Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 30 dicembre 2018

Eredi di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO IL NATALE

Colletta

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo unico Figlio, affinché prendesse su di sé la nostra natura e nascesse in questo tempo dal grembo di una vergine; concedici di essere rigenerati e fatti tuoi figli per adozione e grazia; affinché possiamo essere quotidianamente rinnovati dallo Spirito Santo. Per Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo stesso Spirito, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Gal 4,1-7; Mt 1,18-25

Commento

Il tema dell'adozione per grazia - richiamato nella Colletta della liturgia del giorno e nella Lettera di Paolo ai Galati - ci costringe a rivedere radicalmente la nostra immagine di Dio. La rivelazione del Dio trinitario e della dinamica che ne anima la vita, interna ed esterna, ci è data innanzitutto nel mistero dell’incarnazione. Dio ci viene rivelato come Padre, dunque non come un'ente chiuso in se stesso, sterile e autoreferenziale, ma capace di generare in eterno un'altro da sé, il Figlio, e di effondere su di esso il proprio amore. Il Figlio restituisce al Padre questo amore, che è lo Spirito Santo, in una dinamica che è come quella di una sorgente perenne, capace di autoalimentare il proprio flusso, senza fine né principio.

Ma il mistero dell'adozione a figli, mediante l'incarnazione del Verbo, ci offre una ulteriore rivelazione. La capacità del Dio trinitario di effondere la propria vita anche al di fuori di sé. Assumendo e condividendo fino in fondo la nostra natura umana il Figlio ci rende una cosa sola con lui. Il processo discendente e di spoliazione che ha inizio con l'incarnazione del Verbo e giunge alla rinuncia di Dio a se stesso nella passione e morte di Cristo, ha un parallelo nella progressiva ascesa della natura umana, nel momento in cui Dio decide di assumerla su di sé, di innalzarla rivestendosi di essa.

L’incarnazione dell'eterno Figlio è il passo decisivo con cui Dio ci offre, gratuitamente, la possibilità di essere inseriti nella sua vita trinitaria. È il segno della fedeltà di Dio alla sua creatura, che ci consente di recuperare non solo il paradiso perduto, ma di condividere la stessa vita divina, di ottenere ciò che i nostri progenitori desideravano e che il menzognero tentatore gli prospettava come un qualcosa che Dio non ci avrebbe concesso: «Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e sarete come Dio» (...) "Allora si apersero gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi" (Gn 3,5-7). 

La comunione con Cristo, non solo restaura in noi l'immagine originaria, ma ci fa eredi di Dio; sicché quando il Padre ci guarda, non vede noi, non vede me, non vede te... ma vede il Figlio suo, ci ama come il suo Figlio prediletto. E quando noi preghiamo rivolgendoci al Padre, noi preghiamo con la stessa voce del Figlio di Dio, mediante lo Spirito Santo, che egli ha effuso abbondantemente su di noi.

Fatti figli nel Figlio, Dio può vederci realmente con gli occhi di un Padre. Non siamo più orfani in terra straniera, ma siamo chiamati a regnare con Cristo, nel quale il Padre ci dice: «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generato» (Sal 2,7) e «Ogni cosa mia è tua» (Lc 15,31).

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 27 dicembre 2018

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martedì 25 dicembre 2018

Prendersi cura di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DEL NATALE

Colletta

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo unico Figlio, affinché prendesse la nostra natura su di sé e nascesse in questo tempo da una vergine pura; concedici di essere rigenerati e resi tuoi figli per adozione nella grazia, rinnovati ogni giorno dal tuo Spirito Santo; per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Eb 1,1-12; Gv 1,1-14

«No, Dio non cerca l'adorazione, il capo chino, lo spirito che l'invoca, che lo interroga, nemmeno il grido della rivolta. Cerca, soltanto, di vedere, come vede il fanciullo, una pietra, un albero, un frutto, la pergola sotto il tetto, l'uccello che s'è posato su un grappolo maturo». Quali parole più appropriate di queste del poeta Yves Bonnefoy potrebbero descrivere il mistero dell'incarnazione? Il mistero di un Dio che ci salva amando e condividendo la nostra condizione umana in tutte le sue sfumature, quelle più delicate, come la contemplazione delle bellezze del creato, ma anche quelle più cupe: il freddo della stalla, le fatiche del lavoro quotidiano, una vita di stenti e peregrinazioni «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi; ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).

Con la sua incarnazione, con la sua intera vita e con la sua passione, Cristo si è spogliato della propria natura divina affinché Dio potesse essere presente anche nell'ultimo, nel più disprezzato e nel più sofferente degli uomini. Non c'è condizione umana che non sia toccata da Dio.
E se Dio si è spogliato della propria gloria, quanto più noi dovremmo spogliarci dei nostri orpelli, delle maschere che indossiamo per esorcizzare il nostro nulla e nascondere a noi stessi il nostro destino mortale?

La parola eterna, abbandonando ogni perfezione e condividendo la nostra natura umana, senza perdere la distinzione tra essa e la propria natura divina, ha dimostrato la dignità assoluta di ogni vita.

Cristo non è soltanto uno tra i grandi profeti di cui Dio si è servito nel corso dei secoli per far conoscere all'uomo i suoi disegni; egli è il rivelatore ultimo e definitivo della verità divina e lo è in virtù della sua natura stessa e della posizione eccelsa che egli occupa. Egli, che pur si abbassò facendosi scandalo nella sua passione, siede ora alla destra di Dio investito di podestà regale su tutte le creature.

Non c'è pietra d'inciampo più grande di questa per la nostra ragione e persino per ogni altra religione: un Dio onnipotente che si fa assoluta debolezza, che sceglie di nascere come un bambino, fragile e bisognoso delle nostre cure. Lui, che si prende cura di noi, avendoci donato tutto quello che abbiamo, a cominciare dalla nostra stessa esistenza. Prendiamoci anche noi cura di Dio, affinché egli possa crescere e noi diminuire.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 23 dicembre 2018

Ridestiamoci dal sonno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Ti supplichiamo Signore, solleva la tua potenza e vieni in nostro soccorso; affinché mentre corriamo, affaticati e ostacolati, tra il peccato e la debolezza, sul percorso che ci hai posto dinanzi, la tua grazia e la tua misericordia, possano soccorrerci prontamente. Per Gesù Cristo, nostro Signore, al quale, con te e con lo Spirito Santo, va ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Fil 4,4-7; Gv 1,19-28

Commento

«Egli è colui che viene dopo di me e che mi ha preceduto» (Gv 1,27). In queste parole di Giovanni Battista è racchiusa la ragione della nostra speranza. Dio ci precede nel donarci la sua salvezza. 

La colletta della quarta settimana di Avvento richiama la seconda lettera di San Paolo a Timoteo, scritta dalla prigionia, nella consapevolezza della morte imminente: "Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno" (2 Tim 4,7-8). Ma come ci ricorda questa preghiera liturgica la corsa può risultare estremamente faticosa, e può essere non priva di inciampi, a volte di rovinose cadute, a causa del peccato e della nostra debolezza. Il Signore ci viene incontro, con la sua grazia e la sua misericordia.

Fin dal primo atto di allontanamento dal Creatore vediamo nel libro della Genesi un Dio che cerca la sua creatura, chiamandola per il giardino: «Dove sei?» (Gen 3,9). Anche dopo l'allontanamento dell'uomo dall'Eden, Dio parla ai patriarchi, come a Giacobbe, nel sogno della scala mediante la quale gli angeli salgono e scendono dal cielo. Qui Dio gli promette «Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai... non ti abbandonerò» (Gen 28,15).

L'Avvento e il tempo di Natale sono il momento in cui maggiormente siamo chiamati a riconoscere la presenza di Dio tra noi. La lettera di Paolo ai Filippesi descrive il mirabile scambio di nature che si realizza nel mistero dell'incarnazione. Una dinamica circolare ascendente e discendente, proprio come quella degli angeli sulla scala di Giacobbe. Per questo la letteratura cristiana antica, in Oriente, parla di theosis kenosis, divinizzazione e spoliazione: divinizzazione dell'uomo, mediante la spoliazione di Dio. L'apostolo Paolo lo afferma con parole eloquenti: "Cristo Gesù... essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell'esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6). Vi è un profondo legame tra l'incarnazione e la passione.

Dio ha spogliato se stesso, assumendo la nostra natura, la nostra miseria, affinché non vi potesse essere più alcuna regione dell'umano classificabile come terra straniera, "senza Dio". Affinché saltassero tutte le distinzioni tra "sacro" e "profano". Affinché ciascuno di noi potesse esclamare, come Giacobbe, ridestatosi dal suo sogno profetico in terra straniera: «Certamente l'Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Ridestiamoci dal sonno, dunque, e riconosciamo il Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 9 dicembre 2018

I tratti del buon ministro del vangelo

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore Gesù Cristo, che nella tua prima venuta hai mandato il tuo messaggero per preparare la via dinanzi a te; concedi che i ministri e dispensatori dei tuoi misteri possano allo stesso modo preparare e rendere pronta la via, convertendo i cuori disobbedienti alla saggezza e alla giustizia; affinché nella tua seconda venuta per giudicare il mondo possiamo essere trovati come popolo accettevole alla tua vista; tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

1 Cor 4,1-5; Mt 11,1-10

Commento

All'inizio del quarto capitolo della prima lettera ai Corinzi Paolo delinea la natura del ministro di Dio. Lungi dall'essere un alter Christus egli è un subordinato, un amministratore, che dispensa un tesoro non suo. Così anche nella seconda lettera ai Corinzi l'Apostolo afferma: "Or noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché l'eccellenza di questa potenza sia di Dio e non da noi" (2 Cor 4,7).

Dinanzi a Cristo, capo della Chiesa, la posizione dei pastori è quella di un'assoluta ed umile dipendenza. Dalla grazia di Dio essi ricevono i doni necessari di conoscenza, di parola, di compassione per gli uomini; da lui la vocazione interiore. La Chiesa non può che riconoscere questi doni e questa vocazione ed accogliere con riconoscenza coloro che il Signore le manda.

A Dio appartiene l'opera alla quale i ministri consacrano le forze. Da Dio procede la benedizione che rende efficace il lavoro degli operai. A Dio devono i ministri rendere conto del loro operato. Il pastore è per la chiesa, non la chiesa per il pastore. La funzione affidata ai ministri del vangelo è quella degli economi nelle grandi case. Essi dispensano i beni del loro padrone, hanno la sovrintendenza e la cura degli altri servi a cui devono distribuire il cibo.

Gli apostoli non devono tener conto né degli apprezzamenti né delle ostilità ricevuti, affidandosi unicamente al giudizio divino che verrà alla fine dei tempi, nel giorno del Signore. La nostra capacità di consapevolezza verso il peccato è offuscata secondo Paolo; per questo egli afferma "non giudico neppure me stesso. Non sono infatti consapevole di colpa alcuna; non per questo sono però giustificato" (1 Cor 4,3-4). Non conosciamo i moti più profondi del cuore umano: né quelli altrui, né i nostri. Per questo ci è richiesta una fede assoluta nella grazia di Dio e nel potere santificante del suo Spirito. 

Tuttavia ciò non ci esime dal coltivare un grande senso di responsabilità nel mettere in pratica l'insegnamento evangelico; e a questo sono chiamati tanto coloro che si consacrano in modo speciale al ministero pastorale, quanto coloro che essi ammaestrano.

Al capitolo undicesimo del Vangelo di Matteo Gesù applica a se stesso un passo del libro di Isaia (61,1) mandando a dire a Giovanni il Battista che l'evangelo è annunziato ai poveri (Mt 11,5); laddove dobbiamo intendere non solo coloro che dispongono di scarsi mezzi materiali, ma ogni uomo con un cuore umile e un orecchio capace di mettersi in ascolto, oltre il fracasso, le seduzioni e le illusioni mondane.

I poveri erano anche coloro che fino a quel momento i farisei e i grandi dottori della Legge avevano trascurato nella propria predicazione. Il buon ministro del vangelo deve portare la Parola a ogni uomo, anche a coloro che la società non prende in considerazione e "Beato chi non si scandalizza di me" afferma Gesù  (Mt 11,6). Beato, cioè, chi non rigetta il suo messaggio, ma sa cogliererne la profonda ricchezza.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 2 dicembre 2018

Le mie parole non passeranno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore santo, che hai ispirato tutte le Scritture affinché fossero scritte per la nostra edificazione; concedici di ascoltarle, leggerle, memorizzarle, apprenderle e interiorizzarle, affinché mediante il conforto e la pazienza donati dalla tua santa parola, possiamo abbracciare e mantenere la beata speranza della vita eterna, che ci hai donato nel nostro Salvatore Gesù Cristo. Amen.

Letture

Rm 15,4-13; Lc 21,25-33

Commento

La mèta ultima della storia è la lode unanime del Padre, in comunione con il Figlio, nello Spirito Santo. Il vangelo, annunciato negli ultimi tempi, testimonia questa aspirazione affinché tutte le voci compongano un'armonia simile a quella di molti strumenti, ciascuno diverso nel suo timbro, ma tutti accordati nell'azione comune.

Questo ideale va realizzato non solo nella preghiera; Dio infatti, avendo accolto a sé i peccatori, senza distinzione di giudei e di pagani, di ricchi, e di poveri, d'ignoranti, e di dotti, deve essere glorificato da tutti, con la parola e con l'azione conforme al vangelo. Come Cristo ha accolto noi, per la gloria del Padre, noi dobbiamo accogliere ogni uomo, superando le offese, le antipatie, il divario di opinioni.

Nella chiesa militante convivono deboli e forti nella fede. È una realtà inevitabile giacché non si può pretendere lo stesso grado di conoscenza e di esperienza cristiana nei fanciulli e negli uomini fatti. Se tutti devono tendere all'unità nella fede, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef 4,13), a questo ideale non si giunge d'un tratto né per imposizione d'autorità, ma in forma graduale e progressiva. Intanto il bambino e il giovane hanno il loro posto legittimo nella famiglia, al pari dell'uomo maturo e dell'anziano.

Nella fede in Cristo ciascuno può trovare la pienezza della gioia e la capacità di coltivare relazioni interpersonali virtuose; come testimonia Paolo: "Il Dio della speranza vi riempia d'ogni allegrezza e pace nel vostro credere" (Rm 15,13). E l'Apostolo aggiunge: "mediante la potenza dello Spirito Santo": non il semplice sforzo umano, ma la potenza dello Spirito di Dio può alimentare nel cristiano la fiamma della speranza e della carità fraterna.

Cristo viene sulle nubi, la sua manifestazione vittoriosa si realizza per mezzo dello Spirito, consolidando il regno del vangelo sulla terra, e favorendo la sua propagazione fra tutti i popoli mediante l'opera dei suoi inviati.

Ma guai a quella chiesa in cui l'istituzione soffoca la potenza dello Spirito. La comunità può essere forte là dove le coscienze individuali si esprimono e respirano nella ricerca di una relazione personale con Dio, spinte da un senso profondo di responsabilità.

Nella predicazione di Gesù troviamo il richiamo ad affidarci alla parola di Dio, ad aggrapparci ad essa come àncora di salvezza nelle acque turbinose dell'esistenza umana. Questa la sua promessa, che alimenta la speranza del cristiano: "i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Lc 21,33).

- Rev. Dr. Luca Vona