Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 31 dicembre 2023

Eredi di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO IL NATALE

Colletta

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo unico Figlio, affinché prendesse su di sé la nostra natura e nascesse in questo tempo dal grembo di una vergine; concedici di essere rigenerati e fatti tuoi figli per adozione e grazia; affinché possiamo essere quotidianamente rinnovati dallo Spirito Santo. Per Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo stesso Spirito, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Gal 4,1-7; Mt 1,18-25

Commento

Il tema dell'adozione per grazia - richiamato nella Colletta della liturgia del giorno e nella Lettera di Paolo ai Galati - ci costringe a rivedere radicalmente la nostra immagine di Dio. La rivelazione del Dio trinitario e della dinamica che ne anima la vita, interna ed esterna, ci è data innanzitutto nel mistero dell’incarnazione. Dio ci viene rivelato come Padre, dunque non come un'ente chiuso in se stesso, sterile e autoreferenziale, ma capace di generare in eterno un'altro da sé, il Figlio, e di effondere su di esso il proprio amore. Il Figlio restituisce al Padre questo amore, che è lo Spirito Santo, in una dinamica che è come quella di una sorgente perenne, capace di autoalimentare il proprio flusso, senza fine né principio.

Ma il mistero dell'adozione a figli, mediante l'incarnazione del Verbo, ci offre una ulteriore rivelazione. La capacità del Dio trinitario di effondere la propria vita anche al di fuori di sé. Assumendo e condividendo fino in fondo la nostra natura umana il Figlio ci rende una cosa sola con lui. Il processo discendente e di spoliazione che ha inizio con l'incarnazione del Verbo e giunge alla rinuncia di Dio a se stesso nella passione e morte di Cristo, ha un parallelo nella progressiva ascesa della natura umana, nel momento in cui Dio decide di assumerla su di sé, di innalzarla rivestendosi di essa.

L’incarnazione dell'eterno Figlio è il passo decisivo con cui Dio ci offre, gratuitamente, la possibilità di essere inseriti nella sua vita trinitaria. È il segno della fedeltà di Dio alla sua creatura, che ci consente di recuperare non solo il paradiso perduto, ma di condividere la stessa vita divina, di ottenere ciò che i nostri progenitori desideravano e che il menzognero tentatore gli prospettava come un qualcosa che Dio non ci avrebbe concesso: «Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e sarete come Dio» (...) "Allora si apersero gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi" (Gn 3,5-7). 

La comunione con Cristo, non solo restaura in noi l'immagine originaria, ma ci fa eredi di Dio; sicché quando il Padre ci guarda, non vede noi, non vede me, non vede te... ma vede il Figlio suo, ci ama come il suo Figlio prediletto. E quando noi preghiamo rivolgendoci al Padre, noi preghiamo con la stessa voce del Figlio di Dio, mediante lo Spirito Santo, che egli ha effuso abbondantemente su di noi.

Fatti figli nel Figlio, Dio può vederci realmente con gli occhi di un Padre. Non siamo più orfani in terra straniera, ma siamo chiamati a regnare con Cristo, nel quale il Padre ci dice: «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generato» (Sal 2,7) e «Ogni cosa mia è tua» (Lc 15,31).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 30 dicembre 2023

Fermati 1 minuto. La lunga attesa di Anna

Lettura

Luca 2,36-40

36 C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37 era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38 Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. 39 Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. 40 Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.

Commento

Il Vangelo di Luca si apre con un coro di profezie sul bambino Gesù, prima di accennare alla sua vita nascosta a Nazaret e farlo ricomparire dodicenne a discutere con i dottori nel tempio. L'ultima di queste profezie vede protagonista Anna, un'anziana vedova che conduce una vita ascetica senza allontarsi mai dal Tempio. La sua età avanzata non le impedisce di servire Dio e il servizio che gli rende è fatto di digiuno e di preghiera. 

Esaltando la devozione di Anna, l'Evangelista testimonia che la fede non può rinchiudersi in una dimensione puramente "orizzontale", relegando nell'ambito dell'inutilità coloro che non possono esercitare un ministero attivo per l'età avanzata o per altre limitazioni. 

La preghiera di Anna, il suo digiuno, protratti per così tanti anni dalla sua vedovanza, sono un segno profetico della superiorità di Dio in relazione con qualsiasi altra cosa; testimoniano la perseveranza nell'attesa e nell'invocazione del Messia, una implorazione che si trasforma in lode e annuncio nel momento in cui si realizza il sospirato incontro: "lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (v. 38). 

Come Giovanni il Battista, Anna si fa interprete delle profezie dell'Antico testamento, fa da "ponte" tra esse e la nuova alleanza in Cristo; ricordandoci con le sue veglie e i suoi digiuni, l'unico necessario, "la parte migliore" (Lc 18,41-42) che si rivela agli umili, ai "poveri di spirito", perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).

Preghiera

Risveglia in noi, Signore, il desiderio di trascendere le cose di questo mondo, per annunciare, con le nostre vite e con la nostra parola, l'avvento del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 29 dicembre 2023

Fermati 1 minuto. Uno sguardo inquieto finché non si posa in lui

Lettura

Luca 2,22-35

22 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, 23 come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; 24 e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. 25 Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; 26 lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. 27 Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, 28 lo prese tra le braccia e benedisse Dio:

29 «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
30 perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
31 preparata da te davanti a tutti i popoli,
32 luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele».

33 Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34 Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione 35 perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima».

Commento

Secondo la legge mosaica (Lv 12,2-8) la donna che partoriva un figlio maschio non doveva toccare niente di sacro né entrare nel tempio per quaranta giorni, a motivo della sua impurità rituale. Al termine di questo periodo doveva offrire un agnello di un anno come sacrificio da bruciare e una tortora o un giovane colombo in espiazione dei suoi peccati. Le donne che non potevano permettersi un agnello dovevano offrire, come fece la madre di Gesù, due giovani colombi. Ciò attesta la povertà di Maria e Giuseppe. La Legge prevedeva, la consacrazione al Signore di ogni primogenito (Es 13,2.12). 

La nascita di Gesù porta a compimento le speranze degli ebrei devoti, che attendevano il Messia annunciato a Israele, in particolare dal profeta Isaia e nel libro di Daniele. Il cantico di Simeone, chiamato Nunc dimittis dalle sue due prime parole nella versione in latino, sembra provenire dall'ambiente giudeo-cristiano, come anche il Magnificat e il Benedictus

L'inno si trova perfettamente in sintonia con l'annuncio del carattere universale della salvezza che attraversa il vangelo di Luca. Il vangelo sarà predicato a uomini di ogni lingua popolo e nazione (Ap 5,9), non solo a Israele, dunque, ma anche ai gentili. Per tutti e tre i cantici viene specificato da Luca che chi li pronuncia è mosso dallo Spirito Santo. 

I primi a riconoscere l'avvento del Messia sono persone umili, povere, senza posizioni di particolare rilievo: Maria e Giuseppe, fidanzati di modeste condizioni del paesino di Nazaret; Elisabetta, anche lei una donna, che profetizza mentre il precursore sussulta nel suo grembo; e Simeone, "uomo giusto e timorato di Dio" (v. 25) che non sarà più menzionato nei Vangeli. 

Nel prendere tra le braccia Gesù, Simeone trova la gioia e la pace che non solo gli fanno sentire compiute le aspettative di Israele ma danno compimento e significato alla sua stessa esistenza: "Ora lascia, O Signore, che il tuo servo vada in pace..." (v. 29). 

Nell'incontro con il Figlio di Dio incarnato scopriamo una pace che pervade la nostra vita e che ci conforta anche di fronte alla morte, non più considerata con terrore. L'incontro con Gesù colma le aspettative più profonde della nostra anima; questo il senso etimologico della "salvezza" cantata da Simeone: "fare integro", aggiungere all'edificio della nostra esistenza quella pietra angolare (Mt 21,42) che gli dona stabilità e perfezione. 

"Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere" (Eccl 1,8). Finché non vede Cristo. Come Simeone, tenendo quel bambino tra le braccia, posando il nostro sguardo su di lui, possiamo trovare nella sua tenerezza il volto misericordioso di Dio.

Preghiera

Donaci, Signore, la pace che scaturisce dall'incontro con te; affinché possiamo cantare il mistero della grazia compiutosi nella tua incarnazione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Thomas Becket. Poiché non siete del mondo il mondo vi odia

Il 29 dicembre la chiesa cattolica e la chiesa anglicana celebrano la memoria di Thomas Becket (1118-1170).
Al termine dei vespri del 29 dicembre 1170, viene ucciso nella cattedrale di Canterbury l'arcivescovo Thomas Becket, primate della chiesa d'Inghilterra. Thomas era nato nel 1118 a Londra, da una famiglia normanna di mercanti. Dopo aver concluso brillanti studi di diritto a Londra e a Parigi, aveva rapidamente conquistato la considerazione del re d'Inghilterra Enrico II, fino ad essere nominato Cancelliere dello Scacchiere nel 1155. 
Amico fraterno del re, Becket fu per sette anni suo fedele servitore, condividendone fatiche e preoccupazioni di governo, sfarzo e spensieratezza di vita. Considerate le sue brillanti doti di amministratore e i problemi tra casa reale e alti prelati inglesi, il re volle nominarlo nel 1162 arcivescovo di Canterbury, nonostante la sua opposizione. Thomas si sentì allora chiamato a operare un profondo cambiamento nella propria vita per poter svolgere responsabilmente il gravoso ministero ricevuto. Cominciò così ad assumere l'abito e la morigeratezza dei monaci del tempo, e invitò i poveri a sedere alla sua mensa. Nella sua azione pastorale, Becket difese senza accettare compromessi l'autonomia della chiesa contro le ingerenze del re, e fu costretto per questo a un lungo esilio in Francia. Lasciato solo dai confratelli nell'episcopato, tiepidamente difeso da Roma e osteggiato dalla nobiltà, egli rientrò a Canterbury nel novembre del 1170 a seguito di una momentanea riconciliazione con il re. Pochi giorni dopo, essendosi rifiutato di revocare la scomunica contro i nemici della chiesa d'Inghilterra, questi lo fecero uccidere di spada davanti all'altare della sua cattedrale. Thomas Becket, pur avendo la possibilità di farlo, decise di non fuggire e accettò di perdere la vita.

Tracce di lettura

Qual è la ragione della morte di Thomas Becket? Se si guarda bene, egli morì per ciò che costituisce la causa dell'antagonismo tra il mondo e la chiesa. La chiesa è stabilita in tutti i paesi per rivolgersi a tutte le genti, ai grandi e ai piccoli, di ogni rango e ogni condizione. Per dirigere e in un certo senso intervenire con coscienza, e nel caso di miseria morale di quei prìncipi che il mondo adula fin dalla loro infanzia, anche per promulgare la legge e insegnare così la fede. Questo è il conflitto: il mondo non ama ricevere lezioni. I re d'Israele non amavano i profeti. La chiesa può arrivare a contrapporsi al mondo, a erigersi contro di esso come testimone. Questo fu il conflitto tra il mondo e Thomas Becket (J. H. Newman, Appunti per i sermoni )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


Thomas Becket (1118-1170), reliquiario, Ashmolean Museum (Oxford)

giovedì 28 dicembre 2023

La strage degli innocenti. L'odio del mondo verso una regalità disarmante

Le chiese d'occidente ricordano in questo giorno la «strage degli innocenti», perpetrata dal re Erode, secondo l'evangelista Matteo, a danno di tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni al di sotto dei due anni, mentre Gesù aveva trovato riparo in Egitto con la sua famiglia. Vittime innocenti della naturale ostilità dei potenti di questo mondo verso la disarmante e mite regalità del Cristo manifestata da Gesù di Nazaret, i bambini ebrei uccisi da Erode costituiscono la primizia di quell'immenso nugolo di martiri che accompagnano le nozze dell'Agnello. Sebbene il loro involontario sacrificio preceda cronologicamente la passione, morte e resurrezione di Cristo, nondimeno il loro drammatico coinvolgimento nel mistero dell'incarnazione è la conseguenza della piena integrazione di Israele nel corpo di Gesù, Messia e Servo sofferente di JHWH. Questa memoria, come altre ricorrenze dell'ottava di Natale, nelle chiese ortodosse e in quelle orientali viene celebrata un giorno dopo rispetto alle chiese occidentali.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Adrian Willaert (1490-1562), Laudate pueri Dominum

Massacre of the Innocents - Maestà by Duccio - Museo dell'Opera del Duomo - Siena 2016.jpg
Duccio di Buoninsegna (1255-1318/1319),
La strage degli innocenti,
Museo dell'Opera del Duomo, Siena

Fermati 1 minuto. Il sangue dei giusti

Lettura

Matteo 2,13-18

13 Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». 14 Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, 15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio. 16 Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. 17 Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18 Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

Commento

La mancanza di tracce storiche sulla strage degli innocenti, al di fuori di quanto riportato da Matteo  è dovuta probabilmente all'"irrilevanza" del fatto rispetto ad altri massacri di ben più vaste proporzioni.  Betlemme era un villaggio di circa mille abitanti e il numero di maschi sotto i due anni fatti uccidere da Erode non poteva essere stato che di qualche decina. 

In questo episodio del Vangelo di Luca vediamo ancora una volta Giuseppe avvertito in sogno da un angelo. Giuseppe ubbidisce prontamente all'ordine impartitogli dal messaggero di Dio; quella stessa notte intraprende un viaggio rischioso e con scarsità di mezzi. La sua obbedienza coraggiosa e incondizionata ricorda quella di Abramo. 

La "sacra famiglia" soggiornerà in Egitto fino alla morte di Erode. Sarà costretta a dimorare lontana dal Tempio, in mezzo alle genti che non conoscono il Dio d'Israele. Anche noi siamo chiamati a preservare la nostra fede in un mondo ostile e incredulo, a prenderci cura del nostro Dio, che ha accettato di farsi creatura sotto la custodia di un uomo e di una donna.

Israele, "figlio" di Dio, era stato chiamato dall'Egitto al tempo di Mosè (Os 11,1); allo stesso modo Gesù, il Figlio di Dio, dovrà essere nascosto in questa terra straniera, dalla quale sarà chiamato per un nuovo esodo. Rama è una città che si trova sette chilomentri a nord di Gerusalemme. Il lamento di Rachele, che morì dando alla luce Beniamino, diviene espressione di un dolore così forte da poter essere udito a grande distanza. I profeti dell'Antico Testamento nominano Rama in diverse occasioni legate alla tristezza e al lutto (Is 10,29; Ger 31,15; Os 5,8), facendo della città un luogo-simbolo dell'afflizione. 

La fuga in Egitto rappresenta una prova per Maria e Giuseppe, i quali mostrano umiltà e obbedienza nei confronti della volontà di Dio e accettano l'invito al nascondimento in terra straniera. 

A volte vorremmo difendere la nostra causa "a spada tratta", quando Dio ci chiede semplicemente di riporre la nostra fiducia in lui, disarmando la nostra volontà di potenza e attendendo la sua chiamata nell'ora che avrà stabilito. 

L'episodio della fuga in Egitto mostra che la persecuzione verso Cristo comincia fin dalla sua nascita e così la testimonianza passiva, involontaria, di questi infanti, diventa prefigurazione della passione di Gesù, alla quale vengono associati: hanno sparso il loro sangue per lui, e lui lo verserà per loro. 

Non si tratta di una morte "inutile" perché il sangue dei martiri innocenti si innalza verso il cielo gridando giustizia verso Dio; come il sangue del giusto Abele, e quello di tante vittime di guerre, persecuzioni, povertà. Una storia di violenza e ingiustizia dove si manifesta il rifiuto dei potenti nei confronti della regalità di Cristo, nascosta nella fragilità di un bambino. In questa piccola creatura è riposta la speranza per un cielo nuovo e una terra nuova (Ap 21,1).

Preghiera

Ascolta, Signore, il grido degli innocenti che dalla terra si innalza a te; liberaci dall'oppressione dell'uomo violento e rendici capaci di accogliere la grazia che si manifesta nella debolezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 27 dicembre 2023

Fermati 1 minuto. L'esperienza della tomba vuota

Lettura

Giovanni 20,1-10

1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!». 3 Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5 Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7 e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9 Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. 10 I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.

Commento

La morte di Gesù è stata un atto pubblico, ma la sua risurrezione viene rivelata privatamente ai suoi amici intimi e tramite questi verrà annunciata al mondo. La loro esperienza, tuttavia, è inizialmente quella della tomba vuota. Solo l'incontro diretto con il Risorto porterà alla pienezza della fede e alla comprensione di quanto annunciavano le Scritture. 

L'amore di Maria Maddalena - colei che ama tanto perché tanto le è stato perdonato (Lc 7,47) - è forte come la morte (Ct 8,6), superando lo scandalo della Croce e lo sconcerto del sepolcro. Pietro e Giovanni corrono a verificare di persona le sue parole. La fede è animata dal desiderio di fare esperienza in prima persona della verità. 

Tutti siamo chiamati a confrontarci personalmente con il mistero della risurrezione. Giovanni che giunge al sepolcro per primo, ma dopo aver riscontrato quanto detto da Maria Maddalena attende l'arrivo di Pietro, testimonia la solidarietà che deve esserci tra i credenti: chi raggiunge prima un traguardo sulle vie dello spirito attende chi è rimasto indietro. 

Occorre chinarsi verso l'apertura del sepolcro per scorgere i segni della vita che ha vinto la morte: l'umiltà è una condizione indispensabile per progredire nella conoscenza di Cristo risorto. È poi necessario il coraggio di entrare nella tomba vuota, di vincere il timore della perdita, di sperimentare un distacco da tutto, liberandosi da ogni brama di appropriazione e di possesso, non solo delle cose terrene, ma persino delle consolazioni spirituali. 

Gesù risorto non sarà subito riconosciuto dai suoi discepoli, ma solo allo spezzare del pane (Lc 24,30-31). Nutrendoci di lui nella fede potremo gustare quella pienezza di vita che la pietra del sepolcro non ha potuto trattenere.

Preghiera

Concedici, Signore, di correre sulla via dei tuoi comandamenti, per essere trasformati di gloria in gloria e partecipare alla tua santità. Amen.

Giovanni, l'aquila di Dio

Il 27 dicembre cattolici, anglicani e luterani celebrano la memoria di Giovanni, evangelista ed apostolo.
Giovanni era figlio di Zebedeo e di Salome. Egli fu dapprima discepolo del Battista, ma prese a seguire Gesù quando il suo primo maestro gli indicò nel Nazareno l'agnello di Dio venuto a prendere su di sé il peccato del mondo. Chiamato da Gesù a comprendere in profondità il comandamento nuovo dell'amore, Giovanni accolse l'invito a dimorare assiduamente con il suo Maestro e Signore, e imparò ad amare vivendo nell'intimità con lui. Per questo fu chiamato «il discepolo amato». Assieme al fratello Giacomo e a Pietro, Giovanni fu il testimone privilegiato di alcuni episodi decisivi della vita di Gesù: la resurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione sul monte, l'agonia del Getsemani. E nel momento più cruciale, la passione e morte di Gesù, egli fu l'unico discepolo che rimase a condividere da vicino, con Maria, gli ultimi istanti della vita terrena del Signore. Dall'alba della resurrezione Giovanni sarà spesso presentato in compagnia di Pietro, quasi a significare che l'ossatura della chiesa è costituita dalla compresenza del discepolo che ama perché conosce e contempla da vicino l'amore del Signore e di quello che ama perché molto gli è stato perdonato. Dopo la Pentecoste, lasciata Gerusalemme, secondo la tradizione Giovanni risiedette dapprima in Samaria e poi a Efeso, dove attorno a lui si formarono delle comunità cristiane di cui testimoniano gli scritti che portano il suo nome: il quarto vangelo, le tre Lettere e l'Apocalisse. La memoria di Giovanni, giustamente posta accanto alla memoria della nascita del suo Amato, invita la chiesa a guardare al mondo con gli occhi trasformati dalla contemplazione dell'amore.

Tracce di lettura

Occorre avere l'ardire di affermare da una parte che i vangeli sono primizia di tutta la Scrittura, dall'altra che primizia dei vangeli è quello secondo Giovanni, la cui intelligenza non può cogliere chi non abbia poggiato il capo sul petto di Gesù e non abbia ricevuto da lui Maria come propria madre. Colui che sarà un altro Giovanni deve diventare tale da essere indicato da Gesù, per così dire, come Gesù stesso: è ciò che accadde a Giovanni. Sebbene infatti non ci sia alcun figlio di Maria, se non Gesù, ciò nonostante Gesù dice a sua madre: «Ecco il tuo figlio» (e non già: «Ecco, anche questo è tuo figlio»); ciò equivale a dire: «Questi è Gesù che tu hai partorito». Infatti, chi è giunto alla piena maturità «non vive più», ma in lui «vive Cristo»; e poiché in lui vive Cristo, quando si parla di lui a Maria si dice: «Ecco il tuo figlio». (Origene, Commento all'Evangelo secondo Giovanni 1,23 )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

martedì 26 dicembre 2023

Stefano, primo martire. Il dono di sé fino alla morte

La chiesa, con grande sapienza, ha posto la memoria di Stefano nel giorno immediatamente successivo al Natale di Cristo Signore, sottolineando così lo stretto legame esistente tra incarnazione e martirio.

La liturgia celebra nell'effusione del sangue di Stefano il paradosso cristiano del Figlio di Dio che nasce e muore per dare al mondo la vita. I cristiani sono così guidati a discernere nel bambino deposto in una mangiatoia la pietra di paragone e insieme la pietra di inciampo di cui parla la Scrittura, e a ricordare che chiunque voglia amare Cristo, mettendosi alla sua sequela, va liberamente incontro al dono di sé fino alla morte. 

Stefano apparteneva alla prima comunità cristiana di Gerusalemme. Era un capo ellenista, cioè uno di quegli ebrei di lingua greca provenienti dalla diaspora che saranno i primi a essere allontanati dalla città santa e a diffondere di conseguenza il vangelo. Accusato, come molti suoi compagni, di avere un atteggiamento sovversivo nei confronti della Torah e del Tempio, Stefano lasciò che di fronte ai suoi accusatori fosse lo Spirito santo a parlare in lui. L'interpretazione sapiente che egli offrì delle Scritture ebraiche dinanzi al sinedrio venne autenticata dalla sua disponibilità a morire perché fosse resa testimonianza all'affermazione che Gesù è risorto, che è il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio. 

Conformato dallo Spirito al suo Signore, Stefano muore invocando il perdono per i suoi uccisori, mostrando così che il vero martire non è martire contro nessuno, ma dà la vita perché tutti possano aderire al messaggio di vita contenuto nel vangelo. La testimonianza resa da Stefano non sarà certo estranea alla conversione di Saulo, presente alla sua lapidazione: il sangue dei martiri inizia con Stefano a essere il seme dei cristiani.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose



Video Caelos Apertos - Canto per il Communio della Messa di Santo Stefano

Annibale Carracci: Martirio di Santo Stefano (Louvre)

Martirio di Santo Stefano, Annibale Carracci, Louvre, Parigi

Fermati 1 minuto. Sarete odiati da tutti

Lettura

Matteo 10,17-22

17 Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; 18 e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19 E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: 20 non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. 21 Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. 22 E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato.

Commento

Il tempo che ci separa dalla parusìa (dal ritorno di Cristo) è il tempo della prova e della testimonianza. Gesù profetizza ai suoi discepoli le difficoltà che incontreranno nel loro ministero e come dovranno comportarsi davanti agli oppositori. I predicatori del vangelo, infatti, non siederanno come principi sui troni delle nazioni ma saranno odiati dal mondo. Gesù, venuto come "segno di contraddizione" (Lc 2,34) sarà testimoniato (questo il significato del termine martirio) tra sofferenze e fatiche. 

Vi è un legame tra il mistero della culla, la profezia di Simeone durante la presentazione del piccolo Gesù al tempio, e il mistero della croce. Gesù preannuncia una ostilità al vangelo che comincerà nello stesso ambiente religioso in cui sono inseriti i primi cristiani - le sinagoghe - fino ai più alti vertici di chi comanda sulla terra - "governatori e re" (v. 18) e recidendo come una spada gli stessi legami familiari - "il fratello darà a morte il fratello" (v. 21). 

Anche oggi chi fa propri gli insegnamenti di Cristo si ritroverà inevitabilmente ad andare controcorrente e a incontrare resistenza nel suo stesso ambiente religioso, in famiglia e nella cultura dominante. Gesù invita i suoi discepoli a non confidare in se stessi e promette il dono dello Spirito santo, che parlerà in loro (v. 20). Le Scritture, ispirate da Dio, ci daranno gli strumenti per rispondere al biasimo del mondo, ma lo stesso Spirito che parla in esse porrà sulla nostra lingua le parole per rendere ragione della speranza che è in noi (1 Pt 3,15). "Chi semina nel pianto mieterà nella gioia" (Sal 126,5), afferma il Salmista. 

Alla fine del II secolo Tertulliano scrive nel suo Apologeticum che "il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani". Dai tempi del primo martire Stefano ne è corso di sangue sulla terra. Ancora oggi sono milioni i cristiani perseguitati nel mondo, spesso dimenticati dagli stessi credenti che possono professare una fede tiepida in luoghi meno ostili. Eppure non mancano segni di intolleranza al cristianesimo anche nei paesi più "liberali", spesso ammantata da uno spirito che vede nella Bibbia una pietra d'inciampo (Rm 9,32). Ma la parola di Dio può restare fedele a se stessa pur mettendosi in dialogo con gli sviluppi della scienza, della cultura e della società. Essa infatti non è lettera morta, ma parola vivente, Spirito e vita (Gv 6,63). 

Siamo allora chiamati a evitare facili fughe in avanti o all'indietro, chiudendoci nel recinto confortevole del progressismo o del conservatorismo di maniera, ma piuttosto a una testimonianza radicale, proprio perché capace di scendere fino alle radici delle questioni del nostro tempo. Solo attraverso una ricerca sofferta della Verità potremo contemplare i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio (At 7,56).

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi siamo nel mondo come pecore in mezzo ai lupi; tu che ci hai riscattato con il tuo sangue donaci la forza di seguirti con coraggio, fedeli alla tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 24 dicembre 2023

Il Natale di John Donne

Provato nel corpo e nello spirito, per la perdita dell'amata moglie e per un cancro allo stomaco, pochi mesi prima di morire John Donne pronunciò questo Sermone di Natale nella Cattedrale londinese di St. Paul, di cui era stato nominato Decano. È un Sermone che vale la pena leggere e rileggere, meditare e rimeditare di anno in anno, per la sua capacità di rompere i canoni, specie contemporanei, di una Natale edulcorato, dimentico del fatto che l'incarnazione del Verbo è prima di tutto una spoliazione di Dio da se stesso.

Discorso contro la morte

Sermone pronunciato da John Donne la notte di Natale del 1630, nella Cattedrale di Saint Paul, Londra.

     Solo adesso arrivo a parlarvi, miei fedeli. Educato fra uomini abituati al disprezzo della vita e al culto dei morti, affamati di un immaginario martirio e di una tormentosa trascendenza, oppressi dal cilicio di una religione oscura come una tara inconfessabile, solo adesso arrivo a parlarvi, come dopo un lungo viaggio.
     Ora siamo nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, e non possiamo tacere. I nostri abiti sono quella piccola montagna di stracci ammucchiata davanti al portale. Ma non vergognatevi. Nessuno entrerà. La porta è stata sbarrata dall’interno con un trave di legno. E’ quasi mezzanotte e nessuno potrà vederci così come siamo. Dowland ha acceso questo grande fuoco al centro della chiesa, che ci scalda tutti. Non possiamo avere freddo. Dobbiamo restare in preghiera – noi, chiusi in questo silenzioso mausoleo con i nostri corpi nudi, nudi come lo furono alla nascita, senza lo straccio di una veste, senza l’orpello di un abito, scorticati da ogni lusso superfluo – con tutti i nostri corpi, giovani, vecchi, bambini, adulti, nel giorno della massima festività: il Natale del 1630, la nascita di Cristo, Nostro Signore.
     Il cuore mi si colma di commozione. Quasi non riesco a proferire parola. Come siete diversi tutti. Il tempo è leggero su quelle braccia, pesante su quella schiena, funesto su quel cranio, atroce su quelle gambe. Vi vedo tutti – non posso farne a meno. Vedo la vita in cammino, come il suo muto gemello, il Signore della Morte. Dio passa dentro di voi. Quell’addome magro, Katherine, ieri era florido e ha generato Anna Porter, vostra figlia. Quel braccio che ieri lavorava duramente nei campi, Summer, adesso è lì, raggrinzito sul volume di preghiere. Vi vedo con chiarezza, come un cartografo la mappa delle terre che esplorerà.
     Ma i vostri pensieri sono le cose più incredibili: affollano questo luogo da ogni parte, sono uno sciame di cose tranquille e atroci, chi vorrebbe ammazzare il vicino di campo, chi cullare la figlia, chi mangiare un arrosto di cervo, chi fare all’amore con la donna dell’amico. Voi che ora mi ascoltate e arate dei campi e nutrite delle famiglie, non avete mai sentito parlare, da bambini, di apostasie, anatemi, abiure, sentenze. Non siete stati allontanati, a sei anni, da un drappello di militari che conducevano l’eretico alla forca: non vi hanno coperto il viso, come fecero a me, obbligandomi a giurare di non fare parola di quello scandalo. Io, che sentii solo il rullo dei tamburi, non promisi però di non immaginare: così vidi me stesso, issato sulla forca, il cappuccio sulla testa, ma, nel momento in cui la botola avrebbe dovuto aprirsi, la terra tremò, franò la forca, e io ero là, nudo e ispirato, la morte negli occhi, che soggiogavo tutti con le parole e cambiavo il corso del mondo.
     Ognuno di voi, lo sapete, è nato da un luogo buio, lì ha preso forma: e, dentro il corpo della madre, è nato e si è nutrito, per nove mesi. Ma, se quel tempo non fosse stato rispettato, se il feto avesse avuto qualche malattia, la morte avrebbe ucciso le madri e i figli, e qui ci sarebbero dei posti vuoti e io non potrei guardare negli occhi persone che hanno vissuto una vita intera, di felicità o di stenti, perché non sarebbero mai esistite, perché un piccolo germe, quel giorno di primavera o di autunno, si sarebbe insediato nell’utero di qualche madre, un piccolissimo insetto, invisibile a occhio nudo, che anche adesso potrebbe benissimo stare sotto la cute del tuo braccio, John, o la pelle del tuo cranio, Jane, anticipando il vostro viaggio agli inferi. La vita è qualcosa di incongruo e di non ragionevole: dipende da un acaro o da un bacillo, a noi è capitato di viverla e siamo qui, insieme, come una mappa di cui è impossibile decifrare qualcosa. Siamo corpi che si espongono a Dio.
     Io non mi staccherò più dalla pelle degli uomini, non sarò più il perfetto ascoltatore delle Variazioni Walshingham di John Bull, non sarò più l’assiduo frequentatore dell’Hamlet di William Shakespeare. Mi spoglierò di tutte le mie maschere. Prima di venire a Saint Paul a parlarvi, ho lacerato con un bisturi affilato la tela in cui mi ero fatto dipingere con il lenzuolo funebre annodato sul capo, già composto per la sepoltura: vezzi di poeta funebre, che predispone la mappa del suo cadavere per il futuro giudizio di Dio.
     Atlante, libri, pianeti, sudore, fatiche, singulti – voi siete la mia mappa, la parabola accidentata della creazione. I libri sacri lo dicono: La creazione è il sommo bene, ecco l’opera di Dio, mirabile ai nostri occhi, e tu mi hai fatto e plasmato, Signore: ma queste meraviglie, se sono attaccate dalla peste e dilaniate dalle guerre, restano sempre delle meraviglie? A volte marciscono negli uteri, a volte marciscono nel mondo, e la vita è meno di una pezza da piedi, in cui il potente si asciuga lo stivale infangato o la lancia insanguinata. E tutto è così precario anche se ci copriamo di mille abiti e pellicce e corazze e armature, perché la puntura di un ago infetto potrebbe provocare dolori, febbri, bubboni, e non lasciarci più finché non abbiamo reso l’ultimo respiro.
     Credete a me – miei cari, miei nudi fedeli, miei vivi – è solo per caso che qui ci vediamo e parliamo. Nostro Signore è nato in quella capanna che le nostre storie dolcificano a nido edificante di un bambino meraviglioso ma lo sapete – voi! – che era una notte d’inverno e faceva un freddo atroce e il fuoco non bastava e, se Cristo non fosse stato il miracolo di se stesso, la febbre lo avrebbe assalito e lui sarebbe morto di freddo o di fame o per qualche agente maligno, e lo avrebbero pianto i suoi sventurati genitori, eletti da Dio?
     Certo, quando un uomo nasce, può scegliere le sue condizioni di vita. Può viaggiare o pensare, sposarsi o restare solo, leggere libri o conquistare città: ma non c’è nessuna differenza fra un eremita e un viaggiatore, entrambi si consumano, entrambi sono ben fragili fortezze. Uno preferisce farsi di pietra, l’altro di vento, ma alla fine devono tutti morire: e chi va sul Nilo a trovarsi oscure terzane e sopravvive, e chi non si sposta dal tugurio dove è nato e un piccolo verme lo possiede, distrugge il suo corpo, lo espropria dalla vita: questo è il dannato exitus a cui siamo tutti avviati, e i vostri corpi lo confermano, chi giovane, chi vecchio, chi malato. Nessuno di voi è immune dai segni del tempo e dai sintomi del male. Implorate al vostro corpo, che ora è qui, nudo, di tacere a lungo, di non portarvi le sue sorde pene; fatelo stare zitto; non forzatelo con lavori massacranti; non esibitelo come trofeo nelle guerre; non esponetelo in guerre di religione; non vituperatelo in risse da quattro soldi; non vi spaccate lo stomaco con la carne e i reni con la birra.
     Rispettiamoci: la morte verrà, anche se siamo prudenti. Ma forse, possiamo essere in armonia con lei, se cerchiamo di vivere un’ora d’ozio al giorno, di leggerezza assoluta, senza vestiti e senza rimorsi, disincantati e liberi.  Eccoci qui, corpi e volti nudi, come non siamo mai stati prima, a mezzanotte. Qui non ci sono orge o scandali, ma solo la pace giusta. Non sento più il sussurro delle fontane, le armonie dei clavicordi, i cori delle campane, i corni di caccia, le marce funebri, i canti liturgici. Ho perso il lessico del teologo per essere qui, con voi, nel dubbio reale dei capelli intorno all’osso, della pelle viva contro lo scheletro. Voi siete la mia mappa planetaria e le mie strofe perfette: voi significate il mio abbandono di ogni perfezione. Io entro, con voi, nella presenza della vita e della morte.
     Anche se la chiesa, come abbiamo voluto, è sbarrata a chiave. Anche se non vogliamo che nessun vescovo o nessuna guardia entri qui, dove preghiamo, e inorridito dallo scandalo delle mie parole condanni me al rogo e voi ai lavori forzati. Ma sarebbe bello fosse così per ognuno di noi – nella sua comunità; che fosse esposto a tutti, docile e giusto. Certo è che l’uomo, così come voi lo vedete, ha bisogno di tutto. E’ l’essere più fragile. Se questo fuoco uscisse dai limiti in cui lo abbiamo confinato e si appiccasse ai vostri corpi, cosa potrei fare io, per voi? cercare di salvarvi?  Ma come, se io sono debole e leggero quanto voi? e se questa chiesa fosse invasa dall’acqua e grandi onde frantumassero le vetrate e si impadronissero dei vostri corpi? e se il vento vi trascinasse via come fuscelli? e se la terra vi inghiottisse nei suoi crateri?
     Ecco, noi siamo qui, nudi e calmi, in questo Natale, solo perché la terra è tranquilla e non manda scosse e gli oceani non escono dai loro limiti. Noi esistiamo e i nostri padri e i padri dei padri e i figli dei figli e i figli dei nostri figli, magari per cinquecento anni, solo perché in questi cinquecento anni la terra è rimasta tranquilla. Quindi viviamo per caso: e intanto continuiamo a invecchiare e niente può arrestare il processo se non amare meno la vita e pensare con saggezza al possibile distacco.
     Guardate laggiù, i vostri abiti. Sono tutti fradici delle vostre fatiche, del sudore, della gioia che avete vissuto. Sanno di quando avete fatto all’amore o avete cagato i vostri escrementi. Sono una piccola montagna lurida. Ma racchiudono tutti i fatti che vi sono accaduti. Forse, in qualche brandello, ci sono rimasti anche i vostri pensieri.  Forse un giorno li brucerete, li dimenticherete, li getterete via, parte della vostra storia resterà in quelle fibre di tessuto, e le fibre non andranno distrutte, magari saranno macinate o riassorbite dall’acqua e porteranno nel mondo, dove voi siete morti, l’eco di voi.
     Eccoci qui, nudi. Le maschere le abbiamo lasciate lì, addossate al portale della chiesa, e qui nessuno entrerà. Ma ricordiamo che quelle maschere sono anche la nostra storia. Non illudiamoci di essere sempre nudi. Santi o veggenti o folli – è un destino di cui ho appena intravisto l’orrore.
     Qualcuno di voi è malato. Qualcuno di voi mi dirà che, magari, desidera uccidersi. Non c’è niente di più naturale, per l’uomo, che togliersi la vita. Cosa si può imputare, al suicida? Egli corre, invece di camminare. Si affretta, invece di rallentare. Cade nel pozzo, invece di esserci a fatica buttato dentro. Siamo tutti mortali. Non ci sono peccati né nel vivere né nel morire. Siamo tutti la mappa di un disegno sacro, che ognuno di noi potrebbe anche turbare, chi ridendo, chi giocando, chi uccidendo, chi cominciando a danzare. Non c’è un fato già scritto: già scritto è solo il fatto che morremo.
     Ma qui, adesso che siamo nudi e spaventati, io vi dico: guardiamo con chiarezza il mistero. Nutriamoci della morte come gustiamo la carne degli animali o le piante della terra, è tutto un ciclo naturale, non pensiamo troppo a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli, non possediamo i nostri pensieri ma facciamo che loro traversino noi. Non viviamoci indispensabili, anche se siamo portati a pensarlo, ognuno con le sue eccellenti ragioni. Tutti andiamo e veniamo dalla stessa porta. Ognuno di noi ha il suo volto e il suo incubo: la paura non è neppure un sentimento, è uno stato. E’ sangue della nostra carne, prendiamola con noi, passiamo con lei le nostre ore. Viviamo o uccidiamoci o sopportiamo gli stenti: ogni giorno ci colerà vita dalle mani, è stupido poi piangere quando qualcuno muore, come se un fato crudele ce lo avesse strappato. Sarebbe come incolpare una bottiglia di essere vuota, dopo che è stata bevuta giorno per giorno. Piangere, lo possiamo fare a ogni secondo che scappa dalle dieci dita; ma, se non fossimo esistiti, potremmo gustare questa gioia di esserci, di gridare e battere i piedi, e gustare il vino e tenerci per mano? Non saremmo nulla e allora niente servirebbe, né cibo né vesti né carezze.
     Se uscite di qui, quando sarete di nuovo con le vostre vesti, non pensate a voi stessi. Ricordate di esservi visti e che domani potete ancora vedervi, se il caso lo concede. Non c’è speranza o disperazione: solo una stretta di mano, un bacio, uno sguardo. Si vive di nulla. Qui, a pelle nuda, col sangue che ci scorre nelle vene. Qualcuno leggerà la mappa dei nostri corpi anche quando essi saranno cenere e solo le ossa indicheranno la nostra permanenza sulla terra. Qualcuno ci sognerà o respirerà di noi e noi rivivremo nel sogno di un re o nel rimpianto di un soldato, nel dolore di un mendicante o nel sonno di un eremita, in qualche angolo del pianeta, e allora, verme o Shakespeare, cosa importa, resteranno sempre le ossa, fuori sarà primavera o inverno, o qualche altra stagione.
     Forse qualcuno di noi, presente oggi, potrebbe domani uccidere il vicino, per una questione di donne o di campi. Si uccide per difendersi da chi ci opprime o ci offende: è un impulso naturale. Un uomo deve uccidere, per essere vivo: ma se lo fa, lo circondano ingombranti cadaveri, cose da sotterrare. Deve essere più scaltro. Deve, se sarà necessario, annientare l’altro, privarlo delle armi, ridurlo alla condizione di morto, ma senza spargere sangue. Così l’essere umano ammazza il padre e la madre non se li elimina fisicamente ma quando sa distaccarsene. Essere vivi è sempre e solo un distacco. Tutta la vita è un raffinato vagare nelle strategie dell’addio. Ma durante queste fasi, durante il tempo che ci separa dalla morte o dall’assassinio, eccoci nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, a dichiarare che amiamo, a non potere non amare, nel modo più eretico e folle, personale e avventuroso, quanto vogliamo e possiamo. E, se ci sarà occasione di odiare, odieremo.
     Ma ora rivestiamoci. Il tempo della Messa è quasi finito e non voglio che nessuno sappia di quanto è accaduto. Questa notte è stata irripetibile: teniamola dentro la nostra memoria come un evento. Spegniamo il fuoco e torniamo a vivere e a morire nelle nostre case. Non cerchiamo mai di opprimere o di rassegnarci ma di essere liberi, innanzitutto. Di sorprendere e meravigliarci. Mai dormire in se stessi ma addormentarsi fuori di sé, per uscire dai nostri corpi, lasciando a chi resta l’insegnamento del sogno e qualche gesto da ricordare.

Amen

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Biografia

John Donne nasce a Londra nel 1572 da un ricco mercante di ferramenta, fu educato dalla madre Elizabeth, figlia del drammaturgo J. Heywood e pronipote di Thomas More in ambiente cattolico. Dal 1584 studiò a Oxford. Frequentò (1591-1594) l'istituto legale di Lincoln's Inn. Soldato e cortigiano, partecipò alle spedizioni del conte di Essex a Cadice (1596) e alle Azzorre (1597). Nel 1601 sposò Anne More, nipote del guardasigilli lord Egerton di cui John Donne era segretario. Un matrimonio contrastato. Risale a questo periodo la conversione all'anglicanesimo. 
Anne More morì a 33 anni nel 1617 nel dare alla luce il dodicesimo figlio. Nel 1621 Donne ricevette la nomina a decano della cattedrale di Saint Paul, raggiungendo una posizione di grande prestigio che, nonostante le sue ambizioni, gli era stata preclusa come membro di corte – attraverso imprese eroiche o incarichi pubblici – e che poté conseguire invece come uomo di Chiesa. La sua salute si aggravò seriamente, compromessa per aver contratto il tifo, e il momento delicato lo portò a considerare con gravità le fragilità del fisico e la prospettiva della morte, soggetto che Donne, ormai irrimediabilmente rovinato dall'insorgere di un cancro allo stomaco, riprese in quello che viene ritenuto il suo sermone funebre, Death Duell, composto nel 1631. Gli ultimi momenti lo videro autoritrarsi in un sudario, e dal disegno fu ricavata da parte di Nicholas Stone una scultura marmorea, che restò indenne nell'incendio di Londra che distrusse la città nel 1666 e che è conservata nella cattedrale di St. Paul.
John Donne morì a Londra il 31 marzo del 1631; fu sepolto nella vecchia cattedrale di Saint Paul, dove è stata eretta una statua in suo onore portante un'epigrafe in latino, probabilmente composta dallo stesso Donne poco prima di morire.

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Monumento funebre di John Donne (1572-1631), St. Paul's Cathedral

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Prendersi cura di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DEL NATALE

Colletta

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo unico Figlio, affinché prendesse la nostra natura su di sé e nascesse in questo tempo da una vergine pura; concedici di essere rigenerati e resi tuoi figli per adozione nella grazia, rinnovati ogni giorno dal tuo Spirito Santo; per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Eb 1,1-12; Gv 1,1-14

«No, Dio non cerca l'adorazione, il capo chino, lo spirito che l'invoca, che lo interroga, nemmeno il grido della rivolta. Cerca, soltanto, di vedere, come vede il fanciullo, una pietra, un albero, un frutto, la pergola sotto il tetto, l'uccello che s'è posato su un grappolo maturo». Quali parole più appropriate di queste del poeta Yves Bonnefoy potrebbero descrivere il mistero dell'incarnazione? Il mistero di un Dio che ci salva amando e condividendo la nostra condizione umana in tutte le sue sfumature, quelle più delicate, come la contemplazione delle bellezze del creato, ma anche quelle più cupe: il freddo della stalla, le fatiche del lavoro quotidiano, una vita di stenti e peregrinazioni «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi; ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).

Con la sua incarnazione, con la sua intera vita e con la sua passione, Cristo si è spogliato della propria natura divina affinché Dio potesse essere presente anche nell'ultimo, nel più disprezzato e nel più sofferente degli uomini. Non c'è condizione umana che non sia toccata da Dio.
E se Dio si è spogliato della propria gloria, quanto più noi dovremmo spogliarci dei nostri orpelli, delle maschere che indossiamo per esorcizzare il nostro nulla e nascondere a noi stessi il nostro destino mortale?

La parola eterna, abbandonando ogni perfezione e condividendo la nostra natura umana, senza perdere la distinzione tra essa e la propria natura divina, ha dimostrato la dignità assoluta di ogni vita.

Cristo non è soltanto uno tra i grandi profeti di cui Dio si è servito nel corso dei secoli per far conoscere all'uomo i suoi disegni; egli è il rivelatore ultimo e definitivo della verità divina e lo è in virtù della sua natura stessa e della posizione eccelsa che egli occupa. Egli, che pur si abbassò facendosi scandalo nella sua passione, siede ora alla destra di Dio investito di podestà regale su tutte le creature.

Non c'è pietra d'inciampo più grande di questa per la nostra ragione e persino per ogni altra religione: un Dio onnipotente che si fa assoluta debolezza, che sceglie di nascere come un bambino, fragile e bisognoso delle nostre cure. Lui, che si prende cura di noi, avendoci donato tutto quello che abbiamo, a cominciare dalla nostra stessa esistenza. Prendiamoci anche noi cura di Dio, affinché egli possa crescere e noi diminuire.

- Rev. Dr. Luca Vona

Il Natale di Pierre Lyonnet

Straordinario piccolo fanciullo; ordinariamente si pensa alla scena dell'incontro coi dottori avvenuta a dodici anni..., ma è fin dall'inizio che egli è il capo, che guida tutto, che impone le sue condizioni...
Entrato nella vita di Giuseppe e di Maria, li vuole solo per sé: egli intende essere la loro sola ricchezza; Nazareth è un posto ancora troppo dignitoso e onorevole; bisogna mettersi per strada, andare a Betlemme, subire l'umiliazione delle porte chiuse e della paglia per giaciglio...
Qui egli nasce, sorride loro; essi non hanno altro che lui, hanno trovato la loro ricchezza. Essi hanno tutto. E sarà così fino alla fine; egli li manterrà spogli di tutto, piccoli, insignificanti. Nel silenzio e nell'oscurità, anzitutto il lavoro: niente altro che questo per Giuseppe, ma, a questo prezzo, si stabilisce l'intimità nella casa di Nazareth.
Più tardi, ecco Maria, lungo le strade, madre errante di un figlio errante, madre mostrata a dito di un figlio condannato a morte, madre dolorosa e agonizzante di un figlio sanguinante, morente in croce... 

- Padre Pierre Lyonnet S.J.


Pierre Lyonnet nacque nel 1906 e morì nel 1949 dopo una lunga vita di sofferenze. Entrato nel noviziato della Compagnia di Gesù nel novembre 1923, fu ordinato sacerdote il 24 giugno 1937. La sua dolorosa malattia lo costrinse a letto, tuttavia ricevette un ministero presso il collegio Saint-Michel di Saint-Etienne negli ultimi dieci anni della sua vita.

Giotto, la Natività, dalla Cappella degli Scrovegni

Vieni, vieni Dio-con-noi!

Veni, Veni, Emmanuel ("Emmanuel"=dall'ebraico, "Dio-con-noi") è un inno latino per il periodo dell'Avvento, il cui testo, di autore anonimo, risale forse all'VIII secolo e la cui melodia ebbe probabilmente origine in Francia nel XV secolo.

Il brano fu pubblicato per la prima volta nel 1710 a Colonia nei Psalteriolum Cantionum Catholicarum.

Un bellissimo inno d'Avvento, ottimo per la Novena di Natale (e la IV domenica d'Avvento). Non molto conosciuto - per la verità - in Italia, è invece famoso e richiestissimo nei paesi anglosassoni, dove si canta O Come o come Emmanuel. Ha la particolarità di essere costruito sul contenuto delle antifone "O", e quindi adattissimo al periodo liturgico che stiamo vivendo: l'immediata preparazione al Natale, significata dall'invocazione del ritornello: "Rallegrati, Rallegrati! L'Emmanuele nascerà per te, o Israele".
Non è un canto gregoriano antico, e viene spesso eseguito anche in polifonia.

Nel testo, che si compone di sette strofe, viene invocato l'arrivo del figlio di Dio, affinché il popolo d'Israele venga liberato dall'esilio.

Nel 1851 il reverendo britannico John Mason Neale tradusse solo cinque delle Antifone e le pubblicò nel suo Mediaeval Hymns and Sequences. Ulteriori traduttori e poeti misero mano al testo di “O come Emmanuel” e in particolare il reverendo Thomas A. Lacey (1853-1931) e il ministro presbiteriano Henry Sloane Coffin  (1877-1954). La melodia è stata arrangiata dal pastore anglicano Thomas Helmore e venne pubblicata nel 1854 nell’ The Hymnal Noted con il testo tradotto dal Rev. Neale
Il brano è interpretato da moltissimi artisti ed è un brano spesso contenuto nelle raccolte dei Celtic Christmas Songs anche in versione strumentale.

Qui di seguito una esecuzione del King's College e il testo, nell'originale latino, nella traduzione italiana, e nella versione inglese.



Veni, veni Emmanuel!
Captivum solve Israel!
Qui gemit in exilio,
Privatus Dei Filio,
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.


Veni, O Sapientia,
quae hic disponis omnia,
veni, viam prudentiae
ut doceas et gloriae.
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.


Veni o Jesse virgula!
Ex hostis tuos ungula,
De specu tuos tartari
Educ, et antro barathri.
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.


Veni, veni o oriens!
Solare nos adveniens,
Noctis depelle nebulas,
Dirasque noctis tenebras.
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Veni clavis Davidica!
Regna reclude coelica,
Fac iter Tutum superum,
Et claude vias Inferum.
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.



Veni, veni Adonai!
Qui populo in Sinai
Legem dedisti vertice,
In maiestate gloriae.
Gaude, gaude, Emmanuel
nascetur pro te, Israel.

Vieni, vieni, Emmanuele
libera dalla prigionia Israele,
che si addolora in esilio,
privata dal figlio di Dio.
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.

Vieni O Sapienza
che disponi di questo mondo
vieni, la via della prudenza
insegnaci per la Gloria
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.

O vieni Ramo di Jesse
dallo zoccolo del tuo nemico,
dalla caverna dell'Averno
liberaci e dalla morte.
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.

Vieni, o vieni, sole d’Oriente;
Allontana le tenebre della notte
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.


O vieni, Chiave di Davide,
spalanca (le porte) del Regno;
rendi sicura la via del Cielo,
e chiudi l'accesso agli Inferi.
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.


Vieni, vieni, O Signore
che dall'alto del Sinai
donasti la legge al popolo
nella maestà della Gloria
Rallegrati! Rallegrati! L'Emmanuele
nascerà per te o Israele.



O come, O come, Emmanuel!
Redeem thy captive Israel
That into exile drear is gone,
Far from the face of God's dear Son.
Rejoice! Rejoice! Emmanuel
Shall come to thee, O Israel.

O come, thou Branch of Jesse! draw
The quarry from the lion's claw;
From the dread caverns of the grave,
From nether hell, thy people save.
Rejoice! Rejoice! Emmanuel
Shall come to thee, O Israel.

O come, O come, thou Dayspring bright!
Pour on our souls thy healing light;
Dispel the long night's lingering gloom,
And pierce the shadows of the tomb.
Rejoice! Rejoice! Emmanuel
Shall come to thee, O Israel.

O Come, thou Lord of David’s Key!
The royal door fling wide and free;
Safeguard for us the heavenward road,
And bar the way to death's abode.
Rejoice! Rejoice! Emmanuel
Shall come to thee, O Israel.

O come, O come, Adonai,
Who in thy glorious majesty
From that high mountain clothed in awe,
Gavest thy folk the elder Law.
Rejoice! Rejoice! Emmanuel
Shall come to thee, O Israel.




Ridestiamoci dal sonno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Ti supplichiamo Signore, solleva la tua potenza e vieni in nostro soccorso; affinché mentre corriamo, affaticati e ostacolati, tra il peccato e la debolezza, sul percorso che ci hai posto dinanzi, la tua grazia e la tua misericordia, possano soccorrerci prontamente. Per Gesù Cristo, nostro Signore, al quale, con te e con lo Spirito Santo, va ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Fil 4,4-7; Gv 1,19-28

Commento

«Egli è colui che viene dopo di me e che mi ha preceduto» (Gv 1,27). In queste parole di Giovanni Battista è racchiusa la ragione della nostra speranza. Dio ci precede nel donarci la sua salvezza. 

La colletta della quarta settimana di Avvento richiama la seconda lettera di San Paolo a Timoteo, scritta dalla prigionia, nella consapevolezza della morte imminente: "Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno" (2 Tim 4,7-8). Ma come ci ricorda questa preghiera liturgica la corsa può risultare estremamente faticosa, e può essere non priva di inciampi, a volte di rovinose cadute, a causa del peccato e della nostra debolezza. Il Signore ci viene incontro, con la sua grazia e la sua misericordia.

Fin dal primo atto di allontanamento dal Creatore vediamo nel libro della Genesi un Dio che cerca la sua creatura, chiamandola per il giardino: «Dove sei?» (Gen 3,9). Anche dopo l'allontanamento dell'uomo dall'Eden, Dio parla ai patriarchi, come a Giacobbe, nel sogno della scala mediante la quale gli angeli salgono e scendono dal cielo. Qui Dio gli promette «Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai... non ti abbandonerò» (Gen 28,15).

L'Avvento e il tempo di Natale sono il momento in cui maggiormente siamo chiamati a riconoscere la presenza di Dio tra noi. La lettera di Paolo ai Filippesi descrive il mirabile scambio di nature che si realizza nel mistero dell'incarnazione. Una dinamica circolare ascendente e discendente, proprio come quella degli angeli sulla scala di Giacobbe. Per questo la letteratura cristiana antica, in Oriente, parla di theosis kenosis, divinizzazione e spoliazione: divinizzazione dell'uomo, mediante la spoliazione di Dio. L'apostolo Paolo lo afferma con parole eloquenti: "Cristo Gesù... essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell'esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6). Vi è un profondo legame tra l'incarnazione e la passione.

Dio ha spogliato se stesso, assumendo la nostra natura, la nostra miseria, affinché non vi potesse essere più alcuna regione dell'umano classificabile come terra straniera, "senza Dio". Affinché saltassero tutte le distinzioni tra "sacro" e "profano". Affinché ciascuno di noi potesse esclamare, come Giacobbe, ridestatosi dal suo sogno profetico in terra straniera: «Certamente l'Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Ridestiamoci dal sonno, dunque, e riconosciamo il Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 23 dicembre 2023

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Emmanuel


O Emmanuel,
nostro re e legislatore,
speranza delle genti,
e loro Salvatore:
vieni e salvaci,
Signore, nostro Dio.

O Emmanuel,
Rex et legifer noster,
expectatio gentium,
et Salvator earum:
veni ad salvandum nos,
Domine, Deus noster.



Advent Antiphons No. 7 - O Emmanuel - Queen's College



Antifona di Avvento No. 7 - O Emmanuel - Canto gregoriano

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Lettura

Luca 1,57-66.80

57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. 59 All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61 Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. 80 Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Commento

Il più grande conforto che possiamo avere dai nostri figli è di metterli nelle mani di Dio. Per questo la circoncisione, che è stata sostituita, nella nuova alleanza, dal battesimo cristiano, diviene occasione di gioia più grande della stessa nascita. 

L'usanza giudaica era quelle di dare nome al bambino proprio in occasione della circoncisione, così come Abramo ricevette un nome nuovo dopo aver sancito l'alleanza con Dio mediante questo segno esteriore. Il Signore, infatti, chiama per nome coloro che sono affidati a lui, il che significa che non è solo genericamente il Dio del popolo dei salvati, ma il Padre di ciascuno di noi, che così possiamo chiamarlo in virtù del rapporto personale e filiale che abbiamo con lui. 

Questo rapporto, insito in un "nome nuovo", unico, che ci viene attribuito è ben rappresentato dal contenzioso tra Elisabbetta e gli amici e parenti giunti per assistere alla circoncisione di Giovanni. Questi suggeriscono di chiamarlo Zaccaria, come il padre, ma lei si oppone e mossa dallo Spirito Santo afferma risolutamente che si chiamerà Giovanni.

Comunicando con Zaccaria mediante segni, i vicini e parenti ottengono anche da lui la risposta scritta che il bambino dovrà chiamarsi Giovanni. Muto e sordo, Zaccaria non può fare a meno di esprimere la volontà di Dio. Quando lo Spirito parla sa come farsi sentire. Così affermerà Gesù, quando i farisei rimprovereranno la folla esultante al suo ingresso a Gerusalemme: "se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19,40). 

Compiuta la volontà di Dio sul bambino la lingua di Zaccaria si scioglie in un canto di lode. Giovanni susciterà meraviglia e la sua fama si spargerà per le regioni circostanti fin dall'infanzia, anticipando quella che otterrà con l'inizio del suo ministero profetico, quando folle di peccatori verranno a lui in cerca di conversione. Ci si sarebbe aspettato di vedere Giovanni sacerdote come suo padre. Ma i piani di Dio per lui erano altri. Egli sarebbe diventato un profeta. Il più grande dei profeti.

Dio ci ama nella nostra specificità e ha un piano di salvezza e di santità particolari per ognuno di noi. Chiediamogli la grazia per imparare ad essere la migliore versione di noi stessi, piuttosto che la brutta copia di qualche santo.

Preghiera

O Dio, che ci chiami per nome, rivelaci la tua volontà ed effondi su di noi il tuo Spirito, affinché possiamo portarla a compimento a lode del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona