Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 28 ottobre 2018

Il perdono come frutto di giustizia

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIDUESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa, nella tua bontà; affinché mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e servirti con devozione in ogni buona opera, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 1,3-11; Mt 18,21-35

Commento

Vi è un profondo legame tra i "frutti di giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude l'odierna pericope paolina dalla lettera ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.

La giustizia, ovvero la nostra giustificazione e santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, matura da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericordia di Dio, che ci condona ogni colpa. I frutti di giustizia, infatti, "si hanno per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioè non dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, nella comunione che si realizza attraverso la fede. E a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria di Dio, cioè la sua bontà, e di suscitare nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.

Ciò non viene compreso dal protagonista della parabola del creditore spietato. L'occasione di questo racconto è suscitata da una domanda posta da Pietro a Gesù. Pietro aveva compreso che il Signore era molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande testo di esegesi delle Scritture ebraiche. Gesù si mostra ancora più esigente del previsto, affermando che occorre perdonare il nostro nemico fino a settanta volte sette (quattrocentonovanta volte); ovvero un numero di volte pressoché illimitato.

L'immagine del re che vuole fare i conti è di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio alla fine dei tempi e quello individuale alla fine della vita. È un rendiconto cui nessuno può sottrarsi.

Il debito del servitore - forse un ministro di stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del servitore di restituire tutto il dovuto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un condono completo.

Nella scena immediatamente successiva, il debitore incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di misericordia di cui è stato destinatario, non è riuscito a coglierne il senso profondo. Si mostra privo di compassione con il suo creditore, facendolo gettare in prigione. Che il creditore spietato non avesse mai sentito né pentimento profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari.

È evidente che la sola paura della punizione non può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio, sospeso il castigo, il suo timore svanisce rapidamente. Probabilmente egli avrebbe tremato se avesse potuto udire le preghiere dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del perseguitato. Ma a quel punto è troppo tardi: "il suo signore lo chiamò a sé". 

Il creditore incapace di rimettere i debiti viene dunque consegnato agli aguzzini, letteralmente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi pagassero al posto loro. 

La parabola del debitore spietato insegna che il condono dei nostri grandi debiti da parte di Dio deve suscitare il perdono dei piccoli debiti che gli uomini hanno nei nostri confronti. Quando ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a perdonarci gli uni gli altri.

Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento" (Fil 1,9), soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo "essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo" (Fil 1,10). Puri di quella purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 21 ottobre 2018

Il nostro combattimento non è contro carne e sangue

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTUNESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedi, ti supplichiamo Dio misericordioso, ai tuoi fedeli, pace e perdono, affinché possano essere purificati da ogni peccato e servirti con mente serena. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 6,10-20; Gv 4,46-54

Commento

"Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza" (Ef 6,10), afferma l'apostolo Paolo. Se cerchiamo di farci forti in noi stessi, o nel nostro prossimo, cadiamo. Se cerchiamo la forza nel Signore, restiamo saldi e non abbiamo nulla da temere, perché l'Onnipotente si prende cura di noi.

La nostra lotta non è soltanto contro la nostra umanità decaduta e vulnerabile, non è soltanto una battaglia contro le insidie che provengono da dentro e fuori di noi. "Il nostro combattimento non è contro carne e sangue" (Ef 6,12). Paolo parla di una battaglia contro forze spirituali, "contro le insidie del diavolo" (Ef 6,11) e "contro i dominatori del mondo di tenebre di questa età, contro gli spiriti malvagi nei luoghi celesti" (Ef 6,12). 

Queste parole sottolineano il carattere spirituale della nostra battaglia, ma anche la compresenza, nello stesso campo, nella stessa Chiesa, delle forze del bene e del male: fino alla fine dei tempi, il grano e la zizzania cresceranno insieme (Mt 13,30), gli angeli ci assisteranno nella lotta come assistettero Cristo nel deserto e nell'orto degli ulivi, ma gli uccelli rapaci, i demoni, cercheranno di rubare il buon seme - la parola di Dio - che è stato seminato in noi (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15).

Per vincere contro le potenze malvagie dobbiamo rivestire "L'intera armatura di Dio" (Ef 6,13). Quali sono dunque queste difese per una lotta che non è semplicemente contro l'uomo carnale, come troppo ha insistito un certo moralismo, riducendo l'etica cristiana a un'etica della purezza sessuale? Queste armi, l'Apostolo, le elenca una ad una: verità e giustizia (Ef 6,14), pace (Ef 6,15); ma, soprattutto, lo scudo della fede, "con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno" (Ef, 6,16). 

Perché la tentazione, quando colpisce nel segno di una coscienza disarmata, non solo la ferisce procurando una grave emorragia, ma scatena un incendio che divampa, cercando di contagiare e consumare tutto intorno. Paolo invita anche a rivestire il nostro capo con "l'elmo della salvezza" e a impugnare "la spada dello Spirito che è la parola di Dio" (Ef 6,17). La meditazione della parola di Dio protegge la nostra mente dai pensieri di sconforto, ricordandoci che Dio ci ha salvato e che egli è fedele alle sue promesse.

L'Apostolo ci esorta a perseverare "pregando in ogni tempo con ogni sorta di preghiera e di supplica" (Ef 6,18) - vegliando a questo scopo. Parole simili a quelle di Gesù nel Getsemani: "vegliate e pregate per non cadere in tentazione" (Mt 26,41); e a quelle di Pietro nella sua Prima lettera: "Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede" (1Pt 5,8-9). 

Siamo esortati anche a intercedere per i nostri fratelli e le nostre sorelle nella fede: "pregando... per tutti i santi" (Ef 6,18), cioè per tutti coloro che sono stati santificati dallo Spirito di Dio. La lotta, l'ascesi, è lotta individuale, a tu per tu contro il maligno; ma il cristiano non è un'entità a se stante; siamo tutti membra gli uni degli altri e membra di un corpo unico che è il Corpo mistico di Cristo. La caduta di uno può condurre alla caduta di un altro e forse di molti; la vittoria di uno può tenere molti altri lontani dal pericolo di cadere.

Nella guarigione del figlio di un funzionario regio, narrata da Giovanni nel suo Vangelo assistiamo a un miracolo di Gesù in favore di un uomo di alto rango, la cui fede lo porta, però, a sottomettersi alla regalità del Messia. Potrebbe trattarsi di un ufficiale civile o militare, giudeo o romano. Gesù lo riprende, dicendo che la fede non dovrebbe dipendere dai miracoli: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" (Gv 4,48). Ma Gesù lo esaudisce, dimostrando che la sua parola è in grado di strappare al potere della morte.

Il funzionario regio riconosce l'intervento di Dio facendo memoria degli eventi e scandagliandoli alla luce della fede e della ragione. I miracoli non sono necessari alla fede, ma se proprio vogliamo chiederli dobbiamo essere in grado di riconoscerli per mostrare a Dio la nostra gratitudine: "Allora il padre riconobbe che era proprio in quell'ora in cui Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa” (Gv 4,53). Il vangelo ci esorta a vivere con consapevolezza, con gli occhi ben aperti di fronte a quanto Dio compie nelle nostre vite.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 17 ottobre 2018

Bibliografia ragionata sulla storia del movimento pentecostale italiano


Il movimento pentecostale italiano nacque intorno alla prima decade del Novecento non per impulso di missioni estere, come sovente è avvenuto con altre chiese evangeliche, bensì per opera di italiani un tempo emigrati all’estero.Vi fu poi un ventennio di vessazioni e persecuzioni (1935-1955) da cui si uscì grazie a una stretta e inusuale sinergia tra i membri di queste comunità, pressoché totalmente illetterati e appartenenti a classi sociali molto modeste, intellettuali laici d’alto profilo e competenza, alcuni (molto pochi) parlamentari di specchiata moralità, giudici con alto senso del dovere e del loro ruolo. Questa fu un’età ‘eroica’ e benedetta; tale ‘sinfonia’ ebbe del miracoloso se solo si riflette sulla diversità degli attori tra loro.Negli studi storici e sempre il prima che spiega il poi. Lo confermiamo. Tuttavia non v’è nessuna regola che ci vieti di collegare alla memoria una prospettiva proiettata sul futuro. Anzi. Una storia senza un’apertura al futuro rimarrebbe la sala polverosa di un deposito museale. D’altro canto una riflessione sul futuro che prescinda da un’accurata analisi del passato sarebbe come una casa costruita sulla sabbia.



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Dettagli prodotto
Copertina flessibile: 90 pagine
Editore: Grampus Publishing (16 ottobre 2018)
Collana: Teologica
Lingua: Italiano
ISBN-10: 1728870607
ISBN-13: 978-1728870601



domenica 14 ottobre 2018

Un tempo eravate tenebre

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio onnipotente e misericordioso, per la tua tenera bontà preservaci, ti supplichiamo, da ogni pericolo; affinché possiamo essere pronti, nell'anima e nel corpo, a compiere diligentemente tutte le cose che hai comandato. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 5,15-21; Mt 22,1-14

Commento

La parabola degli invitati a nozze riportata da Matteo si divide in due parti: la prima richiama il giudizio di Israele, per il suo rifiuto del Messia promesso; la seconda, che fa da "chiosa", si riferisce al giudizio individuale, e non è presente negli altri Vangeli.

Troviamo un racconto analogo nel Vangelo di Luca: quello del "gran convito" (Lc 14,15-24), dove il banchetto è preparato da un uomo benestante, mentre in Matteo si narra di un re, che invita alle nozze del proprio figlio. La parabola assume in Matteo un maggiore significato messianico e prefigura le persecuzioni e gli oltraggi che non solo i profeti dell'Antico Testamento, ma anche i discepoli e gli apostoli del Signore, in ogni tempo, subiscono per il suo nome.

Anche la reazione di colui che ha trasmesso l'invito è differente tra i due vangeli. In Luca gli invitati vengono rimpiazzati da mendicanti, mutilati, zoppi e ciechi. In Matteo il re decide di distruggere interamente la città di coloro che hanno rifiutato l'invito: "il re allora si adirò e mando i suoi eserciti per sterminare quegli omicidi e per incendiare la loro città" (Mt 22,7). Gerusalemme, la città di Dio, è ormai diventata "la loro città" perché Dio l'ha abbandonata in mano al nemico (Gerusalemme verrà distrutta dai romani pochi decenni dopo la morte di Cristo).  Già nel libro dell'Esodo vediamo che, dopo che Israele si è costruito il vitello d'oro, Dio si rivolge a Mosè chiamando Israele "il tuo popolo" e non più "il mio popolo" (Es 32,7).

A questo punto della vicenda terrena di Gesù vi è un cambio di rotta decisivo, rappresentato dalle parole del re ai suoi servitori: "andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze". Mentre fino a prima Gesù aveva intimato ai discepoli "Non andate tra i Gentili e non entrate in alcuna città dei Samaritani" (Mt 10,5), tale divieto è ora abolito; lo stesso si può dire della distinzione tra popolo e popolo. Possiamo dire con Paolo che "qui non c'è più Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e Scita, servo e libero" (Col 3,11), ma tutti sono del pari peccatori, ai quali viene fatta l'offerta della salvezza in Cristo. Adesso le porte della mensa sono aperte a tutti.

A ben vedere non viene fatta una discriminazione neanche a partire dalle opere: "radunarono tutti quelli che trovarono cattivi e buoni e la sala delle nozze si riempì di commensali" (Mt 22,10). Che la possibilità di presentarsi al banchetto sia data per grazia è chiaro nella descrizione dei nuovi invitati nel Vangelo di Luca: i "mendicanti, mutilati, zoppi e ciechi" (Lc 14,21) rappresentano la nostra natura umana, segnata dalle ferite e dalla cecità del peccato, che ci impediscono di pervenire da soli alla salvezza.

Nel seguito della parabola matteana, invece, "il re, entrato per vedere i commensali, vi trovò un uomo che non indossava l'abito di nozze" (Mt 22,11). L'ingresso del re è l'immagine del giudizio finale e della separazione degli ipocriti dalla Chiesa di Cristo. Egli entra quando tutti gli invitati sono seduti a tavola, come era d'uso nell'antico Oriente.

La fede necessaria per presentarsi al convito è simboleggiata dall'abito di nozze, di cui uno degli invitati è sprovvisto. Era abitudine in oriente, che i re distribuissero agli invitati gli abiti per presentarsi alla festa. Era infatti inammissibile che qualcuno si presentasse con vestiti logori. Risulta chiara in questa immagine l'idea della grazia rifiutata e, dunque, della libertà della coscienza umana, di accogliere il Figlio di Dio e la sua parola salvifica.

Questa immagine è utilizzata anche dal profeta Isaia: "Io mi rallegrerò grandemente nell'Eterno, la mia anima festeggerà nel mio Dio, perché mi ha rivestito con le vesti della salvezza, mi ha coperto col manto della giustizia, come uno sposo che si mette un diadema, come una sposa che si adorna dei suoi gioielli" (Is 61,10).

Benché i peccatori siano invitati ad andare a Cristo nella condizione in cui si trovano e benché la salvezza si ottenga "senza denari e senza prezzo" (Is 55,1), Paolo riconosce che Dio "ci ha grandemente favoriti nell'amato suo figlio" (Ef 1,6), del quale siamo chiamati a rivestirci.

- Rev. Dr. Luca Vona

           

domenica 7 ottobre 2018

Coraggio, alzati

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DICIANNOVESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, poiché senza di te non siamo capaci di compiacerti; concedi, misericordioso, ai nostri cuori, di essere guidati dal tuo Santo Spirito. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 4,17-32; Mt 9,1-8

La vita nella fede è una esperienza di rinascita e di guarigione radicale. L'aspetto di rinascita, predicato da Gesù nel dialogo notturno con Nicodemo è approfondito da Paolo nella sua lettera agli Efesini, nell'ottica di una esortazione che va oltre il senso semplicemente morale del discorso, facendosi descrizione di ciò che Dio opera nel credente.

Il passo del Vangelo di Matteo, che in maniera più sintetica dei paralleli di Marco e di Luca descrive la guarigione del paralitico, offre una lettura dell'esperienza cui conduce l'incontro con Cristo, il quale ha autorità di rimettere i peccati sulla terra, sanando radicalmente la nostra natura umana.

La sottolineatura della capacità di Gesù di rimettere i peccati in terra indica la chiara proclamazione della sua natura divina. Fino ad allora, infatti, i credenti israeliti avevano confidato in una remissione dei peccati in cielo, da parte di Dio, che solo poteva operarla efficacemente.

Mentre i profeti, i discepoli e gli apostoli operarono i miracoli nel nome e per l'autorità di Dio, Gesù non ha bisogno di chiedere a Dio il potere di farli; egli compie i miracoli nel suo proprio nome.

Il racconto ci fa intendere che molti dei presenti non mancano di individuare la potenza divina in questo miracolo, ma gli sfugge il fatto che Cristo stesso l'ha operato nel proprio nome: "Io ti dico" riferiscono i passi paralleli di Marco e Luca. È in questo "Io", in questa formula indicativa, che si esprime la novità radicale del messaggio evangelico. Gesù non è semplicemente un profeta, un riformatore religioso, un guaritore. Egli è il Dio con noi, l'Emmanuele annunciato dai profeti dell'Antico Testamento.

Gesù comanda al paralitico non solo di alzarsi in piedi ma anche di tornare a casa sua portando via il suo lettino. Il segno della malattia che lo ha costretto per lungo tempo all'immobilità, rimane come testimonianza della radicale svolta che l'incontro di Cristo ha determinato nella sua vita. Gesù rimette i nostri peccati ma non cancella in noi il ricordo di essi, affinché possiamo avere sempre davanti ai nostri occhi il prevalere della sua grazia sul peccato. 

Esaminando il racconto di questo miracolo non bisogna sorvolare sul ruolo importante degli amici, che intercedono per il paralitico (nel passo parallelo di Marco e Luca fino ad arrampicarsi sul tetto della casa in cui sta predicando Gesù, per aprire un varco e calare l'amico al centro della stanza). La carità fraterna ha un ruolo importante nel muovere a compassione Gesù.

Paolo esorta "nel nome del Signore" (Ef 4,17), ovvero con autorità, con l'autorità che deriva da Cristo stesso e dal suo vangelo, a non camminare nella vanità della propria mente; letteralmente "nella vacuità ed estranei alla vita di Dio". La vita "pagana" è vita che si aggrappa a ciò che è vuoto, impermanente e che offusca la ragione. L'estraneità alla vita di Dio non è semplicemente il non condurre una vita da "persone per bene", ma il privarsi di un'esistenza vissuta in pienezza.

La vita di Dio è la vita - come dice Teodoro di Beza - qua Deus vivit in suis (che Dio vive in se stesso); la vita spirituale accende nei credenti la vita stessa di Dio. La vita di Dio, insomma non è semplicemente la vita onesta e virtuosa, ma è la vita che viene dall'alto, la rinascita per opera dello Spirito Santo, che porta con sé il germe della pace, della gioia, dell'eternità.

Paolo ci esorta a essere rinnovati "per rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio". Questa identità nuova, questo rinnovamento non solo della personalità ma dell'intera natura umana, non è opera dell'uomo: è una creazione, un'opera di Dio (Ef 4,24).

Gesù viene in nostro soccorso, e ci consente di levarci dal nostro giaciglio, di lasciarci guarire, rinnovare, creare a immagine di Dio.

- Rev. Dr. Luca Vona