Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 17 febbraio 2019

La tregua

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SESTA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Colletta

O Dio, il cui unico Figlio si è manifestato per distruggere le opere del male e fare di noi i figli di Dio e gli eredi della vita eterna; concedici, ti supplichiamo, mediante questa speranza, di purificare noi stessi come egli stesso è puro; affinché quando apparirà di nuovo con potenza e grande gloria, possiamo essere trasformati come lui nel suo regno glorioso; dove con te, o Padre, e con lo Spirito Santo, vive e regna, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

1 Gv 3,1-8; Mt 24,23-31

La lettura di oggi rivela il senso ultimo della manifestazione di Gesù come il Signore, nonché l’atto finale di questo processo in cui la sua gloria divina si dispiega nella storia, a partire dal mistero dell'incarnazione. Il perché della sua manifestazione lo dice chiaramente Giovanni nella sua prima Lettera: “egli è stato manifestato per togliere via i nostri peccati” (1 Gv 3,5); ma anche “per questo è stato manifestato il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo”. 

L’atto finale dell'epifania di Cristo si compirà alla fine dei tempi, e ne offre una vivida descrizione Gesù stesso, le cui parole sono riportate da Matteo, che dedica due lunghi capitoli del suo Vangelo al sermone profetico, proposto in parte dalla liturgia odierna.

Scopriamo innanzitutto che la nostra storia ha un senso, una direzione, un polo di attrazione; non è il succedersi di eventi scollegati tra loro, sullo sfondo del ciclico ripetersi delle stagioni, degli anni e degli eventi naturali. I primi teologi cristiani ripresero due vocaboli greci per distinguere due diverse definizioni del tempo: kronos, che indica la dimensione puramente quantitativa del tempo, la scansione delle ore, dei giorni, delle stagioni, degli anni; e kairòs, che indica la dimensione qualitativa del tempo, un qualche cosa di specifico che accade e si sta svolgendo, tra un “già” e un “non ancora”.

Cristo è il Signore del tempo, inteso come kairòs. Colui che ha vinto la morte, ha vinto anche kronos, il tempo divoratore, che consuma ogni cosa. Cristo domina il tempo, conducendone le trame verso lo svolgimento finale della storia umana. Anche per culture come quella greca o quelle dell’estremo oriente, che avevano una visione circolare della storia, intesa come “eterno ritorno”, nel continuo ripetersi di eventi simili, vi era la credenza in un tempo situato “oltre” questa circolarità, che i greci definivano aion. È questo il tempo dell’eternità, e i primi cristiani identificarono in Cristo il Signore che ha gettato un ponte fra queste due dimensioni della temporalità. La storia si chiuderà con il suo ritorno.

Questo secondo Avvento sarà completamente diverso dal primo, perché, ci dice il Vangelo, sarà “come il lampo che esce da levante e sfolgora fino a ponente” (Mt 24,27).

Il monaco inglese Beda il Venerabile, vissuto tra il VII e l'VIII secolo ci ha lasciato nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum, il racconto della conversione del potente re Edwin al cristianesimo. La decisione viene presa dal re dopo aver ascoltato i suoi consiglieri, uno dei quali gli offre una parabola molto suggestiva della nostra esistenza, paragonandola a quella di un passero che, durante un temporale, entra da una finestra aperta nella stanza dove il re sta banchettando con i suoi nobili, per fuoriuscire subito da un’altra finestra del salone. In quel breve momento, in cui giunge nella stanza come un lampo, il passero è al riparo dal temporale, ma un attimo dopo ritorna nel freddo e oscuro inverno da cui è venuto. Secondo il consigliere del re, così è la nostra breve ed effimera esistenza: di quel che c’è prima e di quel che c’è dopo non sappiamo nulla e se questa nuova religione ci dà una certezza è giusto seguirla.

Il racconto del consigliere di re Edwin, riferito da Beda e ripreso dalla scrittrice Marguerite Yourcenar nella sua opera Il Tempo, grande scultore, offre una rappresentazione drammaticamente realistica della nostra vita terrena, ma le letture di oggi ci conducono molto al di là una religiosità vissuta in modo consolatorio. Perché capovolgendo le immagini appena descritte potremmo dire che il mondo e il tempo in cui siamo inseriti rappresentano l’infuriare della tempesta, mentre la presenza di Gesù tra gli uomini durante la sua vita terrena e l’esperienza che facciamo di lui nella fede, rappresenta come un bagliore nella notte. 

L’umanità e la nostra anima trovano in Cristo una tregua dall’infuriare della tempesta del mondo, quel mondo che, ci ricorda Giovanni, ci odia, perché prima ha odiato Gesù (Gv 15,18; 1 Gv 3,1); quel mondo che è nelle mani del nemico. Questi sarà definitivamente “cacciato fuori” (Gv 12,31) nel compimento del tempo presente, quando le sue opere verranno distrutte (1 Gv 8).
È questa speranza che ci purifica e ci rende santi. Non dunque una speranza come puro stato psicologico ed emotivo. Ma una speranza intesa come virtù cristiana, suscitata dallo Spirito Santo, che abbiamo ricevuto nella fede.

L’esperienza di Dio nella fede ci offre di lui una visione furtiva, come un bagliore nel temporale; inafferrabile, come un passero che attraversa la tavola imbandita delle cose caduche di questo mondo. Eppure, il fulmine ci indica uno squarcio, un varco nel cielo; il passero ci indica una direzione, anche se, come lo Spirito, non sai da dove viene e dove va (Gv 3,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 10 febbraio 2019

I tempi e i modi di un Dio mite e paziente

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUINTA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Colletta

O Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua Chiesa e la tua casa nella verità della fede; affinché coloro che confidano unicamente nella tua grazia celeste possano essere sempre difesi dalla tua potenza. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Col 3,12-17; Mt 13,24-30

Il Capitolo 13 del Vangelo di Matteo presenta Gesù mentre ammaestra le folle, parlando in modo semplice, attraverso parabole. Le parabole sono racconti metaforici, di contenuto morale, che attingono le loro immagini da cose della vita quotidiana, in modo da comunicare la riflessione teologica attraverso concetti e contesti familiari. 

Dopo tanti secoli, però, la nostra familiarità con alcune delle immagini utilizzate nelle parabole si è affievolita. È il caso della zizzania, che in una civilità post-agricola come la nostra è una pianta conosciuta solo da pochi. Si tratta di un’erba infestante, che quando è ancora verde è quasi impossibile distinguere dal grano, ma giungendo a maturazione produce chicchi scuri e allungati. I discepoli rimangono molto colpiti dalla parabola ma faticano a comprenderne immediatamente il significato. Infatti, tornando a casa, chiedono a Gesù di spiegarglielo (Mt 13,36-43). 

Mediante la parabola della zizzania Gesù offre una risposta sulle origini del male e sul perché Dio permette il suo proliferare nel mondo. Il manifestarsi di quest’erba malvagia nello stesso campo in cui cresce il buon grano rappresenta quasi un'epifania negativa, speculare al manifestarsi della buona opera del Signore. La Parola di Dio, che Paolo nella lettera ai Colossesi ci invita a fare abitare fra noi copiosamente (Col 3,16) produce frutto laddove è accolta dalla buona terra (Mt 13,8.23). Vi è però un nemico, che cerca non solo di portare via il seme buono prima che possa germinare, ma mentre gli uomini dormono getta nel terreno un cattivo seme (Mt 13,25). L’intento del nemico è chiaro: mettere in cattiva luce il padrone del campo e ostacolare la crescita del buon grano. All’apparire della zizzania, i servi, infatti, chiedono al padrone: “Signore, non hai seminato buon seme nel tuo campo?” (Mt 13,27), e propongono la soluzione di estirpare l’erba infestante. 

Ma il padrone del campo ha deciso di lasciare crescere il grano e la zizzania insieme, perché lo sradicamento dell’erba malvagia potrebbe condurre alla distruzione anche delle piante di grano buono. Perché Dio non elimina il male? Perché Dio consente ai malvagi di prosperare? Questa domanda interpella ogni credente, e se la pone anche l’autore del Salmo 73: “Quasi inciampava il mio piede, vedendo la prosperità dei malvagi. Invano dunque ho purificato il mio cuore. Allora ho cercato di comprendere questo, ma la cosa mi è parsa molto difficile. Finché sono entrato nel santuario di Dio e ho considerato la fine di costoro. Come un sogno al risveglio, così tu, o Signore, quando ti risveglierai, disprezzerai la loro vana apparenza”. 

Mentre nella parabola della zizzania il sonno aveva colto gli uomini, e proprio mentre questi dormivano il nemico era andato a mettere il seme cattivo nel terreno, nel salmo troviamo la curiosa immagine di Dio che “dorme” e al suo risveglio ristabilisce la giustizia. Anche questo “sonno di Dio” è una metafora accattivante, per descrivere il tempo della misericordia del Signore, che ci separa dal tempo del suo suo giudizio. Perché Dio, che appare in tutte le Scritture, “lento all’ira e di grande benignità” (Sal 103,8), non vuole la morte dell’empio, ma che si converta e viva (Ez 33,2); egli ha stabilito un tempo per il pentimento e la conversione.

Ogni uomo corre il rischio che il cattivo seme prosperi insieme a quello buono nella propria vita. Anche se sappiamo renderci docili alla parola di Dio, dobbiamo guardarci dal cadere addormentati consentendo al nemico di porre in noi il seme del male: pensieri, parole, azioni che infestano la nostra vita e quella di chi ci circonda, drenando energie a noi stessi e agli altri.

Affidiamoci a Cristo, buon agricoltore, e rispettiamo i tempi di Dio, per il quale mille anni sono come un giorno solo (2 Pt 3,8), nella certezza che potremo raccogliere una messe abbondante.

- Rev. Dr. Luca Vona


domenica 3 febbraio 2019

Senza il timore di sporcarsi le mani


COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA IV DOMENICA DOPO L'EPIFANIA


Colletta

O Dio, che sai che ci troviamo in mezzo a molti e grandi pericoli e che per la fragilità della nostra natura umana non possiamo neanche reggerci in piedi; concedici forza e protezione, per trovare supporto in ogni avversità e superare ogni tentazione. Amen.


Letture:

Rm 13,1-7; Mt 8,1-17

Prosegue nel ciclo liturgico annuale la serie delle domeniche denominate “dopo l’Epifania”. Nelle scorse quattro settimane abbiamo ascoltato le letture sulle quattro grandi manifestazioni di Gesù come Dio e Redentore dell’umanità: la nascita a Betlemme, l’adorazione da parte dei Magi, il battesimo al Giordano, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. Con la lettura di oggi entriamo in una dimensione un po’ più “quotidiana” e “ordinaria”, dentro la quale irrompe la straordinarietà del Figlio di Dio, con la sua predicazione e con diversi miracoli di guarigione e liberazione. Si tratta di parole e gesti spesso sovversivi nei confronti di alcune prassi della religiosità giudaica; a cominciare proprio dai due miracoli narrati nel Vangelo di oggi: la guarigione del lebbroso e la guarigione, a distanza, del servo del centurione.
Le due narrazioni si collocano subito dopo il lungo discorso sul monte, ai capitoli 6 e 7 del Vangelo di Matteo; discorso che dovrebbe costituire lo regola di vita di ogni cristiano. E sottolineo di ogni cristiano, non di coloro che si consacrano a qualche forma particolare di vita religiosa, ma di ogni cristiano che voglia vivere seriamente la propria fede nella vita di ogni giorno. Quanto poi sia possibile mettere in pratica, con le sole proprie forze, quella regola di vita, è un altro discorso, che merita un approfondimento a sé. Dopo questo lungo sermone, dunque, Gesù scende dalla montagna e comincia subito a mettere in pratica quanto ha predicato. La prima persona in cui si imbatte è un lebbroso; la religiosità giudaica, attenendosi al libro del Levitico, considerava i lebbrosi impuri, e impuro diventava chiunque avesse avuto un contatto fisico con loro. Quest’uomo vive, dunque, non solo uno stato di profonda sofferenza fisica, ma anche morale, determinata dalla solitudine e dall’emarginazione, che spesso anche oggi caratterizzano lo status del malato. Ma il lebbroso è convinto che Gesù possa guarirlo. La sua fede rappresenta la risposta dell’uomo sofferente alla predicazione del Salvatore. La fede, spesso definita un “dono”, che il Signore elargirebbe capricciosamente a chi più a chi meno e a chi niente, diventa invece qui la risposta attiva dell’uomo alla Parola di Dio. Il dono è la parola di Dio, che ci annuncia la salvezza per grazia. La fede è ciò con cui siamo chiamati a rispondere a questo dono. Gesù, di fronte alla fede del lebbroso, che lo riconosce come Signore, adorandolo, e afferma “se vuoi, tu puoi mondarmi” contravviene apertamente alle regole della propria religione; davanti alle “grandi folle” che lo hanno seguito, “distesa la mano” (in segno di benedizione e di salvezza) “lo toccò”. E in quell’istante egli fu guarito. Ecco un’altra Epifania della potenza di Dio, nel quotidiano, nel tempo “ordinario”; Gesù viene riconosciuto come Signore e ci manifesta la natura profonda di Dio: un Dio che non ha timore di toccare con mano la nostra miseria, ma che la raggiunge e la sana con la sua benedizione, con la sua grazia. Così dovremmo agire anche noi con gli altri uomini, senza paura di “sporcarci le mani” per annunciare il Vangelo. Non siamo chiamati a formare “combriccole” di bigotti, ma a raggiungere e lasciarci raggiungere da ogni essere che condivide la nostra natura umana, ferita dal peccato e da mille infermità.
La conferma arriva anche dall’episodio immediatamente successivo, dove un centurione romano, considerato dai giudei un impuro perché pagano, e un nemico perché rappresentante del potere politico e militare che opprimeva la loro nazione, si presenta a Gesù per chiedere la guarigione di un servo che giace in casa paralizzato e soffre grandemente. La risposta di Gesù è ancora una volta sovversiva: “Io verrò e lo guarirò”. Gesù propone di andare a casa stessa del centurione, una azione “scandalosa”, perché contravveniva alle norme religiose che prevedevano il divieto di entrare in casa di un pagano, per di più nemico della nazione. Ma non poteva agire diversamente colui che aveva appena predicato l’amore per i propri nemici e che aveva detto: “Qual è l'uomo tra di voi, il quale, se il figlio gli chiede un pane, gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce, gli dia un serpente? Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a quelli che gliele domandano!” (Mt 7,9-11). Un altro raggio della rivelazione evangelica squarcia le nubi del timore per l’impurità rituale, manifestando il mistero della paternità universale di Dio; questa, si allarga oltre i confini del popolo eletto, all’intero genere umano, immerso, come ci ricorda la colletta di oggi, “in molti e grandi pericoli”, alla ricerca di “forza, protezione e supporto in ogni avversità e tentazione”.
Il centurione è pienamente consapevole di questo stato di miseria e fragilità che caratterizza la condizione umana, e lo attesta con le parole “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto”; la sua risposta di fede nei confronti della Parola di Dio è altrettanto grande: “di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito”. E così avverrà.
È la Parola di Dio che guarisce, quella parola che la Lettera agli Ebrei (Eb 4,12) definisce “vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a due tagli”, capace di penetrare “fino alla divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla”; quella parola con cui Dio ha creato il mondo e guidato il suo popolo attraverso il deserto e nella terra dell’esilio.
Dopo secoli in cui il popolo è stato tenuto lontano dalla Bibbia, anche oggi, che disponiamo di eccellenti traduzioni in ogni lingua, l’analfabetismo biblico è fortemente diffuso. Manca, persino tra i protestanti a volte, l’abitudine a confrontarsi abitualmente con la Parola di Dio, ad ascoltare cosa il Signore ha da dirci riguardo i nostri problemi, le nostre paure, i nostri dubbi. Altre volte manca una risposta di fede forte alla Parola, la fiducia nella sua efficacia, nella sua capacità di trasformare realmente la nostra vita.
Impegnamoci a riscoprire la lettura delle Sacre Scritture; non lasciamo la Bibbia a raccogliere polvere in uno scaffale. Ascoltiamola, meditiamola, confrontiamoci con essa nelle cose ordinarie e straordinarie di ogni giorno. La nostra vita personale, ma anche quella collettiva, gli avvenimenti politici, la sottomissione all’autorità, cui ci chiama San Paolo nella lettura di oggi, invitandoci a essere buoni cittadini, devono avvenire mediante l’esercizio di un senso critico, alla luce della Parola di Dio. Allora potranno essere sanate le nostre ferite, individuali e collettive. Dice infatti il Signore, per bocca del profeta Isaia (Is 55,10-11): “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, in modo da dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto, senza avere compiuto ciò che desidero e realizzato pienamente ciò per cui l'ho mandata”. E così sia.


Rev. Luca Vona