.
Fu seppellito nella chiesa normanna di San Nicolò, dove la sua tomba fu contesa tra le due popolazioni di Noto e di Avola. Quasi immediatamente fu avviato il processo canonico di beatificazione, che si concluse molto tempo dopo con il Breve di Papa Leone X (12 luglio 1515) , istituendone ufficialmente il culto, già presente da secoli. Fra le peculiarità da segnalare c'è la festa del Santo in Agosto che celebra proprio l'arrivo del Breve Papaple e della prima processione avvenuta proprio in quella occasione (Libro Verde del comune di Noto).
Nell'arte Corrado e rappresentato come un eremita francescano ai piedi una croce, mentre la sua figura è circondata da uccelli. Talvolta il suo ritratto è riprodotto come un vecchio con la barba, piedi nudi, un bastone tra le mani ed un lungo mantello sulle spalle. Nei secoli le sue virtù taumaturgiche furono implorate ed invocate contro l'ernia.

- Gaetano Malandrino

martedì 18 febbraio 2020

Enzo Bianchi e la preghiera del Rosario

La valenza universale della preghiera del rosario


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Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose
Nella tradizione cristiana sono state molte e diverse le forme della preghiera con cui i credenti hanno voluto rinnovare e confermare la loro comunione con il Signore, ma è indubbio che tutta la preghiera cristiana ha un centro rappresentato dalla liturgia, culmine di tutta l’azione della Chiesa, fonte di tutta la sua forza (cf. SC 10), in cui è “fabricata ecclesia Christi” (Tommaso d’Aquino, Summa Theologica III, q. 64, a. 2). Perciò il cristiano è consapevole che la preghiera della Chiesa, costituita dalla liturgia eucaristica e dalla liturgia delle ore, plasma la sua vita di credente e gli fornisce il cibo quotidiano della Parola e dell’eucaristia (cf. NMI 34), e questo, come ricordava Giovanni Paolo II, richiede che “l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nelle Sante Scritture la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza” (NMI 39).

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Madonna del Rosario (1600/1649), Simone Cantarini, olio su tela, Pinacoteca Tosio

Rispettato questo primato, il cristiano – proprio perché la preghiera liturgica sia prolungata fino a diventare preghiera incessante e si sviluppi e raffini l’arte del colloquio con Dio – può ricorrere ad altre forme di preghiera, tra le quali eccelle, all’interno della tradizione occidentale del II millennio, il rosario. Molti santi, infatti, hanno praticato la preghiera del rosario, trovando in essa uno strumento efficace per rinnovare la propria assiduità con il Signore. Tuttavia, Giovanni Paolo II lo ricorda con puntualità, come già aveva fatto Paolo VI, il rosario è un supporto alla liturgia e, ad essa e da essa ordinato, non potrà mai sostituirla poiché vuole essere innanzitutto una pedagogia alla preghiera personale (cf. RVM 4).

Ma qual è la plurisecolare gestazione che ha avuto il rosario nella tradizione spirituale cristiana? L’intero libro dei Salmi si conclude con il versetto: “ogni respiro dia lode al Signore” (Sal 150,6). I rabbini amano interpretarlo come un invito alla pluralità delle forme di lode al Signore: ogni respiro, ogni soffio dei viventi esprima la lode al Signore! Nell’insegnamento sulla preghiera dato da Gesù ai suoi discepoli risuona anche l’esortazione a “pregare in ogni momento” (Lc 21,36), a “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1), e l’apostolo Paolo ripropone questa necessità ai cristiani delle comunità da lui fondate (cf. 1Ts 5,17; Ef 6,18). Indubbiamente queste esortazioni non chiedono di restare continuamente in un atteggiamento esteriore di preghiera, cosa che risulterebbe impossibile, bensì di dimorare in un’attitudine del cuore sempre disposta ad ascoltare il Signore e pronta a parlargli.

Proprio in funzione di questo, i padri del monachesimo si sono esercitati nella memoria Dei, nel ricordo di Dio, in modo da tendere a una disposizione permanente di preghiera, capace di rinnovare costantemente la comunione con Dio. San Basilio in particolare insisterà con forza su questa forma di preghiera: “Dobbiamo perseverare nel santo pensiero di Dio mediante un ricordo incessante e puro, impresso nelle nostre anime come sigillo indelebile” (Regole diffuse 5,2). E ancora: “Dobbiamo restare incessantemente sospesi al ricordo di Dio come i bambini alle loro madri” (Ivi2,2). All’interno della vita monastica verrà progressivamente elaborato un cammino ascetico preciso in vista della preghiera continua: l’osservanza dei comandamenti, la lotta spirituale, la custodia del cuore e la vigilanza conducono il monaco a un’assiduità con Dio tale che diventa egli stesso, si può dire, preghiera vivente e continua. E per percorrere efficacemente questo cammino, i padri del deserto – in un’epoca in cui libri e codici erano rarissimi e altrettanto scarse le persone in grado di leggere – inizieranno a praticare la meléte, la meditazione o ruminazione di un versetto delle Sante Scritture imparato a memoria, o la ripetizione di un’invocazione al Signore. Preghiera semplice, certo, forse anche preghiera “povera”, ma tale da poter essere praticata in condizioni e momenti diversi della giornata: durante il lavoro manuale, in viaggio, nei momenti di sosta e di riposo… Invocazioni che chiedevano aiuto, imploravano misericordia, o che erano un grido di lode e ringraziamento al Signore. Fu praticata soprattutto l’invocazione del Nome santo di Gesù, il Nome dato da Dio tramite l’angelo al bambino che doveva nascere dalla Vergine Maria: Ieshoua, “JHWH è salvezza”! Questo bel Nome invocato sui cristiani (cf. Gc 2,79, questo Nome che è al di sopra di tutti gli altri nomi (cf. Fil 2,9), l’unico Nome in cui c’è salvezza (cf. At 4,12), è diventato per i cristiani ciò che il Nome del Signore, JHWH, era per gli ebrei.

A partire dal V secolo, negli ambienti monastici d’Oriente è proprio l’invocazione del Nome di Gesù a essere privilegiata come preghiera personale, nella convinzione di poter, attraverso il Nome salvifico, vincere la tentazione e unificare tutto l’essere in una tensione forte di comunione con Dio. Invocazione e meditazione si fondono e si alternano, mettendo in accordo le labbra e la mente, così che nel profondo del cuore si giunge all’esperienza della presenza del Signore: “Cristo in noi, speranza della gloria” (Col 1,27). È la preghiera “monologista” (monológhistos) nella quale si eserciteranno generazioni e generazioni di monaci orientali e che a poco a poco finirà per essere costituita quasi esclusivamente dall’invocazione “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”, a esclusione di altre forme di supplica o di meditazione. Quando un novizio pronuncia i voti monastici, gli viene consegnato un rosario, chiamato “la spada spirituale”, ed egli impara a praticare la preghiera di Gesù giorno e notte. Sarà questa preghiera a contrassegnare l’esicasmo (corrente spirituale sviluppatasi al Monte Athos nel XIII secolo), in cui all’invocazione a Gesù verranno associati elementi di tecnica psicosomatica, nell’intenzione di rendere partecipe della preghiera anche il corpo. Questa è stata dunque la via dell’Oriente cristiano: la ripetizione di un’invocazione a Gesù, una formula giaculatoria con contenuto biblico e profondo significato teologico e spirituale per chi la pratica. Essa, infatti, instaura nel cuore dell’orante un sentimento di umiltà e l’esperienza della presenza misericordiosa di Gesù, permettendo l’unificazione di tutta la persona in un’assiduità con il Signore che è una forma della “preghiera continua” possibile all’uomo.

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Del resto, anche nella tradizione ebraica hassidica la venerazione del Nome santo di Dio ha conosciuto una pratica di ripetizione: quando qualcuno, per pura grazia, giungeva a conoscerne la pronuncia, questi – chiamato baal Shem, “signore, possessore del Nome” – lo invocava ripetutamente, divenendo un contemplativo e un intercessore.


Né va dimenticato che il metodo di orazione ripetitivo e meditativo non è sconosciuto ad altre vie religiose: vi si possono riscontrare analogie con la preghiera di Gesù e con lo stesso rosario, ma esse vanno colte nella loro qualità di mezzi, di strumenti umani per la ricerca di un’assiduità con Dio, e permane comunque una differenza fondamentale: mentre nelle tecniche dell’Oriente non cristiano è il metodo che ha il primato in vista di una condizione di contemplazione, nella preghiera cristiana il primato spetta sempre all’azione dello Spirito santo, “lo Spirito che prega in noi” (cf. Rm 8,15.26; Gal 4,6), senza il quale non c’è autentica preghiera cristiana.

In particolare, nella ricerca di Dio condotta dalle genti dell’India è praticata una forma di preghiera che consiste nel ripetere molte volte al giorno, con l’aiuto di una corona di grani, una brevissima invocazione alla divinità, una formula mistica (il mantra) a volte associata a tecniche psicosomatiche (ajapamantra). È una preghiera per acquistare pace interiore e giungere a una visione penetrante della realtà, preghiera attestata anche nel buddhismo cinese (X secolo) e giapponese (XIIIsecolo), quale invocazione a Buddha Amida, e molto praticata anche ai nostri giorni nel buddhismo tibetano: i lama portano sempre al polso sinistro il rosario buddhista (mala).


Va inoltre ricordata una forma di preghiera presente nella tradizione spirituale dell’Islam: il dhikr, nel quale, proprio in vista del ricordo incessante di Dio, si fa menzione ripetuta del suo Nome e si cerca di dimenticare tutto ciò che non è Dio. Questa pratica è sorta nel sufismo in epoca relativamente tarda, nell’XI-XII secolo, ed è ben descritta da un testo di al-Ghazali: “Dopo essersi seduto nella solitudine, il sufi non cesserà di dire con la bocca: Allah, Allah, continuamente, con la presenza del cuore”. Si tratta dunque di una memoria Dei, attuata attraverso l’invocazione del Nome di Dio (Allah) o dei suoi novantanove nomi, tanti quanti i grani del rosario musulmano (sebhaa): una pratica sia solitaria che collettiva (almeno nelle confraternite di sufi) in vista di una comunicazione con Dio. Anche tale pratica a volte si serve di tecniche psicosomatiche, che tuttavia restano puramente strumentali perché, come insegna al-Ghazali, “non è in potere del sufi impegnato nel dhikr attirare a sé la misericordia di Dio, l’Altissimo”.

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Se è utile confrontare il rosario con queste forme di preghiera ripetitiva presenti in altre religioni, l’accostamento più significativo rimane quello alla “preghiera del cuore” dell’Oriente ortodosso ricordata sopra: tra le due “pratiche” nei secoli passati ci sono state indubbie influenze reciproche. Così, nel secondo millennio, è emerso in Occidente l’uso di “giaculatorie” (invocazioni a Dio vibranti e rapide come un lancio di giavellotto, iaculum) e di litanie, ripetizioni di nomi e attributi del Signore o dei santi, con richiesta di intercessione: tra esse troviamo la sistematica ripetizione dell’annuncio dell’angelo a Maria.

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Ora, esaminando più da vicino il rosario, questa “preghiera del cuore” occidentale, vediamo che esso si articola in un duplice movimento: c’è una prima parte in cui la lode e la gioia dell’Incarnazione sono vissute nel ripetere il saluto dell’angelo a Maria e che ha il suo culmine nella pronuncia del Nome santo di Gesù, cui segue una seconda parte in cui trova posto l’invocazione. I due tempi essenziali della preghiera cristiana – lode e invocazione – sono quindi presenti, e al centro vi è il Nome di Gesù, l’unico nome in cui c’è salvezza, il nome della “dolce memoria” cristiana. Né si dovrebbe dimenticare che l’Ave Maria è di per sé preghiera ecumenica, dato che la teologia della Riforma non ha mai condannato l’invocazione a Maria perché preghi, interceda per noi.

È evidente la matrice biblica dell’Ave Maria: ciò che si ripete nella prima parte sono parole dell’angelo (“Ave, piena di grazia, il Signore è con te”: Lc 1,28), sono parole di giubilo di Elisabetta (“Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno”: Lc 1,42) che evocano le promesse-benedizioni di Dio nell’Alleanza (cf. Dt 28,4). All’origine dell’Ave Mariac’è allora, semplicemente, un duplice saluto biblico a Maria che sfocia nell’invocazione del Nome di Gesù, dunque in una “preghiera a Gesù”. La fede della Chiesa ha poi avvertito il bisogno dell’invocazione “prega per noi”:prega per noi“ora”, per noi poveri “peccatori”, e prega per noi “nell’ora” escatologica, l’ora “della nostra morte”, del nostro esodo da questo mondo al Padre.

La nostra esperienza dice che il rosario è una preghiera “preziosa”, anche in virtù di quella semplicità, di quella “povertà” cui accennavamo prima: per alimentare la nostra vita spirituale, infatti, non sempre ci è possibile ricorrere a una preghiera che si nutra della lettura della Scrittura, mentre è facile in ogni luogo e in ogni situazione recitare il rosario, magari anche solo una sua parte, una “decina”, un “mistero”… È preghiera pacificante che predispone in noi una situazione di unificazione di tutto l’essere – corpo, psiche e spirito –attraverso la lode gioiosa alla madre del Signore e al Nome santo di Gesù, e attraverso l’invocazione di una preghiera di intercessione.

Con il rosario, dunque, si prega e si chiede preghiera – nella comunione di tutti i santi, sempre intercessori per noi – alla madre del Signore: “ora pro nobis”, prega per noi, per noi tutti. E attraverso questa formula si può meditare il grande mistero della salvezza operata in Gesù Cristo, dall’Incarnazione alla misericordiosa e gloriosa Venuta! Così meditazione, preghiera e contemplazione si intrecciano nel rosario attorno al Nome santo di Gesù: “è preghiera dal cuore cristologico”, ha scritto Giovanni Paolo II (RVM 1), e proprio per questo può essere preghiera dei semplici come degli intellettuali, dei vecchi come dei bambini, preghiera di tutti quelli che provano nostalgia per la preghiera continua e si sentono poveri peccatori.

- Enzo Bianchi, Fondatore della Comunità monastica di Bose, L’Osservatore Romano, 18 gennaio 2003

Il Beato Angelico. Dipingere la bellezza del vangelo

Nel 1455 si spegne, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva, fra' Giovanni di San Domenico, religioso domenicano passato alla storia come il Beato Angelico. Fra' Giovanni, che prima di entrare dai frati domenicani si chiamava Guido di Piero, era nato verso la fine del XIV secolo nei pressi di Firenze, in una famiglia poverissima. Entrato molto giovane nella Compagnia di San Niccolò, una confraternita fiorentina, il giovane Guido si era presto segnalato per le precoci e straordinarie doti di pittore. Stimato dai contemporanei per la dolcezza e la semplicità, Guido avvertì il bisogno di contribuire con tutta la sua vita al rinnovamento evangelico nella chiesa del suo tempo. Egli entrò così nel convento domenicano di Fiesole, appartenente all'ala riformatrice dell'Ordine, e prestò il suo servizio di predicatore discreto e silenzioso, di teologo e di poeta. Ma fu soprattutto grazie ai suoi dipinti che il Beato Angelico seppe realizzare l'armonia tra la nascente arte rinascimentale e la purezza di cuore di un vero cercatore di Dio. Frate domenicano, cercò di saldare i nuovi principi pittorici, come la costruzione prospettica e l'attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell'arte e il valore mistico della luce.
Come ebbe a dire Michelangelo, fu la sua opera a fargli «meritare il cielo, per poter contemplare tutta la bellezza da lui raffigurata sulla terra». Dal 1438 fra' Giovanni si stabilì nel convento fiorentino di San Marco, di cui sarà più tardi nominato priore, assieme a tre confratelli pittori. In esso l'Angelico e i suoi compagni ci hanno lasciato una delle espressioni più pure e sobrie dell'arte religiosa rinascimentale.
Chiamato a Roma dai primi papi umanisti, fra' Giovanni morì nel convento del Maestro generale dell'Ordine. Del suo sepolcro marmoreo, un onore eccezionale per un artista a quel tempo, è ancora oggi visibile la lastra tombale, vicino all'altare maggiore.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


lunedì 17 febbraio 2020

Janani Luwum e i martiri dell'Uganda. Il coraggio della parola

Janani Luwum nacque nel 1922 ad Acholi, in Uganda. Figlio della prima generazione di cristiani ugandesi, convertiti dai missionari britannici, da ragazzo aveva fatto, come tutti i suoi fratelli, il pastore delle pecore e delle capre che appartenevano alla sua famiglia di contadini.
Il giovane Janani, tuttavia, mostrò una tale propensione all'apprendimento che gli fu offerta la possibilità di studiare e di diventare insegnante. A 26 anni divenne cristiano, e nel 1956 fu ordinato presbitero della locale chiesa anglicana. Eletto vescovo dell'Uganda settentrionale nel 1969, fu nominato arcivescovo dell'Uganda cinque anni più tardi, quando già infuriava il regime dittatoriale del generale Idi Amin. Luwum cominciò a esporsi pubblicamente, contestando la brutalità della dittatura e facendosi portavoce del malcontento dei cristiani ugandesi e di larghe fasce della popolazione.
Nel 1977, di fronte al moltiplicarsi delle stragi di stato, l'opposizione dei vescovi si fece palese e vibrante. Il 17 febbraio, pochi giorni dopo che Idi Amin aveva ricevuto una dura lettera di protesta firmata da tutti i vescovi anglicani, il regime annunciò che Luwum era stato trovato morto in un incidente d'auto assieme a due ministri del governo ugandese. Alla moglie che insisteva perché non si recasse all'incontro con il dittatore, Luwum aveva detto, poche ore prima di morire: «Sono l'arcivescovo, non posso fuggire. Che io possa vedere in quanto mi accade la mano del Signore».

JANANI LUWUM
Tracce di lettura

Un dottore, che aveva visto i corpi delle tre vittime durante il cambio della guardia, confermò che tutti e tre erano stati uccisi. Poi emersero alcuni dettagli sulle ultime ore dell'arcivescovo. Egli era stato preso dal centro di ricerca dello Stato, spogliato e spinto in una grande cella piena di prigionieri condannati a morte. Lo riconobbero, e uno di loro gli chiese la benedizione. Poi i soldati gli restituirono la veste e il crocifisso. Quindi tornò in cella, pregò con i prigionieri e li benedisse. Una grande pace e una grande calma scese su tutti loro, come testimoniò un sopravvissuto. Si dice anche che cercassero di fargli firmare una confessione. Altri hanno testimoniato che egli pregava a voce alta per i suoi carcerieri quando venne ucciso. (Dal racconto di un testimoni )

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

I sette fondatori dell'Ordine dei Servi di Maria (XIII sec.)

La Chiesa cattolica d'Occidente celebra oggi la memoria dei sette santi fondatori dell'ordine dei Servi di Maria (Frati Serviti). Fiorentini, mercanti di lana, ricchi, i sette santi fondatori dell'Ordine dei Servi di Maria erano nati verso la fine del XII e l'inizio del XIII secolo. Amici fra di loro e appartenenti a un gruppo laico di fedeli che erano particolarmente devoti alla Vergine e che si dedicavano al servizio dei poveri e dei malati, probabilmente verso il 1240 cominciarono a vivere insieme, poco fuori Firenze, nella povertà e nella preghiera, nel desiderio di vivere una vita di penitenza.
Adottarono in seguito la regola di Agostino e, alla ricerca di maggior solitudine, si stabilirono sul monte Senario. Qui la comunità penitenziale divenne ufficialmente l'Ordine dei Servi di Maria, un ordine ispirato al genere di vita narrato nei sommari degli Atti degli Apostoli (cf. At 2,42-47; 4,32-35), con un impegno di radicale povertà, di preghiera e di lavoro. Fra i sette santi i più noti sono Bonfiglio Monaldo, primo priore di Monte Senario, e Alessio Falconieri che morì il 17 febbraio 1310, più che centenario, e fu testimone della costituzione definitiva dell'Ordine dei Servi, avvenuta nel 1304.

Immagine opera
Luigi Crespi (1709-1779), I Sette santi fondatori dei serviti


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domenica 16 febbraio 2020

Perseverare lungo l'inverno


COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI SESSAGESIMA 
O SECONDA DOMENICA PRIMA DELLA QUARESIMA


Antifona di ingresso (Introito)

Exurge, quare obdormis Domine? Exurge, et ne repellas in finem: quare faciem tuam avertis, oblivisceris tribulationem nostram? Adhaesit in terra venter noster: exurge, Domine, adjuva nos, et libera nos.

Alzati, perché dormi, Signore? Destati e non ci respingere per sempre, perché volgi la tua faccia e non ti curi della nostra tribolazione? Siamo prostrati nella polvere, sorgi, o Signore, vieni in nostro soccorso e liberaci.




Colletta

Signore Dio, che vedi che non poniamo alcuna fiducia nelle nostre opere, concedici misericordioso che per la tua potenza possiamo essere difesi in ogni avversità. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

2 Cor 11,19-31; Lc 8,4-15

Commento

Il seme delle Scritture resta infruttuoso se non viene seminato nel nostro cuore, e questi rimane sterile se non riceve il Verbo che dà la vita. Dio parla rivolgendosi all'uomo, e l'esistenza umana trova pienezza di senso nell'ascolto fruttuoso della parola di Dio. 

La parabola del seminatore ci insegna che il successo della semina dipende dalla natura e dalla consistenza del suolo. Se non crediamo, il nostro ascolto rimane a livello puramente auricolare. Il seme della Parola non genera salvezza se non incontra la nostra fede. Come il seme che cade lungo la strada viene calpestato, chi ascolta distrattamente la parola di Dio la disprezza. Come il seme che cade sulla pietra e dopo essere germogliato dissecca, così coloro la cui fede è debole soccombono di fronte alle seduzioni e alla disaprrovazione del mondo. 

Mentre nella versione della parabola riportata da Matteo e Marco il seme produce messi più o meno abbondanti, qui rende "cento volte tanto" in virtù della perseveranza. Questo termine (gr. hypomonè) non compare mai negli altri Vangeli, mentre è frequente nelle lettere di Paolo e indica la capacità di resistere, il coraggio e la pazienza, soprattutto nelle prove. 

Il Signore non si accontenta di una messe abbondante, vuole che diamo il massimo; e ciò è possibile solo se noi rimaniamo in Cristo e lui in noi (Gv 15,4). Non dobbiamo temere se non vediamo frutti immediati nel nostro percorso di crescita spirituale. Un seme che germoglia anzitempo non è stato seminato in un terreno buono e viene abbattuto dalle intemperie dell'inverno. Ma la Parola che penetra nelle profondità del nostro essere - quelle profondità che restano oscure alla nostra stessa coscienza - fecondandole e venendo assimilata lentamente, porta frutto nella stagione giusta, nella primavera della grazia. 

"Poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui" (1 Ts 5,9-10). Cosa dobbiamo fare, dunque, affinché la Parola seminata in noi renda il centuplo? Ascoltare con un cuore umile, come terra morbida e ben dissodata. Ascoltare e custodire, come Maria che "serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (Lc 2,19). 

Nei lunghi giorni di pioggia, vento, freddo, che separano la semina dal raccolto, non perdiamo la speranza, consapevoli che "né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1 Cor 3,7).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 15 febbraio 2020

Querida Amazonia. Francesco scontenta tutti

Querida Amazonia: un rinforzo della missiologia globalista di papa Francesco. Delusi i progressisti, perplessi i tradizionalisti

Roma (AEI), 14 febbraio 2020 – Non ha accontentato nessuna l’esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco resa nota il 12 febbraio. I progressisti si aspettavano l’apertura alla consacrazione al sacerdozio dei “viri probati” e al diaconato femminile, misure che il Documento finale del Sinodo sull’Amazzonia aveva ventilato. Il Papa ha taciuto su questi punti, forse consapevole dell’inasprimento della crisi che avrebbe provocato un ulteriore strappo con settori della chiesa cattolica contrari al cambiamento di queste disposizioni centenarie della tradizione latina.

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Delusi sono stati anche i conservatori cattolici che hanno trovato nel documento un rinforzo potente della missiologia “in uscita” che ha in testa il papa, sulla scia di Evangelii Gaudium e di Laudato si’: insistente sui temi globalisti e nativisti, incentrata sulla pratica dell’incontro solidale, sostanzialmente aperta a operare sincretismi con le culture indigene. Nessun cenno a temi quali il peccato personale, la salvezza in Cristo soltanto, la circolazione della Bibbia come viatico di evangelizzazione e consolidamento della fede: tutte cose essenziali, non solo per le regioni amazzoniche, ma per tutto il mondo.  In fondo, papa Francesco ha ottenuto il risultato di consolidare il “suo” magistero e la sua missiologia. - Alleanza Evangelica Italiana


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venerdì 14 febbraio 2020

Cirillo e Metodio. Tutte le lingue lodino il Signore

Fratelli originari di Tessalonica, Cirillo e Metodio abbracciarono la vita monastica in un monastero della Bitinia.
Nell'862 furono inviati dal patriarca di Costantinopoli a evangelizzare la Moravia e la Pannonia. Essi iniziarono la loro opera traducendo il vangelo e la liturgia in lingua slava e utilizzando, per scriverli, un alfabeto a 38 lettere inventato da Cirillo.
Il papa Adriano II li chiamò allora a Roma, approvò la loro opera di predicazione e nominò Metodio arcivescovo di Moldavia e Pannonia.
Cirillo morì a Roma il 14 febbraio dell'869. Metodio continuò il suo apostolato, subendo la forte pressione delle popolazioni germaniche che cercavano di estendere il loro dominio sui territori orientali e che si opponevano all'uso dello slavo nella liturgia, ma non si scoraggiò mai, anche se dovette, a un certo momento, esercitare il suo apostolato quasi di nascosto.
Egli morì nell'885. Nel 1976 il corpo di Cirillo, sepolto a Roma, è stato restituito alla sua città natale, Tessalonica, e nel 1980 Cirillo e Metodio sono stati proclamati dalla chiesa cattolica patroni d'Europa, insieme a Benedetto da Norcia.

Tracce di lettura

A Venezia, si radunarono contro Cirillo vescovi e preti e monaci, e dicevano: «Noi non conosciamo che tre lingue nelle quali è lecito lodare Dio: l'ebraico, il greco e il latino». Ma egli rispose: «Non vi vergognate di fissare tre sole lingue, decidendo che tutti gli altri popoli e stirpi restino ciechi e sordi?
Ringrazio Dio di parlare più lingue di voi tutti, ma in chiesa preferisco pronunciare cinque parole che esprimono ciò che penso, in modo da istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila in una lingua per loro sconosciuta. Fratelli, ogni lingua deve poter confessare che Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre». (Vita di Cirillo 16)

Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 13 febbraio 2020

Giordano di Sassonia e le origini della Salve Regina

Nato circa l'anno 1175 (Aron) o verso il 1185 (Scheeben) a Burgherg presso Dassel (Westfalia), probabilmente da contadini, per le sue eccellenti doti si recò ancor giovane allo Studio parigino. Nel 1218 o prima era magister artium. Nell'estate 1219 incontrò san Domenico, di passaggio per Parigi, si confessò da lui e fu da lui esortato a ricevere il diaconato (Liloellus, n. 3). Dopo qualche mese Giordano decise di farsi domenicano con il suo amico Enrico di Colonia. Già diacono e baccelliere in teologia, chiese l'abito domenicano il 12 febbraio 1220. Qualche mese più tardi fu scelto quale delegato principale, dopo Matteo di Francia, del convento di Parigi, per assistere al primo capitolo generale dell'Ordine, -da celebrarsi nel maggio 1220 a Bologna.
Rientrato a Parigi riprese l'insegnamento e il ministero. Nel capitolo generale di Bologna del giugno 1221 fu nominato quantunque assente, provinciale della Lombardia, la più rigogliosa provincia del giovane Ordine dei Predicatori. Questo ufficio affidato a Giordano è il più eloquente riconoscimento delle sue qualità personali e religiose. Da Parigi si mise in viaggio, via Besancon e Losanna, per giungere in Lombardia ove arrivò, come sembra, dopo la morte di s. Domenico, avvenuta il 6 agosto 1221. Giordano risiedeva a Bologna, predicava e vigilava su conventi e frati. Lo spiacevole episodio dell'ossessione di un certo fra Bernardo, a Bologna, mosse Giordano ad introdurre il canto della Salve Regina dopo la Compieta; l'episodio risale all'anno 1221 e diede inizio a questa usanza liturgica quotidiana presso i Domenicani.
Nel capitolo tenutosi a Parigi per l'elezione del secondo maestro generale dell'Ordine ed al quale sembra sia stato presente, Giordano fu eletto il 23 maggio 1222.
Nel giugno 1223 installò nel monastero di S. Agnese a Bologna Diana d'Andalò e le sue compagne e le vestí dell'abito domenicano.
La rete dei viaggi del beato si estese anche oltre; luoghi dei capitoli generali celebrati sotto di lui, ora a Bologna ora a Parigi, per visite a varie province. Cosí Giordano presiedette il primo capitolo della provincia di Germania a Magdeburgo nel settembre del 1227; fu presente alla morte di Enrico di Colonia nell'ottobre 1229; nel gennaio 1230 si trovava a Oxford e forse nel 1232 a Napoli. Nel maggio 1233 eseguí la traslazione delle spoglie del fondatore dell'Ordine a Bologna. Ma non poté intervenire, per infermità, ai successivi capitoli del 1234 e 1235. Diresse però i capitoli generalissimi di Parigi (1228) e di Bologna (1236). Dopo queste assise visitò la provincia di Terra Santa. Tornando in Europa, per il naufragio della nave dinanzi alla costa di Pamphilia, presso Attalia, Giordano con i compagni fra Gerardo e fra Giovanni, trovò la morte il 13 febbraio 1237, morte comunicata dal provinciale di Terra Santa, p. Filippo di Reims, ai penitenzieri della curia papale, fra Godefrido e fra Reginaldo, i quali la diffusero per l'Europa. Le tre salme, recuperate e trasportate nella chiesa domenicana ad Acri, furono ivi seppellite. S. Ludgarda ebbe una visione di Giordano in gloria in mezzo agli Apostoli e ai Profeti.
Di intelligenza viva, volontà nobile, cuore generoso e sempre pronto all'aiuto, Giordano ebbe l'arte perfetta di trattare uomini e affari. Egli plasmò piú di ogni altro, dopo il fondatore, lo spirito e la legislazione dei Predicatori. Inoltre fu propagatore felicissimo del suo Ordine, portando le case da trenta a trecento e il numero dei frati da ca. trecento a quattromila. Simpatia e successo particolari incontrò tra gli universitari, sia maestri, sia scolari. A Parigi, una volta, diede l'abito a sessanta studenti e ad altri ancora a Vercelli, a Padova (Giovanni Buoncambi, Alberto Magno), a Bologna, ecc. Pubblicò le prime costituzioni domenicane; diede impulso al ministero della predicazione in Europa e nelle missioni e all'amministrazione dei sacramenti e tutelò il diritto di sepoltura nelle chiese domenicane. Per ordine di Gregorio IX dovette accettare dal 1231 le nomine di domenicani a inquisitori in Francia, Germania, Lombardia, Toscana, nel regno di Sicilia e in Spagna. Rapporti spirituali e amministrativi lo legarono ai papi, alla regina Bianca di Francia, a vescovi e pastori d'anime, a dotti come Roberto Grosseteste ed i maestri di Parigi e Bologna, nonché ad anime elette come Enrico di Colonia, le beate Diana e compagne domenicane a Bologna, s. Ludgarda cistercense in Aywières, le benedettine di Oeren-Treviri ed altre.
Il beato Giordano fu il primo autore domenicano di notevole importanza. Divenne il primo storiografo di san Domenico e del suo Ordine. Le epistole dirette a conventi e anime elette, come alla beata Diana d'Andalò e compagne e alle benedettine di Oeren eccellono per stile chiaro ed espressivo senza ricercatezza, per notizie sui viaggi, di carattere amministrativo, religioso, personale e culturale. La dottrina spirituale prende lo spunto dalla salda fede nella vita eterna, attraverso la conformità con Cristo, la prudenza delle mortificazioni, con cenni a Maria, a san Domenico, alla Chiesa e al papa.
Dopo la sepoltura nella chiesa d'Acri, Giordano ebbe venerazione anche da parte musulmana. Gerardo di Frachet nelle Vitae fratrum (1259-60), dopo il libro su s. Domenico, consacra un libro intero al "santo e degno di memoria padre nostro frate Jordano". Tommaso da Modena a Treviso (1352 ca.) e Giovanni da Fiesole dipingono la bella figura del b. Giordano, quest'ultimo nella Crocifissione del capitolo di S. Marco a Firenze, seguiti dagli alberi genealogici dei secoli XV, XVI e XVII, dal, l'affresco di Federico Pacher (m. 1494) a Bolzano e dalle immagini del Klauber, Danzas, Bioller, van Bergen. Grande lode gli dedica il cronista Giovanni Meyer (1466) terminante nella frase: "pater gloriosis coruscat miraculis et multis multa beneficia praestat". Leone XII, il 10 maggio 1826, ne confermò il culto. La festa si celebra nell'Ordine Dominicano il 14 febbraio, nell'Ordine Teutonico il 13 febbraio.

- Angelo Walz

Tracce di lettura

Nell'anno del Signore 1221 , nel Capitolo Generale di Bologna, ai Capitolari parve opportuno di impormi la carica, che essi creavano per la prima volta, di Priore Provinciale di Lombardia. io allora ero nell'Ordine da poco più di un anno e non avevo perciò radici così profonde quanto  avrei dovuto, ora che ero messo a governare gli altri, io che non avevo ancora imparato a governare la mia imperfezione. In quello stesso Capitolo si inviò in Inghilterra una comunità di frati, con fra Gilberto in qualità di Priore. A quel Capitolo io non ero presente.
Dopo aver terminato il racconto degli avvenimenti accaduti al tempo di Maestro Domenico e che era conveniente ricordare, proseguendo nella narrazione è bene ora far cenno di certi altri avvenimenti accaduti in seguito.
Morto fra Everardo a Losanna, io proseguii il mio viaggio e giunsi in Lombardia per assumervi l'ufficio che mi era stato imposto nei riguardi di quella provincia. C'era in quel tempo un certo fra Bernardo di Bologna, il quale veniva talmente tormentato da un crudele demonio da cui era posseduto, che giorno e notte veniva agitato da orribili incubi; e così tutta la comunità dei frati ne veniva disturbata. Senza dubbio la Divina Provvidenza aveva mandato questa tribolazione per provare la pazienza dei suoi servi.
Questa tremenda vessazione del sunnominato fra Bernardo, fu la causa principale che ci spinse a istituire a Bologna il canto dell'antifona Salve Regina, dopo Compieta. Da questa casa l'uso si estese a tutta la Provincia di Lombardia e infine, la pia e salutare usanza si affermò in tutto l'Ordine.
A quanti, questa santa lode della veneranda madre di Cristo, fece versare lacrime di devozione! Quante volte essa commosse gli affetti di chi l'ascoltava o di chi la cantava, intenerendo la durezza dei loro cuori e infiammandola di santo ardore! E non crediamo che la madre del nostro redentore si diletti di tali lodi. si commuova per tali preghiere? Mi riferì un altro uomo religioso degno di fede di aver visto spesso in visione, al momento in cui i frati cantavano Eia ergo advocata nostra, la madre del Signore in persona, nell'atto d'inginocchiarsi davanti a suo Figlio, per impetrare da lui la conservazione di tutto l'Ordine. E anche questo fatto ho voluto ricordare, affinché la devozione dei frati che lo leggeranno s'infiammi sempre più nella lode della Vergine.

mercoledì 12 febbraio 2020

Innanzi alla croce, con i piedi per terra e lo sguardo al cielo

Maria è ritta ai piedi della croce. Gesù è ritto sopra la croce. Egli non tocca più la terra; egli è tra il cielo e la terra, mediatore tra Dio e gli uomini. Ella invece tocca ancora la terra; ella è ai piedi di Gesù, mediatrice tra lui e noi. Ella conserva la sua forza d'animo nel martirio del suo cuore..
Non cerchiamo di parlare dei suoi dolori, più di quanto possiamo dire di quelli del suo Figlio.
Questi misteri di sacrificio sorpassano ogni nostra concezione ed espressione. I cieli si sono scossi, il sole si è oscurato, la terra si è sollevata sino a fendere le rocce. E tali commozioni della natura nulla ancora dicevano dei tormenti del nostro Redentore e della sua Madre. Ma ciò che scuoteva fin le profondità della creazione non poté tuttavia infrangere le forze di quell'anima che restava ritta ai piedi della croce.

- François Pollien, certosino (Grandezze mariane, n. 396, 337-338)

MASACCIO, Crocifissione (Polittico di S. Maria del Carmine di Pisa), 83x63, tempera su tavola, 1423, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Masaccio, Crocifissione, Polittico di S. Maria del Carmine di Pisa), tempera su tavola, 1423, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte




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Reginaldo d'Orléans e il fuoco dell'eloquenza

La Chiesa cattolica, e in particolare l'Ordine Domenicano celebrano oggi la memoria del beato Reginaldo d'Orléans. Di lui scrisse Giordano di Sassonia († 1237) domenicano e successore di San Domenico: “La sua eloquenza era infuocata e la sua parola, come fiaccola ardente, infiammava l’animo degli ascoltatori; ben pochi avevano il cuore così indurito da resistere al calore di quel fuoco. Pareva un secondo Elia”.
Reginaldo nacque probabilmente nella diocesi di Orléans, anche se non si conosce con esattezza il luogo di nascita, verso il 1180.
Fu professore di Diritto all’Università di Parigi e decano dei canonici di St-Aignan ad Orléans; nel 1218 si recò a Roma, per proseguire poi per la Terra Santa, al seguito del proprio vescovo mons. Manasse II di Seignelay.
A Roma conobbe il card. Ugolino (futuro papa Gregorio IX) e tramite questi conobbe Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Predicatori.
Il decano di St-Aignan era uomo d’intelligenza, aperto ai problemi religiosi del suo tempo e avvertiva con un certo rimorso il contrasto tra la sua vita agiata e raffinata, la sua attività amministrativa e l’appello accorato lanciato nel 1215 dal IV Concilio Lateranense, ad uno stile di vita più evangelico.
Il messaggio della povertà evangelica così integralmente realizzato nel nuovo Ordine Domenicano, fondato nello stesso 1215 a Tolosa, attrasse profondamente l’animo insoddisfatto del decano Reginaldo d’Orléans.
Durante la sua permanenza romana cadde ammalato abbastanza seriamente, Domenico nel fargli visita, lo invitò ad entrare nel suo Ordine per seguire la povertà di Cristo. Accompagnata dalla sua guarigione, ebbe una miracolosa apparizione della Vergine, la quale gli mostrò l’abito completo del nuovo Ordine. Le sue resistenze caddero ed egli s’impegnò ad entrare fra i Predicatori al ritorno dalla Terra Santa.
Nel dicembre 1218 Domenico lo inviò a Bologna come suo vicario; in questa città studentesca, Reginaldo si sentì a suo agio; trasferì la comunità domenicana dalla Mascarella a S. Niccolò delle Vigne e con la sua irresistibile eloquenza, attrasse all’Ordine allievi e docenti universitari.
Un anno dopo, nel 1219 san Domenico lo inviò a St-Jacques di Parigi per rinvigorire quella comunità domenicana vacillante, anche qui affluirono all’Ordine studenti e professori dell’Università e intorno ai religiosi si formò un alone di cultura e spiritualità.
Ma poche settimane dopo il suo arrivo a Parigi, Reginaldo morì il 1° febbraio 1220; fu uno dei primi grandi dolori per il santo fondatore che ne fu affranto, lo consolò solo il sapere che Reginaldo era morto con il sorriso sulle labbra e dichiarando tutta la sua felicità per aver abbracciata la povertà degli Apostoli.
Fu sepolto a Parigi nel cimitero benedettino di Notre-Dame-des-Champs; gli fu tributato fin da subito il culto di beato, confermato poi da papa Pio IX l’8 luglio 1875.
La sua celebrazione è riportata dal Martirologio Romano al 1° febbraio, mentre l'Ordine Domenicano ne fa memoria il 12 di febbraio.

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