COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIDUESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITA’
Colletta
Signore,
ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa nella tua bontà; affinché
mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e dedita al
tuo servizio nelle opere buone, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo
nostro Signore. Amen.
Letture:
Fil 1,3-11; Mt 18,21-35
Vi è un profondo legame tra i "frutti di
giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude la pericope paolina dalla lettera
ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.
La giustizia, ovvero la nostra gustificazione e
santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, maturano
da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericoordia di Dio, che ci
condona ogni colpa. E, infatti, i frutti di giustizia "si hanno per mezzo
di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioé non
dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, con la nostra
intelligenza, con il nostro cuore, nella comunione che si realizza attraverso
la fede. E, a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria
di Dio, cioé la sua magnificenza, la sua bontà, la sua bellezza, e di suscitare
nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.
Ciò non viene compreso dal protagonista della
parabola del creditore spietato.
L'occasione di questo racconto è suscitata da ujna
domanda posta da Pietro a Gesù. Pieetro aveva compmreso che il Signore era
molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare
sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande
testo di esegesi ebraica delle Scritture. Gesù si mostra ancora più esigente
del previsto, affermando che occorre perdonare fino a settanta volte sette
(quattrocentonovanta volte) il nostro nemico. Ovvero un numero di volte
pressoché illimitato.
L'immagine del re che vuole fare i conti è
sicuramente di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio finale, o
quantomeno quello individuale dopo la morte dell'individuo. è un rendiconto
chui nessuno si può opporre e al quale nessuno puùò sfuggire. Il Salmo 90 ci
rammenta che il Signore mette i nostri peccati più segreti alla luce del suo
volto (Sal 90,8). In quel giorno non potremo non vedere quanto siamo bisognosi
del suo perdono, quanto grande è il nostro debito nei suoi confronti.
Il debito del servitore - forse un ministro di
stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa
grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua
famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del
servitore - terrorizzato dalla pena cui rischia di andare incontro - di pagare
tutto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un
condono integrale.
Nella scena immediatamente successiva, il debitore
incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di
misericordia di cui è stato fatto oggetto o, più probabilmente, non è riuscito
a coglierne il senso profondo. Si mostra infatti spietato con il suo creditore,
facendolo gettare in prigione.
Nei conservi che vanno a riferire l'accaduto al
padrone possiamo ravisare le preghiere di intercessione degli oppressi e per
gli oppressi. che il creditore spietato noon avesse mai sentito né pentimento
profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del
debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari (ricordiamo che egli
avrebe dovuto dare al suo padrone diecimila talenti!).
è evidente che la sola paura della punizione non
può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché
passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio,
sospeso il castigo, il timore del momento svanisce rapidamente. Appena si
ripresenta la tentazione l'uomo carnale si ripresenta con nuovo vigore.
Probabilmente egli avrebbe tremato anche se avesse potuto udire le preghiere
dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del
perseguitato contro il suo oppressore. ma a quel punto è troppo tardi: "il
suo signore lo chiamò a sé". Questa intimazione al servo infedele di
comparire in presenza del suo Signore indica senza dubbio il rendiconto finale
nel giorno del giudizio. Il debitore viene dunque consegnato agli aguzzini,
letteramente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente
antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano
nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi
pagassero al posto loro. Qui dobbiamo considerare questo tormento innazitutto
come qualcosa che procede dal'anima incapace di ricevere e dare misericordia,
trovando in essa la pace nelle relazioni con Dio e con il prossimo. Gesù, però,
amminisce anche in maniera esplicita che "Così il mio Padre celeste farà
punire a voi, se ciascuno di voi non perdona di cuore a proprio fratello"
(Mt 18,35).
La sorgente del perdono da uomo a uomo sta nel
perdono gratuito dato da Dio. Se siamo perdonati da Dio, come in effetti egli
ci perdona ogniquavolta ci accostiamo a lui con umiltà, volentieri perdoneremo
al fratello. Di cuore, ecco la natura del perdono caratteristico del cristiano,
che non è un semplice atto esterno.
La parabola c'insegna che il perdono dei gran
debiti che abbiamo verso Dio precede il perdono dei piccoli debiti che noi
dobbiamo rimetterei scambievolmente; e che quello è il principio che in noi
genera la disposizione al perdono, ed è il modello che dobbiamo imitare. Quando
ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a
perdonarci gli uni gli altri.
Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il
nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento",
soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo
"essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo". Puri di quella
purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.
Rev. Luca Vona