Meglio soli? Sì, qualche volta anche per i cristiani è meglio essere soli: quando un forzato collettivismo sociale induce alla massificazione, per esempio; o allorché l’enfasi post-conciliare sulla comunità abbia come bruciato il fascino di un faccia a faccia con Dio; ma soprattutto se (e soltanto se) lo richieda un’insopprimibile vocazione. Eremiti. In Italia il fenomeno sembra in crescita. Un paio di mesi fa, alle esequie di un eremita, la diocesi di Cesena ha fatto sapere che il posto lasciato vuoto sarebbe rimasto vacante per poco, considerata la lista di richieste giacente in curia. E se Vittorio Messori azzardava nello Stivale l’esistenza di mille o duemila «eremiti metropolitani», nel senso di persone che vivono in solitudine per motivi religiosi e pur in un contesto urbano (proprio nell’ultimo numero il mensile Messaggero di Sant’Antonio ne ha intervistato uno – medico e sacerdote – che da 6 anni vive a Padova, a pochi passi dal centro), da parte sua Isacco Turina, professore all’università di Bologna, ha compiuto di recente un’indagine a campione che lo autorizza in modo più oggettivo (per quanto lo permetta un oggetto che di per sé sfugge i censimenti) a ipotizzare per la Penisola un numero «da 100 a 200 persone che possano definirsi eremiti cattolici a tempo pieno, vivendo da soli o a gruppi di due», oltre a un numero cospicuo di «novizi» o apprendisti. Turina ha iniziato la sua ricerca nel 2003 per la tesi di dottorato in sociologia, presentata l’anno scorso a Padova e dedicata appunto a «La conoscenza dell’eremita». Già è stato un problema trovarli e intervistarli, questi strani tipi: che sfuggono, si nascondono o comunque non gradiscono pubblicità, talvolta addirittura rifiutano il contatto. Il giovane studioso alla fine ne ha scovati una cinquantina (quasi tutti nell’Italia centro-settentrionale: e non perché al Sud non ne esistano, soprattutto in Calabria e Sicilia, ma per praticità di contatti), 37 dei quali hanno poi aderito alla sua proposta d’in tervista. Ne è uscita una sorta di attendibile identikit della fuga mundi del XXI secolo, con caratteri a tratti singolari. Anzitutto l’età: l’eremita moderno è persona matura, nel senso che la media si aggira sui 56 anni e in genere le vocazioni alla vita solitaria si definiscono tra i 35 e i 50 anni. La maggioranza fa poi risalire la sua scelta agli anni Novanta, quindi un’epoca relativamente recente: segno di una «progressione lenta ma indiscutibile» dell’eremitismo.
Le donne sembrano appena più rappresentate degli uomini, mentre la provenienza geografica dei candidati, se non sempre è urbana, non è quasi mai dalla provincia più profonda; con preferenza per Lombardia, Veneto e le aree intorno a Bologna e a Roma, più alcuni stranieri. «A rischio di sembrare caricaturale – annota Turina – mi permetto di affermare che gli eremiti sono gente di pianura», anche se poi spesso salgono sui monti. Il luogo di destinazione – in generale appunto piccoli paesi o siti di montagna (ma solo in 4 casi su 37 non esiste una carrozzabile per raggiungerli) – viene scelto in base alla presenza di «edifici abbandonati da adibire ad eremi» e anche alla disponibilità dei vescovi ad accogliere esperienze non sempre istituzionali. Infatti, se la maggioranza degli eremiti è consacrata (esiste per loro un’apposita norma del Diritto canonico, al numero 603), molti altri si legano solo con voti privati. Di solito le diocesi ospitanti od altri enti ecclesiastici forniscono pure l’abitazione, un appartamento o una canonica disabitata, e spesso i monaci ricambiano occupandosi della custodia e dell’apertura del santuario annesso; solo alcuni invece hanno un eremo personale, magari ristrutturato con le loro stesse mani. Un dato interessante (anche se volutamente non sviluppato nell’indagine) è il fenomeno di quelli che Turina definisce «eremiti a intermittenza»: persone cioè che stanno ancora testando la vocazione alla vita solitaria, magari dedicandovi le ferie o i week-end, oppure che non po ssono ancora permettersi di abbandonare l’attività lavorativa e aspettano magari la pensione (l’eremita-tipo si mantiene con piccoli lavori, in generale artigianato oppure attività redazionali). Fors’anche per questo, al momento i solitari “a vita” provengono «quasi sempre» da precedenti esperienze di vita consacrata: sui 35 intervistati da Turina, solo 5 hanno davvero vissuto da secolari; tutti gli altri sono stati parroci, missionari o comunque religiosi/e. Spesso si tratta di laureati (architetti, medici, un regista, uno scrittore, parecchi insegnanti), tanto da far pensare a persone di buona cultura e con tendenze artistiche, in genere provenienti «da impieghi nel terziario e nel sociale, cioè da quelle “nuove professioni” che richiedono buone capacità relazionali» e competenze aggiornate. E allora, perché lasciano il mondo? Per delusione o stanchezza? Turina osserva che indubbiamente tra gli eremiti di provenienza clericale si nota «un percorso di parziale affrancamento dalle strutture ecclesiastiche». Non sono cioè laici in cerca di una consacrazione, quanto piuttosto religiosi che soffrono di scarsa libertà nella Chiesa. C’è anche chi è passato da vari ordini o congregazioni, prima di orientarsi verso la solitudine, oppure ha vissuto parecchi trasferimenti o ancora ha già avuto diversi periodi sabbatici fuori dal convento: personalità inquiete o “in ricerca”, insomma. Ma fors’anche – nota lo studioso – vicine all’idea di flessibilità o al desiderio di farsi una “seconda vita” ormai affermato anche in ambito laico. Si possono distinguere infatti tra gli eremiti «fughe di rinuncia» e altre «di ricostruzione», o meglio ancora i due elementi misti nella scelta della medesima persona; resta comunque nella vita dei solitari un aspetto di «protesta implicita», sia contro l’attivismo ecclesiale sia verso la società.
Così come – d’altro canto – sussiste nella gerarchia una certa difficoltà a comprendere una vocazione religiosa nella quale non sia contemplato il mi nistero attivo. Anche se poi quasi tutti gli eremiti praticano l’ospitalità e sono disponibili al dialogo: spesso con altre persone «marginali» come loro, coppie in crisi, giovani un po’ sbandati, cristiani non praticanti nei cui confronti i moderni anacoreti svolgono una sorta di direzione spirituale, chi è prete magari anche la confessione. Perché se manca una rete di collegamento tra gli eremiti (in media ognuno ha contatti informali e molto sporadici con non più di 3 o 4 «colleghi»), però tra loro «sono rarissimi i casi di persone che rifiutano ogni contatto con gli altri». Ovviamente la preghiera è l’attività anche «sociale» prevalente; tutti raccontano delle numerose richieste di intercessione ricevute, uno rivela di aver collocato nel tabernacolo della sua piccola cappella un quaderno su cui annota i nomi di chi gli ha chiesto aiuto. Episodi che inducono il sociologo a propendere per la modernità dell’eremitismo: «Nonostante possa apparire come un fossile riesumato, esso è una vocazione ben intonata al mondo attuale e capace, in futuro, di notevole sviluppo in direzione di un “cattolicesimo d’Intensità”», destinato ad affiancare la pastorale «di massa». Insomma, ricominciare da uno.
- Roberto Beretta, Avvenire 28 maggio 2006