Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 30 giugno 2019

Se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, che non manchi mai di aiutare e governare coloro che conduci nel tuo timore e nel tuo amore; mantienici, ti supplichiamo, sotto la protezione della tua buona provvidenza, affinché abbiamo un timore e un amore perpetuo del tuo santo Nome. Per Cristo nostro Signore.

Letture

1 Gv 3,13-24; Lc 14,16-24

Commento

“Non vi meravigliate se il mondo vi odia” afferma l’evangelista Giovanni, riprendendo le parole di Gesù: “Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi”. L’odio del mondo si manifesta come il rifiuto della luce da parte delle tenebre: “la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa” (Gv 1,5).

Del rifiuto da parte del mondo nei confronti della luce, cioè di Cristo, abbiamo un esempio nella parabola del gran convito. Gesù offre questa narrazione in risposta a ciò che esclama un uomo che lo stava ascoltando predicare: “Beato chi mangerà del pane nel regno di Dio”. Questa beatitudine, ci insegna il Signore, non è compresa da molti. Dio ci invita gratuitamente al suo banchetto, ma l’ossessione per il possesso, il commercio, l’attaccamento alle cose e alle persone possono diventare un ostacolo alla comunione con lui. 

Così i protagonisti di questa parabola evangelica: il primo ha appena comprato un podere e deve andare a vederlo; il secondo ha comprato un paio di buoi e vuole provarlo; il terzo ha appena preso moglie. Ma Gesù ci ammonisce: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26), mentre nel Vangelo di Matteo, sempre Gesù afferma: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).  

Certo Dio, che ha comandato di amare il padre e la madre (Es 20,12), non ci chiede di ripudiarli. Ma Gesù mette radicalmente in discussione l’antica Legge per portarla a compimento: le relazioni umane devono essere organizzate sotto il principio ordinatore dell’amore di Dio.

Le letture di oggi ci ricordano i due grandi comandamenti per il cristiano: l’amore del prossimo, soprattutto del fratello nel bisogno, e l’amore di Dio, al di sopra di ogni altra cosa. E la parabola del gran convito esprime la dimensione comunitaria e liturgica dell’essere cristiani: la partecipazione al culto domenicale non è un qualcosa di accessorio nella vita del credente. Molti cristiani pensano di poter coltivare un rapporto individualistico con Cristo. Gli affari, gli impegni familiari, sono le scuse più frequenti che molti trovano per non santificare il giorno del Signore. E a costoro Gesù dice: “nessuno di quegli uomini gusterà la mia cena” (Lc 14,24).

Molti si considerano membri di un popolo eletto per un'appartenenza alla Chiesa puramente nominale. Non dimentichiamo che Dio è pronto, in ogni momento, a rivolgere il suo invito alla festa a chi è lontano, a popoli considerati "ai margini" del mondo ma che si mostrano pronti ad accogliere con entusiasmo il vangelo. Dio può far nascere figli di Abramo, veri credenti, anche dalle pietre (Lc 3,8);  Facciamo nostra l'esortazione del salmista: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Sal 95,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 23 giugno 2019

L'amore fraterno, principio della comunione con Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ


Colletta

O Dio, che sei la forza di tutti coloro che ripongono la loro fiducia in te; accetta misericordioso le nostre preghiere; e poiché per la debolezza della nostra natura umana, non possiamo compiere nessuna cosa buona senza di te, concedici l’aiuto della tua grazia, affinché conservando i tuoi comandamenti, possiamo compiacerti con i nostri desideri e la nostra volontà. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Gv 4,7-21; Lc 16,19-31

Commento

“Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio” (1 Gv 4,7) afferma l’apostolo Giovanni. L’amore ci fa rinascere da Dio, ripristina la nostra immagine e somiglianza con lui; ci rende possibile di conoscerlo, non con l’intelletto, ma per esperienza diretta della sua stessa natura.

A volte pensiamo che Dio sia un enigma da risolvere; per lungo tempo, in passato, si è intavolata una affascinante discussione circa le “prove” sull’esistenza di Dio. Ma anche quando saremo riusciti a dimostrare la sua esistenza, a cosa ci gioverà se non ne comprendiamo l’essenza e non condividiamo la comunione con la sua natura divina?

Dio non è una conclusione, una costruzione della nostra mente. Nessuno lo ha mai visto (1 Gv 4,12) ma l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre, è colui che l’ha fatto conoscere (Gv 1,18). È Cristo il libro aperto, la parola vivente che ci parla di Dio, con tutta la sua vita. “Mosè […] ha scritto di me” (Gv 5,46) afferma Gesù, e questa fu la fede degli apostoli: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti” (Gv 1,45). 

L’esperienza di Dio non è nemmeno ricerca del prodigio a tutti i costi. Taluni sono portati a credere che la fede debba scaturire dall’irrompere di fenomeni straordinari nelle nostre vite. Ma l’ammonizione di Abramo al ricco, che si è privato della fonte di ogni bene, è chiara: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti” (Lc 16,31). Anche il Risorto, sulla via di Emmaus, rimprovera ai discepoli di essere insensati e tardi di cuore nel credere a tutte le cose che i profeti hanno detto (Lc 24,25).

L’ascolto delle Scritture è dunque il primo passo per conoscere Dio e riconoscere Gesù come il Signore. Ma non sono sufficienti l’ascolto e la professione di fede fatta con le labbra. Giovanni ci dice che chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio (1 Gv 4,15). Confessare è qualcosa di più che credere o professare. Significa riflettere con le nostre azioni, testimoniare con la vita, ciò in cui crediamo. Chissà quante volte il ricco alle cui porte stava Lazzaro aveva ascoltato le Scritture. Eppure la sua coscienza non fu scalfita dai numerosi richiami a soccorrere il povero che si trovano nella legge mosaica, nei salmi e nei libri profetici.

La carità fraterna è ciò che fa realmente la differenza. Giovanni è molto chiaro nel dire che risiede proprio in essa ciò che realizza la comunione con Dio: “chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Gv 4,16). Senza la fede, che diventa sequela di Cristo, è inutile illuderci di possedere la comunione con Dio, quasi come un automatismo della partecipazione ai sacramenti. Scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “chiunque mangia di questo pane o beve del calice indegnamente sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore […] poiché chi ne mangia e beve indegnamente mangia e beve un giudizio contro se stesso, non discernendo il corpo del Signore” (1 Cor 11,27.29). Il corpo mistico del Signore è la sua Chiesa, e chi trascura il fratello nel bisogno trascura le membra stesse del corpo del Signore.

Nel racconto del povero Lazzaro vediamo che i cani randagi hanno più pietà di lui di quanta ne mostri il ricco, il quale banchetta senza nemmeno accorgersi della sua presenza. Ma l’abisso di indifferenza che quest’uomo crea nel proprio cuore nel corso della sua vita terrena, sarà lo stesso che lo separerà dalla sorte beata di Lazzaro nella vita ultraterrena: “tra noi e voi è posto un grande baratro” (Lc 16,26).

Il salmo 49 paragona “l’uomo che vive nell’onore senza avere intendimento” alle bestie che si avviano, ignare, al macello (Sal 49,12.14.20). L’avidità, l’indifferenza, scavano un abisso nel cuore dell’uomo. Al contrario, l’amore fraterno dilata il cuore e lo riempie dello spirito di Dio. E l’amore caccia anche via la paura (1 Gv 4,18): paura del gudizio di Dio, paura della morte, paura delle nostre cadute. Il discepolo di Gesù, infatti, ama non per accumulare meriti, né per paura del castigo; il suo non è l’amore del servo per il padrone, né quello del mercenario per colui che lo ha ingaggiato. È la risposta all’amore che Dio ci ha donato per primo (1 Gv 4,19). Ed è il tratto distintivo del vero dal falso discepolo: “da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’autorità e la credibilità nella Chiesa risiedono nella fede in Cristo, e questa è espressa dal principio della carità fraterna.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 16 giugno 2019

Il vento soffia dove vuole

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai donato a noi, tuoi servi, la grazia di riconoscere, mediante la confessione della vera fede, la gloria dell’eterna Trinità e di adorare la sua unità nel potere della Maestà Divina; ti supplichiamo di custodirci in questa fede e di difenderci da ogni avversità; tu che vivi e regni, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Ap 4,1-11; Gv 3,1-15

Commento

Nella conversazione notturna con l’amico Nicodemo Gesù ci lascia un insegnamento sul suo modo di intendere l’impegno religioso, lontano dal semplice senso di appartenenza o dalla fedeltà legalistica alla lettera dei testi sacri. Il vento soffia (Gv 3,8), ma occorre dispiegare le vele della fede per lasciarci guidare dallo Spirito.

La direzione dalla quale e verso la quale si muove lo Spirito non è prevedibile, è capace di sorprenderci sempre. Per questo occorre essere dei navigatori attenti alle sue sollecitazioni, in modo da sapere da quale direzione prendere il vento. La nostra traversata si compie sotto la spinta di una fonte di energia che non può essere accumulata e conservata. È dunque necessaria una nostra apertura allo Spirito qui ed ora, in ogni momento, che si manifesta nella meditazione assidua della Parola di Dio. La nostra docilità alla sua azione non può venire meno, se non vogliamo esporci alle correnti e andare alla deriva.

Nel lungo periodo liturgico che dalla domenica dopo Pentecoste fino all'Avvento viene chiamato, secondo una antica tradizione, "tempo della Trinità" viene riassunto il principio e al tempo stesso il fine ultimo della creazione, la ragione per cui siamo stati creati e ciò che costituirà la nostra vita quando avremo combattuto la buona battaglia e preservato la fede fino alla fine: la vita nella Trinità, la partecipazione al mistero di un Dio unico ma non solitario, un Dio in tre persone, che chiama l'uomo a partecipare a quest'intima relazione.

Ma occorre rinascere dall'alto, dall'acqua e dallo Spirito Santo. Occorre lasciarsi rigenerare da Dio, per vedere il mondo con occhi sempre nuovi, per ascoltare e gustare tutte le cose con la meraviglia di un bambino da poco venuto alla luce.

Tutto è straordinario per chi accoglie il dono dello Spirito. La vita del cristiano non ha mai nulla di ordinario nel senso peggiorativo del termine. La noia, la monotonia, il vuoto, sono sensazioni lontane dalla vita di chi possiede Cristo e, in lui, l'intera Trinità divina. Chi ha fede non ha bisogno di stordire i sensi con emozioni sempre nuove. La fede rende la vita quotidiana luogo di incontro con Dio, in cui diventiamo destinatari e al tempo stesso dispensatori delle sue benedizioni.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 9 giugno 2019

Se uno mi ama... noi verremo a lui

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI PENTECOSTE

Colletta

O Dio, che in questo tempo hai istruito i cuori dei tuoi fedeli, inviando loro la luce dello Spirito Santo; concedici, attraverso lo stesso Spirito di avere un retto giudizio in tutte le cose, e di rallegrarci sempre del suo conforto; per i meriti di Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

At 2,1-11; Gv 14,15-31

Nel racconto della Pentecoste riportato dagli Atti degli Apostoli vediamo che il luogo in cui viene donato lo Spirito Santo è l'assemblea dei credenti riunita in preghiera, primizia della Chiesa. Gesù lo aveva promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). 

La preghiera che ci apre al dono dello Spirito è dunque preghiera comunitaria; e la preghiera più importante compiuta nel nome di Gesù è l'azione liturgica. 

Gesù ci esorta a chiedere con coraggio il dono più grande: Dio stesso, la sua potenza - ("come vento impetuoso" (At 2,2) -, la sua sapienza - "vi insegnerà ogni cosa" (Gv 14,26) -, la sua eloquenza - "li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue!" (At 2,11).

Il Padre avrebbe potuto effondere il suo Spirito su un solo credente, su un solo profeta, ma decide di dividerlo in diverse lingue di fuoco, conferendo a ciascun discepolo un carisma differente.
Nessuno, tra i credenti, può insuperbirsi, pensando di essere l'unico indispensabile: chi opera, infatti, è Dio, e ogni carisma conferito dallo Spirito, non è che un "ministero", un ufficio per il bene dell'intero corpo ecclesiale.

L'eloquenza conferita dallo Spirito non è la tendenza a parlarci addosso, ad essere sordi verso le culture che si esprimono in una lingua differente dalla nostra. Riconosciamo che è lo Spirito che opera nella Chiesa quando anche "quelli di fuori" comprendono la nostra predicazione su Cristo: "E tutti stupivano e si meravigliavano, e si dicevano l'un l'altro: 'Come mai li udiamo parlare nella nostra lingua natìa?'" (At 2,7-8). La Chiesa è realtà sacramentale aperta al mondo.

Se è vero che il dono dello Spirito Santo è fatto per il bene dell'intero corpo di Cristo è anche vero che si tratta di una epifania che investe la persona del credente, una esperienza intima e diretta del Dio trinitario; è Dio stesso che viene a inabitare la nostra anima: "Conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me, e io in voi" (Gv 14,20); "Se uno mi ama... noi verremo a lui" (Gv 14,23).

L'incontro con Cristo, nelle Scritture e nei sacramenti, ci trasforma, per grazia, a sua immagine, cosicché quando il Padre si china su di noi, non vede più noi ma il suo Figlio, e ci dona lo Spirito senza misura: "furono tutti ripieni dello Spirito Santo" (At 2,4).

Per ricevere tale dono Gesù ci esorta a osservare i suoi comandamenti: "Se mi amate, osservate i miei comandamenti" (Gv 14,15); "Chi ha i miei comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manfesterò a lui" (Gv 14,21).
Non deve mai venir meno, dunque, al di là delle nostre miserie, il desiderio della santificazione, intesa come obbedienza al vangelo, per opera della grazia di Dio.

"Perciò vi dico: chiedete" (Lc 11,9), esorta Gesù. Non lasciamoci vincere dal torpore, dalla rassegnazione, dalla mediocrità. Osiamo chiedere il dono più grande: una nuova Pentecoste per noi, per la Chiesa e per l'intera umanità.

- Rev. Dr. Luca Vona