Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 30 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Uno sguardo che sa vedere

Lettura

Giovanni 1,35-42

35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36 e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». 37 E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38 Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?». 39 Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40 Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41 Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» 42 e lo condusse da Gesù. Gesù lo guardò e disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Cefa» (che si traduce «Pietro»).

Commento

Pienamente consapevole del suo ruolo di precursore, Giovanni non trattiene a sé i suoi discepoli, ma addita Gesù come l'agnello di Dio (v. 36), colui che viene a togliere i peccati del mondo. Gesù si accorge che due discepoli di Giovanni lo stanno seguendo e si volta verso di loro (v. 38). Egli conosce sempre le nostre disposizioni interiori e quando comprende che desideriamo seguirlo ci mostra il suo volto.

Per prima cosa Gesù chiede a quelli che si pongono alla sua sequela che cosa stanno cercando (v. 38). La risposta dei due discepoli è per noi di esempio. Chiamandolo "Rabbì", ovvero "Maestro", testimoniano di riconoscere in lui l'autore della saggezza. Non ricercano beni e vantaggi materiali, ma il luogo della sua dimora. Sicuramente non trovarono una casa lussuosa come quelle dei dottori della legge, ma compresero che Gesù dimorava presso il Padre. 

Per questo dopo essersi fermati presso di lui (v. 39), come per una sosta contemplativa, si risveglia nei due l'urgenza dell'annuncio. Andrea, il primo dei chiamati, diviene anche il primo apostolo, testimoniando a suo fratello Simone "Abbiamo trovato il Messia" (v. 41) e conducendolo a Gesù. 

Andrea mostra che la sequela di Cristo, l'incontro del suo sguardo con il nostro, il dimorare in lui, suscitano nel vero apostolo il desiderio di condivisione. La grazia è un tesoro che si accresce comunicandolo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle. 

Gesù posa il suo sguardo su Pietro - ancora una volta l'iniziativa è sua - e coglie in un attimo chi egli è, la persona che è racchiusa nel suo nome; in esso è indicato anche il senso della sua chiamata: egli sarà una pietra (gr. cefa), perché sulla sua testimonianza di fede sarà edificata la comunità dei credenti.

L'esperienza di Andrea e Simone dimostra che quello di Gesù è uno sguardo che sa vedere, non si ferma in superficie, ma ci compenetra, arricchendo di senso la nostra vita.

Preghiera

Signore noi ti riconosciamo profeta, sacerdote e re. Concedici di rimanere in te come il tralcio nella vite; per portare frutti di conversione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Andrea apostolo. Il primo dei chiamati

Oggi le chiese d'oriente e d'occidente ricordano Andrea, apostolo del Signore. Figlio di Giona e fratello di Simon Pietro, Andrea era originario di Betsaida ed esercitava il mestiere di pescatore. Discepolo del Battista, egli comprese in profondità la testimonianza resa da Giovanni a Gesù di Nazaret e si mise subito alla sequela dell'Agnello di Dio. Andrea fu il «primo chiamato», e si prodigò per portare a Gesù quanti attendevano il Messia. Secondo la tradizione, dopo la morte e resurrezione di Gesù egli annunciò il vangelo in Siria, in Asia Minore e in Grecia. Divenuto pescatore di uomini attraverso l'annuncio della stoltezza della croce, Andrea morì a Patrasso, crocifisso come il suo Maestro. Nel IV secolo, le sue reliquie furono trasferite a Costantinopoli. Finite poi in occidente, esse sono state restituite alla chiesa di Patrasso da papa Paolo VI nel 1974, in segno d'amore verso l'ortodossia, che venera in Andrea il primo arcivescovo della chiesa di Costantinopoli.

Tracce di lettura

Andrea, dopo essere rimasto con Gesù e aver imparato tutto ciò che Gesù gli aveva insegnato, non tenne chiuso per sé il tesoro, ma si affrettò a correre da suo fratello per comunicargli la ricchezza che aveva ricevuto. Ascolta bene cosa gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa Cristo». Questa è la parola di un'anima che con grande ansietà prepara la venuta di lui e attende la sua discesa dai cielo, ed è piena di gioia sovrabbondante quando l'Atteso si è manifestato, e si affretta ad annunziare agli altri la grande novità. L'aiutarsi reciprocamente nella vita spirituale è proprio segno di benevolenza, di amore fraterno, di sincerità d'animo. Guarda anche Pietro: Andrea «lo condusse da Gesù», affidandolo a lui perché imparasse tutto da lui direttamente.
(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Giovanni 19,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

ANDREA APOSTOLO, dipinto su tela copia di affresco bizantino
(Andrea apostolo, 6-60 d.C.)

domenica 29 novembre 2020

Rivestitevi del Signore Gesù

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Rm 13,8-14; Mt 21,1-11

Commento

"È ora di svegliarvi dal sonno", esorta l'apostolo Paolo. Il tempo di Avvento è il momento liturgico che ci richiama a un profondo risveglio spirituale. Perché l'attesa del Salvatore, e l'incarnazione del Verbo rappresentano uno spartiacque fondamentale nella storia dell'umanità: Cristo è il sole che sorge, nelle tenebre che avvolgono il mondo e la nostra vita.

Questo nostro risveglio deve essere caratterizzato anche da un radicale cambio d'abiti: svestiti delle opere delle tenebre, dobbiamo indossare le armi della luce, il che significa che siamo chiamati a ingaggiare una battaglia, contro tutto ciò che è contrario al comandamento dell'amore; questo, come ricorda Paolo - sulla scorta della predicazione di Gesù - riassume tutto il Decalogo. Chi ama, non attenta né all'onore, né alla vita, né alla reputazione, né alla proprietà altrui, né si mostra invidioso di quel che Dio ha dato agli altri.

"Camminiamo onestamente come di giorno" afferma l'Apostolo: il giorno diviene qui simbolo delle opere buone, ispirate e guidate dallo Spirito, nella fede; mentre la notte è luogo del nascondimento, in cui si opera il male.

Il modello da seguire è la condotta di Cristo, come esemplificata dal vangelo: "rivestitevi del Signore Gesù".

A fugare le tenebre del peccato in maniera definitiva sarà la luce stessa del Signore, che egli ci dona in misura della nostra fede. La prospettiva del credente non è l'ignoto e nemmeno il terrore del Giudizio; bensì la scomparsa definitiva della sofferenza, della morte, della disperazione.

Non aspettiamoci però una venuta di Cristo nelle nostre vite espressa in maniera spettacolare: egli nasce in un umile luogo e presenta la propria regalità a dorso di un mulo. Ciò dimostra che la luce della grazia si irradia e agisce lì dove siamo e con gli strumenti che abbiamo, nella nostra quotidianità: "Ecco, il tuo re viene a te" (Mt 21,5).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 27 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Sapere osservare

Lettura

Luca 21,29-33

29 E disse loro una parabola: «Guardate il fico e tutte le piante; 30 quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l'estate è vicina. 31 Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32 In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. 33 Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Commento

Con la parabola del fico Gesù insegna che come c'è un meccanismo di causalità nella natura, così è anche nella storia umana, mediante l'azione soprannaturale di Dio che la guida. 

Vi è un tempo che "divora" i nostri giorni, come l'antica divinità Chrons, ma vi è un Kyrios, un Signore del tempo, Cristo, che attua nella storia - nella nostra storia personale e in quella dell'umanità - un piano di salvezza. 

L'ultima  parola sulla fine dei tempi non è una visione trionfalistica che nega o fagocita la storia, ma un invito alla riflessione, all'attenzione nel presente. I cristiani guardano alla storia per decifrarne i segni che fanno presagire già ora il passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà. La loro attesa non teme smentite, perché è sostenuta da una solidità che ha la certezza della promessa di Dio. Ma essi non possiedono neppure un calendario apocalittico segreto che li metta al riparo dai rischi dell'imprevedibile; hanno ricevuto soltanto la libertà di guardare al futuro con fiducia.

Non siamo dunque in balìa degli eventi e anche quando tutto appare destinato al fallimento, proprio al termine dell'inverno si approssima la primavera e spuntano i primi germogli sulle piante (vv. 29-30). Così è la parola del vangelo per "questa generazione" (v. 32) visitata dalla grazia: un segno e una promessa di speranza che darà frutto a suo tempo.

Preghiera

Donaci, Signore, uno sguardo capace di cogliere i segni dei tempi, per magnificare l'azione della tua grazia nelle nostre vite e nella storia, in cui realizzi il tuo piano di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Il culto cristiano del Buddha nella Storia di Barlaam e Iosafat

La Chiesa Cattolica occidentale e la Chiesa maronita celebrano il 27 novembre la memoria di Barlaam e Iosafat.

Barlaam e Iosafat (o Josaphat), anticamente venerati come santi cristiani, sono i protagonisti di un romanzo agiografico, popolarissimo in età medievale, ispirato alla vicenda della conversione del Buddha.

La vita del Buddha venne conosciuta dai cristiani nell'Iran orientale e nell'Asia centrale dove i cristiani vivevano a contatto con i buddisti, con i mazdeisti e i manichei, grazie anche alla diffusione di qualche testo scritto come il Lalitavistara.

La prima redazione del testo, risalente presumibilmente al VI secolo, fu scritta nell'iranica lingua pahlavi, quindi venne tradotto in siriaco e in arabo e da queste derivarono molte altre traduzioni, a partire dal greco. La successiva traduzione in latino, aprì le porte alla diffusione in tutta l'Europa del testo, convertito a sua volta anche in lingue volgari. Il più antico manoscritto che ce la tramanda è del 1021 ed è conservato a Kiev; il suo parente più stretto è al Monte Athos; l'altro del 1064 è ad Oxford.

Il racconto, giunto in Occidente nell'XI secolo ed attribuito a Giovanni Damasceno, conobbe una rapida diffusione e venne ritenuto storico, tanto che i nomi di Barlaam e di Iosafat vennero inseriti nel Martirologio Romano al 27 novembre.

Narra del principe indiano Iosafat al cui padre, pagano, viene predetto che si convertirà al cristianesimo: Iosafat viene quindi tenuto lontano dalle miserie del mondo, in mezzo al lusso ed ai piaceri, ma ciò non gli impedisce di prendere coscienza delle miserie della vita umana (conosce la malattia, la vecchiaia e la morte). Il giovane viene quindi convertito dal santo eremita Barlaam e, divenuto eremita egli stesso, converte al cristianesimo il padre ed i sudditi.

La storia venne in realtà ricalcata sul modello della vicenda della conversione del Buddha (il nome sanscrito Bodhisattva si trasformò in Budasaf e poi in Iosafat; dal nome dell'eremita Balahuar, sdoppiamento del Buddha stesso, si arrivò al nome di Barlaam): venne tradotta in greco e poi in latino, quindi in numerose lingue volgari. Divenne tanto popolare da essere inclusa da Jacopo da Varagine nella sua Legenda Aurea e da ispirare alcune opere di Bernardo Pulci e di Lope de Vega, oltre a numerose opere scultoree, come quella nel Battistero di Parma di Benedetto Antelami, miniature e vetrate, nonché alcune immagini sul mosaico di Otranto.

Per approfondire:

Risultati immagini per barlaam e iosafat

giovedì 26 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Levate il capo

Lettura

Luca 21,20-28

20 Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. 21 Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; 22 saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia.
23 Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. 24 Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti.
25 Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26 mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
27 Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
28 Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».

Commento

La descrizione della venuta gloriosa del Figlio dell'uomo è collocata all'interno di uno scenario apocalittico. La distruzione di Gerusalemme, per opera dei romani, è una prova del fatto che come si è avverata, nel tempo in cui scrive Luca, la predizione di Gesù su di essa, così si avvererà anche il suo annuncio della redenzione finale. 

Grande fu la rovina della città, nel cui assedio perirono oltre un milione di ebrei e quasi centomila furono deportati (secondo quanto riferisce lo storico Giuseppe Flavio). La sordità ai ripetuti richiami alla conversione ha fatto avverare le profezie degli antichi profeti portando alla distruzione delle istituzioni giudaiche e del culto sacrificale levitico. 

Non vi sarà più tempio, perché Cristo stesso è sacerdote, altare e sacrificio (Eb 4,14). Egli, che ha camminato nel mondo senza essere riconosciuto dai suoi (Gv 1,10), ritorna nascosto sulle nubi, fino alla sua manifestazione alla fine dei tempi. 

Come la città santa fu sconvolta dalle potenze nemiche così l'intero cosmo - il sole, la luna, le stelle, il mare - è sovvertito dalla potenza distruttiva del peccato dell'uomo. Ma il Signore ci libera dalla paura e dall'oppressione, che tengono l'uomo a testa bassa.

A consentirci di levare il capo è Dio stesso - "Ma tu, Signore, sei uno scudo attorno a me, tu sei la mia gloria e sollevi il mio capo" (Sal 3,4) -, restituendoci dignità e consentendoci di vedere l'orizzonte ultimo della storia.

Preghiera

Vieni, Signore Gesù! Noi ti attendiamo come giudice della storia e liberatore degli oppressi. Non tardare. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 25 novembre 2020

Fermati 1 minuto. L'occasione della testimonianza

Lettura

Luca 21,12-19

12 Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. 13 Questo vi darà occasione di render testimonianza. 14 Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15 io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. 16 Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; 17 sarete odiati da tutti per causa del mio nome. 18 Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. 19 Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime.

Commento

Gli ultimi tempi saranno un periodo di persecuzione per i credenti; ma non dobbiamo pensare a un momento lontano nella storia. Sono proprio quelli che viviamo: tutto l'arco temporale che separa l'instaurazione della Chiesa dalla seconda venuta del Signore. 

"Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me" (Gv 15,18). Vi è una potenza nel mondo avversa al vangelo, una forma di resistenza alla penetrazione del suo messaggio. Ma lungi dal far soccombere i cristiani, diventa per essi occasione di testimonianza (v. 13), di martyrion

Non si tratta qui solo della morte cruenta, ma di una intera vita che si lascia guidare dalla fede, in mezzo alle avversità, all'ostilità degli increduli e alla possibilità della solitudine nell'esperienza del tradimento da parte degli affetti più cari. 

Una tale prova può essere affrontata solo non confidando in se stessi, nelle proprie capacità e nei propri  meriti, ma abbandonandosi fiduciosamente a Dio e allo Spirito che Cristo ci ha lasciato affinché sia con noi fino alla fine del mondo (Gv 14,16-17). Da lui proviene quella pace che dimora nel più profondo del cuore del credente e che nessuna tribolazione può togliere. Nulla di quel che siamo perirà, ma tutto verrà trasfigurato nella gloria futura.

Preghiera 

Donaci, Signore, la forza della coerenza nella fede; affinché possiamo testimoniare con coraggio il tuo Nome, fino all'incontro con te nella gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 24 novembre 2020

Fermati 1 minuto. La fine e il fine della storia

Lettura

Luca 21,5-11

5 Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse: 6 «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». 7 Gli domandarono: «Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?». 8 Rispose: «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli. 9 Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine». 10 Poi disse loro: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, 11 e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo.

Commento

Comincia con questi versetti del Vangelo di Luca il discorso di Gesù sugli ultimi tempi (discorso escatologico). Gli avvenimenti narrati riguardano la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, ma sono di insegnamento anche per la Chiesa, su come dovrà attendere il ritorno di Cristo. 

Israele non ha accolto il messaggio di liberazione spirituale predicato da Gesù e perderà per sempre la propria libertà e i propri fasti. Questo è il rischio che corriamo anche noi se non lasciamo che il vangelo ci liberi dalla "nostalgia" del tempio e dai falsi profeti. 

La nostalgia del tempio è propria di una religiosità che pensa di poter racchiudere Dio dentro la maestosità degli edifici di culto e nell'apparente solidità dell'istituzione clericale. Si tratta di un atteggiamento che spegne lo spirito di profezia, la capacità della fede di essere lievito nel mondo. 

I falsi profeti, per contro, traggono il pretesto dagli eventi dolorosi che attraversano ciclicamente la vita su questa terra per annunciare l'imminenza della fine, prospettando facili vie di fuga, mediante una religiosità disincarnata e settaria.

Molte sono le tribolazioni che gli uomini di ogni tempo dovranno affrontare, ma "non sarà subito la fine" (v. 9). Le prove che siamo chiamati ad attraversare, individualmente e come comunità, rappresentano l'occasione per testare la nostra perseveranza e la nostra solidarietà con gli uomini, nell'attesa di quel fine ultimo della storia in cui Cristo ci attende.

Preghiera

Signore, che attraverso gli avvenimenti della storia ci guidi verso la liberazione e la risurrezione, aiutaci ad attenderti con speranza e operosità. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 23 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Tutto quel che abbiamo. Tutto quel che siamo

Lettura

Luca 21,1-4

1 Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. 2 Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli 3 e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. 4 Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere».

Commento

Il Signore alza gli occhi; egli, che ci scruta e ci conosce (Sal 138,1), osserva quanto siamo disposti a donare. Non tutti abbiamo ricevuto gli stessi beni su questa terra. Le nostre finanze possono essere limitate, alcuni sono in uno stato di estrema necessità, come questa donna senza marito, che donando tutto quello che ha, rimette di fatto "tutta la propria vita" (gr. ton bion on eiken) nelle mai di Dio. 

La vedova di questo episodio evangelico donando gli unici due spiccioli che possiede si dimentica della proprie necessità. Anche le nostre risorse fisiche o interiori possono essere scarse. Eppure gli occhi del Signore, che non guardano in modo superficiale, ma in profondità, nel cuore dell'uomo, valutano quanto siamo capaci di dare non del superfluo, ma del necessario. Ciò che appare piccolo e di poca importanza è spesso ciò che fa la differenza.

Un dono che può passare del tutto inosservato ai "capi religiosi" e ai grandi benefattori, che spesso mascherano la propria povertà umana dietro a costruzioni rassicuranti nella loro imponenza.  

Nel suo dono assoluto la vedova dimostra di avere assunto la povertà e l'insicurezza del proprio status come occasione di abbandono volontario a Dio, colui che riveste i gigli del campo (Mt 6,28), così come riveste i poveri di ogni sorta con la sua benedizione. È questa la povertà che Gesù chiama beata (Lc 6,20), non l'ingiustizia sociale e la miseria che sono da combattere. Una fiducia straordinaria si nasconde spesso dietro il dono di due monete, che passano inosservate agli occhi degli uomini.

Preghiera

Rendici coraggiosi, Signore, di donare e di donarci generosamente; nella fiducia che la tua benedizione possa produrre frutti di grazia per noi e per il nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 20 novembre 2020

Fermati 1 minuto. La purificazione necessaria

Lettura

Luca 19,45-48

45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: «Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!». 47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.

Commento

Giunto a Gerusalemme Gesù non compie più miracoli e guarigioni ma si dedica all'insegnamento nel tempio, impegnandosi in varie dispute e dando ammaestramenti sulle cose ultime. Ma prima di far risuonare la sua parola svolge un'opera di purificazione, allontanando i venditori. 

La predicazione si svolge tra l'ammirazione del popolo, che "pendeva dalle sue parole" (v. 48) e l'ostilità dei capi politici e religiosi, che saranno i suoi antagonisti nel dramma della passione. 

Anche nel nostro cuore si svolge un commercio con le cose di questo mondo - spesso ridotte a beni di scambio - e si manifestano reazioni contrastanti alle parole del vangelo. Ma il Signore viene a purificarlo, a volte in maniera veemente, ma sempre per amore del suo luogo santo, creato a immagine e somiglianza di Dio.

Non fare del Tempio una "spelonca di ladri" significa anche recarsi in esso senza la presunzione di avere diritto a ottenere qualcosa da Dio, piegandolo alla nostra volontà spesso prigioniera di dinamiche del tutto umane. Gesù ci invita a rivolgerci a lui per trovare nella relazione con lui il senso di ogni cosa, che si esprime in un amore gratuito e sovrabbondante.

Preghiera

Crea in noi Signore un cuore puro; affinché possiamo adorarti in spirito e verità, mettendoci in ascolto della tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 19 novembre 2020

Matilde di Magdeburgo. Oltre le tradizionali forme di vita religiosa

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Matilde di Magdeburgo (ca 1208-1283), beghina.

Il monastero di Helfta fu nel XIII secolo un luogo di alta spiritualità e un ritrovo di grandi mistiche che trovavano alimento nella ruminazione quotidiana delle Scritture. Molte di loro non erano monache tradizionali, ma beghine rifugiatesi in monastero per le persecuzioni attuate contro il beghinaggio da parte soprattutto dei frati domenicani. Fra le beghine giunte a Helfta, la più celebre fu senz'altro Matilde di Magdeburgo. Poco si sa della sua vita. Nata intorno al 1208 nella diocesi di Magdeburgo, appartenente a una famiglia nobile, Matilde decise giovanissima di ritirarsi presso una comunità di beghine, cioè di donne che rifiutavano le tradizionali forme di vita religiosa, ma che desideravano vivere un'intensa vita interiore in piccoli nuclei ai bordi dei villaggi. Per trent'anni Matilde visse una profonda comunione con il Signore nella preghiera; non appena però, su ordine del confessore, si accinse a mettere per iscritto le proprie esperienze, iniziarono per lei i guai, soprattutto perché denunciava con molta franchezza la corruzione del clero di cui spesso era stata testimone. Nel 1261, dopo il sinodo domenicano di Magdeburgo contro le beghine, Matilde si rifugiò a Helfta, dove fu compagna di Matilde di Hackeborn e maestra di Gertrude di Helfta.
Nella pace di quel cenobio e nella compagnia di donne straordinarie, Matilde portò a termine la sua opera letteraria, le Rivelazioni, in cui raffigurava - con immagini tra le più belle della letteratura medievale - lo sprigionarsi della luce divina in un cuore che ha meditato per tutta la vita la parola di Dio. Matilde morì attorno al 1283, completamente cieca, ma con una vivida luce negli occhi del cuore. La data odierna è quella in cui Matilde è ricordata dalla Chiesa d'Inghilterra, lo stesso giorno in cui nel Calendario monastico si fa memoria di Matilde di Hackeborn.

11_19_Matilde.jpg
Matilde di Magdeburgo (1208-1283)

I beghinaggi

Tra l’XI e il XIV secolo sorse in Europa, nelle Fiandre, un grande movimento di rinnovamento spirituale, con le donne come protagoniste. Questo  movimento spirituale di donne di ogni estrazione sociale, fu ispirato dal desiderio di condurre una vita di intensa spiritualità fuori dai monasteri, vivendo nella propria casa e nella propria città. Queste autentiche “donne di preghiera e carità”, anche per aiutarsi l’un l’altra, si stabilirono in case vicine formando piccole comunità in piccoli quartieri chiamati “beghinaggi” ai margini delle città e dei villaggi. Il primo di questi “beghinaggi” comparve a Liegi su iniziativa del presbitero Lambert la Bègue, che cercò di organizzarle in comunità, da cui il nome di “beghine”. L’appellativo “beghina”, assunse un connotato negativo, Le beghine hanno incarnato una delle esperienze di vita femminile più libere della storia. Laiche e religiose al tempo stesso, esse cercarono forme di vita che permettesse loro di conciliare una doppia esigenza: quella di una vita monastica e quella di cristiane che vivono nel mondo, ai margini della struttura ecclesiastica.

Le beghine non erano delle suore, non prendevano infatti i voti e potevano ritornare alla vita normale in qualsiasi momento: vivevano in castità e spesso dedite alla carità, un po' come delle converse, cioè delle suore laiche. Inoltre non chiedevano l'elemosina (da cui si capisce che è errata l'etimologia da beg o begard), ma mantenevano le loro proprietà originarie, se ne avevano, oppure, se necessario, lavoravano, per esempio filando la lana o tessendo.
La prima donna ad essere identificata come beghina fu la mistica Maria di Oignies, che influenzò il cardinale Jacques di Vitry (1160-1240), protettore del movimento, di cui Vitry ottenne il riconoscimento, purtroppo solo a parole, da Papa Onorio III (1216-1227) nel 1216.
Successivamente, i beginaggi divennero delle vere e proprie comunità, orientate alla cura dei malati e all'aiuto di donne sole, non accettate dai conventi. Ci furono beghinaggi, forti anche di migliaia di beghine (come a Ghent), in tutte le città e paesi del Belgio e dell'Olanda, dove, nonostante le vicissitudini storiche (furono per esempio aboliti durante la Rivoluzione Francese), esistono oggigiorno, dopo ben sette secoli, ancora 11 comunità in Belgio e 2 in Olanda.

Beghinaggio fiammingo di Bruges

Ci fu anche una forma maschile di beghinaggio, che ebbe minore diffusione rispetto alla controparte femminile e fu denominata (con un connotato negativo in senso eretico) begardi.
In Italia furono denominati anche bizzocchi o pinzocheri o beghini e condussero spesso una vita da predicatori erranti (molto diffusa nel Medioevo) e furono molto impegnati nel denunciare il nicolaismo (l'abitudine dei religiosi di vivere in concubinato con donne) e la corruzione del clero, propendendo per una vita apostolica e povera, come quella di Gesù e dei primi Apostoli.
Su questi punti in comune si allearono spesso con i Francescani spirituali nel combattere il comune nemico Papa Giovanni XXII (1316-1334), che contro di loro scatenò il famoso (o meglio famigerato) inquisitore Bernardo Gui (1261-1331).

Nonostante l'approvazione papale, negli anni successivi seguì una raffica di condanne, a loro carico, ai sinodi di Fritzlar (1259) e Mainz (1261), concilio di Lione (1274), sinodi di Eichstätt (1282) e Béziers (1299), ed infine al Concilio di Vienne (1311-12), dove furono condannate come eretiche, sebbene venisse precisato nel contempo che non c'era nulla di male in comunità formate da donne penitenti anche senza che esse avessero preso i voti.
Nel 1310 fu bruciata sul rogo Marguerite La Porète, una beghina con simpatie verso i Fratelli del Libero Spirito ed autrice del libro Le miroir des simples âmes (lo specchio delle anime semplici), attribuito per anni a Santa Margherita d'Ungheria.
Sempre Giovanni XXII perseguitò con furore beghine e begardi, come si è detto, mediante Bernardo Gui, benché il Papa stesso cercasse di distinguere tra forme eretiche e forme ortodosse del movimento. Pur tuttavia, l'elenco dei processi e relativi roghi di b. durante questo periodo, soprattutto in Francia meridionale, è impressionante: a Marsiglia (il beghino Pierre Trancavel e sua figlia Andreina), Narbona, Carcassonne, Béziers e Tolosa si giustiziarono senza pietà i beghini.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. L'assedio del cuore

Lettura

Luca 19,41-44

41 Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: 42 «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. 43 Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; 44 abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

Commento

Gesù sta scendendo dal Monte degli ulivi verso Gerusalemme e ammirando la città e il suo Tempio proprompe in pianto. Il verbo greco qui utlizzato da Luca - klaio - è diverso da quello impiegato per descrivere il pianto di fronte alla tomba di Lazzaro - dakryo. Non si tratta semplicemente di commozione, ma di un vero lamento profetico. 

Non accettando colui che porta la pace, Gerusalemme non potrà trovar pace e sarà vittima di devastazioni di ogni genere. Eppure Gesù sarà di lì a poco accolto in modo trionfale nel suo ingresso in città. Ma egli scorge la superficialità dei cuori delle folle e il rinnegamento che si consumerà nelle ore della passione. 

Gerusalemme sarà distrutta nel 70 d.C. da Tito Flavio Vespasiano, durante la prima rivolta giudaica. La città, dopo un lungo assedio, verrà passata a fil di spada e rasa al suolo; anche il Tempio, in cui confidava, come luogo della presenza di Dio, che avrebbe assicurato la sua protezione, sarà distrutto. 

Le parole di Gesù non sono solo una triste testimonianza delle tragiche conseguenze per Gerusalemme per averlo respinto come Cristo. Anche noi siamo chiamati a riconoscere il tempo in cui viene a visitarci la grazia di Dio, colui che è venuto a "dirigere i nostri passi sulla via della pace" (Lc 1,79); il solo che può garantire la tregua ai nostri cuori, cinti d'assedio dai turbamenti interiori e dalle potenze di questo mondo.

Preghiera

Signore, donaci la pace non come la dà il mondo, ma come la dà il tuo Spirito; affinché possiamo restarti fedeli in ogni tribolazione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 18 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Un Dio che dà fiducia

Lettura

Luca 19,11-28

11 Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro. 12 Disse dunque: «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14 Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. 19 Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città. 20 Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21 avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23 perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi. 24 Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci 25 Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! 26 Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 27 E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me». 28 Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.

Commento

Gesù sta per intraprendere la lunga salita che da Gerico lo condurrà a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua. Le aspettative dei suoi discepoli sono grandi. Pensano infatti che il suo regno debba manifestarsi "da un momento all'altro" (v. 11). Non immaginano il sacrificio che sta per compiersi. 

Ma Gesù narra una parabola che per immagini ci svela quanto sta per affidare a ogni suo discepolo. Un uomo nobile parte per "un paese lontano" (v. 12) per essere fatto re. Gesù sta per morire e ascenderà al Padre dopo la sua risurrezione. Il suo regno non si manifesterà immediatamente, ma vi sarà un "tempo di mezzo", qui rappresentato dall'affidamento di dieci mine (una moneta dell'antica grecia), da parte del nobile uomo a dieci suoi servitori, una per ciascuno. In questo tempo si manifesterà la ribellione di molti, nel rifiuto di essere governati dal nuovo re. 

Gesù prende spunto probabilmente da un fatto storico: dopo la morte di Erode il Grande il figlio Archelao si recò a Roma per ricevere il titolo di re. Ma una ambasciata di giudei si presentò a Cesare Augusto per opporsi alla richiesta. Divenne comunque governatore della Gudea, per quanto non gli fu conferito il titolo di re. 

Il protagonista della parabola ottiene il titolo di re e al suo ritorno chiede conto ai suoi servitori di come hanno impiegato le mine affidate. Viene portato l'esempio di tre diversi tipo di condotta. Un primo servo ha ricavato dalla sua mina altre dieci mine; il secondo altre cinque; mentre il terzo, anziché fare fruttare la mina affidatagli l'ha nascosta in un fazzoletto, rendendola improduttiva. 

La ricompensa per i servi operosi è incomparabile con quanto loro affidato: una mina corrispondeva a circa tre mesi di lavoro e per ciascuna mina fatta fruttare il re affida ai suoi servi una intera città. Il terzo servo considera il suo padrone come una sorta di avido tiranno e sarà proprio questa sua idea distorta a condannarlo. 

Il padrone è certo severo ma ha affidato a ogni servo la stessa somma di denaro. Cristo non fa differenze nel dare fiducia. Spetta a noi agire con gratitudine e responsabilmente, non restando oziosi in attesa del suo ritorno, né lasciandoci paralizzare dalla paura del suo giudizio. La fedeltà al Signore ci renderà operosi nell'annunciare il suo vangelo e nel moltiplicare la sua stessa grazia.

Preghiera

Signore, concedici di accogliere responsabilmente la fiducia che ci hai accordato, agendo come buoni amministratori della tua grazia, nell'attesa del tuo ritorno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 17 novembre 2020

Fermati 1 minuto. In fretta e con gioia

Lettura

Luca 19,1-10

1 Entrato in Gerico, attraversava la città. 2 Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. 5 Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6 In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore!». 8 Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9 Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; 10 il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Commento

Gesù, che aveva da poco rammentato quanto sia difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli (Lc 18,24), passa lungo le vie di Gerico, non su un carro come i principi di questo mondo, ma a piedi, perso tra la folla. Zaccheo, che ha sentito parlare dei suoi miracoli e della sua predicazione, desidera anche solo vederlo, ma per la sua bassa statura è costretto a salire su un sicomoro; posizione di certo non degna del suo rango - un capo dei pubblicani (v. 2) -, ma che attesta una grande curiosità. 

La curiosità si trasforma in opportunità di salvezza quando Gesù chiama Zaccheo per nome - perché conosce personalmente coloro che salva - e "si invita" a casa sua. Quella di Gesù non è una richiesta ma l'espressione di un preciso mandato: "Oggi devo fermarmi a casa tua" (v. 5). 

Zaccheo è odiato sia dall'élite religiosa che dalla gente comune, per il suo ruolo di capo degli esattori delle tasse per conto dell'occupante romano. Per questo mormorano di fronte alla decisione di Gesù di condividere con lui qualcosa di intimo come il pasto. 

Zacchero riceve Gesù in casa sua "in fretta" e "pieno di gioia" (v. 6). Decide di risarcire coloro ai quali ha estorto denaro, ma tale decisione è il frutto, non la condizione, della sua conversione. Egli dona la metà dei suoi beni ai poveri non per comprarsi la salvezza, ma perché il suo cuore è stato convertito dalla misericordia di Dio.

Il Signore si aspetta di trovarci pronti a riceverlo con gioia quando ci chiama per portare "nella nostra casa" il dono della grazia.

Preghiera

Non considerare Signore, la bassa statura della nostra anima, ma l'altezza della tua misericordia; affinchè possiamo accoglierti con gioia come nostro personale salvatore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Ugo di Lincoln. Certosino e maestro di carità

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Ugo di Lincoln spentosi il 16 novembre del 1200 all'età di sessant'anni

Nativo dei dintorni di Grenoble Ugo era stato educato presso i canonici agostiniani di Villarbenoît, dove aveva emesso i voti religiosi. Desideroso di una vita più ritirata, a 25 anni egli ottenne di entrare nella Grande Chartreuse, dalla quale sarà presto inviato a presiedere la Certosa inglese di Witham, che versava in cattive condizioni. Eletto nel 1186 vescovo di Lincoln, allora la più grande diocesi inglese, Ugo accettò unicamente per obbedienza al suo priore, e si dedicò con tutto se stesso all'incarico pastorale ricevuto. Egli fece rifiorire a Lincoln la locale scuola teologica, e sovrintendette al restauro della cattedrale partecipando talvolta di persona ai lavori più pesanti. Uomo di grande compassione ed equilibrio, Ugo fu spesso chiamato a giudicare le cause più difficili. Per amore della giustizia non esitò a contrapporsi con franchezza ai re e ai confratelli nell'episcopato, senza mai serbare rancore o inimicizia verso nessuno. Si racconta che giunse a rischiare la propria incolumità personale per salvare dalla morte alcuni ebrei, ingiustamente accusati a seguito di un tumulto popolare. Ugo intervenne personalmente per curare i lebbrosi, e si batté perché anche i più poveri potessero avere una sepoltura dignitosa. Egli nutriva inoltre un profondo amore per la natura, ed è spesso raffigurato in compagnia del suo cigno addomesticato, che visse con lui nell'episcopio di Lincoln. Alla sua morte era conosciuto in tutta l'Inghilterra, e da nessuno era posta in discussione la sua santità.

Tracce di lettura

Con l'aiuto di molti uomini di valore che si scelse quali suoi consiglieri, il nuovo vescovo di Lincoln trasformò immediatamente la sua diocesi. Egli predicava la parola di Dio con vigore, obbedendo premurosamente ai comandi contenuti in essa e seguendo un celebre adagio della Scrittura: «Dov'è lo Spirito del Signore, là c'è libertà». Egli riprendeva con fermezza i peccatori, senza curarsi dell'importanza delle persone a cui si rivolgeva.
È poi impossibile ricordare adeguatamente la sua grande compassione e tenerezza verso gli ammalati, specie verso quanti soffrivano di lebbra. Egli li accudiva di persona, lavandone e asciugandone i piedi e baciandoli con affetto. E dopo averli ristorati, li colmava di doni, senza badare alla misura. In alcune residenze episcopali aveva fatto costruire ospedali, nei quali trovavano ricovero uomini e donne afflitti da simili mali.
Quando visitava i lebbrosi, era solito sedersi in mezzo a loro in una piccola stanza per confortare le loro anime con le sue parole delicate, e così alleviava le loro sofferenze con la sua tenerezza materna.
(Adamo di Eynsham, Vita di sant'Ugo di Lincoln)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Ugo di Lincoln
Ugo di Lincoln (1140-1200)

lunedì 16 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Il Signore passa

Lettura

Luca 18,35-43

35 Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. 36 Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 37 Gli risposero: «Passa Gesù il Nazareno!». 38 Allora incominciò a gridare: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». 39 Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 40 Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: 41 «Che vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io riabbia la vista». 42 E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». 43 Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio.

Commento

La guarigione del cieco segue immediatamente il terzo annuncio della passione da parte di Gesù  e forse è posta in relazione simbolica con l'incapacità dei discepoli di comprendere il suo destino terreno fino al momento della risurrezione, quando saranno in grado di vedere ciò che prima non vedevano. 

La menomazione fisica del cieco lo costringe a una vita di stenti e a mendicare lungo la strada, proprio come la cecità spirituale tiene lontano l'uomo dalle ricchezze del regno di Dio.

Ma lungo la strada in cui giace il cieco si trova a passare Gesù. Impossibilitato a vedere, l'uomo fa propri gli occhi della folla e l'annuncio dell'arrivo di Gesù gli giunge attraverso l'udito. Proclama così con la lingua la sua professione di fede: "Figlio di Davide!". Egli riconosce in Gesù il Messia promesso e a nulla valgono i tentativi di dissuasione per farlo tacere, da parte di "quelli che camminavano avanti" (v. 39). 

Gesù stesso lo chiama a sé. Così da "ultimo" diviene primo, destinatario della misericordia del Signore. La sua guarigione lo trasforma in testimone e annunciatore della gloria di Dio, e egli inizia a seguire Gesù.

Tutti noi abbiamo delle debolezze, difettiamo di qualcosa, ma vi è in noi anche la capacità di arrivare a Cristo "per altre strade", oltrepassando gli ostacoli con uno slancio di fede. Egli non solo si lascia raggiungere, ma ci raggiunge in prima persona, ascoltando il grido della nostra preghiera. Il Signore passa. Siamo in grado di riconoscerlo?

Preghiera

Concedici di trovarti, Signore, oltre il buio della nostra umana fragilità. La luce della tua risurrezione ci guidi alla piena comprensione del tuo mistero di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Gertrude di Helfta e l'equilibrio interiore

La Chiesa cattolica fa oggi memoria di Gertrude, monaca del monastero di Helfta, in Sassonia. Entrata a soli cinque anni in monastero, Gertrude fu educata da maestre spirituali di grande valore, come Matilde di Hackeborn e Matilde di Magdeburgo. Alla loro scuola essa acquisì una profonda dimestichezza con tutte le dimensioni della vita interiore: lo studio, la lettura orante delle Scritture e la preghiera personale. Il suo più vivo desiderio divenne presto quello di poter accedere nel profondo del cuore per dimorarvi e incontrare Dio, il quale mediante lo Spirito si rende presente al credente nel Cristo misericordioso e amante. Grazie alla grande cultura e all'equilibrio interiore che aveva acquisito, Gertrude seppe mettere a frutto i suoi molti doni spirituali, evitando gli eccessi e le deviazioni in cui incorreranno altre mistiche dei secoli successivi. Dalle sue esperienze spirituali, infatti, messe per iscritto in parte da lei stessa e in parte da una consorella, trapela una dottrina profondamente sobria e biblica. Ritenuta in modo improprio un esempio di «cristocentrismo assoluto» nella vita spirituale, Gertrude fu in realtà una delle grandi cantrici dell'azione della Trinità divina nel cuore dei credenti e nella comunità ecclesiale. Gertrude morì il 17 novembre del 1301 o 1302, ed è spesso raffigurata con un libro in mano, in atteggiamento orante, vestita da monaca cistercense, anche se il monastero di Helfta non appartenne probabilmente a nessuna delle grandi congregazioni del tempo.

Tracce di lettura

O amore, tu sei, nella santa Trinità, il dolcissimo bacio che unisce in modo così stretto il Padre al Figlio. Tu sei quel bacio di salvezza che la maestà divina ha impresso sulla nostra umanità mediante il Figlio. O dolcissimo bacio, fa' che questo piccolo granello di polvere non sia dimenticato dai tuoi legami: che io non sia privata del tuo contatto e della tua stretta, fino a divenire un solo spirito con Dio. Fammi sperimentare per davvero come sia delizioso abbracciare te, il Dio vivente, amore mio dolcissimo, dimorando in te, a te essere unita. O Dio amore, tu sei quanto di più caro io possieda; all'infuori di te, nel cielo come in terra, io non spero nulla, nulla voglio e nulla abita i miei desideri. Tu sei la mia vera eredità e ogni mia attesa, verso di te tende il mio fine e la mia intenzione.
(Gertrude di Hefta, Esercizio quinto)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Gertrude di Helfta (1256-1301/2)

domenica 15 novembre 2020

La nostra cittadinanza è nei cieli

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTITREESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, nostro rifugio e forza, che sei l’autore di ogni cosa buona; sii pronto, ti supplichiamo, ad ascoltare le devote preghiere della tua Chiesa; e concedici che le cose che chiediamo con fede possiamo ottenerle con efficacia. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 3,17-21; Mt 22,15-22

Commento

Era una convinzione rabbinica che colui che coniava la moneta di un paese ne fosse il dominatore. Secondo questa teoria, null'altro occorreva che di accertare quale fosse la moneta corrente in Giudea a quel tempo, per ottenere una risposta concludente alla domanda che era stata posta a Gesù: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?" (Mt 22,17).

La moneta romana circolava liberamente nel paese e i giudei non esitavano ad usarla in ogni affare e contrattazione. Se, come nazione si fossero astenuti dall'impiegarla ci sarebbe potuto essere almeno un pretesto per mettere in dubbio la legittimità del tributo richiesto dal governo romano; ma vivendo, come facevano, sotto la protezione delle leggi dell'imperatore, e facendo ogni giorno uso della moneta di Roma, lo riconoscevano di fatto come l'autorità sovrana del Paese. La legge sacra consentiva, infatti, ad Israele, di scegliersi il proprio governo, vincolandolo unicamente a continuare a corrispondere il tributo al tempio.

Come "le cose di Cesare" implicavano, nei fatti, più del semplice testatico (il tributo all'imperatore), "le cose di Dio", cui fa riferimento Gesù, significano di più che non semplicemente il tributo del tempio: includono il cuore con le sue affezioni, la coscienza, la volontà, le ricchezze individuali, in una parola la consacrazione a Dio di tutto intero l'uomo, del corpo non meno che dello spirito.

La risposta di Gesù non separa, ma unisce i doveri politici e quelli religiosi dei cristiani. Colui che è interamente votato a Dio, infatti, non può disinteressarsi della polis, del consesso umano in cui vive e nel quale è chiamato a esprimere la carità cristiana. Diversamente, il cristianesimo si ridurrebbe a sterile devozionalismo più che a quell'opera di trasformazione radicale e sostanziale del credente di cui parla Paolo nel capitolo terzo della sua lettera ai Filippesi.

Paolo afferma che "la nostra cittadinanza è nei cieli" (Fil 3,20), ma è qui sulla terra che già si misura il progresso nella santificazione che Cristo stesso compie in noi, "secondo la sua potenza che lo rende in grado di sottoporre a sé tutte le cose" (Fil 3,21).

Se il dominio di Cesare, il cui volto era impresso nel denaro, è infatti puramente convenzionale e soggetto alla volontà di Dio, il dominio di Cristo sulle nostre vite, in virtù del segno impresso nelle anime dalla fede battesimale, è l'esercizio di una sovranità reale. A ben vedere, non vi è cosa, nel cosmo, che non rechi impressa in sé il marchio del suo Creatore e che, dunque, non vada a lui ricondotta. Tutto è da Dio e tutto è per la lode e gloria di Dio.

Cristo, dimorando in noi, riproduce nella nostra vita la propria fisionomia morale; questa conformità sarà completata nei cieli dove "il nostro umile corpo sarà reso conforme al suo corpo glorioso" (Fil 3,21).

La garanzia che rende certa questa trasformazione è la sua potenza illimitata, il suo impero universale. Egli non ha coniato una moneta: era con il Padre quando, come Logos eterno, creava l'uomo a sua immagine e somiglianza; quando ha assunto la nostra natura umana, elevandola e unendola alla propria natura divina; quando ci ha purificati con le acque battesimali e segnati con il sangue della sua passione. Egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo (Sal 95,7). Siamo suoi. E nostra è la sua grazia; nostra la sua carità, che deve passare in abbondanza come moneta corrente tra le nostre mani.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 13 novembre 2020

Giovanni Crisostomo. Predicatore ardente e coraggioso

Nel 407 muore in esilio Giovanni Crisostomo, padre della chiesa e pastore. Giovanni nacque ad Antiochia attorno al 347. Ricevuto il battesimo in età adulta, entrò presto a far parte del clero antiocheno come lettore. Intrapresa la vita cenobitica, dopo soli quattro anni egli abbandonò il monastero per praticare una vita più appartata. Ma la sua salute non gli permise di perseverare in tale proposito; egli accettò dunque l'invito del vescovo che lo richiamava in città per farne un suo stretto collaboratore. Per dodici anni, allora, Giovanni, soprannominato per la sua eloquenza Crisostomo cioè «bocca d'oro», predicò a tempo e fuori tempo; nelle sue omelie egli denunciò gli abusi e le colpe del clero, e assunse la difesa dei poveri condannando le ingiustizie sociali. Nel 397 fu eletto patriarca di Costantinopoli, e si preoccupò subito di rinvigorire la vita spirituale della diocesi, riformando il clero e le comunità monastiche. Al tempo stesso istituì ospedali e si adoperò per alleviare i disagi delle fasce più povere della popolazione. Poiché non risparmiava nella sua ardente predicazione né i ricchi né i potenti, Giovanni fu deposto dalla carica episcopale ed esiliato. Richiamato dopo breve tempo, poté riprendere la sua attività pastorale, ma soltanto per due mesi. Arrestato mentre celebrava la Pasqua a Costantinopoli, fu nuovamente esiliato.

Stremato ormai dalle faticose tappe del suo esilio, Crisostomo morì il 14 settembre del 407, lontano dal gregge che aveva tanto amato. La sua festa è anticipata di un giorno in occidente e posticipata al 13 novembre in oriente, per evitarne la sovrapposizione con l'Esaltazione della Croce.

Tempera all’uovo su tavola (particolare dell’icona dei Pastori d’oriente e d’occidente, cm 40x40)
Giovanni Crisostomo (ca 347-407)

Tracce di lettura

Che cosa fanno i prìncipi e i re della terra con tutti i loro tesori? Costruiscono superbi palazzi, mura difensive per le città, piazzeforti, usano anche catenacci, solide porte, guardie per proteggere i loro tesori. Gesù Cristo agisce in modo opposto. Il tesoro che egli affida è semplicemente racchiuso in un vaso di argilla, come dice san Paolo. Ma se questo tesoro è prezioso, perché il vaso che lo contiene ha la fragilità dell'argilla? È di proposito, affinché il tesoro, lungi dal dovere la sua preservazione al vaso, lo preservi lui da ogni rottura.
(Giovanni Crisostomo, Omelie)

Preghiera

Signore Dio,
forza di quelli che sperano in te,
tu hai dato a Giovanni Crisostomo
una parola forte,
un annuncio persuasivo del tuo vangelo
e un grande coraggio
nella prova e nella persecuzione:
accorda anche a noi
di essere degni e instancabili
annunciatori di Gesù Cristo,
tuo Figlio, nostro Signore.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Non importa dove. Non importa quando

Lettura

Luca 17,26-37

26 Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell'uomo: 27 mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. 28 Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29 ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. 30 Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si rivelerà. 31 In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32 Ricordatevi della moglie di Lot. 33 Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà. 34 Vi dico: in quella notte due si troveranno in un letto: l'uno verrà preso e l'altro lasciato; 35 due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l'una verrà presa e l'altra lasciata». [36 Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l'altro lasciato.]  37 Allora i discepoli gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi».

Commento

Diversamente da Matteo e Marco che riferiscono questi detti in riferimento alla distruzione di Gerusalemme, Luca li adatta ai suoi lettori, prevalentemente pagani, sottolineando la necessità del distacco dai beni terreni in vista della salvezza eterna.

Niente di ciò che Gesù cita riguardo ai giorni di Noè e di Lot è intrinsecamente peccaminoso. Ma le persone risultano così assorbite dalle cose di questo mondo che sono trovate totalmente impreparate quando viene il momento del giudizio.

L'attaccamento della moglie di Lot a Sodoma è così grande che viene travolta dal giudizio di Dio, proprio quando è a un passo dalla salvezza.

Gesù non indica una scadenza temporale né un luogo in cui avverrà il giudizio. Ma esorta a tenersi sempre pronti, facendo della propria vita un dono. Questo il significato del verbo greco zoogoneo, che indica il "conservare in vita" (v. 33), "far vivere"; una vita che non solo si fruisce e detiene per sé ma che può essere donata agli altri; il detto di Gesù va dunque interpretato nell'ottica di sacrificare la propria vita se la si vuole conservare. 

Una prospettiva esistenziale del tutto diversa da quella di chi si preoccupa solo dei propri affari. Questo è il tratto distintivo del cristiano. Quel "marchio" che consentirà all'occhio di Dio di distinguere chiaramente i suo figli, chiamati alla vita eterna. Non importa dove. Non importa quando. Con Paolo possiamo esclamare: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (2 Cor 6,2).

Preghiera

Il tuo ritorno, Signore, ci trovi all'opera nella tua vigna. Insegnaci a comprendere le giuste priorità della nostra vita e a fare di essa un dono per la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 12 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Attraverso le buie strade della storia

Lettura

Luca 17,20-25

20 Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: 21 «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». 22 Disse ancora ai discepoli: «Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell'uomo, ma non lo vedrete. 23 Vi diranno: Eccolo là, o: eccolo qua; non andateci, non seguiteli. 24 Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all'altro del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno. 25 Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione.

Commento

I farisei credono che il trionfo del Messia sarà immediato. Essi lo attendono come colui che capolvolgerà l'impero dei dominatori romani, per stabilire il suo regno millenario. Anche i primi cristiani attendevano il ritorno di Cristo e rimasero turbati dal suo ritardo, mentre infuriavano le persecuzioni da parte dei romani e dei giudei. 

Ma il programma di Cristo è completamente differente. Egli inaugura un'era in cui Dio governerà sui cuori mediante la fede. Tale regno non sarà confinato a una particolare area geografica, né visibile direttamente agli occhi umani. Verrà silenziosamente, invisibilmente, attraverso le strade buie e tormentate della storia, senza la grandiosità associata all'instaurazione di un re terreno.

«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), afferma Gesù. Il suo potere è sulle coscienze e  provoca una rivoluzione nei cuori, prima ancora che nella società civile.

Il regno di Dio è dentro e tra di noi. Non dobbiamo guardare a tempi lontani o luoghi remoti: è adesso, in mezzo a noi; è un regno spirituale, un principio interiore. 

Il regno di Dio si manifesta nella totale resa dell'uomo alla volontà del Padre, con la "nuda fede" nella sua azione salvifica, che squarcia con la sua luce le tenebre del peccato. A volte anche noi possiamo essere scoraggiati perché non vediamo segni di progresso "eclatanti" nella nostra vita spirituale. Ma nella croce di Cristo, che egli richiama in questo discorso, sappiamo che egli ha lavato i nostri peccati nel suo sangue e ha vinto per sempre il principe di questo mondo. 

Possiamo a ragione innalzare un inno di lode: "hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra»" (Ap 5,9-10).

Preghiera

Signore, noi ti offriamo i nostri cuori affinché tu possa renderci partecipi della crescita silenziosa del tuo regno in mezzo a noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 10 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Dio non ha alcun debito

Lettura

Luca 17,7-10

7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

Commento

Il messaggio di questo brano evangelico è che nessuno deve avanzare pretese di sorta, perché il servizio reso a Dio è un dovere da assolvere per se stesso, non in vista di un premio finale, che comunque non mancherà. 

Per quanto bene possiamo fare, Dio non sarà mai nostro debitore, perché quel che egli ci dona è gratuito e infinitamente superiore al bene compiuto: "Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba" (Sal 48,8-10). 

Men che meno esistono opere "supererogatorie", meriti da noi ottenuti oltre ciò che ci era richiesto, meriti in eccesso da applicare a chi desideriamo. Gesù è chiaro: siamo servi inutili (v. 10). Tutto è grazia, che proviene dalle mani di Dio. 

Se Dio non ha alcun debito con noi egli si sente però in debito con il suo stesso onore nel mantenere la sua promessa di salvezza. Ci salviamo non perché noi siamo fedeli, ma perché Dio è fedele. E se le nostre buone opere non sono profittevoli davanti a Dio lo sono senz'altro davanti agli uomini, a coloro che attendono il nostro soccorso, il nostro conforto, la nostra compassione: "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).

Preghiera

Liberaci Signore, dall'amore mercenario e dalla presunzione di essere tuoi creditori. Insegnaci a rispondere con l'amore alla gratuità del tuo amore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Leone Magno. In piedi sulle rovine dell'Impero

Il 10 novembre, i cattolici d'occidente, gli anglicani e i luterani celebrano la memoria di Leone Magno.

Nell'anno 461 muore a Roma papa Leone I, chiamato dai posteri «Magno» per l'ampio respiro della sua azione pastorale e dei suoi pronunciamenti teologici. Originario di Roma, o forse dell'Etruria, Leone visse in un periodo di gravi conflitti e di forti instabilità politiche in Oriente come in Occidente. Eletto diacono della chiesa di Roma, egli fu spesso chiamato a ricomporre contese e divisioni di ogni sorta, e la sua opera di pace gli valse l'elezione a papa nel 440 da parte del clero e del popolo della città. Predicatore sapiente ed esigente, Leone seppe intervenire nelle controversie teologiche cercando sempre vie di riconciliazione e riconducendo al vangelo le fazioni contrapposte. Fu coinvolto negli animati dibattiti cristologici del V secolo, seguiti alla condanna degli insegnamenti di Nestorio, e i suoi pronunciamenti, scritti sotto forma di lettera al patriarca di Costantinopoli Flaviano, divennero la base della fede proclamata dai padri riuniti in concilio a Calcedonia nel 451. In essi Leone parlò con semplicità e franchezza evangeliche dell'umiltà di Gesù, vero Dio fattosi vero uomo a motivo della sua compassione per le sue creature. Negli scritti di Leone Magno emerge un costante annuncio gioioso della salvezza cristiana attraverso la partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Nessun uomo, afferma Leone, deve sentirsi escluso dalla vocazione a entrare nella nuova umanità escatologica di cui Cristo è la primizia. Negli ultimi anni del suo pontificato egli difese Roma dagli Unni, trattando personalmente con il re Attila, e ottenne dai Vandali, entrati ormai nell'Urbe, che non incendiassero la città e non uccidessero i suoi abitanti.

Tracce di lettura

Ringraziamo, o amatissimi, Dio Padre mediante il suo Figlio nello Spirito santo, lui che, «per la grande carità con cui ci ha amati, ha avuto compassione di noi, e mentre eravamo morti a causa del peccato, ci ha fatti rinascere in Cristo», per essere in lui una nuova creatura e da lui nuovamente plasmati. «Spogliamoci perciò dell'uomo vecchio con le sue azioni», e una volta divenuti partecipi della nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne.
Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, divenuto partecipe della natura divina, non voler ricadere nell'antica abiezione con una vita indegna. Ricordati del tuo capo e di quale corpo tu sei membro. Rammentati che tu, strappato dal potere delle tenebre, sei stato inserito nella luce e nel regno di Dio. Mediante il sacramento del battesimo sei divenuto tempio dello Spirito santo: non cacciar via da te con azioni perverse un ospite tanto grande. (Leone Magno, Sermone I sul Natale del Signore 3,1-3)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

LEONE MAGNO

lunedì 9 novembre 2020

Fermati 1 minuto. Responsabili e pronti al perdono

Lettura

Luca 17,1-6

1 Disse ancora ai suoi discepoli: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. 2 È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. 3 State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai». 5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

Commento

La possibilità di recare scandalo, ovvero di turbare la fede degli altri credenti, è insita nella fragilità della nostra stessa fede. Prima ancora che aver paura di essere noi scadalizzati Gesù ci ammonisce di fare attenzione di non essere scandalo per gli altri: "State attenti a voi stessi!" (v. 3). Le nostre azioni, buone o malvagie, non riguardano semplicemente il nostro rapporto personale con Dio, ma hanno una ricaduta sulla comunità.

A questa ammonizione e al «guai» che la accompagna, Gesù fa seguire subito una raccomandazione sulla pronta disponibilità al perdono, che deve essere illimitata: questo il significato simbolico del numero sette. Gesù invita a rimproverare il fratello e la sorella che sbagliano (Mt 18,15-17), ma chiede di essere sempre pronti al perdono: «se ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai» (vv. 3-4). La correzione e il perdono sono collocati nel discorso della montagna nella prospettiva di un amore preveniente: «amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44).

L'alto standard richiesto da Gesù per i suoi discepoli li porta a chiedere un accrescimento della loro fede (v. 6). Il perdono, sebbene debba essere frutto di una gratuità istruita dalla stessa grazia di Dio, implica un nostro intimo anelito alla conversione. Gesù ci esorta a aver fede, perché solo la fede, per quanto piccola, può consentirci di superare le tendenze contrarie al vangelo e radicate saldamente nel terreno della nostra coscienza.

Preghiera

Signore, accresci la nostra fede; affinché possiamo essere come piante rigogliose piantate presso corsi d'acqua, orientate verso la tua luce, nutrite dal tuo Spirito. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 8 novembre 2020

Il perdono come frutto di giustizia

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIDUESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa, nella tua bontà; affinché mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e servirti con devozione in ogni buona opera, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 1,3-11; Mt 18,21-35

Commento

Vi è un profondo legame tra i "frutti di giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude l'odierna pericope paolina dalla lettera ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.

La giustizia, ovvero la nostra giustificazione e santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, matura da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericordia di Dio, che ci condona ogni colpa. I frutti di giustizia, infatti, "si hanno per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioè non dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, nella comunione che si realizza attraverso la fede. E a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria di Dio, cioè la sua bontà, e di suscitare nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.

Ciò non viene compreso dal protagonista della parabola del creditore spietato. L'occasione di questo racconto è suscitata da una domanda posta da Pietro a Gesù. Pietro aveva compreso che il Signore era molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande testo di esegesi delle Scritture ebraiche. Gesù si mostra ancora più esigente del previsto, affermando che occorre perdonare il nostro nemico fino a settanta volte sette (quattrocentonovanta volte); ovvero un numero di volte pressoché illimitato.

L'immagine del re che vuole fare i conti è di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio alla fine dei tempi e quello individuale alla fine della vita. È un rendiconto cui nessuno può sottrarsi.

Il debito del servitore - forse un ministro di stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del servitore di restituire tutto il dovuto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un condono completo.

Nella scena immediatamente successiva, il debitore incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di misericordia di cui è stato destinatario, non è riuscito a coglierne il senso profondo. Si mostra privo di compassione con il suo creditore, facendolo gettare in prigione. Che il creditore spietato non avesse mai sentito né pentimento profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari.

È evidente che la sola paura della punizione non può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio, sospeso il castigo, il suo timore svanisce rapidamente. Probabilmente egli avrebbe tremato se avesse potuto udire le preghiere dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del perseguitato. Ma a quel punto è troppo tardi: "il suo signore lo chiamò a sé". 

Il creditore incapace di rimettere i debiti viene dunque consegnato agli aguzzini, letteralmente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi pagassero al posto loro. 

La parabola del debitore spietato insegna che il condono dei nostri grandi debiti da parte di Dio deve suscitare il perdono dei piccoli debiti che gli uomini hanno nei nostri confronti. Quando ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a perdonarci gli uni gli altri.

Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento" (Fil 1,9), soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo "essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo" (Fil 1,10). Puri di quella purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.

- Rev. Dr. Luca Vona