Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 30 luglio 2018

Dio si affretta per venirci incontro

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA NONA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedici, Signore, ti supplichiamo, di pensare e compiere sempre ciò che è giusto; affinché noi, che non possiamo fare nulla di buono senza di te, possiamo essere capaci, per la tua grazia, di vivere secondo la tua volontà; per Gesù Cristo, nostro signore. Amen.

Letture

1 Cor 10,1-13; Lc 15,11-32

Nel pensiero comune, Dio deve essere buono con i buoni e deve castigare gli empi. Questo pensiero è ben ravvisabile nella letteratura veterotestamentaria, dove compare, però, nel tempo, l’immagine di un Dio che è certamente giusto, ma anche misericordioso, “lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8), che non desidera la morte del peccatore, “ma che si converta e viva” (Ez 33,11).

L’atto compiuto dal figlio protagonista di questa parabola è molto grave: nella società giudaica del tempo, chiedere al padre l’eredità in anticipo significava determinare una rottura irreversibile con lui, considerandolo come morto. Un figlio del genere non avrebbe più potuto sperare nell’aiuto del padre in caso di necessità. Se la richiesta anticipata dell’eredità rendeva il padre come morto per il figlio, al contempo il figlio diveniva come morto per il padre. Gesù, attraverso questo racconto, ci vuole mostrare che il padre che è nei cieli agisce in maniera del tutto differente.

Il figlio che ha chiesto la sua parte di eredità si avvia verso un paese lontano e qui spende tutto quello che ha, riducendosi a pascolare i porci – lui che in casa del padre viveva da signore – e arrivando a desiderare di nutrirsi di  carrube quando in quel paese sopraggiunge una grave carestia

Sono proprio i morsi della fame a precedere ciò che il vangelo definisce un “rientrare in sé” del giovane, una conversione che è in un primo momento un atto di introspezione, suscitato dalla frustrazione di un desiderio elementare: “Quanti lavoratori di mio padre hanno pane in abbondanza… io invece muoio di fame!” (Lc 15,17). Non è il senso di colpa a suscitare i primi moti della conversione, ma la fame.

A questo punto il giovane medita di tornare a casa del padre e si prepara un bel discorso di pentimento. Il vangelo insiste sul verbo “levarsi, sollevarsi”: “mi leverò e andrò da mio padre, e gli dirò…”; “Egli dunque si levò…”. La fame e il desiderio di “sollevarci”, suscitati dallo Spirito stesso di Dio, sono il motore della nostra conversione.

Nel prosieguo della parabola vediamo che il discorso di pentimento che il figlio si è preparato risulta del tutto superfluo. Infatti, “mentre era ancora lontano” suo padre “lo vide e ne ebbe compassione, corse, gli si getto al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Laddove ci aspetteremmo di trovare un padre severo che attende il figlio alla porta, per respingerlo o quanto meno per redarguirlo e chiedergli di umiliarsi per ottenere il perdono, Gesù ci offre l’immagine di un Dio che ci corre incontro, ci anticipa, si affretta, e ci si getta al collo baciandoci, mentre siamo ancora sporchi di letame. 

Quando il giovane dice “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,21), proprio in quel momento il padre, davanti a tutti i servi, vuole dimostrare di averlo ristabilito in ogni sua dignità. Chiede che venga rivestito dell’abito più bello, che gli vengano messi i sandali ai piedi - solo le persone di un certo rango al tempo potevano permettersi dei calzari – e infine che gli si infili l’anello al dito, simbolo del potere riacquistato. E a scanso di equivoci lo dichiara ad alta voce, davanti a tutti i servi: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita” (Lc 15,24).

Ma c’è una forza dentro di noi, e fuori di noi, che non comprende la misericordia di Dio, la sua compassione; e dunque si adira, giudica e condanna; ci induce inoltre a pensare che la salvezza sia un qualcosa che può essere comprato, meritato, guadagnato. La salvezza può essere desiderata, nel momento in cui apriamo gli occhi e prendiamo consapevolezza di quanto penosa sia l’esistenza condotta lontano da Dio, del fatto che siamo nati non per mangiare carrube, ma per sedere alla mensa del Padre. 

- Rev. Dr. Luca Vona



mercoledì 25 luglio 2018

La santificazione in Wesley come tema ecumenico



La santificazione in Wesley come tema ecumenico
di Giancarlo Rinaldi*

Quale ecumenismo?
Il termine “ecumenismo” ha acquisito significati in bilico tra la “spiritualità” e la “politica”. I sinodi dei primi tre secoli cristiani non ebbero una valenza ecumenica, erano limitati a circoscritti ambiti territoriali. I concili convocati da imperatori, a far data da Costantino, potevano invece dirsi ecumenici poiché l’auctoritas di chi li voleva (e li presiedeva) era estesa a quel che si considerava l’ecumene tutta.
Oggi v’è un ecumenismo “di vertici” che vede protagonisti le guide delle denominazioni, e v’è un ecumenismo “di base” quando sono i membri di Chiesa che agiscono. Percorsi auspicabili ma parziali: è talvolta in agguato il desiderio di “annessione” dell’interlocutore, oppure si celebra un momento di politica ecclesiastica, oppure si nutre un vago sentimento d’affetto che relativizza le identità.
Al cristianesimo antico era estranea la dimensione del dialogo che è frutto della modernità. Posta una verità si faceva scaturire la condanna di ogni pensiero diverso. La letteratura patristica ne è esempio1. Tra questo atteggiamento e le moderne aperture v’è tutta una parabola di atteggiamenti nella quale dovremo inserire il nostro Wesley e la sua “scuola”.
Se volessimo basarci sulle opere di Wesley2 per trarne spunti di ecumeni- smo, inteso come sereno dialogo con la Chiesa cattolica, potremmo considera- re il nostro compito immediatamente chiuso, e con bilancio negativo. Nel suo sermone Catholic spirit3, che è del 1749, la Chiesa cattolica non esce immune da implicite e indirette critiche. I suoi membri sono chiamati “papisti”. È signi- ficativo il fatto che Wesley si esprima esclusivamente parlando di “Chiesa di Roma” e lo fa prevalentemente per dimostrare la perniciosità di insegnamenti con i quali, contraddicendo l’insegnamento biblico, questa s’è allontanata del modello della Chiesa antica: «Babylon the Great, the mother of harlots and abominations of the earth». Anche nel caso di una dottrina che sembra prender le distanze dalla visione riformata per aderire a quella cattolica (l’insegnamento della santificazione o perfezione cristiana), Wesley evidenzia ciò che lo separa da Roma. Quando, nella sua lettera del 1782 A Disavowal of Persecuting Papists, prese le difese dei “papisti” invocando tolleranza, egli rimarcò che bisognava stare in guardia affinché i seguaci di Roma non fossero messi in condizione di recar danno a lui stesso o a chi consideravano eretici4. Tuttavia, siamo persuasi che v’è spazio per parlare di una dimensione “ecumenica” del pensiero di Wesley e della teologia e spiritualità che da lui deriva.
L’esercizio di ecumenismo più autentico consiste nel recuperare le radici della fede, un patrimonio che più sta a monte della vicenda cristiana più è comune a una molteplicità di denominazioni. Si tratta di darsi appuntamento nelle pagine del Nuovo Testamento, fondamento di fede, poi nei testimoni di una tradizione che non è canale parallelo alla rivelazione biblica, bensì la fedeltà nei secoli esercitata al fine di trasmettere «la fede una volta per sempre tramandata ai santi» (Giuda 3). Se l’ecumenismo è quello sforzo d’ogni cristiano di proiettarsi alle origini della sua fede ne dedurremo che nessun cristiano può sottrarsi alla qualifica di “ecumenico”. Un ecumenismo sincronico che vede le varie Chiese avvicinarsi l’una all’altra non sarà mai così fecondo come quello diacronico, che cioè consiste nel dirigersi di ciascuno verso le comuni radici.
Wesley, dunque, non fu teologo “ecumenico” nel senso moderno del termine; basti pensare alle sue confutazioni della dottrina “romana”, intesa come cor-ruzione del cristianesimo degli antichi e anche alle sue dispute con protestanti di tradizione calvinista. Eppure, a Wesley fu cara la frequentazione dell’antica letteratura cristiana intesa come voce di una cristianità ancora indivisa. È in quest’ultimo filone che dobbiamo cercare il Wesley “ecumenico”. Così c’è lecito inserire anche i “figli” di Wesley (metodisti, ma anche chiese di santità e movimento pentecostale) nell’avventura del dialogo ecumenico.
Il sottovalutare l’importanza dei testi “patristici” è errore grave non solo per lo storico ma anche per il semplice credente cristiano. Credere di comprendere la Bibbia senza condizionamento alcuno è una pia illusione. Tra noi moderni (anche ci si attiene al sola Scriptura) e quelle pagine v’è una lunga tradizione di cui siamo portatori anche inconsapevolmente. È difficile per l’uomo uscire dalla sua storia!
Wesley fece tesoro della letteratura degli antichi cristiani. Il cosiddetto “argomento patristico”, che sarebbe stato tanto caro ai teologi del Movimento di Oxford, per Wesley non era orpello di erudizione oppure strumento di polemica, bensì testimonianza dei riecheggiamenti del Vangelo nella vita della Chiesa. Specialmente per quanto riguarda la dottrina della santificazione intesa come seconda opera della grazia o come immersione nello Spirito santo.
In Wesley l’autorità e l’incidenza dei testi patristici è però subordinata a quella della pagina biblica che rimane il binario unico sul quale scorre l’ortodossia e l’ortoprassi. La tradizione dei Padri viene concepita da Wesley come la fedeltà con la quale gli antichi testimoni della fede hanno attinto dalla Scrittura e ne hanno tramandato l’insegnamento.

L’immersione nello Spirito: tema patristico, tema wesleyano, tema ecumenico
In Wesley vi sono diverse espressioni per definire l’opera dello Spirito santo. Questa varietà è spia della complessità di tale opera e della difficoltà di esplicitarla. Santificazione, Perfezione cristiana, Amore reso perfetto, Piena santificazione, Seconda benedizione; John Fletcher, in piena sintonia con Wesley, avrebbe poi parlato anche di battesimo di Spirito santo: sono espressioni che si riferiscono al precetto di Gesù: «Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
La teologia di Wesley andò modulandosi tra letture bibliche così come acca- demiche, ma anche tra controversie ed esperienze vissute. Wesley non sistemò il suo pensiero in un manuale avente carattere di sistematicità, ma lo espose principalmente in sermoni, lettere e inni secondo che le circostanze lo richiedevano.
L’esperienza di Aldersgate del 1738 aveva confermato Wesley nella consapevolezza dell’esser salvato per grazia, ma non in quella di aver esaurito il suo percorso di cristiano. Il rapporto con Dio non si esaurisce nella cosiddetta “nuova nascita” (Gv 3,3), ma procede con un continuo plasmarsi del carattere attraverso una lotta con l’“uomo vecchio” che ancora può cedere alla tentazione del peccato. Da qui la distinzione tra il momento della salvezza e quello successivo della santificazione; quest’ultimo è un processo che inizia con la conversione e termina con la morte (1Cor 1,2; 1Pt 1,2). Ma nel pensiero di Wesley c’è spazio anche per un’esperienza della santificazione vissuta come puntuale “crisi”, come momento preciso in cui lo Spirito compie la sua opera di purificazione del cuore rendendo la volontà del cristiano conforme a quella del suo Signore, facendo sì che l’obbedienza non sia più obbligo forzato bensì l’adempimento di un gradito dovere. L’opera di Dio può dirsi ora “perfetta” non perché un individuo sia stato reso immune da errori e imperfezioni, bensì nel senso che costui è stato fatto oggetto di un piano di Dio che comprende anche la sua santificazione. “Perfezione cristiana”, in senso wesleyano, non è la realizzazione di un individuo umanamente perfetto e impeccabile, ma il pieno ed effettivo compimento di un’opera di grazia.
Potrebbe presentarsi un’antitesi: l’esperienza della santificazione avviene in un particolare momento (cioè è una “crisi”), oppure si sviluppa attraverso un processo graduale, una tensione sempre in atto e mai compiuta? Gli eredi di Wesley sono apparsi divisi tra coloro che sostenevano la gradualità dell’esperienza, come nella grande maggioranza dei protestanti di tradizione riformata, oppure il conferimento immediato di un dono, come nella teologia delle chiese di santi- tà. Ma il contributo peculiare di Wesley consisté nell’enfasi sulla seconda opera della grazia come crisi puntuale, anche se questa non poteva mai considerarsi un punto d’arrivo ma era una tappa del pellegrinaggio cristiano. Il fatto che la santità come processo graduale sia stato un patrimonio comune al mainstream protestante ci spiega come mai la predicazione wesleyana abbia accentuato la dottrina della “crisi”.
Inoltre: il credente era dichiarato santo o era realmente fatto tale? Se si fosse trattato di predicare una santità soltanto attribuita al peccatore (come nella visione riformata), non sarebbe stato il caso di dar vita a un nuovo movimento. Non mancavano confessioni di fede che illustravano il carattere forense della giustificazione come della santificazione: il salvato rimane sempre peccatore poiché Dio si limita a dichiararlo giusto e santo ma in realtà egli non lo è. Per Wesley la santificazione non è solamente imputata, ma è realmente impartita, come nella tradizione cattolica5. Wesley operava una distinzione tra il peccato volontario e i peccati involontari (infirmities). Da questi ultimi, che caratterizzano l’essere umano in quanto tale, dovremmo sempre stare in guardia con umiltà e vigilanza. In virtù della santificazione, viene invece estirpata la radice amara del peccato, inteso come naturale e consapevole avversione dell’uomo a Dio. E ciò avviene in questa vita: è l’intervento estemporaneo di Dio, ma non esclude un successivo processo di crescita. Wesley raccomandò di non guardare, come a strumento di liberazione dal peccato, alla morte (come nella tradizione riformata) né al purgatorio (come nell’insegnamento cattolico): né morte né purgatorio possono liberarci dal peccato, ma la grazia di Dio che opera mentre siamo vivi.
Quale coronamento di questa dottrina della santificazione reale del cristiano, collochiamo l’insegnamento della santità sociale. Quest’ultima non deriva da una sensibilità di tipo “politico” per la quale, come superficialmente s’è voluto intendere, il nostro anticiperebbe atteggiamenti di tipo “laburista”. Nella storia è sempre il prima che spiega il poi e mai il contrario, inoltre una santità effettivamente impartita non può non palesarsi con opere che si proiettano nella dimensione esterna, quella sociale. Il credente vede in chi patisce l’immagine di Gesù sofferente, e interviene poiché ogni santità è “sociale”. Coloro che ab- binano l’impegno caritatevole dei metodisti all’azione del successivo laburismo dicono il vero, ma è stato quest’ultimo a trarre ispirazione dal primo.
La definizione di un’identità avviene grazie a polemiche e controversie. Era facile, per i detrattori del nostro, far leva su ciò che sembrava una presunzione e far caricature del metodista come uomo che si riteneva “perfetto”, “senza pecca- to”. Un coacervo di critiche indusse Wesley nel 1766 a raccogliere i suoi pensieri sul tema dando alle stampe A Plain Account of Christian Perfection, From the Year 1725 to the Year 1765. L’autore rivendicava la sua coerenza negli anni ed esponeva quello che sarebbe stato il “manifesto” metodista. Pochi e ben chiari i concetti cardine: 1. l’opera dello Spirito si realizza per fede; 2. avviene istantaneamente; 3. si compie in vita. Non si tratta di una sinless perfection, poiché il credente sarà sempre tentato e fallibile; dunque la perfezione non stava nell’uo- mo ma nell’opera di Dio che purifica il cuore, rende santi, cancella l’ego anti- co e vi sostituisce una brama di vivere secondo la volontà celeste. Se Dio aveva compiuto per noi il sacrificio della croce che reca salvezza, ora, con una seconda benedizione, compiva in noi un’altra opera che avrebbe consentito al credente di adempiere al comandamento «Siate santi come io sono santo» (Lev 19,2). Nelle epistole paoline chi aveva risposto alla chiamata di Gesù ed era entrato a far parte di una comunità era chiamato santo (Rm 1,7; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Ef 1,1; Fil 1,1 etc.). Wesley ritenne che questo non era solo un modo di dire, bensì il modo di essere del credente.
La santificazione non è il risultato delle virtù esercitate in grado eroico dal cristiano, ma è un dono della grazia. Se Wesley si avvicina alla teologia cattolica, perché parla di una santità effettiva e non soltanto dichiarata, cioè ammette la trasformazione reale del carattere, non per questo ricorre alla categoria tipica- mente cattolica del merito. Qui Wesley si palesa fedele figlio della Riforma6.

I “Padri” di Wesley
Per Wesley la dottrina e l’esperienza della santificazione erano un patrimonio della cristianità antica da attualizzare e tramandare. Quali sono stati i suoi auctores? La ricerca parte da uomini di grande pietà dei secoli xvii e xviii e risale all’antica letteratura cristiana. In quest’ultimo aspetto sta il volto più ecumenico dei movimenti che dal riformatore di Epworth ebbero in un modo o nell’altro a scaturire. Come ha messo in evidenza T. A. Campbell7, bi- sogna valutare quanta influenza patristica è stata esercitata grazie alla lettura diretta dei testi e quanta sia stata filtrata da tutta una letteratura religiosa che nel secolo xvii aveva fatto tesoro delle antichità cristiane. Il tema è stato più volte al centro dell’interesse di sodalizi di accademici specialisti quali il Wesley Studies Working Group e la Wesleyan Theological Society. L’incremento che si è avuto dagli anni Ottanta del secolo scorso degli studi su Wesley e il cristianesimo antico secondo il Campbell è da considerarsi sintomo odierno della ricerca dell’autentica identità metodista.
Sarebbe troppo lungo elencare le letture di Wesley per valutare volta per volta le influenze che queste hanno esercitato sul suo pensiero. Per compiere questo lavoro bisognerebbe partire dagli anni dell’infanzia del nostro il quale ricordava commosso come «From a child I was taught to love and reverence the Scriptures, the oracles of God; and, next to these, to esteem the primitive Fathers, the writers of the first three centuries». Altra pista di ricerca consiste nell’individuare un filone di continuità dalla Chiesa antica fino a Wesley per quanto concerne la dottrina della perfezione cristiana8.
Il rapporto tra Wesley e gli antichi non si colloca in un vacuum storiografico ma attesta una tendenza di teologi anglicani i quali non si limitarono a mediare tra Riforma e Chiesa romana ma desiderarono collegarsi in modo diretto alla tradizione dei primi secoli cristiani9. La testimonianza patristica era elemento immunizzante contro il radicalismo delle correnti puritane e le deviazioni della Chiesa di Roma che si appropriava di quelle voci10.
Durante gli anni oxfordiani il nostro attinse principalmente dal The Rule and Exercises of Holy Living (1650) del vescovo anglicano J. Taylor e dal De imitatione Christi. Quest’ultimo alimentò il desiderio di far nascere l’uomo “nuovo” sulle ceneri di quello “vecchio” nel contesto di un’esperienza spirituale profonda. Tuttavia, l’enfasi che il testo poneva sulla mortificazione e la sofferenza mal gli sembrava conciliarsi col pensiero riformato che individuava nella sola grazia il propellente della vita cristiana.
Più influenti furono poi i due scritti di William Law: A Practical Treatise Upon Christian Perfection (1726) e il successivo A Serious Call to a Devout and Holy Life (1729). Qui già troviamo un assunto della pietà wesleyana: il ruolo imprescindibile della grazia divina nella trasformazione del “carattere” del cristiano, cioè l’adesione del credente al volere di Dio nei sentimenti e nelle opere di santità. Noto sin da ora che a sostegno della dottrina della perfezione cristiana il Law ricorre a citazioni scritturistiche ed esempi di vita ma v’è carenza di argo- menti tratti dall’antica letteratura cristiana, più utilizzati da Wesley.
Significativa è anche la sintonia tra la teologia “perfezionista” di Wesley e quella dell’ecclesiastico puritano e accademico di Cambridge John Preston (1587-1628), esposta nei suoi sermoni editi col titolo The New Covenant, or The Saint’s Portion: A treatise Unfolding the All-Sufficiency of God, Man’s Upright- ness, and the Covenant of Grace. Qui ravvisiamo la dottrina del carattere inte- riore della purezza connessa alla santificazione, una purificazione del cuore e dei desideri che porta a una totale consacrazione a Dio. Si enfatizza il carattere di gratuità di questo dono. Tuttavia per Preston il processo era da considerarsi sempre incompleto se non al momento della morte. Da un sermone dell’anglica- no Robert Gell (1595-1665) Wesley, nel 1741, fu persuaso della possibilità di una perfezione cristiana come purificazione dell’intenzione profonda del cuore: in tal senso il credente era liberato dal peccato, se con questo termine indichiamo una consapevole e volontaria trasgressione alla legge di Dio.
Un profondo impatto ebbe su Wesley la lettura del trattato erudito di storia del cristianesimo antico di William Cave (1637-1713) Primitive Christianity: Or, the Religion of the Ancient Christians in the First Ages of the Gospel. Si confuta- vano le false accuse circolanti a carico dei cristiani, poi v’era una disamina dei loro costumi; inoltre lo studio del secolo quarto del quale interessava particolarmente la triangolazione tra imperatori, Chiesa e sopravvivenze pagane. Ogni affermazione dell’autore veniva suffragata da puntuali citazioni della letteratura sia cristiana antica sia classica. Tutta questa erudizione non valeva a nascondere un sentimento di nostalgica ammirazione che guardava a quell’epoca come a un modello di virtù svanita11. Insomma, Wesley non fu un unicum nell’età sua. Egli s’inserì in quella tradizione arminiana che fu propria di alti ecclesiastici della High Church quali William Laud (1573-1645), Herbert Thorndike (1598-1672) e Peter Heylyn (1600- 1662). Secondo costoro il ritorno alle fonti dei riformati doveva estendersi anche ai testi patristici per modellare una Chiesa in linea di continuità con quella dei primi secoli: nessuna verità di rilievo poteva mancare nel repertorio degli antichi e, di contro, ogni insegnamento nuovo poteva considerarsi per ciò stesso falso. Da ciò l’affermazione di Wesley:

But whatever doctrine is new must be wrong; for the old religion is the only true one; and no doctrine can be right unless it is the very same “which was from the beginning”12.

Anche di autori francesi Wesley ebbe a nutrirsi: Madame Guyon (1647- 1717) e François Fénelon (1651-1715), ad esempio; da loro attinse l’esperienza dell’amore interiore che vincola l’anima a Cristo; se in questi autori prevale l’aspetto individualista e “aristocratico” dell’esperienza, nel nostro la realiz- zazione è proposta alla totalità del popolo cristiano e va vissuta nel tessuto sociale, anche il più difficile. Oltre che dalle opere di tali quietisti Wesley at- tinse da scritti di storici d’orientamento gallicano come L’Epistola in qua de moribus et vita christianorum in primis Ecclesiae saeculis agitur di Jean Fronteau, scritta nel 1660; o il trattato Moeurs des Chrétiens scritto da Claude Fleury nel 1682, che fu sua lettura durante il soggiorno in Georgia.
La fruizione diretta da parte di Wesley di auctores patristici ebbe luogo nei primi anni in modo personale ed edificatorio: è l’epoca in cui le sue lacrime sgorgavano alla lettura di Macario. Diversa fu la situazione quando si trattò di plasmare il gruppo dei suoi predicatori. Allora fu il caso di ancorare l’esperienza del nascente metodismo alla vita della Chiesa nei suoi momenti esemplari. Il ricorso ai Padri si rese opportuno quando circostanze indotte dalle esigenze organizzative o polemiche inducevano a definire una dottrina. Due esempi.
1.Quando, nel 1777, aprì la sua Chapel a Londra, nella City Road, dopo aver fatto collocare lo spazioso altare al centro precisò che tutto era stato svolto nel solco di una tradizione ecclesiastica della quale ricordò con precisione i testimoni13.
2.Quando fu nella necessità di ordinare presbiteri per quella che sempre più stava diventando una vera e propria “Chiesa”, dichiarò che la forma epi-scopale era in sintonia con la Scrittura e i tempi apostolici, tuttavia ribadì che questa non era una norma cogente e che Edward Stillingfleet nel suo Irenicum14 aveva dimostrato che né Cristo né i suoi apostoli avevano racco-mandato una particolare forma di organizzazione ecclesiastica.
Wesley attingeva direttamente alle Scritture; ma la rilettura dell’antica lette- ratura cristiana poteva giovare nei casi in cui l’interpretazione di un testo biblico non appariva univoca o quando bisognava palesare un processo di traviamento del modello antico.
Wesley non vagheggiò in modo acritico l’epoca antica della Chiesa. Fu la lettura di Tertulliano e di Cipriano15 a persuaderlo che la sua condizione non era migliore di quella attuale. Ancora più critico era il discorso relativo all’età postcostantiniana. Se nei primi tre secoli la Chiesa presentava tratti di luminosa esemplarità, successivamente l’imperatore Costantino “autoproclamatosi cri- stiano” aveva dato la stura a un processo di corruzione. In ciò il nostro appare in linea con il generale giudizio che in ambito protestante si diede su Costantino16. Così Wesley si espresse nel suo sermone The Mystery of Iniquity:

The whole essence of true religion, was struck in the fourth century by Constantine the Great, when he called himself a Christian, and poured in a flood riches, honours, and power, upon the Christians; more especially on the Clergy17.

Wesley stesso tracciò una mappa delle sue auctoritates patristiche nel 1777, pronunciando il sermone On Laying the Foundation of the New Chapel, near the City Road, London:
Questa è la religione della chiesa primitiva, dell’intera chiesa nella più pura delle epoche [...]. È chiaramente espressa anche (even) nel poco che rimane di Clemente Romano, Ignazio e Policarpo. La si ravvisa, in modo più sommario, negli scritti di Tertulliano, Origene, Clemente Alessandrino e Cipriano. La si trova anche nel se- colo quarto, nelle opere di Crisostomo, Basilio, Efrem Siro e Macario. Non sarebbe difficile chiamare in causa un nugolo di testimoni che attestano la stessa ove mai questo argomento fosse contestato sia pure da una persona che abbia la più modesta familiarità con le antichità cristiane18.
Sono chiamati in causa testimoni del cristianesimo «in the purest ages»: Clemente Romano, Ignazio, Policarpo; poi gli africani Tertulliano e Cipriano; gli alessandrini Origene e Clemente e anche («even»), autori del quarto secolo (Crisostomo, Basilio, Efrem Siro, Macario). Questa concessione s’intende alla luce della convinzione di una generale decadenza della Chiesa a seguito della svolta costantiniana. Gli autori postcostantiniani sono infatti tutti asceti legati al movimento monastico. Wesley riteneva che in un contesto di generale secolarizzazione era proprio l’esperienza monastica che indicava la via più genuinamente cristiana, quella della “morte al mondo” e del rinnovamento delle vite in un percorso di perfezione cristiana.
Wesley ricorse a puntuali citazioni patristiche nel contesto della polemica con la Chiesa di Roma19. In A Roman Catechism Faithfully Drawn out of the Allowed Writings of the Church of Rome. With a Reply thereto20 la letteratura patristica è costantemente chiamata in causa a confutazione delle dottrine della Romish Church. Qui, infatti, Wesley ricorre ai seguenti autori, citandoli con accuratezza e con un preciso proponimento21:
90 Tertulliano: la sufficienza delle Scritture;
90-1 Agostino: contro le dottrine non desunte dalla Bibbia;
91 Cirillo: affinché ogni dottrina debba essere dimostrata sulla scorta della Bibbia;
92 Basilio: le Scritture come antidoto alle tradizioni umane;
92 Girolamo: l’esclusione degli apocrifi (deuterocanonici);
93 Crisostomo: ogni individuo ha diritto ad accedere direttamente alle Scritture;
93 Agostino: non bisogna proibire la lettura della Bibbia;
94 Agostino e Clemente Alessandrino: la Chiesa trae il suo insegnamento esclusivamente dalle Scritture;
98-9 Cipriano, Gregorio di Nazianzo ed Epifanio: sulla beatitudine di chi crede post mortem, contro il purgatorio;
100 Agostino: contro l’insegnamento del Limbus Patrum;
103 Ambrogio: solo Dio può ricevere le preghiere.
105 Origene: bisogna pregare Dio solo (e non vari altri mediatori);
107 Epifanio: contro le deviazioni del culto mariano;
109 Giustino: contro il culto delle immagini;
111 Agostino: contro il culto delle immagini;
118 Agostino, Origene, Tertulliano, Eusebio da Cesarea: sulla terminologia relativa alla Cena del Signore che non assevera la dottrina della transustanziazione;
124 Ambrogio: contro il potere sacerdotale di rimettere i peccati;
127 Agostino e Cipriano: sulla terminologia sacramentale per dimostrare che il matrimonio non è un sacramento;
128 Vincenzo da Lerino: il suo insegnamento sulla tradizione smentisce la dottrina della Chiesa di Roma.
Un carattere del tutto particolare presenta un suo scritto del 4 gennaio 1749: A Letter to the Reverend Dr. Conyers Middleton. Occasioned by His Late “Free Inquiry”. È un ampio saggio occasionato dallo scritto di questo ecclesiastico pervaso da spiriti razionalistici la cui tesi centrale era che Cristo non avrebbe compiuto nessun miracolo, e così i suoi apostoli; inoltre gli antichi Padri del- la Chiesa non avrebbero attestato l’esistenza di prodigi per l’età loro. Ne derivava un paradossale rovesciamento della tesi tradizionale secondo la quale la storia della Chiesa avrebbe conosciuto un progressivo processo di allontana- mento da un esordio glorioso: al contrario l’epoca della Chiesa antica sareb- be stata caratterizzata da confusione. L’autore agitava la sua tesi volendone trarre un’arma per impedire «the late increase of Popery in this kingdom». Se questo fine poteva sorridere a Wesley non poteva dirsi lo stesso degli argomenti che il Middleton invocava. Il nostro volle impegnarsi a scardinare il trattato del suo avversario basandosi su fonti scritturali e patristiche; proprio allora egli aveva terminato la sua traduzione dei Padri apostolici per la Christian Library e a questi testi gli fu facile attingere al fine di dimostrare il carattere carismatico e miracolistico del più antico cristianesimo22.
Perché l’insegnamento di Wesley sulla santificazione sembra convergere più con quello cattolico che con quello riformato? La risposta è piuttosto semplice: perché Wesley ha modellato la sua teologia e la sua esperienza non solo sulle Scritture ma anche su Padri della Chiesa i quali sono a monte anche delle formulazioni cattoliche.
Wesley volle riportare in auge «the religion of the primitive church, of the whole church in the purest age»23. Provava la correttezza delle sue dottrine sulla scorta delle Scritture e poi, ove necessario, invocava l’antichità di quegli
stessi insegnamenti come attestato di veridicità24. Quando andò formandosi la squadra dei suoi ministri di culto egli, nel suo Address to the Clergy del 1756, raccomandò lo studio dei “Padri” ritenendo che la lettura della Bibbia doveva essere inserita nel solco della loro tradizione esegetica. Egli parlava «chiefly of those who wrote before the Council of Nice», ma includeva poi i citati autori successivi: Crisostomo, Basilio, Girolamo, Agostino e, «above all the man of a broken heart», Efrem Siro. Aggiungeva, inoltre, raccomandandone lo studio ai ministri di culto, le opere di Girolamo e Ambrogio25
Il ricorso alla patristica era utile per illuminare pagine bibliche di non agevole interpretazione ma valeva anche come conferma della bontà di alcune dot- trine, come attestazione di ciò che non era detto nella Bibbia ma che neanche da questa era condannato, come conferma di tratti identitari del metodismo26. Il tema è svolto da Wesley nel suo The Advantage of the Members of the Church of England, over those of the Church of Rome dove accusa quest’ultima di essersi ribellata al principio secondo il quale ogni dottrina doveva essere provata dalla Scrittura; questa ribellione avrebbe poi indotto a preferire la tradizione ecclesia- stica alla Bibbia. Wesley trovava parole di condanna anche per l’atteggiamento di gran parte dei protestanti riformati i quali guardavano dall’alto in basso quan- to era stato tramandato dall’antichità cristiana.
Wesley lesse i suoi “Padri” dapprima traendovi un’ispirazione edificante27; quindi per reperirvi le conferme alle dottrine che erano il cuore della sua missione28: la condizione di peccato che permane anche nel credente, l’azione della grazia che realmente riabilita, l’opera della santificazione come “perfezione cristiana”.
Clemente Alessandrino fu d’ispirazione per Wesley. Con questo autore il cristianesimo “ortodosso” emerse in Egitto dalle nebbie del II secolo durante il quale era prevalso lo gnosticismo. Gli gnostici, specie se di tendenza valentiniana, distinguevano vari livelli di professione cristiana, andando dal più semplice (ilico), attraverso un grado medio (psichico) fino a pervenire alla “perfezione” spettante a loro stessi, gli pneumatici. Clemente spogliò questa graduazione del suo carattere esoterico e parlò di cristiano “perfetto” in riferimento all’opera di redenzione, santificazione e ammaestramento operata da Cristo e dallo Spirito nel credente.
Wesley, a Oxford, ebbe tra i suoi maestri quel dotto vescovo John Potter che, nel 1715, aveva curato l’edizione dell’opera omnia di Clemente Alessandrino. L’ideale di un cristiano “perfetto”, che Clemente aveva esposto principalmente negli Stromata, era musica per le orecchie di Wesley: le tappe della vita cristiana gli sembravano tracciate e culminavano nell’esperienza dello “gnostico”, redento dalla grazia, plasmato dallo Spirito e illuminato da una conoscenza che era, anche e principalmente, acquisizione per esperienza capace di indurre cambia- mento: una teoria che comprendeva tutte le facoltà dell’anima.
Per valutare il rapporto tra Wesley e Clemente ci gioviamo di due testi del 1739. Il primo è una poesia, On Clemens Alexandrinus Description of a Perfect Christian, inclusa poi nella raccolta di Hymns and Sacred Poems. V’è poi il trat- tato The Character of a Methodist. Qui il ritratto del credente metodista ricalca quello del cristiano “gnostico” di Clemente, specialmente come delineato negli Stromata. Wesley stesso lo confessa annotandolo il 5 marzo del 1767 nel suo Journal quando dice di aver attinto dal settimo libro dell’opera dove si contrappone allo gnostico eretico, gonfio di presunzione, quello che è cristiano, la cui conoscenza riguarda Dio ed è compiuta nel cuore. Egli stesso ammise però che successivamente dovette prendere le distanze dall’impostazione ellenistica e intellettualistica dell’Alessandrino29. Molti anni dopo, nel 1767, scrivendo all’editore del Lloyd’s Evening Post, Wesley espresse la sua ammirazione per Clemente lasciando però nello stesso tempo comprendere i limiti della stessa:

Five or six and thirty years ago much I admired the character of a perfect Christian drawn by Clement Alexandrinus. Five or six and twenty years ago a thought came into my mind of drawing such a character myself, only in a more scriptural manner, and mostly in the very words of Scripture30.
Non tutto poteva essere accettato dall’Alessandrino che perseguiva un dise- gno apologetico rivolto ai pagani acculturati e presentava la ricerca dell’uomo prima di Cristo come un percorso illuminato dal Logos che era Cristo. In questo ampio affresco la filosofia greca era teatro dell’azione del Logos protrepticos. Poi v’era l’azione del Logos paedagogus e quindi del Logos dida- skalos. Insomma, le tre tappe esposte nel trittico di Clemente: PedagogoPro- trepticoStromata: bisognava recuperare la lezione di Platone e l’etica degli stoici. Ma Wesley non aveva l’esigenza apologetica di Clemente. Per lui quel paganesimo filosofico era un tentativo dell’uomo di acquisire una qualche idea di Dio, un tentativo impossibile a causa dell’innata generale corruzione dell’uomo per cui di Dio si poteva parlare solo in sede di rivelazione scrit- turale. Inoltre un processo di maturazione del credente attraverso l’esercizio della virtù e lo spogliarsi dalle passioni era inaccettabile poiché sembrava ledere la gratuità della grazia.
Agostino d’Ippona è stato forse l’autore più citato da Wesley. Ne ammirava il tormento interiore anche se non esitò a denunciarne il carattere polemico, passionale e ipercritico verso i suoi avversari, come nel caso di Pelagio. Così leggiamo nel suo sermone del 178431 The Wisdom of God’s Counsels. Particolarmente acuto è il rilievo secondo il quale la polemica contro Pelagio avrebbe contribuito a caratterizzarlo negativamente attribuendogli l’insegnamento secondo il quale le buone opere avrebbero procacciato la salvezza di chi le compiva.
I Padri postniceni frequentati da Wesley sono stati esclusivamente autori monastici che, in un periodo di generale declino della spiritualità cristiana, era- no impegnati a condurre gli asceti, cioè chi già era credente, verso sempre più alti livelli di perfezione. Gli elenchi di vizi e delle tentazioni, le drammatiche lotte tra la vecchia natura e l’immagine di Dio davano l’idea dell’urgenza di un’opera di ulteriore purificazione per grazia. Ecco perché le Omelie di Macario32 e gli scritti di Efrem Siro occuparono posti di riguardo nella biblioteca patristica del nostro.
Nelle pagine del primo erano chiari due concetti fondamentali per Wesley: 1.era necessaria un’azione dello Spirito che avesse rimosso il peccato che affliggeva il credente; 2. tale peccato era da intendersi come un orientamento del cuore. Il recupero di queste due premesse costituiva la base per quella che sareb- be stata la dottrina e l’esperienza della perfezione cristiana. Inoltre l’impianto metodista acquisiva così un carattere di ampia “ecumenicità” includendo l’insegnamento di un Padre della Chiesa orientale. Wesley non recepì passivamente quanto leggeva nelle Omelie. Qui il fine dell’opera divina è la theiosis (o apothe- iosis, in italiano: indiamento), cara alla mistica orientale, estranea alla spiritualità protestante. Essa, in termini semplici, è una graduale partecipazione alla natura di Dio che ha come esito la restaurazione della condizione adamitica prima della caduta, anzi ancor più di ciò: una vera e propria divinizzazione dell’uomo. Que- sto termine “tecnico” non passò nel lessico di Wesley il quale, per esprimere la sostanza di tale esperienza, ricorse al più biblico “santificazione”. Ebbe fortuna, invece, l’altra designazione macariana di coloro che sono santificati: i “battezzati di Spirito santo”33, una definizione che Wesley, pur non ricorrendovi, incluse nella sua edizione delle omelie di cui diremo tra poco. Questo approccio critico e selettivo di Wesley si palesa anche nei tagli che egli operò a quelle pagine di Macario nelle quali si parlava delle buone opere e degli sforzi dell’asceta come strumenti d’acquisizione della grazia. Qui il riformatore evangelico si attenne al sola fide. Wesley fece propria di Macario la denunzia del peccato nel credente e l’esigenza di eliminarlo, ma a ciò fece seguire una soluzione evangelica in linea con la Riforma34.
Wesley pubblicò buona parte delle Omelie di Macario nel primo volume della sua Christian Library35. Nella prefazione egli esplicitò le sue idee su questo testo selezionando ciò che gli sembrava in sintonia con il Vangelo: l’interiorità della ricerca e della presenza di Dio, lo zelo nel ricercare questa presenza ed esse- re conformi a Cristo e poi il carattere concreto e quotidiano di tale esperienza, insomma la vittoria sul mondo! Buona parte delle convinzioni di Macario, però, fu lasciata dov’era e non ha alterato il tracciato evangelico della via salutis configurato da Wesley36 che apprezzò l’ammaestramento di Macario sulla necessità di farsi modellare dallo Spirito vincendo l’uomo vecchio, ma lo trasse fuori dalle solitudini dell’antico Oriente cristiano e lo collocò nel bel mezzo dell’affollata società inglese dell’epoca sua.
Nel corpus delle Omelie attribuite a Macario si è voluto rilevare, sulla scorta degli studi di Werner Jaeger, l’incidenza della teologia di Gregorio di Nissa; da qui il dibattito sull’influenza di questo cappadoce su Wesley in tema di santificazione. È la nota tesi di un autorevole studioso quale Albert Cook Outler37 oggi però ampiamente contestata38. Questo, in realtà, fu uno dei Padri più vicino a Wesley, sia tramite un’influenza indiretta sia tramite la fruizione diretta di al- cune sue opere. Concludiamo elencando con Ted A. Campbell39 cinque eredità dell’antico monachesimo che Wesley seppe apprezzare e far proprie:
1.la santità come conquista, acquisizione reale che Wesley desiderò rende- re traguardo raggiungibile a chiunque fosse disposto a ricevere quest’opera della grazia;
2.la vita religiosa intesa come ricerca della perduta immagine di Dio;
3.la concezione di una comunità di credenti disciplinata;
4.l’interesse per un’analisi delle “infermità” spirituali connessa alla “terapia” delle stesse;
5.il concetto stesso e l’esperienza di un processo di maturazione definito “perfezione cristiana”.

Gli “eredi” di Wesley: metodisti, chiese di santità, pentecostali
La predicazione di Wesley fu la riscoperta di due dottrine ed esperienze della primitiva cristianità: la conversione come “nuova nascita” e la dottrina della perfezione cristiana definita da Wesley stesso la ragion d’essere del suo movimento, il “Grand depositum for wich Methodists were chiefly raised up”.
Parleremo con proprietà di metodismo/metodisti solo in presenza dei due sopracitati elementi dottrinali ed esperienziali. Né è corretto affermare che queste siano da considerarsi le caratteristiche del solo primitivo metodismo poiché i mutamenti sopraggiunti le rendono ora obsolete. Se è vero, come è vero, che la santificazione secondo Wesley non è invenzione metodista ma “grande deposi- to” sin dalla primitiva cristianità e, prima ancora, dalle pagine stesse del Nuovo Testamento, possiamo allora concludere che abbandonare questa dottrina e questa esperienza significa atrofizzare le radici che alimentano la Chiesa. Il negligere la santificazione, o anche il farla coincidere con un sia pur encomiabile impegno di tipo sociale significa non solo non intendere la propria identità, ma dilapidare un patrimonio da vivere e da trasmettere.
Wesley desiderò che a guida del movimento sorto sull’onda della sua predicazione avrebbe dovuto impegnarsi John William Fletcher (1729-1785), uno svizzero di origini ugonotte trapiantatosi in Inghilterra. La motivazione poggia- va sulla santità dei costumi e sull’ortodossia del suo insegnamento, elementi che emergono dalla biografia che Wesley gli dedicò. Il desiderio di Wesley s’infranse a causa dell’inaspettata morte del Fletcher, ma costui può considerarsi non solo il teologo sistematore del pensiero di Wesley ma anche il vero ponte di collegamento tra questo e le successive sue fruttificazioni, in particolare quella che sarebbe stata, in America, l’esperienza delle chiese di santità e dei movimenti pentecostali40. Fu Fletcher a definire l’esperienza della santificazione (perfezione cristiana, seconda opera della grazia etc.) con l’espressione biblica “battesimo di Spirito santo”:

Lastly: if we will attain the full power of godliness, and be peaceable as the Prince of Peace, and merciful as our heavenly Father, let us go on to the perfection and glory of Christianity; let us enter the full dispensation of the Spirit. Till we live in the pentecostal glory of the Church: till we are baptized with the Holy Ghost: till the Spirit of burning and the fire of Divine love have melted us down, and we have been truly cast into the softest mould of the Gospel: till we can say with St. Paul, “We have received the Spirit of love, of power, and of a sound mind” till then we shall be carnal rather than spiritual believers41.

Anche se l’espressione “battesimo di Spirito santo” per indicare una “crisi” successiva alla giustificazione e rientrante nel percorso di santificazione è tipica del lessico di Fletcher, notiamo che Wesley pensò a costui come suo successore proprio negli anni in cui egli sistemava teologicamente, predicava e praticava la dottrina del battesimo di Spirito santo: erano gli anni che van- no dal 1770 al 1778, quando più forte montava la polemica con i riformati di tradizione calvinista e, pertanto, più bisognava essere attenti all’esposizione dottrinale.
Durante l’Ottocento la dottrina wesleyana dell’intera santificazione continuò a essere carattere distintivo e irrinunciabile del popolo detto metodista. Tuttavia in questo periodo registriamo due fenomeni che devono essere presi in considerazione contestualmente: 1. il numero dei membri di Chiesa che aveva- no chiara consapevolezza della dottrina e che potevano parlare dell’esperienza dell’intera santificazione come di un evento della loro vita vissuta andava gradualmente riducendosi; 2. questo patrimonio dottrinale ed esperienziale infiammava la spiritualità e diventava articolo di fede di gruppi che originariamente al metodismo erano estranei.
Possiamo individuare un’attenzione verso la seconda opera dello Spirito in due distinti movimenti che hanno origine negli Stati Uniti: 1. il Movimento di Santità nato negli anni trenta dell’Ottocento; 2. il Movimento pentecostale nato
nel primo decennio del Novecento. L’uso del singolare è quanto mai improprio nell’uno come nell’altro caso poiché si è trattato di una pletora di figure e congregazioni di cui qui non è il caso di tentare una configurazione. Emerge un dato chiaro: la culla di tutto ciò è costituita dal metodismo.
I coniugi metodisti Phoebe e Walter Palmer, a New York, iniziarono nel 1835 i Tuesday Meetings. Contemporaneamente il rev. metodista Timothy Merritt pubblicava a Boston il suo periodico Guide to Christian Perfection. L’anno dopo nell’Ohio il teologo Asa Mahan (1799-1889) fondava l’Oberlin College che sarebbe stato pulpito per la dottrina della perfezione cristiana così come dell’integrazione tra bianchi e negri. Nascono le chiese dette “di santità” poiché pongono la dottrina della seconda opera della grazia, come codificata da Wesley, a fondamento della loro stessa esistenza.
L’esperienza dello Spirito, che visita chi è già credente, tornò a scuotere la cristianità americana ai primi del Novecento. Nel 1901 il metodista Charles Parham (1873-1929) a Topeka, nel Kansas, presso il suo Betel Bible College, rivisse l’esperienza di Pentecoste, corredata dal segno delle lingue, come in Atti 2. Nel 1906, un predicatore di colore, William J. Seymour (1870-1922), si distaccò dal suo gruppo e a Los Angeles diede luogo all’Azusa Street Revival: la seconda ope- ra della grazia si manifestò anche qui con le lingue. Nacque così il Movimento pentecostale che ben presto sarebbe traboccato dai pur ampi bacini originari del metodismo: la North Avenue Full Gospel di William Durham (1873-1912) fu un nuovo pulpito per la dottrina del battesimo di Spirito santo, e questa volta a farsi avvocato dell’esperienza era un riformato.
Semplificando al massimo: i due movimenti sono legati da un filone di con- tinuità pur se sono distinti da varietà di atteggiamenti; ambedue traggono la loro ragion d’essere dalla dottrina di una seconda visitazione dello Spirito che è insegnamento wesleyano. Il primo pone l’enfasi sull’opera di purificazione del cuore e utilizza il lessico di Wesley. Il secondo, pur non trascurando il lavoro del- lo Spirito nel credente, fa proprio, come suo segno distintivo, il parlare in lingue.
Rileviamo che quanto si pubblica e si divulga oggi su questi temi è prodotto principalmente dalle chiese di santità laddove le denominazioni metodiste “ufficiali” sembrano mettere il tutto in seconda fila. Nel mondo pentecostale l’eredità wesleyana è viva e vegeta in quanto vissuta e costituisce, per così dire, una spina dorsale teologica che però l’osservatore esterno non sempre apprezza a prima vista poiché la sua attenzione è assorbita dal fenomeno della glossolalia che ruba la scena. Da parte del credente pentecostale, la consapevolezza di questa eredità teologica è sovente mancata a causa vuoi del carattere popolare del movimento vuoi dell’enfasi sul segno esteriore delle lingue che agisce da elemento identitario. Ma il porre l’enfasi sul segno piuttosto che sulla realtà interiore è nettamente criticato dalle più avvedute guide del movimento per le quali, in linea con Wesley, l’opera dello Spirito ha valore prima di tutto nella sostanza profonda del suo essere e secondariamente nelle manifestazioni indotte.
Asserire che il Movimento pentecostale non abbia una sua spina dorsale teologica significa commettere errore di valutazione; significa ignorare le pagine di storia della teologia e della pietà cristiana sopra ricordate. Eppure sovente si considera il pentecostalismo come una forma di emotività a tratti convulsa42 la quale potrebbe sposarsi con qualsivoglia tradizione di pensiero cristiano; si ritiene insomma che esso si esaurisca in una sorta di frammentaria empiria spirituale. La teologia che sta alla base dell’identità pentecostale non può considerarsi un boccale vuoto che indifferentemente possiamo riempire alle fontane di qualsivoglia corrente di pensiero protestante, né si risolve in una mera azione di riscatto sociale di classi subalterne.
Quattro anni di lavori della Wesleyan/Pentecostal Consultation hanno prodotto un ampio volume43 a più voci la cui tesi centrale coincide con quanto sopra enunciato: il radicamento del pentecostalesimo nella teologia wesleyana. Studiosi di diversa competenza avevano già indicato nei movimenti pentecostali quel che rimane oggi della più autentica dottrina e pratica wesleyana. È il parere espresso dallo storico David Hempton44, dal teologo Frederick Dale Bruner45, dal sociologo David Martin46. Dunque va giudicata con molta cautela la tesi del pentecostalesimo come “quarto protestantesimo”47 contro la quale F. Toppi ha reagito affermando che questo affonda invece le sue radici nei tradizionali movimenti evangelici di risveglio e specificando poi la derivazione storica e teo- logica del pentecostalesimo, e in particolare delle Assemblee di Dio in Italia, dal risveglio metodista48. G. Beretta (1853-1923), un pioniere del pentecostalesimo italiano, si convertì e servì per lungo tempo quale predicatore in una Chiesa metodista negli usa49. Nello stesso tempo mi sembra destituito di fondamento il tentativo di P. P. Pinson di sottrarre la teologia fondante delle neonate Assem- blies of God in America alla “genealogia spirituale”50 che le collega alla tradizione wesleyana: quanto da costui scritto nel suo The Finished Work of Calvary51, infatti, non cancella il fatto evidente che il “battesimo di Spirito santo” è una puntuale seconda opera della grazia di Dio susseguente alla conversione.

E in Italia?

Alle origini del metodismo in Italia troviamo: 1. il desiderio di portare al di qua delle Alpi la dottrina e l’esperienza di Wesley inclusa la perfezione cristiana; 2. l’impegno a ricondurre gli italiani alle scaturigini del Vangelo, sforzo inteso anche come tentativo di combattere l’“apostasia” della Chiesa di Roma.
Non era facile mantenere l’equilibrio tra queste due anime che potremmo definire semplificando approssimativamente “spiritualista” e “sociale”. L’interesse del mondo inglese verso il Risorgimento e Porta Pia fu incisivo sull’azione metodista, come dimostrano gli studi di G. Spini52. Lo zelo proselitistico di non pochi ex sacerdoti cattolici53 divenuti predicatori metodisti fu caratterizzato da una vistosa filigrana anticlericale. Ciò contribuì ad alimentare l’accoglienza che la Libera Muratoria riservò a numerosi pastori metodisti e spiega anche perché costoro si siano trovati a loro agio tra le colonne del tempio massonico. Ne derivò il fenomeno definito da Giuseppe Gangale del “masson-evangelismo” che non approdò a derive relativistiche e non agì da remora ai fini dell’impegno missionario evangelistico che anzi sempre sorresse. La Massoneria italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento era modellata su quella francese, pervasa di spiriti repubblicani e socialisti, attardata al seguito della cultura positivistica. I ministri di culto metodisti che si fecero iniziare giovarono, per quanto possibile, a “correggere” queste tendenze irrituali e preferirono la più ortodossa sintonia con la Massoneria britannica che vigilava affinché “stupidi atei e libertini” non inquinassero il carattere teista e sostanzialmente protestante del sodalizio, coerentemente con i suoi statuti e regolamenti originari54.
Sembra un po’ troppo radicale l’affermazione di Valdo Vinay secondo la quale le ragioni teologiche del metodismo non avevano molto senso nell’Italia risorgimentale e gli italiani mai le compresero. Stando alla documentazione disponibile è un errore pensare che il metodismo italiano abbia lasciato oltre- manica l’insegnamento wesleyano dell’intera santificazione e si sia dedicato sin da subito esclusivamente a opere sociali e battaglie di tipo politico. Certamente quest’ultima sensibilità si sarebbe andata gradualmente affermando, talvolta an- che a scapito dell’identità del popolo metodista, ma così non fu all’inizio e per lunghi decenni.
Per conoscere l’animo del rev. William Arthur, che nel 1859 fu mandato in Italia a inaugurare il lavoro evangelistico per conto della società missionaria metodista di Gran Bretagna, si legga il suo The Tongue of Fire: Or the True Power of Christianity scritto nel 1856 dove la pienezza dello Spirito (secondo Wesley) era considerata una caratteristica del cristiano da sperimentare come corredo ordinario della sua esperienza di fede. Non era solo questione di dottrina. Nel 1863 un anonimo trattatello, partorito in ambienti delle Chiese dei fratelli55 con il titolo Principii della Chiesa Romana, della Chiesa Protestante e della Chiesa Cristiana, bersagliava i metodisti per la «loro strana dottrina della perfezione cristiana, co’ loro sospiri, e con un esteriore che può prendere nella rete qualche cristiano debole»56. L’insegnamento di Wesley era elemento fondamentale per la Chiesa che si voleva modellare, e ciò spiega la priorità di pubblicare i Ventidue sermoni di Wesley da parte del comitato missionario riunitosi nel luglio del 1868 a Parma.
Nel 1888 giunse in Italia dagli Stati Uniti il missionario Everett S. Stackpole con un mandato a occuparsi tramite una scuola teologica della formazione dei pastori secondo l’identità wesleyana. Due anni dopo fu tradotto e dato alle stampe per un’ampia diffusione il testo più significativo per un metodista: La perfezione cristiana di Wesley. Ecco le sue parole di raccomandazione nella pre- fazione le quali attestano il pensiero wesleyano classico e sembrano tratte da un appello pentecostale:
Ed ora a tutti gl’Italiani che vorrebbero essere imitatori di Giovanni Wesley, siccome egli lo era di Cristo, ed a tutti coloro che desiderano la santificazione dello Spirito, il battesimo della Pentecoste, il rivestimento della virtù dall’alto, l’amore perfetto o la perfezione cristiana (perciocché tutti questi termini vogliono dire la stessa cosa), dedichiamo questa traduzione [...]57.
Il “Grand Dessein” del soprintendente metodista episcopale William Burt58comprendeva la realizzazione di una Chiesa evangelica “di massa” da con- trapporre al cattolicesimo, l’edificazione di templi attraenti, un’azione formativa atta a penetrare nei ceti più agiati e influenti, ma non escludeva l’insegnamento della perfezione cristiana. Ne abbiamo prova dai programmi della scuola diretta dallo Stackpole e dalle raccomandazioni reiterate dello stesso Burt: la “disciplina” che i pastori italiani erano chiamati a metabolizzare non era solo un testo autorevole negli Stati Uniti, ma aveva il suo pregio poiché comprendeva la dottrina e la pratica dell’evangelizzazione e della santificazione come base per la vita cristiana. Burt parlava di accettare le nostre dottrine, i nostri metodi, le nostre istituzioni, la nostra letteratura. Gli ardori risorgimentali erano alle spalle: rimaneva lo spirito e l’identità wesleyana; a chi erroneamente lo accusava di americanizzare la Chiesa il Burt rispondeva che si trattava di essere coerenti con la denominazione che si portava. Il vescovo Walden, presiedendo la decima Conferenza della Chiesa nel 1891, ammoniva i pastori subordinando il successo della loro missione alla conoscenza e all’esperienza di quel che è il tratto più caratterizzante e irrinunciabile del metodismo: «Non conosco nessun insegnamento nostro che non possa convenire ai bisogni del popolo italiano, ed è appunto per l’ignoranza sua di alcune dottrine speciali, come quella della santificazione della certezza della personale salute, che egli non è in migliori condizioni religiose e morali»59.
Si leggano inoltre le numerose pagine dedicate all’opera dello Spirito santo nel credente come seconda opera della grazia nel volume di M. Hughes tradotto come Principi fondamentali del cristianesimo60. L’autore fu dal 1921 al 1937 il primo rettore della Wesley House di Cambridge. Questa importante istituzione accademica era stata realizzata nel 1921 da un napoletano d’adozione: Michael Gutteridge, agiato commerciante di stoffe scozzesi, pio credente metodista che a Napoli si era trasferito per goderne del clima e per dar vita alla sua fiorente attività.
Oggi ravvisiamo nei sogni dei padri del metodismo italiano buona dose di utopismo; possiamo anche guardare dall’alto in basso il loro furore anticlericale, così possiamo meravigliarci del loro affollare i templi massonici, ma sta di fatto che il lavoro eroico di questi “padri” ha posto le basi di quel che è oggi buona parte dell’evangelismo italiano61. Ho motivo di credere che anche il mondo pentecostale italiano possa annodare qualche sua radice a questa età del metodismo italiano, e ciò sia dal punto di vista del terreno di coltura sia, più ancora, per quanto riguarda l’identità teologica che ha comune baricentro, per dirla con J. Fletcher, nel battesimo di Spirito santo.
Alla luce di tutto ciò desta meraviglia quella che mi sembra una lacuna nel dialogo tra valdesi, metodisti e pentecostali avviato nel 199862 e poi successiva- mente ripreso63. Il metodo con cui si è lavorato è ineccepibile: procedere dando spazio dapprima alle dottrine condivise, poi a quelle sulle quali si dissente sia pur senza divisione e finalmente a quelle dove la divergenza è più o meno radicale. Quanto attiene all’opera dello Spirito santo nel credente è stato fatto rientrare nella prima categoria64. Il documento a stampa che ne è derivato consiste in un denso accorpamento di citazioni bibliche che però manca di cogliere quella che è da considerarsi una base comune tra metodisti e pentecostali65; è infatti inspiegabilmente assente la dottrina della seconda opera della grazia, l’opera di purificazione del cuore narrata come perfezione cristiana (Wesley) o come battesimo di Spirito santo che conferisce potenza (Fletcher, pentecostali)66.
Quanto al pentecostalesimo italiano direi che esso non è stato sfiorato per niente dalla controversia che in America contrappose intorno al 1911 due visio- ni del processo di santificazione: la prima, prettamente wesleyana, di un’opera della grazia articolata nei momenti della giustificazione, della santificazione e del battesimo di Spirito; l’altra, enfatizzata da predicatori d’origine riformata, che poneva la santificazione al momento della giustificazione e poi l’esperienza del battesimo in Spirito. Sostenitore di quest’ultima posizione (detta “Finished Work”) fu quel William Durham67 (1873-1912) che tanta parte ebbe nella con- versione di L. Francescon (1866-1964)68, pioniere del pentecostalesimo in Italia. Quest’ultimo non si pronunciò mai sulla “Finished Work Controversy”: gli sarebbe stato difficile se si pensa che il Durham morì poco dopo l’inizio della controversia; egli stesso ebbe stoffa di evangelista piuttosto che di teologo sistematico. Si pensi, inoltre, che «il movimento pentecostale italiano ha la caratteristica di non aver subito alcuna influenza straniera... Il Movimento ebbe sin dal principio una sua fisionomia ben precisa»69. Sta di fatto che lo statuto dottrinale delle Assemblee di Dio, il più rilevante gruppo pentecostale italiano, colloca l’esperienza del battesimo dello Spirito santo in un momento distinto e successivo da quello della rigenerazione, rendendola una tappa di un seguente e progressivo processo di santificazione. Siamo in pieno clima wesleyano e metodista!70

A mo’ di conclusione
La controversia anticattolica dei metodisti italiani dell’Ottocento grondava di citazioni patristiche. L’argumentum patristicum era lo strumento ideale per confutare il cattolicesimo con le sue stesse armi. Le loro pagine sembrano sviluppare quanto Wesley aveva scritto nella sua confutazione del Roman Catechism71.
Rimaneva però la volontà di collegarsi al patrimonio patristico comune ai seguaci di Gesù. Poi il protestantesimo italiano, quello “storico”, avrebbe abbandonato l’interesse per la letteratura e la storia della cristianità antica concentrandosi esclusivamente sui temi della Riforma e della modernità teologica72.
Concludendo: Wesley non ebbe sensibilità ecumenica; non avrebbe potuto averla poiché la categoria di “ecumenismo” non esisteva ancora. Tuttavia, la presenza di autori cristiani antichi, le cui opere sono un patrimonio della cristianità indivisa, costituisce un sicuro fondamento di ecumenicità genuina. Ciò può dirsi vero specialmente per la dottrina e l’esperienza della santificazione, patrimonio della Chiesa antica e indivisa che avvicina l’insegnamento metodista a quello cattolico fatte salve le differenze profonde.
Il movimento metodista è stato fecondo. La sua pneumatologia ha fondato l’esperienza (e la teologia) delle chiese di santità come del pentecostalesimo. Grazie a questa linea genealogica anche questi ultimi movimenti hanno acquisito (con diverso grado di consapevolezza) una componente “patristica” che può farsi valere quale fondamento ecumenico nel solco della “fede insegnata una volta e per sempre ai santi”.
* Università degli Studi di Napoli L’Orientale

NOTE
1.Cfr. G. Rinaldi, Le fonti per lo studio delle eresie cristiane antiche, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2015.
2.Gli scritti di Wesley sono qui utilizzati secondo la seguente edizione: The Works of the Rev. John Wesley, 14 voll., a cura di Th. Jackson, 3rd edition, London 1829-31 (rist. 1872), rist. anastatica Baker Book House, Grand Rapids (mi) 1978. Le citazioni sono pertanto rese con la sigla WW, numero del volume e indicazione delle pagine.
3.WW v, pp. 492-504.
4.WW x, pp. 173-5.
5.Cfr. G. Cereda, L’opera dello Spirito Santo nella santificazione del credente. La Pneu- matologia di John Wesley, Ex Libris, Palermo 2012, pp. 9, 16 ss.
6. Cfr. R. C. Monk, John Wesley: His Puritan Heritage, Epworth Press, London 1966.
7.T. A. Campbell, Wesley e i Padri della Chiesa, in F. Cavazzutti Rossi (a cura di), La santificazione nelle tradizioni Benedettina e Metodista, Il Segno, San Pietro in Cariano 1998, pp. 53-71. Sui rapporti tra Wesley e i Padri della Chiesa (occidentali e orientali) sul tema della santificazione cfr. anche Cereda, L’opera dello Spirito santo, cit., pp. 77-91.
8.Cfr. il classico di R. N. Flew, The Idea of Perfection in Christian Theology: An Histor- ical Study of the Christian Ideal for the Present Life, Oxford University Press, Oxford-London 1934.
9.Cfr. R. Maddox, John Wesley and Eastern Orthodoxy: Influences, Convergences and Differences, in “The Asbury Theological Journal”, 45, 2, 1990, p. 30.
10.Ad esempio W. Reeves, The Apologies of Justin Martyr, Tertullian, and Minucius Felix in Defence of the Christian Religion, London 1709, p. 3.
11.Questo sentimento ancor più si palesava in altre due sue realizzazioni riguardanti le vite esemplari dei cristiani vissuti prima di Costantino (Apostolici) e dopo questo imperatore (Ecclesiastici). Da qui, forse, l’idea più volte ripetuta da Wesley della svolta costantiniana come fattore di corruzione che fece da spartiacque nella storia della Chiesa.
12.T. A. Campbell, John Wesley and Christian Antiquity: Religious Vision and Cultural Change, Kingswood, Nashville 1991, p. 13.
13.Cfr. infra, nota 18.
14.E. Stillingfleet, Irenicum: A Weapon Salve for the Churches’ Wounds or the Divine Right of Particular Forms of Church Government, London 1659.
15.Cfr. J. Wesley, The Mystery of Iniquity, in WW vi, p. 261.
16.Come starà a dimostrare la magistrale biografia di questo imperatore che nel 1853 lo svizzero Jacob Burckhardt diede alle stampe.
17.J. Wesley, The Mystery of Iniquity, in WW vi, pp. 261-2. Lo stesso giudizio nel sermone 89 The More Excellent Way, 1 (= WW vii, pp. 26-7); nel sermone 102 Of Former Times (= WW vii, pp. 163-4); nel sermone 115 The Ministerial Office, 8 (= WW vii, p. 276).18.WW vii, p. 424.
19.Sugli aspetti teologici dell’anticattolicesimo di Wesley cfr. Cereda,L’opera dello Spirito santo, cit., pp. 27 ss.
20.WW x, pp. 86-128.
21.La prima cifra di ogni linea rimanda alla pagina secondo l’edizione citata.
22.Cfr. T. A. Campbell, John Wesley and Conyers Middleton on Divine Intervention in History, in “Church History”, 55, 1, 1986, pp. 39-49.
23.Cfr. supra, nota 18.24.Ad esempio nella controversia con Conyers Middleton; cfr. J. Wesley, WW x, pp. 59-65, 76.
25.WW x, p. 484.
26.Cfr. Campbell, John Wesley and Christian Antiquity, cit., p. 111.
27.«Ho letto Macario ed ho pianto», annotava Wesley nel suo Journal riferendosi agli anni giovanili.
28.E che egli aveva ricavato non dalla patristica bensì dalla Scrittura e dalla sua stessa esperienza.
29.J. Wesley, Letter to a Member of the Society del 30 novembre 1774, in WW xii, pp.
297-8.
30.J. Wesley, To the Editors of Lloyd’s Evening Post, in WW iii, p. 273.31.WW vi, pp. 328-9.
32.Non è il caso qui di affrontare il tema della genuinità del corpus delle Omelie spi- rituali attribuite a Macario l’Egiziano detto anche il Grande († 390 ca.) ma che, con più verosimiglianza, s’inseriscono ora tra le opere di Macario Simone (o anche Pseudo Macario), autore attivo nella prima metà del sec. v in area mesopotamica.
33.L’espressione, che sarà caratterizzante del lessico del moderno pentecostalismo, ricorre invece nelle opere di John Fletcher che, anche per questo aspetto, costituiscono un ponte tra metodismo e pentecostalismo.
34.Cfr. A. Snyder Howard, John Wesley and Macarius the Egyptian, in “The Asbury Journal”, 45, 2, 1990, pp. 55-60; Campbell, John Wesley and Christian Antiquity, cit., p. 62; J. K. Collins, John Wesley: A Theological Journey, Abingdon Press, Nashville 2003, p. 199.
35.Nel volume figuravano anche i testi, sempre in traduzione inglese, di Clemente Romano, Ignazio, Policarpo, del martirio di Ignazio e di Policarpo. V’era poi anche un’ampia antologia delTrue Christianity (Wahres Christentum) di John Arndt (1555-1621), teologo luterano prodromo del movimento pietista, e ciò non deve sorprenderci se solo pensiamo all’alta considerazione che questo teologo aveva per le Omelie pseudomacariane.
36.Così, ad esempio, una certa identificazione/confusione tra giustificazione e santi- ficazione; l’idea della perfezione come una continua progressiva ricerca appagata soltanto dopo la morte; l’individualismo della proposta monastica e il suo ricorso alle buone opere. Cfr. D. C. Ford, Saint Makarios of Egypt and John Wesley: Variation on the Theme of Santifi- cation, in “Greek Orthodox Theological Review”, 33, 1988, pp. 288-9.
37.A. C. Outler (ed.), John Wesley, Oxford University Press, New York 1964, pp. 9-10.
38.Cfr. R. Sheffield Brightman, Gregory of Nyssa and John Wesley in Theological Di- alogue on the Christian Life, Tesi, Boston University, 1969. Cfr. anche Yong Hwa Lee, Gregory of Nyssa and John Wesley’s Theological Dialogue on Christian perfection, Tesi, Concordia University, Montreal 2004.
39. Campbell, Wesley e i Padri della Chiesa, cit., pp. 64-70.
40.Cfr. L. W. Wood, The Meaning of Pentecost in Early Methodism: Rediscovering John Fletcher as John Wesley Vindicator and Designed Successor, Scarecrow Press, Lanham (md), Oxford 2002.
41.J. W. Fletcher, Checks to Antinomianism, London 1833, p. 356.
42.Qualificare il movimento pentecostale soltanto in base alla spinta emotiva e prescin- dendo dalla sua spina dorsale teologica significa, paradossalmente, agire in sintonia, sia pur in modo “politicamente corretto”, con la circolare ministeriale Buffarini Guidi del 1935 che giudicava il culto pentecostale basandosi sulle agitazioni di chi lo praticava.
43.Presso il Nazarene Theological Seminary di Kansas City; cfr. H. H. Knight iii (ed.), From Aldersgate to Azusa Street: Wesleyan, Holiness, and Pentecostal Vision of the New Creation, Pickwick, Eugene (or) 2010, spec. alle pp. 365-8. Inoltre cfr. R. J. Stephens, The Holiness/Pentecostal/Charismatic Extension of the Wesleyan Tradition, in R. L. Maddox, J. E. Vickers (eds.), The Cambridge Companion to John Wesley, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 262-81.
44.D. Hempton, Methodism: Empire of the Spirit, Yale University Press, New Haven 2005, pp. 208-9.
45.F. Dale Bruner, A Theology of the Holy Spirit, Eerdmans, Grand Rapids 1973, p. 37.
46.D. Martin, Pentecostalism: The World Their Parish, Blackwell, Oxford 2002, p. 167.
47.Così per M. Introvigne, La sfida pentecostale, Elledici, Torino 1996 e I Pentecostali, Elledici, Torino 2004, recependo gli assunti di R. Finke, R. Stark, The Churching in America, 1776-1990: Winners and Losers in Our Religious Economy, Rutgers University Press, New Brunswick (nj) 1992.
48.F. Toppi, Quarto protestantesimo?, in E. Stretti, Il Movimento pentecostale. Le As- semblee di Dio in Italia, Claudiana, Torino 1998, pp. 91-5 (originariamente nella rivista delle adi “Cristiani oggi”, 15, 1996); Id., E mi sarete testimoni. Sommario di storia del movimento pentecostale e delle Assemblee di Dio in Italia, adi-Media, Roma 1999, pp. 9-13.
49.Cfr. ivi p. 17, nota 27; ringrazio per questa precisazio- ne il past. E. Cardarelli il quale mi fa pure presente il collegamento tra metodismo-Charles Parham-movimento di Santità-pentecostalesimo.
50.L’espressione deriva dallo storico valdese Emilio Comba (1839-1904) ed è fatta pro- pria da F. Toppi per rivendicare l’afferenza del pentecostalesimo alla tradizione risvegliata di cui Wesley fu esponente, cfr. nota 49.
51.Cfr. V. Synan, The Holiness Pentecostal Movement, Eerdmans, Grand Rapids 1971, pp. 152-4.
52.Ad esempio Risorgimento e protestanti, Claudiana, Torino 1998, spec. il cap. vii su L’Inghilterra e il mito dell’Italia protestante. Cfr. inoltre T. Macquiban, L’atteggiamento della stampa metodista britannica verso l’Italia nel periodo precedente il 1862, in F. Chiarini (a cura di), Il Metodismo italiano (1861-1991), Claudiana, Torino 1997, pp. 47-54.
53.Si pensi, per citare solo alcuni pochi esempi, a Francesco Sciarelli, Giuseppe Mo- reno, Luigi Girone, Salvatore Ragghianti, Francesco Anelli, Donato Patucelli, Ferdinando Bosio etc.
54.Cfr. M. Novarino, Massoneria e protestantesimo, in G. M. Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Einaudi, Torino 2006, pp. 266-89.55.Vi si ravvisa, però, l’ispirazione del conte Guicciardini e la mano di Teodorico Pie- trocòla Rossetti, cfr. F. Chiarini, Storia delle chiese metodiste in Italia. 1859-1915, Claudiana, Torino 1999, pp. 26-7.
56.Ivi, p. 36.
57.La Perfezione cristiana del Rev. Giovanni Wesley tradotta dall’inglese, Barbera, Fi- renze 1890, p. 7. Testo edito successivamente in traduzione italiana da M. Rubboli, John Wesley, La perfezione cristiana, gbu-Claudiana,Chieti-Torino 2013. Utile l’antologia di venti sermoni di Wesley a cura di F. Cavazzutti Rossi, La perfezione dell’amore, Claudiana, Torino 2009.
58.Cfr. G. Spini, Il «Grand Dessein» di William Burt e l’Italia laica, in Chiarini (a cura di), Il Metodismo italiano (1861-1991), cit., pp. 109-20.
59.Cfr. Chiarini, Storia delle chiese metodiste, cit., p. 98, nota 7.
60.M. Hughes, Principi fondamentali del cristianesimo, trad. di E. Tagliatatela, Risve- glio, Roma 1932, pp. 163-262.
61.Per la generazione successiva a quella “risorgimentale” cfr. V. Benecchi, Guardare al passato, pensare al futuro. Figure del metodismo italiano, Claudiana, Torino 2011.
62.Valdesi, metodisti e pentecostali in dialogo. i. Presentazione di P. Ricca, Claudiana, Torino 2002 con quattro documenti rispettivamente relativi a: il dialogo (significato, moda- lità, struttura e scopi), la fede nel Dio trinitario, la fede in Gesù Cristo, la fede nello Spirito santo.
63.Valdesi, metodisti e pentecostali in dialogo. ii. Presentazione di P. Ricca, Claudiana, Torino 2010 con due documenti rispettivamente sull’ecumenismo e la Scrittura.
64.Valdesi, metodisti e pentecostali, cit., i, pp. 47-9.65.Come abbiamo visto evidenziato nella più recente e approfondita riflessione comu- ne tra metodisti e pentecostali, cfr. supra, nota 43.
66.Valga a prova di ciò l’analisi di P. Naso, «Dentro la trama delle vicende del Paese». Il metodismo nello spazio pubblico italiano (1975-90), in Id. (a cura di), Il protestantesimo nello spazio pubblico. Il contributo del metodismo, Carocci, Roma 2015, pp. 67-77, 85-99. Forse per- ché ora nel metodismo italiano quanto attiene alla riflessione identitaria sembra aver ceduto il passo a temi di analisi politica e a conseguenti scelte di campo.
67.Cfr. A. L. Clayton, The Significance of William H. Durham for Pentecostal Histo- riography, in “Pneuma. The Journal of the Society for Pentecostal Studies”, 1, 1979, pp. 27-8. Cfr. supra, nota 51, in merito a P. P. Pinson e alla fondazione delle Assemblies of God negli usa.
68.Cfr. F. Toppi, Luigi Francescon. Antesignano del Risveglio pentecostale Evangelico Italiano, adi-Media, Roma 2007.
69.F. Toppi, Caratteristiche, problemi, prospettive delle Assemblee di Dio, in Stretti, Il Movimento pentecostale, cit., pp. 82-3.
70.Cfr. S. Esposito, Un secolo di pentecostalismo italiano. Cenni sulle origini, le discus- sioni parlamentari, l’assetto contemporaneo delle Assemblee di Dio in Italia, s.l. 2015, p. 35.
71.Cfr. supra, nota 20.
72.Prova ne è, purtroppo, la scarsa attenzione didattica verso tali discipline antichistiche e la conseguente ridotta produzione in questi settori di quella che è la più nota istituzione formativa del protestantesimo italiano: la Facoltà Valdese di Teologia.