Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

L’ultima tentazione: eremita metropolitano

Ciò che proprio non vogliono è far notizia. Ciò che cercano è il silenzio, la discrezione, il nascondimento: la loro porta resterà chiusa, se voleste bussarvi come giornalisti o anche soltanto come curiosi. Personalmente, ho il privilegio di conoscerne alcuni, qua e là per l’Europa, ma non avrei più alcun accesso alle loro nicchie se infrangessi la promessa di non dare nomi o indirizzi. Comunque, se proprio voleste rintracciarli, non cercateli in luoghi deserti ed inospiti: è più probabile che li troviate nei casermoni delle periferie urbane o nelle soffitte al centro delle metropoli.

Parlo degli eremiti. Che sono tornati alla grande, che aumentano ogni anno, anche se pochi lo sanno: com’è ovvio, visto il loro impegno nel passare inosservati. Di loro, invece, sa la Chiesa, che ha deciso di rifargli posto nella sua struttura. In effetti, il Codice di diritto canonico del 1917 li ignorava. Non per ostilità, ma semplicemente perché sembravano far parte di una pagina cristiana lunga e gloriosa ma ormai definitivamente conclusa.

Una pagina iniziata prima ancora di Costantino quando, in Oriente, migliaia di credenti fuggirono nel deserto (éremos, in greco) o sulle montagne: grotte, anfratti, capanne si riempirono di solitari in lotta con leoni e serpenti, ma anche con diavoli tentatori. Il prestigio dei loro digiuni, delle penitenze, del silenzio ininterrotto provocava l’afflusso di discepoli e il solitario era spesso forzato ad accoglierli, creando – magari controvoglia comunità cui dare una regola

Fu, questo il destino pure di colui che, in Occidente, sarebbe stato all’origine della forma di monachesimo che segnò beneficamente i secoli. In effetti, Benedetto da Norcia esordi come eremita, nello Speco di Subiaco, ma fu stanato e costretto a trasformarsi in maestro e legislatore di cenobi dalla sua stessa fama di santità.

Eppure, malgrado il sorgere di migliaia di abbazie, monasteri, conventi, dove la vita religiosa era in comune e istituzionalizzata, molti credenti continuarono a seguire la vocazione all’isolamento, alla solitudine, alla libertà di redigersi essi stessi la “loro” regola. Il Medio Evo pullulò di eremiti, molti dei quali trovavano un sostentamento custodendo cimiteri, ponti, passi montani, fari, santuari. Il declino cominciò con il Concilio di Trento, che diffidò degli anacoreti perché incontrollabili e si concluse con il Settecento dei Lumi e con la Rivoluzione francese che perseguitò questi «parassiti asociali», nonché «oscurantisti fanatici», come li considerava.

Nell’Ottocento, l’eremita sarà quasi soltanto un personaggio da racconto romantico, alla Conte di Montecristo, da pittura “gotica” o da opera lirica. All’interno della Chiesa cattolica, la vocazione speciale alla solitudine era stata dei certosini o dei camaldolesi, dove l’isolamento è unito alla comunione con i fratelli nella preghiera e nella conversazione, seppure una sola volta alla settimana.

Il silenzio del Codice ecclesiale del 1917 è, lo si diceva, significativo: niente più anacoreti, dunque niente regolamentazione. E invece, questa vocazione – rara ma insopprimibile non era affatto scomparsa ma covava sotto la cenere. Come ha dovuto prendere atto il nuovo Codice, pubblicato nel 1983. Al secondo comma del canone (03 la Chiesa riconosce ufficialmente gli eremiti come “consacrati” se «con voto o con altro vincolo sacro, professano pubblicamente i tre consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza) nelle mani del Vescovo diocesano». E se dallo stesso Ordinario del luogo fanno approvare una Regola da essi stessi redatta. Una legislazione “leggera”, adempimenti minimi, dunque. Ma com’è giusto e doveroso per una scelta di vita ispirata dall’obbedienza alla Chiesa e alla lettura più rigorosa del Vangelo ma al contempo alla libertà, all’autonomia dei figli di Dio che seguono una vocazione particolare e del tutto personale.

Statistiche e inchieste, qui, sono difficili, se non impossibili: anche se individuati (e non è agevole, vista la discrezione estrema) ben di rado gli eremiti rispondono ai questionari e, meno che mai, alle domande orali di qualche ricercatore un po’ ingenuo. Malgrado questo, in Francia e in Germania sono stati pubblicati dei libri in proposito. E ora è apparsa la ricerca dei gesuiti americani, sul loro quadrimestrale per consacrati Rewiew for Religious . Bisogna riconoscere che quei religiosi Usa hanno avuto un certo successo: hanno scelto un campione di 600 eremiti, in tutto il mondo, ottenendo 140 risposte. Una miseria per qualunque altra categoria sociale, ma un buon esito per l’anomala categoria degli eremiti. Categoria che, stando a valutazioni attendibili, conterebbe nel mondo almeno ventimila persone: in Italia, tra i mille e i milleduecento, uomini e donne in numero quasi eguale. La grande maggioranza è cattolica, ma non mancano altre confessioni cristiane e altre religioni. In effetti, come è stato osservato, l’anacoreta è il più ecumenico tra i credenti, perché ritrova – vivendoli ogni giorno – i valori che accomunano tutte le fedi: preghiera, penitenza, sacrificio, dígiuno, distacco, contemplazione…

Anche tra i neoeremiti italiani sembra valere quanto rilevato dalla inchiesta americana, secondo la quale soltanto un due per cento ha scelto di vivere in grotte o in ambienti del genere, come in scantinati o sotto arcate di ponti. E non è neanche più vero che la maggioranza stia nelle campagne o su monti e colline. In realtà, il maggior numero di eremiti, oggi, è “metropolitano”: è la grande città il luogo vero della solitudine, dell’anonimato, del combattimento silenzioso contro i nuovi demoni. Come rileva ancora l’inchiesta americana (ma come già sapeva chi segua simili cose), questa è una scelta da fare in età adulta: la maggioranza dei solitari è tra i cinquanta e i sessanta anni, rarissimi sono quelli sotto i trenta. E’ ben noto un antico proverbio: «A giovane eremita, vecchio diavolo». Tutti i maestri di spirito hanno sempre insegnato che una simile vocazione contrassegna una élite di uomini e di donne particolarmente sperimentati. In effetti, non c’e, nell’eremo, il sostegno di una comunità fraterna; la solitudine e il silenzio costanti sono una gioia solo per chi vi sia davvero chiamato; non c’è neppure un abito, un saio, uno status sociale che in qualche modo sorreggano. Non solo: la doverosa povertà si fa spesso miseria, soprattutto per quelli che hanno trovato in città i loro “deserto”. Poiché l’anacoreta cercherà di fuggire ogni “dispersione” e, quindi, lavori in fabbriche o uffici, vivrà di piccole cose che può fare tra le sue quattro, modestissime mura. Ma questo non assicura quasi mai un reddito sufficiente per una vita che non scada dalla povertà nell’ indigenza. Da qui, l’attesa di molti di avere un’età sufficiente per una pensioncina, per quanto minima, che permetta di coltivare in pace la propria vocazione. In genere, sono più fortunati, per la sopravvivenza quotidiana, coloro che hanno la loro casupola o baracca in campagna. Come testimoniano tutte le esperienze, i primi tempi sono duri, per la diffidenza dei contadini che si chiedono chi sia quel «forestiero» solitario, di solito dall’aria distinta (la maggioranza) che; non riceve visite che non ha né telefono né televisore, che va a letto con le galline e si alza all’alba, che scambia con tutti – Parroco compreso – solo il minimo indispensabile di parole. Così, quasi sempre, la prima visita è dei gendarmi locali, allertati dalle segnalazioni dei vicini. Poi, pian piano, il «forestiero» è accettato come un membro, seppure eccentrico e inafferrabile, della comunità e sul suo davanzale e sulla soglia della sua porta cominceranno ad apparire verdure, frutta, pane, latte, spesso accompagnati da un biglietto che chiede preghiere. Senza contare quanto può dare (di solito, non molto: ma pur sempre qualcosa) il pezzo d’orto di cui molti eremiti “campagnoli” dispongono. Per quanto la maggioranza sia composta da laici, sono numerosi coloro che – preti, frati, suore- giungono alla vita eremitica dopo molti anni in comunità tradizionali. Sono i più fortunati: chiesto, e avuto, il permesso di passare a questa nuova orma di vita, ottengono spesso un aiuto dalla famiglia religiosa da cui provengono.

Ma perché una simile scelta? Occorre dire, innanzitutto, che è una scelta (o, meglio, una vocazione, una chiamata) che ha trovato una nuova fioritura per reazione all’ebbrezza “comunitaria”, “sociale” che ha travolto molti ambienti religiosi. L’eccesso di insistenza sull’impegno nel mondo e il tracimare delle parole scritte e parlate hanno portato molti, per contrasto, a riscoprire la forza della preghiera e la gioia del silenzio. L’eremita dà la sua vita per cose “inutili” secondo il mondo e, purtroppo, secondo certo efficientismo cristiano attuale. La piccola, semplice regola che egli stesso si scrive – e che, volendo, sottopone all’approvazione del vescovo – prevede soprattutto ore di preghiera, di lettura spirituale, di meditazione. Prevede veglie, digiuni, penitenze, rinunce. Prevede lavori “superflui”, come la confezione di rosari o di ostie per la messa o la pittura di icone. C’è, nell’eremita, il rifiuto radicale della logica mondana, per la quale solo l’azione, la politica, l’impegno sociale, gli investimenti economici possono modificare in meglio il mondo. Quanto a lui, ha risposto a una chiamata che gli ha fatto capire sino in fondo che solo chi getta via la sua vita la salva; e che il modo più efficace di amare e di aiutare è seppellirsi nell’anonimato, nel silenzio, nella impotenza, credendo sino in fondo ai misteriosi legami della «comunione dei santi».

E’ questo, credo, che voleva dire la scritta sul muro che vidi in una stanzetta d’anacoreta in una casa degradata nel cuore di Torino: «Chi va nel deserto non è un disertore». Non un disertore, ma, piuttosto, un credente che, invece che l’attivismo solo apparentemente costruttivo, ha scelto di praticare la forma più alta di carità, nella prospettiva evangelica: la preghiera ininterrotta, per tutti, nella solitudine e nel silenzio più radicali.

- Vittorio Messori, 17 agosto 2002, Corriere della Sera



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