Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

giovedì 31 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Vigili e responsabili

 Lettura


Matteo 24,42-51

42 Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43 Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44 Perciò anche voi state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà.
45 Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l'incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto? 46 Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! 47 In verità vi dico: gli affiderà l'amministrazione di tutti i suoi beni. 48 Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, 49 e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, 50 arriverà il padrone quando il servo non se l'aspetta e nell'ora che non sa, 51 lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti.

Commento

«Sentinella, quanto resta della notte?» si domanda la vedetta nella profezia di Isaia (Is 21,11); "Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre, tutto il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutta la notte" (Is 21,8) e il salmista: "Gli occhi miei prevengono le veglie della notte, per meditare la tua parola"  (Sal 118,148). Gesù richiama questo invito a restare vigili, per essere pronti al suo ritorno.

Come nessuno sa quando il ladro irromperà nella notte, così nessuno conosce l'ora in cui il Signore verrà a visitarci con la sua grazia. Ma la visita del Signore non ha a che fare solo con una dimesione escatologica, non ha a che fare solo con "la fine dei tempi". Egli sta alla porta e bussa (Ap 3,20). Egli ci visita attraverso le ispirazioni interne, le persone che ci circondano, i fatti che vanno succedendosi nella nostra vita. Egli è sempre presente dentro di noi; ma noi siamo presenti a lui?

Siamo dèsti e pronti a riceverlo, o siamo ottenebrati dalle molteplici distrazioni con cui il mondo ci seduce? La sua visita ci chiama a rendere conto di come abbiamo impiegato la nostra vita, le nostre abilità naturali e la nostra ricchezza. La parabola dei talenti, che Gesù pronuncierà poco più avanti, riprende proprio questo insegnamento.

Vivere con consapevolezza, "in allerta" - questo il significato della parola greca gregoreo - significa vivere in un modo che possa compiacere il Signore in ogni tempo, prendendosi cura delle necessità del prossimo (v. 45). Ma significa anche vivere in profondità, oltre il flusso di stimoli e distrazioni con cui il mondo "ci seduce", ci stanca, drena le nostre energie mentali, riducendo la nostra capacità di stare alla presenza di Dio.

L'incapacità di vegliare, di vivere consapevolmente, frantuma la nostra coscienza e ci allontana da Dio, realtà ultima e pienezza dell'essere. Beati coloro che riescono a vincere il torpore in cui vorrebbe imprigionarci il mondo, per attendere colui che "verrà a visitarci dall'alto come sole che sorge" (Lc 1,78).

Preghiera

La luce della fede illumini la nostra notte, Signore, affinché possiamo vegliare nell'attesa della tua venuta. Donaci la saggezza per amministrare rettamente quanto ci hai affidato ed essere trovati come servi fedeli al tuo ritorno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 30 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Non un sepolcro ma una sorgente di vita

Lettura

Matteo 23,27-32

27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. 28 Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, 30 e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; 31 e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. 32 Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!

Commento

Secondo la legge cerimoniale (Num 19,16) chiunque aveva toccato le ossa di un morto, o un sepolcro, era impuro per sette giorni. Per tale motivo gli ebrei dipingevano di bianco l'esterno delle tombe, cosicché le persone di pasaggio non potessero inavvertitamente essere contaminate. 

Gesù paragona la religiosità dei farisei a un lieve strato di intonaco che nasconde a malapena un cuore pieno di corruzione, capace di contagiare chi ne viene a contatto. Egli rimprovera ai farisei di innalzare monumenti ai profeti ma di essere "figli degli uccisori" dei profeti stessi. Essi infatti respingono e perseguitano Gesù, profeta dei tempi ultimi, pur mostrandosi devoti a quelli del passato. 

Gesù condanna la loro ipocrisia nell'innalzare sontuosi monumenti ai testimoni della fede, per rivestirsi di una apparenza di giustizia, ignorando i segni dei tempi e camminando nell'iniquità. La chiesa non è esente da questo pericolo; è facile "nascondersi" dietro le grandi opere di architettura religiosa, le preziose urne per le ossa dei martiri, la memoria liturgica dei testimoni della fede. 

Si tratta di un rischio trasversale a tutte le confessioni cristiane: innalzare monumenti ai santi, adorare la Scrittura o custodire con gelosia le tradizioni dei Padri non sono garanzia di fedeltà al messaggio evangelico.

Ogni singolo credente è chiamato a esaminare se stesso, per evitare di essere una scatola adorna all'esterno, ma vuota o, peggio, piena di malvagità all'interno. La nostra giustizia prima ancora che davanti agli uomini deve risplendere davanti a Dio. Solo così la tradizione potrà essere non un monumento funebre, ma "tradizione vivente" e vivificante.

Preghiera

Possano i nostri cuori, o Padre, essere sorgente di vita per noi e per chi ci circonda. La memoria del tuo Figlio e dei testimoni che ne hanno seguito le orme possa tradursi in una vita conforme all'evangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

John Bunyan. Non tema di cadere chi si tiene in basso

Il 31 agosto 1688 muore a Londra John Bunyan, predicatore e scrittore inglese.
Nato a Elstow, vicino a Bedford, Bunyan ereditò dal padre la professione di calderaio. A venticinque anni iniziò a frequentare gli ambienti battisti di Bedford e a predicare il vangelo.
Non avendo tuttavia ricevuto l'autorizzazione alla predicazione, egli trascorse più di dodici anni in prigione, poiché non voleva promettere che avrebbe desistito dal suo fermo proposito di annunciare il vangelo; in carcere, dove aveva come uniche letture la Bibbia e il Libro dei martiri di George Fox, compose una splendida autobiografia spirituale, assieme a Il viaggio del pellegrino, opera che lo renderà noto e amato in tutto il mondo della Riforma di lingua inglese.
Uomo estremamente aderente alla realtà, Bunyan dovette alla sua educazione calvinista, che dapprima respinse ma che costituirà poi l'elemento strutturante della sua personalità, la scarsa propensione a fughe spiritualiste e il coraggio con cui affrontò quella che ritenne essere la sua unica vocazione: annunciare la Parola del Signore. Uscito dal carcere e divenuto ormai famoso, egli poté finalmente svolgere il suo ministero itinerante, che compì fedelmente sino alla fine dei suoi giorni.

Tracce di lettura

Non tema di cader chi si tien basso: | Non tema orgoglio chi si vive umile; | Iddio lo guiderà per ogni passo. (Pastorello: II; p. 263)

Lettore, guarda alla sostanza del mio dire.
Scosta la tenda, guarda dietro il velo,
scopri le metafore e non mancare
di trovar cose che, se bene cercherai,
a mente onesta potranno giovare.
Quanto trovi di scorie, abbi il coraggio
di gettarlo, ma pur conserva l'oro.
Che importa se nel sasso l'oro è chiuso?
Non getti via la mela per il torsolo.
Ma se ti sembra tutto da gettare,
forse forse, ritornerò a sognare!
(J. Bunyan, Il viaggio del pellegrino)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

John Bunyan (1628-1688)

Takla Hāymānot, padre del monachesimo etiope

La chiesa etiopica ricorda oggi il monaco Takla Hāymānot, fondatore del monastero di Dabra Libānos. Feśśeḥa Ṣeyon - questo il suo nome di battesimo - nacque nella prima metà del XIII secolo a Zorare, regione etiopica da poco evangelizzata. Raggiunta la maggiore età, egli si sposò, ma rimase molto presto vedovo. Iniziò allora un ministero itinerante di predicatore dell'Evangelo.
La vera svolta nella sua vita avvenne però quando egli entrò nel monastero di Dabra Ḥayq, nel nord del paese, il cui abate era un altro celebre monaco etiopico: Iyāsus Mo'a. Takla Hāymānot fu dunque discepolo di Iyāsus Mo'a e dell'abate Yoḥanni, prima di divenire a sua volta padre spirituale di un gran numero di monaci. Tornato nella regione natia, egli fondò il monastero di Dabra Asbo, che intorno alla metà del XV secolo assumerà il nome odierno di Dabra Libanos, uno dei più importanti centri spirituali della storia etiopica. L'irradiamento monastico di Dabra Asbo fu enorme, anche perché ebbe tra i suoi primi monaci molti uomini imparentati con la nascente dinastia dei salomonidi, e numerosi furono i monasteri che da esso ebbero origine. Anche per questo Takla Hāymānot, che in etiopico significa «pianta della fede», è considerato il capostipite della più grande famiglia monastica dell'Etiopia. Egli fu soprattutto un uomo di grande preghiera. Nell'iconografia tardiva, è rappresentato spesso intento a pregare in piedi su di una gamba sola, poiché l'altra, secondo la tradizione, gli era caduta dopo essersi completamente atrofizzata. Gli ultimi anni della sua vita egli li trascorse in volontaria e pressoché totale solitudine. Morì nel 1313 il 24 naḥasē, corrispondente al 30 agosto del nostro calendario.

Tracce di lettura

Il nostro santo padre Takla Hāymānot si mise a riflettere e disse: «Ahimè, come sono miserabile! Che cosa risponderò il giorno in cui il giusto Giudice verrà? Non ha forse detto: "Nessuno entrerà nel regno dei cieli se non farà la giustizia del Padre mio che è nei cieli"? E allora, povero me, dove fuggirò e dove troverò rifugio davanti alla sua collera? Povero me, non mi sono ornato di una qualsiasi opera buona per le nozze celesti. Sono come il sale con il quale si salano gli alimenti: quando perde il suo sapore, lo si getta per strada e gli uomini lo calpestano. Sono come una lampada spenta, che nessuno riesce a ravvivare e che rimane nell'oscurità. Chi può guarire il medico che non sa guarire se stesso? Così è la mia anima in me».
Allora egli si costruì nel deserto una piccola cella appena sufficiente per accoglierlo in piedi, entrò in essa e cominciò una lotta ascetica assai rude e disse: «Non salirò sul letto del mio riposo, non concederò il sonno ai miei occhi, né l'assopimento alle mie palpebre, finché non trovi un luogo al Signore, una dimora al Potente di Giacobbe».
( Atti di Takla Hāymānot )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Takla Hāymānot (+ 1313)

martedì 29 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Ascoltare volentieri non basta

Lettura

Marco 6,17-29

17 Poiché Erode aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva fatto incatenare in prigione a motivo di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello, che egli, Erode, aveva sposata. 18 Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello!» 19 Perciò Erodiade gli serbava rancore e voleva farlo morire, ma non poteva. 20 Infatti Erode aveva soggezione di Giovanni, sapendo che era uomo giusto e santo, e lo proteggeva; dopo averlo udito era molto perplesso, e l'ascoltava volentieri.
21 Ma venne un giorno opportuno quando Erode, al suo compleanno, fece un convito ai grandi della sua corte, agli ufficiali e ai notabili della Galilea. 22 La figlia della stessa Erodiade entrò e ballò, e piacque a Erode e ai commensali. Il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e te lo darò». 23 E le giurò: «Ti darò quel che mi chiederai; fino alla metà del mio regno». 24 Costei, uscita, domandò a sua madre: «Che chiederò?» La madre disse: «La testa di Giovanni il battista». 25 E, ritornata in fretta dal re, gli fece questa richiesta: «Voglio che sul momento tu mi dia, su un piatto, la testa di Giovanni il battista». 26 Il re ne fu molto rattristato; ma, a motivo dei giuramenti fatti e dei commensali, non volle dirle di no; 27 e mandò subito una guardia con l'ordine di portargli la testa di Giovanni. 28 La guardia andò, lo decapitò nella prigione e portò la testa su un piatto; la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. 29 I discepoli di Giovanni, udito questo, andarono a prendere il suo corpo e lo deposero in un sepolcro.

Commento

Il peccato di Erode verso la Legge è duplice: egli non solo ha commesso adulterio ma anche un incesto sposando la moglie del proprio fratellastro. Giovanni è un modello di predicazione priva di ipocrisia, pusillanimità e prudenza dettata da ragioni opportunistiche. Come egli non aveva temuto di riprendere il popolo, né i dottori della legge quando venivano a farsi battezzare al Giordano, così non ha temuto riprendere il Tetrarca Erode per la sua condotta. 

Allo stesso modo l'apostolo Paolo esorterà Timoteo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento" (2 Tim 4,1-2). 

Le nostre chiese e i singoli cristiani tengono presente questo modello nell'evangelizzazione? Non possiamo ridurre la predicazione a una canna sbattuta dal vento (Mt 11,7) né rivestirla sempre di dolcezza e di indulgenza. Giovanni è stato la "voce che grida nel deserto" (Mc 1,3); le nostre chiese e noi come cristiani abbiamo il diritto nonché il dovere di parlare e agire  secondo giustizia, piuttosto che piegarci allo spirito del mondo, al vento del momento.

Al grido di Giovanni Battista nel deserto si contrappone, quasi come un dittico pittorico, il suo silenzio durante la prigionia e al momento della morte. Egli è consapevole che il martirio porrà il suggello definitivo sulla sua predicazione, esprimendo quella radicalità che non si ferma neanche davanti al rischio di perdere la vita. 

Precursore di Cristo nel preparare la via alla predicazione del vangelo egli anticipa in sé anche lo spirito delle beatitudini: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11). 

Per contro, l'atteggiamento di Erode verso Giovanni si mostra come un pesante monito verso di noi. Egli lo rispettava e lo "ascoltava volentieri" (Mc 6,20), ma aveva più scrupolo riguardo i propri commensali e il desiderio per Erodiade era superiore a quello per la giustizia verso Dio. 

Possa il nostro cuore custodire le parole di Gesù: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38).

Preghiera

Non prevalgano su di noi, Signore, le passioni disordinate, ma ci guidi la forza del tuo Spirito; affinché animati dal distacco per le cose terrene possiamo cercare quelle celesti. A lode della tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Martirio di Giovanni il Battista. L'ultimo e il più grande dei profeti

L'attività del Precursore giunse al suo compimento con l'effusione del sangue, prezzo pagato per la fedeltà alla propria missione, sino alla fine. Il re Erode Antipa e sua moglie Erodiade non permisero al Battista di continuare a denunciare la loro trasgressione della Legge. 
Arrestato e sottoposto a una dura prigionia a Macheronte, sulla sponda orientale del mar Morto, Giovanni venne ucciso nel modo più insensato, da una guardia mandata a decapitarlo per un capriccio di Salomè, figlia di Erodiade. Come era stato in vita, così anche nella morte Giovanni appare l'ultimo e il più grande dei profeti. Egli riepiloga la drammatica storia dei profeti inviati incessantemente da JHWH al suo popolo e dal popolo costantemente respinti. Dopo la trasfigurazione, Gesù aveva detto: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. Ma io vi dico, Elia è già venuto e non l'hanno riconosciuto; anzi, l'hanno trattato come hanno voluto. Così anche il Figlio dell'uomo dovrà soffrire per opera loro» (Mt 17,11-12).
Il rifiuto e la morte del Battista, reso oggetto in mano al delirio dei potenti, prefigurano il rifiuto e la morte di Gesù, e per questo la chiesa fin dai primi secoli ha ricordato in questo giorno il suo martirio.

Tracce di lettura

Sono rari coloro che sanno penetrare l'animo del Precursore. Si è più facilmente attratti dall'animo del discepolo amato, colui che ha riposato sul cuore di Gesù e alla cui gioia si vorrebbe prender parte; chi di noi non l'ha desiderato? Troppo spesso il Battista resta solo. Non se ne comprendono la forza, la dolcezza e le tenerezze; sono troppo nascoste e sofferte. Gli si passa a fianco senza conoscerlo, perché egli stesso si ritrae. Ma penetrare nel mistero del suo cuore e farlo amare... Giovanni Battista non ha riposato sul cuore del Maestro, ma lo ha compreso e intuito nella sua solitudine; lo ha indicato agli altri. Non ha voluto goderne per se stesso, si è fatto da parte nella sua delicatezza. La sua personalità era troppo forte; avrebbe turbato le dolci intimità di Gesù e del discepolo amato. E' scomparso, contento del suo segreto, di aver intuito il cuore del Maestro, sul quale un altro, meno spezzato dalla vita, avrebbe potuto riposare.
(Un certosino)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Tempera all’uovo su tavola lignea telata e gessata cm 32x40 - stile bizantino
Giovanni il Battista, icona di Bose

lunedì 28 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Più che una religione

Lettura

Matteo 23,13-22

13 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. [14] 15 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
16 Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. 17 Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? 18 E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. 19 Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? 20 Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; 21 e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. 22 E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Commento

A partire da questo punto del Vangelo di Matteo abbiamo otto "guai", che fanno da contraltare alle otto beatitudini pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna.

L'espressione "guai a voi" è frequente nella tradizione giudaica profetica e apocalittica, per indicare l'orrore del peccato e la punizione di coloro che lo commettono. Non si tratta tanto di una vera e propria maledizione, ma piuttosto di una minaccia piena di sdegno per una serie di atteggiamenti che Gesù condanna.

L'accusa di ipocrisia rivolta agli scribi e ai farisei si riferisce alla loro falsità e ostentazione, ma anche all'esercizio dell'autorità in maniera tale da ostacolare l'accesso al regno dei cieli. La loro religiosità legalistica, infatti, impedisce l'esperienza della grazia e della santificazione, in un rapporto filiale con Dio. Le parole di Gesù mostrano che ogni atteggiamento sbagliato può avere non solo una ripercussione su di noi, ma anche su coloro che potremmo trarre in errore con un cattivo esempio. 

I farisei "percorrono il mare e la terra" (v. 15) con le loro campagne missionarie tra i pagani, esortandoli ad abbracciare pienamente il giudaismo mediante la circoncisione e l'accettazione degli obblighi della legge. Lo zelo caratteristico dei proseliti li rende "figli della Geenna" più dei farisei.

Gesù attacca la casistica farisaica, che rende alcuni giuramenti validi e altri no, considerando validi quelli relativi a cose minori e trascurando i doveri maggiori. Dispensado dai giuramenti fatti per il tempio, per l'altare e per il cielo, i farisei profananavano il nome di Dio; rendendo vincolante il giuramento fatto per l'oro del tempio incoraggiavano le offerte, dimostrando il proprio attaccamento al denaro.

I "guai" pronunciati contro i farisei stabiliscono uno "standard" anche per i cristiani. Quando il legalismo e la legge cerimoniale soffocano lo spirito di profezia il cristianesimo si riduce a mera religione, allontanando gli uomini dalla Chiesa, che non è un'istituzione, ma il regno dei cieli in mezzo a noi (Lc 17,20). Dio, infatti, vuole essere adorato "in spirito e verità" (Gv 4,23). 

Nessun credente si senta al di sopra degli altri, si vanti di portare al collo le chiavi del regno, ostacoli o renda più stretta la via della salvezza. Il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17), più di quanto crediamo e più di quanto a volte facciamo credere a chi è in cerca della salvezza.

Preghiera

Dona integrità alla nostra vita, Signore, affinché possiamo accogliere con coerenza il tuo vangelo, testimoniando la tua vicinanza a chi ti cerca con cuore sincero Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Agostino d'Ippona. Stabilisci nel tuo intimo la radice dell'amore

Nel 430, mentre la città di Ippona è assediata dai Vandali, muore Agostino, pastore della diocesi locale e padre della chiesa tra i più amati in occidente. Nato a Tagaste, in Africa, nel 354, uomo di temperamento passionale, Agostino cercò a lungo una risposta capace di saziare il suo desiderio di conoscere e di amare. Ancora giovane, a Cartagine, passò dalla ricerca di un edonismo estetizzante al progressivo interrogarsi sulla natura del male, che a suo giudizio abita le profondità del cuore umano. Dopo aver aderito per nove anni al manicheismo, egli sprofondò nello sconforto e partì per l'Italia, dove avvenne il suo incontro decisivo con la predicazione di Ambrogio a Milano. Guidato dall'amore per il bello, alimentato dall'incontro con la filosofia di Plotino, e spronato dalla presenza al suo fianco della madre Monica e dell'amico Alipio, Agostino si lasciò sedurre dalla bellezza della vita cristiana. Battezzato a Milano nella Pasqua del 387, egli fece poi ritorno a Tagaste, dove attuò senza più alcun indugio una profonda conversione. Venduto ogni bene e dato il ricavato ai poveri, egli si ritirò per vivere più radicalmente il vangelo ai margini della città, dove organizzò un cenobio con gli amici rimastigli fedeli. Ordinato presbitero e successivamente vescovo di Ippona, Agostino non smise di coltivare il suo progetto di vita monastica. Radunati attorno a sé presbiteri e diaconi, diede loro una regola per la vita fraterna - forse quella che già aveva scritto per la sua prima comunità di Tagaste - e si dedicò instancabilmente allo studio delle Scritture e alla predicazione, lottando contro ogni comprensione riduttiva del messaggio cristiano.
Agostino fu uno dei più grandi ingegni del cristianesimo, vero cantore della vita interiore; egli visse il resto dei suoi giorni con il cuore e la mente tesi al solo desiderio di conoscere sempre più il mistero di Dio e dell'uomo.

Tracce di lettura

Molte cose possono avvenire che hanno un'apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità: anche le spine hanno i fiori. Alcune cose sembrano aspre e dure, ma si fanno per instaurare una disciplina, sotto il comando della carità. Una volta per tutte, dunque, ti viene imposto un breve comando: ama e fa' ciò che vuoi; se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore; stabilisci nel tuo intimo la radice dell'amore, perché da essa non può procedere altro che il bene.
(Agostino, Commento all'Epistola di Giovanni 7,8)

Il Signore vi conceda di vivere con amore la vostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come servi sotto una legge, ma come uomini liberi sotto la grazia.
(Agostino, Regola 8,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Agostino d'Ippona (354-430)

sabato 26 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Seduti nel posto del discepolo

Lettura

Matteo 23,1-12

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. 11 Il più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.

Commento

Le Scritture riconoscevano ai leviti e ai sacerdoti l'autorità di decidere sull'applicazione della legge mosaica, ma gli scribi e i farisei si erano spinti oltre l'autorità legittima aggiungendo tradizioni umane alla parola di Dio. Gesù esorta a seguire quanto predicano, ma nella misura in cui è conforme alle Scritture; condanna infatti "i pesanti fardelli" della tradizione extrabiblica che essi impongono sulle spalle della gente. 

La vita di fede è più grande della mera religiosità; quest'ultima, anzi, quando scade nel legalismo e nella precettistica aumenta le distanze dell'uomo da Dio. Guai a coloro che chiudono il regno di Dio agli uomini, perché non vi entrano e non vi lasciano entrare nemmeno coloro che vogliono entrarci! (Mt 23,13). 

I filatteri erano piccole scatole di cuoio contenenti delle pergamente recanti alcuni versetti biblici. Venivano legati sulla fronte e sul braccio sinistro durante la preghiera, secondo un'osservanza strettamente letterale delle esortazioni contenute nell'Esodo (Es 13,9) e nel Deuteronomio (Dt 6,8). I farisei interpretavano materialmente il comandamento di tenere la legge di Dio davanti agli occhi, ma avevano perso di vista la strada che conduce a lui divenendo "ciechi e guide di ciechi" (Mt 15,14). Rendendo più lunghi i lacci dei filatteri e le frange del mantello (che dovevano ricordare i dieci comandamenti), cercavano di essere notati e ammirati. 

Gesù stesso portava il mantello per la preghiera; non condanna, dunque, il suo uso, ma la volontà di apparire, propria dei farisei. Anche l'utilizzo dei titoli "rabbì", "padre", "maestro", non è proibito di per sé, ma nella misura in cui diventa per chi ne è fatto oggetto una pretesa e motivo di orgoglio. Paolo, infatti, parla ripetutamente di "maestri" nella Chiesa e spesso li definisce anche "padri" (1 Cor 4,15), esortando a mostrare loro rispetto (1 Tess 5,11-12; 1 Tim 5,1); chiama anche se stesso "padre", nei confronti di coloro che ha fatto nascere alla fede, ma il titolo è da lui utilizzato per rimarcare il suo affetto e non il proprio prestigio. L'uso di questi titoli è riprovevole anche nella misura in cui l'uomo viene riconosciuto come fonte di autorità al di sopra di Dio, mentre Mosè agì come semplice mediatore tra Dio e gli uomini. 

La colpa dei farisei è di costruire una religiosità priva di quell'aspetto gioioso che scaturisce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a partecipare alla sua creazione e alla sua opera di redenzione. Gesù rimprovera anche la loro ipocrisia, perché indulgono verso se stessi ma predicano un grande rigore. Anche il cristiano rischia di cadere in questo peccato, quando proietta sugli altri quelle aspettative di osservanza che non riesce a soddisfare in se stesso. 

Ma vi è un atteggiamento peggiore: quello di chi si mostra religioso per essere lodato dagli altri. Costoro, come affermato da Gesù nel discorso della montagna "hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Mt 6,2.5). Gli ammonimenti da lui rivolti alle folle - ma anche ai discepoli (v. 1) - sono un invito alla coerenza, senza la quale la nostra testimonianza del vangelo perde solidità. 

Più che i filatteri dobbiamo tenere sempre davanti ai nostri occhi l'esempio di colui che è stato maestro nel servire. Solo collocandoci nel posto a sedere che spetta ai discepoli potremo vincere la tendenza a sentirci "giusti" davanti a Dio e agli uomini. Se saremo umili, saremo veri. E se saremo veri dimoreremo in Gesù: Via, Verità e Vita.

Preghiera

Signore, tu ci doni la gioia di essere salvati; concedici di metterci alla tua scuola, per imparare da te che sei mite e umile di cuore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Tichon di Zadonsk e la teologia della Croce

Nel 1783 muore Tichon di Zadonsk, monaco e vescovo della locale diocesi russa.
Nato a Korotsk nel 1724, Timoteo Savelič Sokolov entrò sedicenne nel seminario di Novgorod. Nel 1758 ricevette la tonsura monastica e fu ordinato presbitero. Eletto vescovo di Voronež nel 1763, Tichon si ritirò dopo soli cinque anni nel monastero di Zadonsk a motivo dei suoi gravi problemi di salute. Conoscitore della teologia latina e del pietismo tedesco, egli contribuì a diffondere una spiritualità improntata alla contemplazione del mistero dell'amore di Dio rivelatosi nel Cristo sofferente. 
L'attenzione rivolta al mistero della croce lo aiutò così ad affrontare i suoi grandi limiti nei rapporti con la gente - era molto lunatico e collerico - fino a fargli imparare l'accoglienza e la mitezza soprattutto nei riguardi dei piccoli del suo tempo, che non mancò mai di difendere quando se ne presentava la necessità. Per questo divenne uno starec molto caro alla povera gente, e uno dei santi più amati della Russia moderna. Dostoevskij si ispirò anche a lui nel tratteggiare la celebre figura dello starec Zosima nel suo capolavoro I fratelli Karamazov. Tichon trascorse gli ultimi quattro anni della propria esistenza come recluso, preparandosi nella solitudine e nella preghiera all'incontro faccia a faccia con Dio.

Tracce di lettura

O amore puro, sincero e perfetto!
O luce sostanziale!
Dammi la luce affinché in essa
io riconosca la tua luce.
Dammi la tua luce affinché veda il tuo amore.
Dammi la tua luce affinché veda le tue viscere di padre.
Dammi un cuore per amarti,
dammi occhi per vederti,
dammi orecchi per udire la tua voce,
dammi labbra per parlare di te,
il gusto per assaporarti.
Dammi l'olfatto per sentire il tuo profumo,
dammi mani per toccarti
e piedi per seguirti.
Sulla terra e nel cielo
non desidero che te, mio Dio!
Tu sei il mio solo desiderio,
la mia consolazione,
la fine di ogni angoscia e sofferenza.
(Tichon di Zadonsk, Dammi luce)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

TICHON, icona russa del IXX sec.
Tichon di Zadonsk (1724-1783)

venerdì 25 agosto 2023

Fermati 1 minuto. Il grande comandamento

Lettura

Matteo 22,34-40

34 I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; 35 e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» 37 Gesù gli disse: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". 38 Questo è il grande e il primo comandamento. 39 Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».

Commento

Dopo avere messo alla prova Gesù con la pericolosa domanda se fosse lecito pagare il tributo a Cesare i farisei "tornano all'attacco" ponendogli una questione che non rischia questa volta di attirargli l'ostilità delle autorità politiche romane, ma delle diverse correnti farisaiche, in disputa tra loro per l'interpretazione delle Scritture. 

Viene dunque chiesto a Gesù qual è il più grande dei precetti della legge. I comandamenti riconosciuti dai maestri ebrei sono in tutto 613, di cui 365 negativi (proibizioni) e 248 positivi. Sarebbe stato facile, dunque, offrire una risposta capace di suscitare una disputa e inimicarsi coloro che lo riconoscevano come  maestro della legge. 

Gesù si spinge oltre e indica non solo quello che ritiene essere il primo comandamento e il più grande, ma anche il secondo, simile - nel testo greco omoía, della stessa sostanza - a questo, che è "Ama il tuo prossimo come te stesso" (v. 39). In questi due comandamenti Gesù riassume le due tavole della Legge: la prima, con i doveri verso Dio, e la seconda, con i doveri verso il prossimo. 

Allo stesso tempo indica che precetti, astensioni e azioni rituali hanno senso solo se suscitati dall'amore. "L'amore è l'adempimento della legge", affermerà, fedelmente al vangelo, l'apostolo Paolo nella sua lettera ai romani (Rm 13,10). Mentre Giovanni nella sua prima lettera evidenzia chiaramente il nesso tra i due comandamenti: "Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto" (1 Gv 4,20). L'esercizio della carità, verso l'uomo fatto a immagine di Dio e riscattato dal sangue del suo Figlio, è il parametro  per comprendere quanto è grande il nostro amore verso Dio.

E tuttavia, pur nella loro complementarietà i due comandamenti mostrano un'importante differenza: mentre Dio va amato "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente" (v. 37), il prossimo va amato "come te stesso" (v. 39). La carità messa in pratica dal cristiano è diversa dal semplice attivismo sociale, non nasce da un'utopia determinata da una visione puramente orizzontale.

La croce descrive la dimesione duplice del "più grande comandamento" (v. 36), declinato al singolare ma articolato in due regole di vita. L'asse verticale, proiettato verso l'alto - verso Dio - consente a quello orizzontale di abbracciare un panorama più ampio, estendendo le braccia della carità verso ogni uomo.

Preghiera

O Dio, noi riconosciamo verso di te un debito di amore senza misura; e poiché hai tanto amato l'uomo da donargli il tuo Figlio unigenito ci impegnamo ad amare i nostri fratelli e le nostre sorelle a gloria del tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 24 agosto 2023

Bartolomeo. Dal fico della Legge alla sequela di Cristo

Le chiese d'occidente ricordano oggi l'apostolo Bartolomeo.
Originario di Cana di Galilea, nel quarto vangelo egli è chiamato Natanaele ("dono di Dio"), ed è salutato da Gesù come «un israelita senza falsità». Uomo dedito allo studio della Torah, come indica secondo la tradizione rabbinica l'episodio del fico sotto cui lo vede Gesù, egli scruta le Scritture in attesa dell'arrivo del Messia. Teso dunque a riconoscere in Gesù il Messia, Natanaele è tuttavia restio ad accogliere una figura che va al di là delle sue conoscenze e aspettative, come mostra la sua perplessa reazione alla parola rivoltagli da Filippo: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù figlio di Giuseppe di Nazaret» (Gv 1,45). Ma nel mistero dell'incontro narrato da Giovanni, Natanaele oltre a proclamare Gesù re d'Israele, cioè Messia, lo proclama anche figlio di Dio, riconoscendo che colui che si manifesta ai suoi occhi è legato da un particolarissimo legame d'intimità con il Dio d'Israele. Dopo la Pentecoste, secondo alcune tradizioni, Bartolomeo si recò a evangelizzare l'India e l'Armenia, dove morì martire, scorticato vivo.
In occidente non si può tacere che la sua ricorrenza è legata a uno dei più drammatici momenti della storia cristiana: la Notte di san Bartolomeo, quando nel 1572 avvenne a Parigi e poi in tutta la Francia la strage di trentamila protestanti francesi con l'innegabile complicità di moltissimi esponenti, talora di prestigio, della chiesa cattolica.
Le chiese ortodosse ricordano Bartolomeo assieme a Barnaba, l'11 giugno.

Tracce di lettura

Natanaele ascoltò attentamente il vangelo recatogli da Filippo in quanto con estrema esattezza aveva appreso il mistero che riguardava il Signore, e sapeva che sarebbe provenuta da Betlemme la prima apparizione di Dio nella carne e che, siccome sarebbe vissuto tra i nazareni, sarebbe stato chiamato «nazoreo».
Natanaele allora, essendosi incontrato con colui che gli aveva fatto vedere lo splendore di tale conoscenza, se ne uscì con queste parole: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Allora Filippo gli si fece risolutamente guida e gli disse: «Vieni e vedi». Con ciò Natanaele, lasciato il fico della Legge, raggiunse Gesù.
E così il Logos gli conferma che egli è un puro, non un falso israelita, perché aveva mostrato che in lui si era conservata quella caratteristica che era stata del patriarca: «Ecco, disse, un vero israelita, in cui non vi è inganno».
(Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici 15)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Icone dei Santi
Bartolomeo-Natanaele

Fermati 1 minuto. La croce di Cristo, scala verso il Cielo

Lettura

Giovanni 1,45-51

45 Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». 46 Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47 Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». 48 Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». 49 Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!». 50 Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!». 51 Poi gli disse: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo».

Commento

A dispetto della loro umile condizione i discepoli chiamti a sé da Gesù avevano certamente familiarità con le Scritture, tale da riconoscere che egli è «colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti» (v. 45). Essi non tengono per sé questa "scoperta" ma la condividono con gioia con i propri parenti e amici; è il caso, ad esempio di Andrea con il fratello minore Simone e di Filippo con l'amico Natanaèle. Quest'ultimo è comunemente identificato con l'apostolo Bartolomeo, per diverse ragioni. 

In Giovanni 21,2 il suo nome è messo insieme a coloro che erano stati chiamati all'apostolato; mentre il nome di Natanaèle non compare mai nei sinottici, parimenti il nome di Bartolomeo non compare mai in Giovanni, cosa che depone a favore dell'identificazione dell'uno con l'altro; inoltre Bartolomeo è chiaramente un patronimico che significa "figlio di Tolomeo", mentre Natanaèle è un nome proprio.

Natanaèle era certo un uomo pio, che come Simeone e Anna, attendeva "la consolazione d'Israele", ovvero la manifestazione del Messia. Le parole «un Israelita in cui non c'è falsità» (v. 47) lo pongono, come Zaccaria ed Elisabetta tra i giusti al cospetto di Dio. Non indicano l'assenza di peccato, ma l'assenza di ipocrisia, la semplicità di mente e di cuore, che lo rendevano disponibile ad accogliere la Parola di Dio. 

Il suo scetticismo nel ritenere che da Nazaret fosse potuto venire qualcosa di buono era probabilmente dettato dal fatto che questa era una piccola e insignificante cittadina in mezzo alle colline della Galilea e forse anche dalla tendenza dei Giudei del sud a mostrare un certo disprezzo per i Galilei, a causa del loro dialetto e dei più frequenti contatti con i gentili. La risposta di Filippo è lapidaria: «vieni e vedi» (v. 46). 

Natanaèle era avvezzo alla meditazione delle Scritture, cosa che possiamo desumere dall'espressione di Gesù «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (v. 48): è questo un semitismo che indica lo studio della Legge, che veniva spesso condotto in un luogo appartato, come un giardino, sotto la frescura di una pianta. Tuttavia la frequentazione e ruminazione assidua delle Scritture è solo il punto di partenza per l'incontro con il Cristo, che può avvenire mediante l'esperienza diretta, dalla sua sequela: "Gustate e vedete quanto è buono il Signore" afferma il salmista (Sal 33,8); e la promessa di Gesù fatta a Natanaèle è di vedere colui che fu prefigurato dalla scala di Giacobbe (Gn 28,12): il mediatore tra la terra e il Cielo, tra Dio e l'umanità. 

Se il primo uomo, Adamo, con il suo peccato, aveva chiuso i cieli alla sua posterità, Gesù, il Figlio dell'uomo, il secondo Adamo, è colui che li apre nuovamente, non solo ad Israele ma a tutta l'umanità. Gli angeli salgono e scengono continuamente per servire coloro che appartengono alla Gerusalemme celeste non per "privilegio etnico" quali figli di Israele, ma in quanto credenti "nei quali non c'è falsità". Costoro divengono testimoni dei tesori celesti, di ciò che supera le loro stesse aspettative.

Il Figlio di Dio è il mediatore attraverso il quale la grazia discende a noi dal Cielo e la nostra anima, liberata dai suoi nemici può ascendervi, gradino dopo gradino, crescendo in santità e giustizia (Lc 1,75).

Preghiera

Signore, tu ci scruti e ci conosci; concedici di cercarti con cuore sincero, nutrendoci della tua parola; chiamaci per nome, affinché seguendoti senza esitazione possiamo contemplare e condividere i tesori del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 21 agosto 2023

Fermati 1 minuto. L'illusione della ricchezza

Lettura

Matteo 19,16-22

16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». 17 Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». 20 Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». 21 Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». 22 Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.

Commento

Nel passo parallelo del vangelo di Luca (Lc 18,18-23) il giovane di questa parabola è definito "uno dei capi". Si trattava probabilmente, di uno dei capi della sinagoga e, dunque, di un uomo molto ricco. Marco, invece, ci informa che il giovane "corse" da Gesù e "si inginocchiò davanti a lui" (Mc 10,17), a indicare il suo sincero e ardente desiderio di incontrarlo. Sia Marco che Luca riferiscono che nel suo preambolo il giovane chiama Gesù "maestro buono". 

Se in altri passi evangelici vediamo che molti sacerdoti e dottori della legge, avvicinano Gesù per metterlo alla prova e cercare di coglierlo in fallo, in questo caso c'è un autentico desiderio del giovane di sapere cosa deve fare di buono per ottenere la vita eterna. Gesù introduce la sua risposta con la premessa che "uno solo è buono"; in Marco e Luca la frase è integrata da "nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio" (Mc 10,18; Lc 18,19). Gesù non intende certo sconfessare la propria divinità; al contrario  cerca di suscitarne il riconoscimento, rifiutando di essere relegato tra uno dei tanti maestri della legge considerati buoni, anziché come il Figlio di Dio. 

Il giovane è invitato da Gesù a osservare i comandamenti e, tra questi, elenca i cinque che costituivano la seconda tavola della legge, relativi al rispetto e all'amore del prossimo. Probabilmente perché come sacerdote levitico questo capo della sinagoga poteva più facilmente illudersi di osservare quelli relativi all'amore di Dio, come anche noi, d'altra parte possiamo credere di amare Dio per qualche buon sentimento nei suoi confronti e le azioni di culto che gli rendiamo. Più difficile è illudersi sull'amore del prossimo nel momento in cui lo defraudiamo dai suoi beni o desideriamo ciò che gli appartiene. 

Il giovane crede avventatamente di aver rispettato "tutte queste cose", ma non si rende conto della profondità spirituale della legge. Come proclamato da Gesù nel Discorso sul monte, anche solo gli atteggiamenti interiori disordinati costituiscono una violazione della legge: "fu detto agli antichi: Non uccidere... ma io vidico chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,21-22); "fu detto: Non commettere adulterio... ma chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28). 

Il giovane che interpella Gesù non comprende che la nuova giustizia è superiore all'antica e che davvero nessuno, di fronte ad essa può essere detto "buono" se non Dio e il suo "figlio prediletto". Crede di potersi salvare con le proprie opere e per questo chiede a Gesù cosa gli manca ancora per raggiungere la perfezione, presumento di poter compiere un'opera ancora più grande. Ma la perfezione cristiana, consiste in un distacco integrale da tutte le proprie ricchezze. A questa perfezione noi tutti siamo chiamati e non solo le persone che svolgono qualche minstero ecclesiastico.

Relegare la chiamata a una totale consacrazione di sé e dei propri beni al Signore a pastori o preti, frati, suore e monache non ha alcun senso cristiano. Il Vangelo è l'unica regola di vita per ogni battezzato e invita tutti a lasciare i molteplici idoli che questo mondo ci mette davanti.

Donare le nostre ricchezze ai poveri significa coltivare un totale distacco del cuore delle cose materiali e persino da quelle spirituali. A cosa gioverebbe infatti dare tutti i nostri beni ai poveri se poi diventiamo preda della vanagloria e ci convinciamo di esserci salvati, non per la grazia che opera in noi e attraverso di noi, ma illudendoci di aver meritato una ricompensa compiendo qualcosa di buono? 

Beati coloro che hanno uno spirito "povero", distaccato, "perché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Ma il giovane ricco non lo comprese e come venne a Gesù correndo, pieno di gioia, così se ne andò, rattristato. Vogliamo andarcene anche noi? (Gv 6,67)

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che hai rinunciato alla tua stessa uguaglianza con Dio per abbassarti fino a noi e guadagnarci la savezza; concedici di rinunciare con gioia a ciò che ci fa sentire ricchi, per poter entrare nel tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 20 agosto 2023

Bernardo di Chiaravalle, dalla memoria alla presenza di Dio

Le chiese cattolica, anglicana, luterana e maronita ricordano il 20 agosto Bernardo di Chiaravalle, monaco e fondatore dell'abbazia di Clairvaux. Nato nel 1090 a Fontaines, presso Digione, a 21 anni Bernardo si sentì attratto dalla vita monastica. Entrò così, portando con sé una trentina di parenti e amici, nel Nuovo Monastero (così fu chiamato) fondato a Cîteaux pochi anni prima da alcuni monaci che avevano lasciato il monastero di Molesme per iniziare una vita più fedele alla Regola di Benedetto. L'impulso dato da Bernardo alla riforma cistercense fu enorme. Divenuto già nel 1115 abate della nuova fondazione di Clairvaux, a partire da essa egli diede origine a più di sessanta monasteri in tutta l'Europa. Uomo dotato di un carattere forte, ricco di dolcezza e di capacità di amare e farsi amare, Bernardo seppe interpretare l'itinerario della ricerca di Dio, imprescindibile secondo la Regola di Benedetto, come un progressivo passaggio dalla memoria Dei alla presentia Dei nel cuore del monaco; tale passaggio avviene, secondo Bernardo, grazie all'accoglienza della Parola di Dio nella fede e all'esercizio faticoso ma gioioso della carità fraterna. Al centro della sua rilettura della Regola sta infatti l'interpretazione del monastero come «scuola di carità». Fu assiduo ascoltatore delle Scritture, e tutta la sua teologia non fu che un loro commento, nel solco della tradizione dei padri e a partire dalla propria esperienza dell'incontro fra l'umano e il divino. Di tale incontro, che egli chiama «le visite del Verbo», il grande padre cistercense ci ha lasciato una splendida testimonianza letteraria nei suoi Sermoni sul Cantico dei cantici, rimasti incompiuti.

Tracce di lettura

La carità procede da tre cose: da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera. Dobbiamo la purezza al nostro prossimo, la buona coscienza a noi stessi, la fede a Dio. La purezza consiste in questo, che qualsiasi cosa la si faccia a utilità del prossimo e per l'onore di Dio. Ma è anzitutto davanti al prossimo che è necessario manifestarla, perché davanti a Dio noi siamo senza veli. Invece al prossimo non possiamo essere conosciuti se non a misura di quanto gli apriamo il nostro cuore. Due cose fanno in noi una buona coscienza, e cioè la penitenza e la continenza. Con la prima scontiamo i peccati commessi, e con la continenza cerchiamo di evitare in futuro di peccare. Infine, rimane la fede sincera, che si deve presentare a Dio con vigilanza, onde non capiti di offenderlo con il nostro modo di comportarci verso il prossimo. Si dice sincera, senza finzioni, a differenza della fede morta, quella che è senza le opere, crede per un certo tempo, e nel tempo della tentazione viene meno.(Bernardo, Sermoni diversi 45,5)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Bernardo di Clairvaux (1090-1153)

Una lezione di preghiera da parte di Gesù

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA UNDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITA'

Colletta

O Dio, che hai manifestato la tua onnipotenza principalmente mostrando la tua pietà e misericordia; concedici benigno la tua grazia in abbondanza, affinché noi, correndo sulla via dei tuoi comandamenti, possiamo ottenere la ricompensa promessa e prendere parte al tuo regno celeste. Per Gesù Cristo nostro Signore Amen.

Letture

1 Cor 15,1-11; Lc 18,9-14

Commento

Le parole con cui Luca introduce la parabola del pubblicano e del fariseo ci informano che egli la pronunciò per coloro che “erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri (Lc 18,9). I protagonisti della parabola rappresentano due tipologie di credenti e la tentazione di sentirsi tra coloro che appartengono “alla chiesa giusta”, al popolo degli “eletti”, biasimando, o quantomeno compatendo, “quelli di fuori”.

Il vangelo di Luca, dopo averci riportato, in questo stesso capitolo, l’esortazione di Gesù a pregare continuamente “senza stancarsi” (Lc 18, 1), ci offre questa parabola in cui viene spiegato come bisogna pregare.

La preghiera del fariseo, apparentemente, è una preghiera di ringraziamento a Dio. In realtà, il fariseo è completamente centrato su se stesso, nella presunzione di non essere “come gli altri uomini” (Lc 18,11). Compie diverse opere buone, andando anche molto al di là di ciò che è richiesto dalla legge mosaica: digiuna due volte a settimana, mentre all’ebreo osservante era comandato di digiunare una volta l'anno in occasione della memoria annuale della distruzione del primo tempio; paga la decima di tutto, mentre in realtà la decima era richiesta solo su alcuni prodotti.

Ciò che Gesù mette in discussione non sono le opere buone del fariseo, ma il suo atteggiamento interiore, contrapposto a quello del pubblicano, che risulta molto diverso. Il fariseo prega stando ritto in piedi - una posizione che sembra testimoniare una grande sicurezza di sé davanti a Dio - e parlando “dentro di sé” (Lc 18,11), trasformando la sua preghiera in una mormorazione contro il prossimo, rendendola dunque una sorta di bestemmia.

Il pubblicano, invece, proclama ad alta voce il suo status di peccatore. D’altra parte, era un peccatore “pubblico”, per il suo ruolo di agente della risocossione delle tasse per conto dell’occupante romano (e spesso tale riscossione, già considerata riprovevole di per sé, si macchiava ulteriormente di disonestà). Ma egli non respinge le accuse che gli vengono rivolte: ciò che il fariseo mormora dentro di sé contro il pubblicano questi lo riconosce, portando la propria vergogna davanti a Dio. Di qui la sua preghiera, a sguardo basso e a debita distanza dal Santo dei Santi, il luogo del Tempio che rappresentava la presenza di Dio sulla terra: “stando lontano, non ardiva neppure alzare gli occhi al cielo” (Lc 18,1). Il pubblicano non ha nulla di cui gloriarsi, soltando chiede a Dio “sii placato verso me peccatore” (Lc 18,14).

Gesù non condanna le buone opere del fariseo, né sminuisce il peccato del pubblicano; ma loda il suo modo di pregare, ovvero il modo in cui egli si relaziona con Dio e, di conseguenza, con il prossimo. Il pubblicano appare consapevole del male arrecato e del suo essersi posto lontano da Dio e dai suoi comandamenti. Questa è la condizione di tutti noi, compreso il fariseo, con il suo perfezionismo spirituale. 

Così Paolo, nella sua Prima lettera ai Corinzi, rappresenta i cardini della nostra fede: “Il vangelo che vi ho annunziato (…) e nel quale state saldi, e mediante il quale siete salvati (…) Cristo è morto secondo i nostri peccati, secondo le scritture (…) fu sepolto e risuscitò (1Cor 15,1-4)”.

Paolo, in una lezione di umiltà, che non scade nella falsa modestia, si considera “il minimo degli apostoli, neppure degno di essere chiamato apostolo (1Cor 15,9), ma riconosce anche che “la grazia verso di me non è stata vana, anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1 Cor 10). Questa consapevolezza è strettamente correlata alla fede nella resurrezione di Cristo: non sapere riconoscere che la grazia può operare e certamente opera in noi, per santificarci dopo averci giustificati, significa rendere vana la resurrezione di Cristo.

La parabola del fariseo e del pubblicano, ci insegna che pregare bene significa essere veritieri con se stessi, riconoscendosi bisognosi di salvezza; e significa essere veritieri con Dio, riconoscendolo come un Dio misericordioso, che in Cristo, ha donato se stesso per la nostra salvezza.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 19 agosto 2023

Ancora vessazioni contro le chiese evangeliche italiane

Dopo Punto Luce, c’è il caso di Breccia di Roma
 
Roma (AEI), 19 agosto 2023 – Un altro caso di vessazione contro una chiesa evangelica italiana è emerso nelle ultime settimane. Ne parla in un lungo articolo di Rachel Wierenga su Evangelical Focus (12 luglio 2023). Si tratta della chiesa Breccia di Roma che, dopo aver acquistato dei locali, si è vista contestare dall’Agenzia delle Entrate la riclassificazione degli stessi in locali di culto. La motivazione dell’Agenzia è stata che mancherebbero delle “caratteristiche intrinseche” dei luoghi di culto: altari, immagini, statue. E’ un argomento risibile che denuncia una crassa ignoranza sulla varietà dei culti religiosi (il protestantesimo non ha luoghi di culto con statue e immagini) e una negligenza sui principi basilari del pluralismo religioso (ogni comunità di fede ha una propria concezione degli spazi). L’Agenzia delle Entrate, dopo aver perso i primi due gradi di giudizio, ha portato il caso alla Corte di Cassazione.
 
Purtroppo, questo problema va ben oltre le mura di Breccia di Roma. Le chiese evangeliche in tutta Italia sono oggetto di vessazioni e di negazione della libertà religiosa promessa dalla Costituzione italiana. L'Alleanza Evangelica Mondiale e l'Alleanza Evangelica Italiana hanno collaborato per redigere un rapporto che mette in luce la discriminazione dell'Italia nei confronti delle minoranze religiose e che chiarisce diverse questioni fondamentali.

In primo luogo, la Costituzione italiana del 1948 prometteva la libertà religiosa, ma negli ultimi 75 anni l'Italia non ha ancora emanato una legge sulla libertà religiosa che ne chiarisca il significato. Il rapporto documenta come la mancanza di una legge specifica sulla libertà religiosa da parte del sistema giuridico italiano "abbia causato e stia causando discriminazioni alle minoranze religiose".  Il rapporto chiarisce che questo problema è stato identificato molto tempo fa. 
"Quasi 60 anni fa, lo storico e giurista protestante Giorgio Peyrot concludeva il suo rapporto sulla Libertà religiosa in Italia chiedendo una soluzione definitiva e soddisfacente dell'incombente problema dei rapporti tra lo Stato e le Chiese non cattoliche".
Settantacinque anni dopo, tutte le minoranze religiose italiane stanno ancora aspettando e sperando nella libertà di religione promessa dalla Costituzione italiana. 

In secondo luogo, il rapporto condivide che una delle maggiori difficoltà per le minoranze religiose è la natura iniqua delle norme italiane sui locali di culto, come vediamo con la chiesa Breccia di Roma, che ha dovuto pagare quasi 20.000 euro per la riclassificazione e le spese legali. Questi regolamenti e le conseguenti vessazioni burocratiche hanno portato alla chiusura di decine di chiese in tutto il Paese. Il rapporto afferma che:
"Resta il fatto che sia l'apertura di nuovi luoghi di culto che il mantenimento di quelli esistenti rimane sempre più difficile a causa della natura iniqua dei regolamenti, creati dichiaratamente per ostacolare l'apertura di nuovi luoghi di culto".

In terzo luogo, il rapporto spiega le difficoltà che incontrano le piccole chiese quando lo Stato designa specificamente i leader religiosi solo se hanno almeno 500 membri nella loro chiesa. "Il processo di acquisizione del riconoscimento da parte dello Stato, come previsto dall'articolo 8 della nostra Costituzione, è stato praticamente bloccato". In base a questo requisito, Gesù e i suoi 12 discepoli non sarebbero stati qualificati come leader religiosi. Questo rapporto chiarisce che le vessazioni avvengono contro tutte le minoranze religiose italiane, ma colpiscono soprattutto gli evangelici.

Nel 2020, dopo una vicenda legale durata anni, il Consiglio di Stato ha approvato la richiesta della chiesa evangelica Punto Luce di San Giuliano Milanese di tornare nei suoi locali che erano stati precedentemente chiusi dal Comune per un sopruso legato all’applicazione della legge regionale. La sentenza finale ha respinto le azioni di San Giuliano Milanese e ha riconosciuto "vari abusi nel comportamento del Comune". Vediamo lo stesso schema usato contro Punto Luce nel caso di Breccia di Roma, quando i burocrati locali o nazionali perseguitano le piccole chiese evangeliche per molti anni con costose sfide legali. Molte piccole chiese, prive di risorse finanziarie o di contatti, non possono resistere alle persistenti vessazioni burocratiche. Quando gli italiani sperimenteranno davvero la libertà religiosa che la loro Costituzione riconosce ma che lo Stato non riesce a realizzare pienamente?

La Chiesa Evangelica Breccia di Roma

Guerrico d'Igny e la generazione del Verbo nell'anima

Il 19 agosto 1157 muore nella propria abbazia Guerrico, abate di Igny.
Nato tra il 1070 e il 1080 a Tournai, in Belgio, Guerrico fu canonico e maestro di teologia in quella stessa città. Amante della solitudine e della preghiera, quando aveva ormai più di quarant'anni egli andò a trovare Bernardo e decise di diventare monaco a Clairvaux. Nel 1138 fu nominato abate di Igny, incarico che assolse con amore paterno e con grande dolcezza fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle sue predicazioni, che altro non sono se non una continua ruminazione e un approfondimento dei testi biblici e liturgici meditati nella preghiera comunitaria, Guerrico invita quanti lo ascoltano a lasciare che il Verbo si formi nelle loro anime come nel seno della madre del Signore, attraverso l'assiduità con le Scritture e un'ascesi orientata alla carità.
La sua vita fu più che mai attesa del ritorno del Signore, testimonianza che ricorda ai monaci e alla chiesa tutta il primato della ricerca del regno di Dio e della sua giustizia.

Tracce di lettura

Presta, come dice la Scrittura, un attento ascolto: infatti la fede viene dall'ascolto e l'ascolto è quello della parola di Dio. Contempla l'ineffabile generosità di Dio e insieme la potenza di questo mistero che non si lascia penetrare: colui che ti ha creato, è creato in te e, come se fosse poca cosa che tu lo abbia per Padre, vuole anche che tu gli divenga madre. «Chiunque - dice - fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre». O anima fedele, allarga il tuo seno, dilata gli affetti, non angustiarti nel tuo cuore, concepisci colui che la creatura non può contenere! Apri alla Parola di Dio il tuo orecchio per ascoltare. Questo è il mezzo per cui lo Spirito fa concepire fin nel profondo del cuore.
(Guerrico d'Igny, Sermone II sull'Annunciazione 4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Guerrico d'Igny (1070/1080-1157)

venerdì 18 agosto 2023

Filosseno di Mabbug. La deificazione dell'uomo per mezzo dell'amore

Nel 523 a Filippopoli, in Tracia, termina la sua parabola terrena Filosseno, metropolita di Mabbūg in Siria. Aksenaya, questo il suo originario nome siriaco, era nato attorno alla metà del V secolo a Tahal, in Persia. Frequentata la scuola di Edessa in un periodo di grandi controversie cristologiche e di forti instabilità politiche, il giovane studioso rivelò presto tutte le sue qualità di uomo di azione e di pastore attraverso un'eloquenza e una fecondità letteraria fuori del comune.
Mosso dall'incessante desiderio di conservare intatto il cuore del cristianesimo, che per lui consiste nel fatto che Dio è diventato uomo perché l'uomo diventi Dio, Filosseno scrisse per tutta la vita opere esegetiche, dogmatiche e spirituali a sostegno della sua visione e per convincere i fedeli della diocesi di Edessa, di cui fu fatto vescovo nel 485, e quanti guardavano a lui come a un maestro, a condurre una vita di assimilazione al Cristo sofferente e umiliato attraverso l'acquisizione dell'amore; solo così, egli riteneva, il credente avrebbe potuto prendere parte allo «scambio» fra Dio e l'uomo, offerto dal Cristo salvatore. Perseguitato a più riprese dagli imperatori e dai patriarchi antimonofisiti, Filosseno finì la vita in esilio. È considerato uno dei più grandi dottori della chiesa giacobita.

Tracce di lettura

Ognuno si raffigura Dio a seconda di come vede se stesso. Se è al grado dei peccatori, vede Dio come giudice. Se è salito al secondo grado, quello dei penitenti, Dio si mostra a lui con il perdono. Se è al grado dei misericordiosi, scopre l'abbondanza della misericordia di Dio. Se ha rivestito dolcezza e mansuetudine, gli apparirà la benevolenza di Dio. Se ha acquisito un'intelligenza sapiente, contemplerà l'incomprensibile ricchezza della sapienza divina. Se ha rinunciato alla collera e al furore, se la pace e la calma regnano in lui in ogni momento, è elevato all'inconfondibile purezza di Dio. Se la fede risplende incessantemente nella sua anima, egli guarda in ogni istante l'incomprensibilità delle opere di Dio, e ha la certezza che anche quelle ritenute spiegabili sono al di sopra di qualsiasi spiegazione. Se sale poi al livello dell'amore, giunto in cima a ogni grado vede che Dio non è altro che amore.
Tu lo vedrai come egli è, quando sarai divenuto come lui.
(Filosseno di Mabbūg, Omelie 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Innario siriaco

Fermati 1 minuto. Il dono integrale di sé

Lettura

Matteo 19,3-12

3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4 Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5 Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? 6 Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi». 7 Gli obiettarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l'atto di ripudio e mandarla via?». 8 Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. 9 Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un'altra commette adulterio».
10 Gli dissero i discepoli: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11 Egli rispose loro: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12 Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

Commento

La questione con la quale i farisei cercano di mettere alla prova Gesù era particolarmente spinosa al suo tempo. Vi erano infatti due grandi scuole rabbiniche, l'una piuttosto lassista, avrebbe messo in discussione l'autorità di Gesù come maestro di morale e prevedeva la possibilità del divorzio anche per motivi futili, ad esempio se la moglie non cucinava bene o se il marito si innamorava di un'altra donna; in questo senso va intesa l'espressione "ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo" (v. 3); l'altra scuola, rigorista, godeva di minore popolarità e avrebbe esposto Gesù a molte critiche, attirandogli forse anche l'odio di Erode.

Gesù va oltre l'interpretazione della legge mosaica, risalendo al principio della creazione e a quanto affermato nel libro della Genesi. Innanzitutto mette in evidenza la complementarietà dell'uomo con la donna, definendone la vocazione a "diventare una carne sola ". Tale unione è operata da Dio stesso e in ciò consiste la propria sacralità. La legge del ripudio stabilita da Dio tramite Mosè è dunque una concessione fatta da Dio a Israele per la sua durezza di cuore. Gesù ne restringe il perimetro di applicabilità al solo ambito della fornicazione, ovvero dell'adulterio. In questo caso, infatti, quell'unione è spezzata dall'adulterio stesso. 

Gesù non risponde direttamente alla domanda se sia lecito dare alla propria moglie "l'atto di ripudio", che secondo la legge mosaica era un tutela per la donna, certificando che non era un'adultera e preservandola dalla condanna a morte. Secondo il ragionamento di Gesù l'uomo che sposa una donna che sia stata allontanata per quasiasi causa che non sia l'adulterio commette egli stesso adulterio, poiché quella donna rimane sposa di un altro uomo.

Di fronte a una prospettiva come quella delineata in questo brano del Vangelo di Matteo i discepoli riconoscono che forse sarebbe meglio non sposarsi, piuttosto che rischiare un'unione con una donna fedele ma ragione di infelicità coniugale. Senza sminuire l'alto valore del matrimonio, che anzi viene tutelato dalle parole di Gesù contro un "divorzio facile", questi afferma che vi sono uomini chiamati da Dio stesso a una totale consacrazione per il regno dei cieli. Tali uomini anticipano sulla terra quella condizione che sarà propria dei risorti e che li rende simili agli angeli, i quali "non prendono moglie né marito" (Lc 20,34-36). Ma poiché si tratta di una chiamata particolare, da parte di Dio, è chiaro che non può essere imposta con un "obbligo del celibato" per l'esercizio del ministero apostolico o con l'esaltazione della castità a scapito della vocazione matrimoniale. 

L'apostolo Paolo, che aveva scelto per sé il celibato, ne loda la proprietà di rendere maggiormente liberi per l'opera di evangelizzazione: "Chi non è sposato si dà pensiero delle cose del Signore, di come potrebbe piacere al Signore" (1 Cor 7,33). Tuttavia lo stesso Paolo ci offre una pagina meravigliosa sul matrimonio, inteso come unione tra Cristo e la sua chiesa: "Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). E nella lettera a Timoteo l'apostolo delle genti prevede che diaconi, presbiteri e vescovi (i cui termini sono utilizzati spesso in modo "intercambiabile" e non con una connotazione gerarchica) possano essere sposati, purché "irreprensibili" e "mariti di una sola moglie" (1 Tim 3,2). Paolo riconosce il diritto di prendere una moglie "sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa" (1 Cor 9,5). 

Ciascuno per Paolo "ha il proprio dono da Dio" (1 Cor 7,7). E poiché entrambi i doni, il celibato e l'unione matrimoniale, provengono da Dio, entrambi devono essere accolti dall'uomo con libertà e senso di responsabilità. Affrancati dalla legge, siamo chiamati all'esercizio della carità nel dono integrale di noi stessi, fedeli al nostro Sposo celeste.

Preghiera

Concedici, Signore, di riconoscere il tuo dono per noi e di farne buon uso, vivendo in santità e giustiza, non come servi sotto la legge, ma come credenti uniti a te in un vincolo sponsale. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona