La povertà dell'eremita pervade interamente la sua anima e il suo corpo, così che alla fine tutto il suo patrimonio è l’insicurezza. Sperimenta il dolore e l’indigenza spirituale e intellettuale di chi è davvero povero. Questa è esattamente la vocazione eremitica, una vocazione all’inferiorità. È certo che vi è in essa un pizzico di follia. L’eremita rimane nel mondo come un profeta che nessuno ascolta, come una voce che grida nel deserto, come un segno di contraddizione. Il mondo non lo vuole perché egli non ha niente in sé che appartenga al mondo, e lui non capisce più il mondo. Neanche il mondo lo capisce. Ma questa è la sua missione, essere rifiutato dal mondo che, con quel gesto, rifiuta la spaventosa solitudine di Dio stesso.
Come ogni altro aspetto della vita cristiana, la vocazione alla solitudine può essere compresa solo nella prospettiva della misericordia di Dio verso l’uomo. La vocazione alla solitudine è quindi, nello stesso tempo, una vocazione al silenzio, alla povertà e allo svuotamento. Ma lo svuotarsi è in vista della pienezza: scopo della vita solitaria è, se si vuole, la contemplazione. Ma non la contemplazione nel senso pagano, di un’illuminazione intellettuale, esoterica, raggiunta attraverso una tecnica ascetica. La contemplazione del solitario cristiano è avere gli occhi spalancati sulla misericordia divina, che trasforma ed eleva il suo vuoto e lo converte nella concretezza di un amore perfetto, di una pienezza perfetta.
Vi sono sempre stati, e sempre vi saranno, delle persone che sono sole senza conoscerne bene la ragione. Sono condannate al loro strano isolamento dal temperamento o dalle circostanze, e vi ci sono abituate. Non è di esse che io sto parlando, ma di coloro che, avendo condotto un’esistenza impegnata e multiforme nel mondo, si lasciano alle spalle la loro vita di un tempo per andare nel deserto.
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Una tale vocazione, in genere, non è per i giovani. Non può sgorgare solamente da un fermento di idealismo o da una ribellione adolescenziale, dal semplice disgusto per gli atteggiamenti e i modi convenzionali del vivere. Ma arriva un momento in cui uno è proprio stanco di conservare le finzioni necessariamente presenti nella vita sociale. Capisce che non ne può più. Certo, chiunque sia fornito di buon senso vede, di tanto in tanto, in un momento di chiarezza, la follia e la superficialità dei nostri atteggiamenti convenzionali. Tutti possono sognare la libertà. Ma assumere la disarmata austerità del vivere in completa onestà, senza convenzionalismi e quindi senza sostegno, è tutta un’altra cosa. La vita solitaria è un’arida, aspra purificazione del cuore. Se un solitario dovesse un giorno trovare la propria strada, per grazia e misericordia di Dio, in un luogo deserto dove non è conosciuto, e se gli venisse concesso dalla pietà divina di vivere lì, e di rimanervi sconosciuto, egli forse potrà fare maggiormente del bene all’umanità come solitario, di quanto ne avrebbe mai potuto fare rimanendo prigioniero della società in cui viveva.
Il solitario che non comunica più con gli altri uomini se non per le necessità fondamentali della vita, è un uomo con una vocazione difficile e particolare. Per il resto del mondo egli perde immediatamente ogni valore. Eppure quel valore è grande. San Paolo dice: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28).
L’eremita ha un ruolo molto significativo in un mondo come il nostro, che ha degradato la persona umana e ha perduto ogni rispetto per la solitudine. Ma in un mondo cosiffatto, la vocazione dell’eremita e più terribile che mai. Agli occhi del nostro mondo l’eremita non è altro che un fallito. Deve essere un fallito: non abbiamo assolutamente bisogno di lui, non c’è posto per lui. È al di fuori di tutti i nostri progetti, programmi, movimenti, assemblee. Lo possiamo tollerare finché rimane una finzione o un sogno. Non appena diviene reale, siamo disgustati dalla sua insignificanza, dalla sua povertà, dalla sua trasandatezza. Anche chi si considera contemplativo, spesso nutre un segreto disprezzo per l’eremita. Perché nella vita dell’eremita non vi è niente di quella nobile sicurezza, di quella profondità intellettuale, di quella finezza artistica, che il contemplativo di professione cerca nella sua confortevole comunità. È la mancanza di utilità dell’eremita, il grande scandalo.
Dobbiamo ricordare che Robinson Crusoe fu uno dei grandi miti della borghesia, della civiltà commerciale del XVIII e XIX secolo: il mito non di una solitudine eremitica, ma di un individualismo pragmatico. Crusoe è una figura simbolica in un’era in cui la casa di ogni uomo era un castello, ma solo perché ogni uomo era un cittadino molto prudente e ingegnoso, che sapeva trarre il massimo da ogni situazione e condurre a proprio vantaggio un affare con qualsiasi concorrente. La solitudine a oltranza del vero eremita assume invece l’aspetto di una sconfitta amara: è un paradiso terrestre solo nell’immaginazione di coloro che sanno fare gli eremiti per alcuni giorni o per alcune ore, non di più. La chiamata alla solitudine perpetua è una chiamata alla sofferenza e all’annientamento.
L’eremita è unicamente e soltanto un uomo di Dio. Ecco perché l’eremita non parla. Compie il suo lavoro ed è paziente, ma ha una grande pace. Non è il genere di pace del mondo. Egli è felice, ma non si diverte mai. Sa dove sta andando, ma non è sicuro della sua strada, lo sa solo andandoci.
Tutto quel che possiamo dire di questa indigenza dell'eremita, non deve però farci dimenticare che egli è felice nella sua solitudine, perché ha persino cessato di considerarsi come un solitario. Egli semplicemente lo è. La sua solitudine è per lui l’ovvia realtà. Quando vi è davvero chiamato, la preferisce a qualsiasi altro paradiso terrestre. L’eremita rimane là per dimostrare, con la sua mancanza di utilità pratica e l’apparente sterilità della sua vocazione, che è un pellegrino, il testimone appartato di un altro regno. Totalmente Altro.
- Tratto da Thomas Merton, Un vivere alternativo, ed. Qiqajon Comuntà di Bose