Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 25 novembre 2018

Rivestitevi del Signore Gesù

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Rm 13,8-14; Mt 21,1-11

Commento

"È ora di svegliarvi dal sonno", esorta l'apostolo Paolo. Il tempo di Avvento è il momento liturgico che ci richiama a un profondo risveglio spirituale. Perché l'attesa del Salvatore, e l'incarnazione del Verbo rappresentano uno spartiacque fondamentale nella storia dell'umanità: Cristo è il sole che sorge, nelle tenebre che avvolgono il mondo e la nostra vita.

Questo nostro risveglio deve essere caratterizzato anche da un radicale cambio d'abiti: svestiti delle opere delle tenebre, dobbiamo indossare le armi della luce, il che significa che siamo chiamati a ingaggiare una battaglia, contro tutto ciò che è contrario al comandamento dell'amore; questo, come ricorda Paolo - sulla scorta della predicazione di Gesù - riassume tutto il Decalogo. Chi ama, non attenta né all'onore, né alla vita, né alla reputazione, né alla proprietà altrui, né si mostra invidioso di quel che Dio ha dato agli altri.

"Camminiamo onestamente come di giorno" afferma l'Apostolo: il giorno diviene qui simbolo delle opere buone, ispirate e guidate dallo Spirito, nella fede; mentre la notte è luogo del nascondimento, in cui si opera il male.

Il modello da seguire è la condotta di Cristo, come esemplificata dal vangelo: "rivestitevi del Signore Gesù".

A fugare le tenebre del peccato in maniera definitiva sarà la luce stessa del Signore, che egli ci dona in misura della nostra fede. La prospettiva del credente non è l'ignoto e nemmeno il terrore del Giudizio; bensì la scomparsa definitiva della sofferenza, della morte, della disperazione.

Non aspettiamoci però una venuta di Cristo nelle nostre vite espressa in maniera spettacolare: egli nasce in un umile luogo e presenta la propria regalità a dorso di un mulo. Ciò dimostra che la luce della grazia si irradia e agisce lì dove siamo e con gli strumenti che abbiamo, nella nostra quotidianità: "Ecco, il tuo re viene a te" (Mt 21,5).

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 18 novembre 2018

Susciterò a Davide un germoglio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA PRECEDENTE L’AVVENTO

Colletta

Risveglia, ti supplichiamo Signore, la volontà dei tuoi fedeli, affinché essi coltivando i frutti delle opere buone, possano essere da te ricompensati in pienezza. Per Cristo nostro Signore. Amen

Letture

Gr 23,5-8; Mt 9,18-26

Commento

"I giorni vengono" (Gr 23,5), non "i giorni verranno": si tratta di una realtà già in atto nel tempo in cui Geremia profetizza, e di una realtà che si adempie ed è ancora in divenire oggi. Con l'avvento di Cristo, e con la sua morte e risurrezione, la salvezza giunge a compimento, estendendosi oltre i confini di Israele, ma i frutti di questo "germoglio giusto", si dispiegheranno nella storia fino al suo ritorno glorioso.

Se ai tempi del profeta Geremia la salvezza indicava la liberazione di Israele dalla cattività babilonese e la ricostruzione del Tempio, nella prospettiva neotestamentaria questo evento storico diviene prefigurazione della liberazione dal peccato e dalle sue conseguenze, aperta ora a tutti i popoli. Il tempio che Cristo viene a costruire è egli stesso: "Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!" (Gv 2,19) e "l'ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre" (Gv 4,21).

Il tempio che Gesù viene a costruire è la sua Chiesa, non come istituzione, ma come Corpo mistico in cui lo Spirito vivifica ogni membro e restaura in noi l'uomo in comunione con Dio.
Ecco perchè questo re, discendenza di Davide, sarà chiamato "l'Eterno, nostra giustizia". Il tempio che ricostruisce è l'uomo, giustificandolo dal peccato e rendendolo capace di ricevere lo Spirito santificante.

L'unica condizione richiesta per accedere a questo è la fede. E il Vangelo ci offre grandi esempi di fede. Quello del capo della Sinagoga è davvero tra i più forti, perché quest'uomo crede l'incredibile: che Gesù possa esercitare la propria potenza anche sulla morte, risuscitando la figlia appena defunta: "vieni, metti la mano su di lei, ed ella vivrà".

Mentre Gesù si reca a casa del capo della Sinagoga il Vangelo inserisce un racconto nel racconto, una specie di "cameo" che offre un'altro esempio di fede. Una donna, è affetta da dodici anni da una emorragia e pensa di potere ritrovare la propria salute mediante Gesù. Non osa chiedergli nulla, ma tocca il suo mantello, le cui frange rappresentavano i comandamenti della legge. La donna esprime con il proprio gesto una piena fiducia in Gesù quale Salvatore e Santo nel quale la legge è portata a compimento e perfezione. Non è l'atto di toccare il mantello in sé che la guarisce, ma la sua fede, come attestato dalle parole di Gesù: "Fatti animo, figliola; la tua fede ti ha salvata".

Gesù giunge a casa del capo della Sinagoga e qui trova, come era tradizione al tempo, diverse persone che intonano lamenti, accompagnati da strumenti musicali. Forse anche infastidito da una maniera scomposta di celebrare il cordoglio per il defunto, ordina a tutti di ritirarsi, dicendo che la fanciulla non è morta ma dorme. In tal modo si attira le derisioni dei presenti, i quali non comprendono che dal punto di vista di Dio, anche ciò che ci spaventa al di sopra di ogni altra cosa, la morte, è una realtà a lui soggetta. 

Gesù "prese la fancillua per la mano ed ella si alzò". La parola ebraica qui usata e tradotta con il verbo "alzarsi" è la stessa impiegata per indicare la risurrezione di Cristo. Il Signore ci prende per mano, soccorrendo la nostra impotenza, anche laddove la fede vacilla e conducendoci nelle regioni della grazia, la terra promessa fin dai tempi antichi.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 11 novembre 2018

Partecipare alla sorte dei santi nella luce

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ


Colletta

O Dio, ti supplichiamo, assolvi il tuo popolo dalle sue offese; affinché attraverso la tua abbondante misericordia possiamo essere liberati dai lacci dei peccati commessi per nostra fragilità. Concendici questo, Padre celeste, per la grazia di Gesù Cristo, nostro Signore benedetto e salvatore. Amen.

Letture

Col 1,3-12; Gv 6,5-14

Commento

Le due letture di oggi, in particolare il primo capitolo della  Lettera di Paolo ai Colossesi, invitano a riflettere sulla natura della preghiera cristiana.

La parola greca proseukomenoi utilizzata dall'Apostolo per indicare la preghiera è un composto di "supplica" e "desiderio". La preghiera è un desiderio rivolto a Dio.
 
La preghiera, secondo il modello presentato da Paolo, è perseverante ("prego continuamente"), ha un oggetto determinato ("per voi") ed è pervasa dalla riconoscenza ("Noi rendiamo grazie"). L'apostolo potrebbe qui riferirsi anche alla preghiera liturgica, all'eucaristia, che appunto significa “ringraziamento” e rappresenta il rendimento di grazie per eccellenza.

Il motivo della preghiera di Paolo è costituito dalla fede, dall'amore e dalla speranza dei Colossesi, di cui gli è giunta notizia: "abbiamo sentito parlare della vostra fede in Cristo Gesù e del vostro amore per tutti i santi". Il plurale indica probabilmente il ministero di Timoteo accanto a quello di Paolo, o la più estesa comunità alla quale Paolo aveva predicato l'evangelo.

Nulla alimenta la fede e al contempo ne dimostra la solidità più di una preghiera perseverante, fino a farsi "importuna", come attesta il Vangelo di Matteo nel racconto della guarigione della donna siro-fenicia (Mt 15,21-28). Non sappiamo quando la nostra preghiera verrà esaudita e nemmeno come, perché potrebbe essere il frutto di uno slancio sentimentale, oppure potrebbe manifestare desideri contrari a un bene più alto per noi e per la maggior gloria di Dio. Se la preghiera esaudisse automaticamente qualsiasi capriccio del nostro cuore sarebbe un atto magico e non espressione della fede.

Le preghiere che attraversano la Scrittura, dall'Antico al Nuovo Testamento, contengono spesso un rendimento di grazie. Gesù rende continuamente grazie al Padre, anche prima di compiere i suoi miracoli. Un figlio dimentico dei benefici ricevuti dal Padre, come un amico dimentico dei doni già ricevuti in passato dall'amico, non è degno di essere esaudito. Solo dopo aver reso grazie possiamo osare chiedere qualcosa, con fede e con viva speranza nel tesoro che già ci è stato preparato in cielo, che consiste nel partecipare "alla sorte dei santi nella luce" (Col 1,12), cioè nella contemplazione del mistero di Dio.

Quel di cui dobbiamo essere certi nella nostra preghiera è mostrato dal racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci: il Signore parte dalla nostra povertà, una miseria totalmente incapace di far fronte alle esigenze delle moltitudini, e da quella, non senza il nostro intervento ("li distribuì ai discepoli e i discepoli alla gente seduta", Gv 6,11), ci consente di sfamare ogni necessità. Egli supera ogni nostra aspettativa, come attestano i pezzi di pane e i pesci avanzati. Il Signore ci vuole sazi, pienamente soddisfatti. Quindi se preghiamo e non otteniamo è perché preghiamo male e chiediamo male. Chiediamo le cose sbagliate. Chiediamo troppo poco. Non ci mettiamo il nostro. Il Signore fa un grande miracolo, ma sceglie di non creare i pani e i pesci dal nulla, chiede ai discepoli di prendere l'iniziativa, mette alla prova la loro fede.

L'erba verde descritta da Giovanni, su cui Gesù fa sedere le moltitudini, è una immagine pasquale, che richiama da un lato il tempo in cui si svolse la scena, quello, appunto, della Pasqua ebraica, intorno a marzo, all'inizio della primavera, dall'altro richiama la Pasqua celeste, che i credenti consumeranno nell'eternità con il Risorto.

È, questo, dunque, il nostro destino ultimo: la piena soddisfazione di ciò che la nostra natura umana più profondamente brama: la ritrovata comunione con Dio, nell'eternità.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 4 novembre 2018

La nostra cittadinanza è nei cieli

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTITREESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, nostro rifugio e forza, che sei l’autore di ogni cosa buona; sii pronto, ti supplichiamo, ad ascoltare le devote preghiere della tua Chiesa; e concedici che le cose che chiediamo con fede possiamo ottenerle con efficacia. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 3,17-21; Mt 22,15-22

Commento

Era una convinzione rabbinica che colui che coniava la moneta di un paese ne fosse il dominatore. Secondo questa teoria, null'altro occorreva che di accertare quale fosse la moneta corrente in Giudea a quel tempo, per ottenere una risposta concludente alla domanda che era stata posta a Gesù: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?" (Mt 22,17).

La moneta romana circolava liberamente nel paese e i giudei non esitavano ad usarla in ogni affare e contrattazione. Se, come nazione si fossero astenuti dall'impiegarla ci sarebbe potuto essere almeno un pretesto per mettere in dubbio la legittimità del tributo richiesto dal governo romano; ma vivendo, come facevano, sotto la protezione delle leggi dell'imperatore, e facendo ogni giorno uso della moneta di Roma, lo riconoscevano di fatto come l'autorità sovrana del Paese. La legge sacra consentiva, infatti, ad Israele, di scegliersi il proprio governo, vincolandolo unicamente a continuare a corrispondere il tributo al tempio.

Come "le cose di Cesare" implicavano, nei fatti, più del semplice testatico (il tributo all'imperatore), "le cose di Dio", cui fa riferimento Gesù, significano di più che non semplicemente il tributo del tempio: includono il cuore con le sue affezioni, la coscienza, la volontà, le ricchezze individuali, in una parola la consacrazione a Dio di tutto intero l'uomo, del corpo non meno che dello spirito.

La risposta di Gesù non separa, ma unisce i doveri politici e quelli religiosi dei cristiani. Colui che è interamente votato a Dio, infatti, non può disinteressarsi della polis, del consesso umano in cui vive e nel quale è chiamato a esprimere la carità cristiana. Diversamente, il cristianesimo si ridurrebbe a sterile devozionalismo più che a quell'opera di trasformazione radicale e sostanziale del credente di cui parla Paolo nel capitolo terzo della sua lettera ai Filippesi.

Paolo afferma che "la nostra cittadinanza è nei cieli" (Fil 3,20), ma è qui sulla terra che già si misura il progresso nella santificazione che Cristo stesso compie in noi, "secondo la sua potenza che lo rende in grado di sottoporre a sé tutte le cose" (Fil 3,21).

Se il dominio di Cesare, il cui volto era impresso nel denaro, è infatti puramente convenzionale e soggetto alla volontà di Dio, il dominio di Cristo sulle nostre vite, in virtù del segno impresso nelle anime dalla fede battesimale, è l'esercizio di una sovranità reale. A ben vedere, non vi è cosa, nel cosmo, che non rechi impressa in sé il marchio del suo Creatore e che, dunque, non vada a lui ricondotta. Tutto è da Dio e tutto è per la lode e gloria di Dio.

Cristo, dimorando in noi, riproduce nella nostra vita la propria fisionomia morale; questa conformità sarà completata nei cieli dove "il nostro umile corpo sarà reso conforme al suo corpo glorioso" (Fil 3,21).

La garanzia che rende certa questa trasformazione è la sua potenza illimitata, il suo impero universale. Egli non ha coniato una moneta: era con il Padre quando, come Logos eterno, creava l'uomo a sua immagine e somiglianza; quando ha assunto la nostra natura umana, elevandola e unendola alla propria natura divina; quando ci ha purificati con le acque battesimali e segnati con il sangue della sua passione. Egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo (Sal 95,7). Siamo suoi. E nostra è la sua grazia; nostra la sua carità, che deve passare in abbondanza come moneta corrente tra le nostre mani.

- Rev. Dr. Luca Vona