Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 31 ottobre 2021

Il perdono come frutto di giustizia

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIDUESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa, nella tua bontà; affinché mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e servirti con devozione in ogni buona opera, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 1,3-11; Mt 18,21-35

Commento

Vi è un profondo legame tra i "frutti di giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude l'odierna pericope paolina dalla lettera ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.

La giustizia, ovvero la nostra giustificazione e santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, matura da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericordia di Dio, che ci condona ogni colpa. I frutti di giustizia, infatti, "si hanno per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioè non dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, nella comunione che si realizza attraverso la fede. E a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria di Dio, cioè la sua bontà, e di suscitare nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.

Ciò non viene compreso dal protagonista della parabola del creditore spietato. L'occasione di questo racconto è suscitata da una domanda posta da Pietro a Gesù. Pietro aveva compreso che il Signore era molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande testo di esegesi delle Scritture ebraiche. Gesù si mostra ancora più esigente del previsto, affermando che occorre perdonare il nostro nemico fino a settanta volte sette (quattrocentonovanta volte); ovvero un numero di volte pressoché illimitato.

L'immagine del re che vuole fare i conti è di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio alla fine dei tempi e quello individuale alla fine della vita. È un rendiconto cui nessuno può sottrarsi.

Il debito del servitore - forse un ministro di stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del servitore di restituire tutto il dovuto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un condono completo.

Nella scena immediatamente successiva, il debitore incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di misericordia di cui è stato destinatario, non è riuscito a coglierne il senso profondo. Si mostra privo di compassione con il suo creditore, facendolo gettare in prigione. Che il creditore spietato non avesse mai sentito né pentimento profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari.

È evidente che la sola paura della punizione non può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio, sospeso il castigo, il suo timore svanisce rapidamente. Probabilmente egli avrebbe tremato se avesse potuto udire le preghiere dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del perseguitato. Ma a quel punto è troppo tardi: "il suo signore lo chiamò a sé". 

Il creditore incapace di rimettere i debiti viene dunque consegnato agli aguzzini, letteralmente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi pagassero al posto loro. 

La parabola del debitore spietato insegna che il condono dei nostri grandi debiti da parte di Dio deve suscitare il perdono dei piccoli debiti che gli uomini hanno nei nostri confronti. Quando ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a perdonarci gli uni gli altri.

Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento" (Fil 1,9), soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo "essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo" (Fil 1,10). Puri di quella purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 30 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Trovati dalla grazia

Lettura

Luca 14,1-6

1 Gesù entrò di sabato in casa di uno dei principali farisei per prendere cibo, ed essi lo stavano osservando, 2 quando si presentò davanti a lui un idropico. 3 Gesù prese a dire ai dottori della legge e ai farisei: «È lecito o no fare guarigioni in giorno di sabato?» Ma essi tacquero. 4 Allora egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5 Poi disse loro: «Chi di voi, se gli cade nel pozzo un figlio o un bue, non lo tira subito fuori in giorno di sabato?» 6 Ed essi non potevano risponder nulla in contrario.

Commento

Gesù è invitato a casa di uno dei capi farisei per "prendere cibo", letteralmente "per prendere pane" (gr. arton). Il clima di austerità in cui si svolge il sabato ebraico è evidente dal fatto che non si tratta di un banchetto. I dottori della legge, ci dice Luca, "lo stavano osservando"; forse in attesa di qualche insegnamento o, forse, più malevolmente per coglierlo in errore su qualche cosa. E in effetti si presenta a Gesù un'occasione per rompere i loro schemi. 

Si tratta di un idropico, un uomo il cui corpo è rigonfio a causa di una patologica ritenzione idrica. Forse un famigliare dei farisei. L'uomo non chiede nulla, né i suoi amici chiedono nulla per lui. Gesù è probabilmente meravigliato dall'umiltà dell'idropico e dall'insensibilità dei suoi amici, i quali conoscono i suoi poteri di guarigione ma non chiedono alcun intervento. 

Così il Signore li interroga proprio sulla loro mancanza di misericordia, che li porta a porre la legge al di sopra della carità, quando invece dovrebbe essere al suo servizio. Questi uomini dotti rimangono senza parole, perché dovrebbero ammettere la propria ignoranza della legge o dovrebbero affermare qualcosa di inaccettabile. 

La guarigione dall'idropisia era lenta e difficoltosa, ma Gesù prende quest'uomo per mano e gli ridona la salute all'istante (v. 4). L'idropico non ha cercato la grazia di Dio, ma è stato trovato dalla grazia e liberato immediatamente dal suo male. Con un'altra domanda Gesù si rivolge ai farisei sottolineandone la cura che mostrano, anche in giorno di sabato, per i propri affetti («un figlio» - anche se alcuni manoscritti riportano «un asino») e i propri affari («un bue»). 

"Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli" (Sal 8,3) riconosce il salmista, parole che possiamo applicare a Gesù, il quale ha smontato i cavilli dei dottori della legge ("non potevano risponder nulla in contrario"; v. 6) con parole semplici e un efficace atto di misericordia.

Preghiera

Signore, che ci chiedi di non anteporre nulla al tuo amore e di trovarti nel nostro prossimo sofferente, donaci un cuore ricolmo della tua grazia, per accogliere e sanare a lode del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 28 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Li chiamò apostoli

Lettura

Lc 6,12-19

12 In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. 13 Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: 14 Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15 Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, 16 Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore. 17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18 che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. 19 Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.

Commento

Gesù scelse come apostoli chi volle, ma non scelse arbitrariamente, né superficialmente. Scelse dopo aver a lungo pregato, tutta la notte. L'evangelista Luca presenta spesso Gesù in preghiera prima dei momenti importanti della sua vita. 

La Chiesa nasce dopo quella notte di preghiera di Gesù e mediante la nostra preghiera può crescere e prosperare. I Dodici ricevono una missione nella missione; non uno status di privilegiati, ma una speciale chiamata a servire con maggiore sollecitudine. Questo sarà il senso di un'altra chiamata da parte di Gesù, poco prima della sua passione: "Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti»" (Mc 10,42-43).

Gesù sceglie i suoi chiamandoli per nome. L'evangelista non aggiunge alcuna loro descrizione; ma il chiamare per nome è certamente testimonianza del fatto che egli si rivolse alla persona nelle sue qualità distintive, i suoi pregi e le sue debolezze, così come nelle differenze, spesso enormi, che incorrevano tra i chiamati. 

Diversi, ma tutti tenuti insieme, ad eccezione di Giuda "il traditore", dall'amore di Cristo. Il chiamare per nome, fin dalla Genesi - quando Dio invita Adamo a dare un nome a ogni creatura - indica l'autorità su di essi e un'intima relazione spirituale. Gesù li chiamò "apostoli", ovvero "inviati", perché erano destinati non a creare delle scuole rabbiniche o filosofiche ma a predicare il vangelo a tutte le nazioni. 

Dopo essere salito al monte per attirare a sé gli apostoli Gesù discende subito "in un luogo pianeggiante" (v. 17) e in questo abbassamento si fa loro maestro, non temendo di toccare e di farsi toccare dalle moltitudini bisognose di salvezza e di guarigione.

Eppure questo loro compito non inizierà prima di avere accompagnato Gesù nella sua missione terrena ed essere stati confermati dal Risorto. Allora diventano capaci di portare l'annuncio della grazia fino agli estremi confini della terra.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, tu ci chiami per nome per salvarci e farci annunciatori della salvezza. Concedici di ricercare sempre la volontà del Padre nella preghiera fervente e prolungata. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Simone e Giuda. «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi?»

Il 28 di ottobre la Chiesa d'Occidente (Anglicani, Cattolici, Luterani, Veterocattolici) e i cristiani siro-orientali celebrano la festa liturgica degli Apostoli Simone e Giuda.

Simone e Giuda appaiono agli ultimi posti nelle liste degli apostoli e per questo assomigliano agli operai chiamati all'ultima ora, che hanno tuttavia portato a termine la loro missione di testimoni del vangelo fino al martirio. Ma, come spesso capita nella storia della salvezza testimoniata dalle Scritture, è proprio agli ultimi e ai più marginali fra gli uomini che Dio sceglie di rivelarsi. 

San Simone

Simone, da Luca soprannominato Zelota (Lc 6, 15; At 1, 13), forse perché aveva militato nel gruppo antiromano degli Zeloti, che utilizzava anche la violenza come pratica politica, da Matteo e Marco è chiamato Cananeo (Mt 10, 4; Mc 3, 18).

San Giuda "Taddeo"

Giuda è detto Taddeo (Mt 10, 3; Mc 3, 18) o Giuda di Giacomo (Lc 16, 16; At 1, 13). Nell’ultima cena rivolse a Gesù la domanda: «Signore come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». Gesù gli rispose che l’autentica manifestazione di Dio è riservata a chi lo ama e osserva la sua parola: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Una lettera del Nuovo Testamento porta il suo nome.

La loro festa il 28 ottobre è ricordata dal calendario geronimiano (sec. VI). In questo stesso giorno si celebra a Roma fin dal sec. IX.

Tracce di lettura

«Simone, l'uomo che è la pietra, Matteo il pubblicano, Simone lo zelota, zelante nel cercare il diritto e la legge contro l'oppressione pagana, Giovanni, che Gesù aveva caro e che si appoggiò al suo petto, e gli altri, dei quali abbiamo solo il nome, e infine Giuda Iscariota, che lo tradì: nessuna ragione al mondo avrebbe potuto collegare questi uomini alla stessa opera al di fuori della chiamata di Gesù. Qui fu superata ogni precedente divisione e fu fondata la nuova, salda comunità in Gesù».

- D. Bonhoeffer, Sequela

SIMONE E GIUDA, Spinello Aretino
Santi Simone e Giuda

mercoledì 27 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. La conoscenza e la coerenza

Lettura

Luca 13,22-30

22 Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. 23 Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: 24 «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. 25 Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. 26 Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. 27 Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! 28 Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. 29 Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30 Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».

Commento

La domanda dei discepoli circa la salvezza evidenzia il contrasto, nel giudaismo dell'epoca, tra i farisei, che sostenevano che la maggior parte degli ebrei si sarebbero salvati, e i circoli apocalittici, in cui prevaleva l'opinione che pochi si sarebbero salvati. Forse è suscitata anche dal fatto che le grandi moltitudini che seguivano Gesù si sono ridotte, verso il termine del suo ministero terreno, a pochi fedeli.

D'altra parte, il messaggio di Gesù scoraggia i tiepidi («chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo»; Lc 14,33) ed egli stesso afferma che angusta è la via e stretta la porta che conduce alla vita, e sono pochi coloro che la trovano (Mt 7,14).

Le parole di Gesù richiamano l'orizzonte escatologico, quando gli uomini saranno giudicati non per il semplice fatto di "conoscerlo", ma per la loro coerenza e fedeltà nel compiere la volontà del Padre. L'ingresso nel regno di Dio di uomini provenienti dai quattro punti cardinali indica l'invito dei pagani al banchetto celeste; un pensiero contrario alla mentalità rabbinica del tempo, ma perfettamente conforme alla letteratura profetica dell'Antico testamento (Sal 107,3; Is 66,18-19; Mal 1,11).

L'immagine della bontà di Dio, il quale non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano il tempo di pentirsi (2 Pt 3,9) non è offuscata dalle parole severe di Gesù, che costituiscono un invito alla conversione. L'uomo è chiamato a fare un uso responsabile della propria libertà, in relazione al suo destino eterno.

Preghiera

Guidaci, Signore, lungo la via del ritorno a te, e ristoraci con il tuo Spirito nel nostro faticoso incedere; affinché possiamo trovare ristoro nel banchetto che hai preparato per i redenti. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 26 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Vedere l'invisibile

Lettura

Luca 13,18-21

In quel tempo, diceva Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami». E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

Commento

L'idea del regno di Dio che si estende come un maestoso albero, all'ombra del quale si radunano tutte le nazioni richiama alcuni passaggi messianici dell'Antico Testamento (Ez 17,23; 31,6). Le parole di Gesù sono un invito alla pazienza e alla speranza, al superamento dell'ossessione contabilizzatrice nel considerare la crescita della Chiesa e i nostri progressi spirituali. Gesù ci esorta a puntare sulla qualità, su quel lievito capace di far fermentare tutta la pasta.

Le parabole del granello di senapa e del lievito mettono in luce il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del Regno e la sua meravigliosa espansione. Le due immagini rappresentano l'azione di Dio, che si compie silenziosamente e nel segreto. L'opera della grazia nelle nostre anime e nel mondo non avviene in modo improvviso e "fragoroso", ma può essere scorta da orecchie capaci di ascoltare e occhi capaci di vedere ciò che opera nel segreto; necessita di un cuore capace dell'attesa, come il contadino che semina e come la donna che prepara il pane. 

Dai piccoli segni possiamo intuire un esito che sarà sorprendente, rappresentato in queste due parabole dalla maestosità del cespuglio di senape in cui si rifugiano gli uccelli e dalla quantità di farina - circa sessanta chilogrammi! - che poco lievito fa panificare. Il Regno di Dio potrà così accogliere uomini di ogni popolo e nazione e saziare tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Preghiera

Signore, accresci la nostra fede affinché i nostri occhi possano aprirsi all'opera che la tua grazia compie incessantemente nei nostri cuori. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Mariologia. Una voce protestante. Elementi per un dialogo ecumenico (Parte prima)

Renzo Bertalot, "Ecco la serva del Signore. Una voce protestante", Editore Facoltà Teologica Marianum (2002)

III. ELEMENTI PER UN DIALOGO ECUMENICO

1. L’interpretazione della Scrittura

È questo un argomento che impegnerà il dialogo ecumenico ancora per molto tempo e che non manca d'incidere sul modo d'intendere e ricostruire insieme le fondamenta di auspicabili convergenze. Per tutti i cristiani è chiaro che lo Spirito Santo è l'interprete della Scrittura: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26); «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,13). Tutte le confessioni cristiane s'inchinano ossequienti di fronte a questi passi, ma sorge immediatamente l'interrogativo sul come dell'azione dello Spirito. Ed è su questo come che insiste la nostra divisione attuale. Entrano in conflitto la testimonianza interiore dello Spirito e l'incidenza di un magistero ecclesiastico e delle confessioni di fede. La discussione ecumenica su Maria non può svincolarsi da questa problematica che dev'essere risolta in altra sede.

1.1. Cristo-Maria

Per dare un esempio della complessità della situazione attuale possiamo servirci dell'interpretazione del binomio: Cristo-Maria. Se diciamo: "Per Mariam ad Jesum", i protestanti reagiscono negativamente leggendo in questo rapporto una funzione mediatrice di Maria che tende ad usurpare il titolo di mediatore, riservato unicamente al Cristo (1Tm 2,5 e Gal 3,19-20). Ma è buona teologia protestante guardare alla Scrittura come allo strumento che ci conduce a Cristo. Ora nella Scrittura la funzione strumentale è svolta dai profeti e dagli apostoli, da tutti i testimoni, nessuno escluso, neppure Maria. "Per Mariam ad Jesum" può, quindi, indicare un settore della testimonianza biblica in cui Maria svolge autorevolmente il suo compito verso di noi. Si potrà dire che non si tratta di un settore isolato e soprattutto non del solo settore. D'accordo. Non per questo bisogna eliminarlo o ridurlo ad importanza secondaria. Se, invece, diciamo "Per Jesum ad Mariam si può reagire d'istinto e dire: è forse Cristo diventato mediatore tra gli uomini e Maria? Si può, tuttavia, leggere correttamente il rapporto seguendo il suggerimento di Hebert Roux: occorre conoscere la testimonianza di Cristo su Maria per capire, in un secondo tempo, la testimonianza di Maria su Cristo. In altre parole la formula può indicare la comprensione della figura di Maria nel contesto della cristologia del NT. Sembra dunque inutile contestare le formule quando è in gioco la loro interpretazione.

1.2. Metodo ecumenico

Nel nostro secolo abbiamo imparato lentamente, all'interno della ricerca comune, a superare la tentazione di un ecumenismo spaziale. Esso si proponeva di confrontare, precisare e chiarire le rispettive posizioni dottrinali, ma al termine di questo processo informativo diretto veniva a mancare una via d'uscita e si doveva registrare un blocco metodologico. L'esperienza vissuta insieme e il contatto con gli ortodossi ci hanno proposto, con successo, una via diversa: quella dell’ecumenismo temporale. Invece del semplice confronto diretto si cerca di riandare insieme alla Scrittura e alla storia. A questo punto diventa più facile capirsi e progredire nello studio dei temi comuni. Vengono così evidenziati gli elementi non teologicidella divisione delle chiese e sì è costretti a riformulare insieme i contenuti della fede cristiana. Anche il discorso su Maria dovrà approfittare di queste indicazioni di metodo.

2. Prospettive

Bisogna affrontare l'isolamento confessionale da tutti i lati possibili senza cedere alla tentazione di privilegiare una scelta particolare. Vi sono molti aspetti pratici e teorici che continuamente si sovrappongono e che devono essere analizzati separatamente prima di metterli a confronto per trarne risultati utili al cammino comune.

2.1.W. Borowsky

È un pastore luterano. Ci indica alcune linee di ricerca per il lavoro ecumenico sul nostro tema. Egli parte dalla constatazione che vi sono tre settori da considerare a livello pratico: il consenso, la tollerabilità e l'inconciliabilità.

Seguendo ed elaborando queste indicazioni notiamo che il consenso riguarda la testimonianza biblica su Maria, la sua vita e le sue parole. La madre del Signore si trova alla cerniera tra l'AT e il NT. All'annunciazione siamo confrontati con la sua libertà davanti a Dio e la sua disponibilità: un'immagine della chiesa. Nel Magnificat, Maria ci annuncia chi è suo Figlio con una predicazione gioiosa del vangelo, la quale costituisce oggi ancora un punto di riferimento essenziale per tutta la comunità cristiana. Ci ricorda che la venuta del messia ha una forte incidenza nella trasformazione della società. Alle nozze di Cana, Maria riassume con una frase il contenuto di ogni testimonianza scritta, orale, teorica e pratica di tutti i secoli: «Fate tutto quello che egli vi dirà» (Gv 2,5). Questi non sono che pochi esempi sui quali molto si è scritto separatamente e poco si è lavorato insieme. Di qui l'urgenza di un impegno comune concreto che sblocchi l'isolamento tradizionale della nostra riflessione teologica.

Borowsky presenta un secondo settore di ricerca dove si può esercitare la tolleranza reciproca. Si tratta della nostra unità nella diversità. È l'area dei dogmi mariani più recenti. I protestanti dicono di non conoscere queste affermazioni perché non le ritrovano nella bibbia. Gli ortodossi le relativizzano rispetto al cattolicesimo. Ma è pur vero che nulla impedisce una descrizione di Maria fatta con colori ambientali diversi. Certo molti protestanti avrebbero delle obiezioni da fare a Borowsky nella misura in cui le descrizioni incidono non solo sulla forma, ma anche sui contenuti e il loro riferimento cristologico. Il dialogo potrebbe quindi fermarsi a questo punto rispettando, ignorando o rifiutando la diversità. Si potrebbe, invece, cerca re di leggere le intenzioni originarie e tentare di andare al di là del modo in cui i dogmi sono stati formulati per riscoprire il deposito comune della fede. Facciamo un solo esempio. L'apostolo Paolo scrive: «Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia...» (Gal 1,15). L'espressione ritorna spesso nella bibbia. Non potrebbe aiutarci a comprendere meglio le intenzioni originarie del dogma dell'immacolata concezione? Porsi questa domanda significa passare da un ecumenismo spazialead uno temporale. Certo non si parlerebbe ancora di un privilegio di Maria rispetto agli altri testimoni dell'AT e del NT, ma si potrebbe forse fare un passo avanti, non subito verso un consenso, ma almeno verso una più facile comprensione delle divergenze. All'interno delle diversità, l'unità verrebbe evidenziata.

Borowsky indica, infine, un settore in cui, anche oggi, le posizioni rimangono inconciliabili. Esso riguarda i titoli mariani: mediatrice, consolatrice, avvocata, regina, ausiliatrice... I protestanti li ritengono scrupolosamente riservati alla Trinità (lTm 2,5; Gv 14,16 e 26; 18,37; lGv 2,1; Sal 121). Su questi titoli si basano il culto, la venerazione e la devozione mariani. I protestanti vi leggono uno slittamento teologico poco sostenibile su base biblica. Già Lutero diceva che prendere a Cristo il suo onore e la sua funzione per darli a sua madre significa rinnegare le sofferenze di Cristo. Non resta, dunque, nulla da fare in questo settore? Per Borowsky si può cercare insieme di ridurlo al secondo così come il secondo dovrebbe essere ricondotto al primo. In pratica bisognerebbe operare una descalation di carattere dottrinale.

Facciamo alcuni esempi prolungando a nostra volta le intuizioni pratiche del Borowsky. Adoperando il termine di analogia il cattolicesimo tradizionale (G. Roschini) ha individuato una via per stabilire la relazione che corre tra Cristo e Maria. Il protestantesimo vi legge un tentativo di completare e integrare la figura del Signore e non si sente di condividerlo sul piano biblico. Bisogna tuttavia notare che le difficoltà sorgono sul come viene spiegata l'analogia. In se stessa dovrebbe essere recuperata proprio sul piano della Scrittura. A meno che vogliamo abbandonarci senza riserve alle filosofie che ci sono più care, non vi è altro modo di capire l'uomo, e quindi Maria, se non quello di stabilire un'analogia, perché «noi non conosciamo più nessuno secondo la carne» (2Cor 5,16). Si apre così una linea di ricerca comune sulla quale ritorneremo.

Se parliamo di Maria come mediatrice, dobbiamo innanzi tutto tenere presente che uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), ma dobbiamo anche non dimenticare che la predicazione dei discepoli è una mediazione di Cristo e della sua parola: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16). K. Barth parla del predicatore come del vicario di Cristo, dell"' alter Christus". In questo contesto il protestante riafferma di considerarsi un servo inutile" (Lc 17,10; 1 Cor 1,31) anche se impegnato a servire con tutta la sua vita. Qual è il rapporto tra queste due mediazioni? Possiamo cercare di rispondere insieme a questo interrogativo ed arrivare così alle intenzioni originarie. Ambasciatore o plenipotenziario?

Molto si è scritto sul tema dell'annunciazione (Lc 1,26ss). Il "fiat" di Maria è stato interpretato diversamente e spesso in reciproca contraddizione. Si potrebbe cercare insieme di rileggere l'episodio alla luce di Is 55,11: «Così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata». Non è forse questa una chiara profezia del giorno dell'annunciazione? Se così è, possiamo, in sede di ecumenismo temporale, affrontare insieme le divergenze di un tempo per cercare di facilitare un cammino comune.

lunedì 25 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. La parola che scioglie i nostri lacci

Lettura

Luca 13,10-17

10 Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. 11 C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. 12 Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità», 13 e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. 14 Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato». 15 Il Signore replicò: «Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16 E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?». 17 Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

Commento

Siamo nella sinagoga, in giorno di sabato. Gesù sta insegnando ma si interrompe. Ha notato una donna sofferente. Da diciotto anni è curva e non può raddrizzarsi in alcun modo. Eppure non ha smesso di comportarsi da "figlia di Abramo", recandosi alla sinagoga per osservare il giorno del Signore. Non chiede nulla. È Gesù a prendere l'iniziativa, e anche lui non chiede nulla alla donna. Luca ci informa che l'infermità è provocata da Satana ("posseduta da uno spirito di infermità", gr. pneuma echousa asthenias). Sappiamo dal libro di Giobbe che ciò è possibile perché anche questi patì una malattia causata dall'angelo accusatore. 

Gesù agisce in maniera diversa rispetto ai suoi esorcismi. Non sgrida alcun demone, ma si limita a imporre le mani e pronunciare la sua parola di liberazione. La parola di Dio, come afferma la Lettera agli ebrei, "è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla" (Eb 4,12). Così la parola di Dio penetra nell'anima e nel corpo di questa donna e scioglie la sua schiena ricurva. 

Il miracolo compiuto da Gesù suscita la riprovazione da parte dei capi della sinagoga. Non hanno il coraggio di attaccarlo direttamente ma si rivolgono ai presenti. Il Signore, che conosce i cuori, li accusa di ipocrisia, perché le loro critiche non prendono le mosse dallo zelo per l'amore di Dio ma dall'invidia. Gesù evidenzia il modo in cui hanno pervertito la legge, piegandola al proprio egoismo. In giorno di sabato infatti, non trascurano di occuparsi del proprio bestiame, ma vorrebbero rifiutare a questa donna, sorella della loro stessa stirpe, figlia di Dio, creata a sua immagine e somiglianza, di riacquistare quella posizione eretta che distingue l'essere umano dagli animali. 

La chiamata di Gesù scioglie l'uomo dalla casistica delle norme religiose per collocarlo nel vero sabato di Dio, che è manifestazione della sua gloria e della sua azione salvifica.

Preghiera

Signore, tu rialzi dalla polvere il misero e  manifesti la tua gloria nella nostra debolezza. Ti benediciamo e ti glorifichiamo perché hai liberato le nostre anime dai lacci del peccato e ci hai donato la promessa della risurrezione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 24 ottobre 2021

Il nostro combattimento non è contro carne e sangue

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTUNESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedi, ti supplichiamo Dio misericordioso, ai tuoi fedeli, pace e perdono, affinché possano essere purificati da ogni peccato e servirti con mente serena. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 6,10-20; Gv 4,46-54

Commento

"Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza" (Ef 6,10), afferma l'apostolo Paolo. Se cerchiamo di farci forti in noi stessi, o nel nostro prossimo, cadiamo. Se cerchiamo la forza nel Signore, restiamo saldi e non abbiamo nulla da temere, perché l'Onnipotente si prende cura di noi.

La nostra lotta non è soltanto contro la nostra umanità decaduta e vulnerabile, non è soltanto una battaglia contro le insidie che provengono da dentro e fuori di noi. "Il nostro combattimento non è contro carne e sangue" (Ef 6,12). Paolo parla di una battaglia contro forze spirituali, "contro le insidie del diavolo" (Ef 6,11) e "contro i dominatori del mondo di tenebre di questa età, contro gli spiriti malvagi nei luoghi celesti" (Ef 6,12). 

Queste parole sottolineano il carattere spirituale della nostra battaglia, ma anche la compresenza, nello stesso campo, nella stessa Chiesa, delle forze del bene e del male: fino alla fine dei tempi, il grano e la zizzania cresceranno insieme (Mt 13,30), gli angeli ci assisteranno nella lotta come assistettero Cristo nel deserto e nell'orto degli ulivi, ma gli uccelli rapaci, i demoni, cercheranno di rubare il buon seme - la parola di Dio - che è stato seminato in noi (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15).

Per vincere contro le potenze malvagie dobbiamo rivestire "L'intera armatura di Dio" (Ef 6,13). Quali sono dunque queste difese per una lotta che non è semplicemente contro l'uomo carnale, come troppo ha insistito un certo moralismo, riducendo l'etica cristiana a un'etica della purezza sessuale? Queste armi, l'Apostolo, le elenca una ad una: verità e giustizia (Ef 6,14), pace (Ef 6,15); ma, soprattutto, lo scudo della fede, "con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno" (Ef, 6,16). 

Perché la tentazione, quando colpisce nel segno di una coscienza disarmata, non solo la ferisce procurando una grave emorragia, ma scatena un incendio che divampa, cercando di contagiare e consumare tutto intorno. Paolo invita anche a rivestire il nostro capo con "l'elmo della salvezza" e a impugnare "la spada dello Spirito che è la parola di Dio" (Ef 6,17). La meditazione della parola di Dio protegge la nostra mente dai pensieri di sconforto, ricordandoci che Dio ci ha salvato e che egli è fedele alle sue promesse.

L'Apostolo ci esorta a perseverare "pregando in ogni tempo con ogni sorta di preghiera e di supplica" (Ef 6,18) - vegliando a questo scopo. Parole simili a quelle di Gesù nel Getsemani: "vegliate e pregate per non cadere in tentazione" (Mt 26,41); e a quelle di Pietro nella sua Prima lettera: "Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede" (1Pt 5,8-9). 

Siamo esortati anche a intercedere per i nostri fratelli e le nostre sorelle nella fede: "pregando... per tutti i santi" (Ef 6,18), cioè per tutti coloro che sono stati santificati dallo Spirito di Dio. La lotta, l'ascesi, è lotta individuale, a tu per tu contro il maligno; ma il cristiano non è un'entità a se stante; siamo tutti membra gli uni degli altri e membra di un corpo unico che è il Corpo mistico di Cristo. La caduta di uno può condurre alla caduta di un altro e forse di molti; la vittoria di uno può tenere molti altri lontani dal pericolo di cadere.

Nella guarigione del figlio di un funzionario regio, narrata da Giovanni nel suo Vangelo assistiamo a un miracolo di Gesù in favore di un uomo di alto rango, la cui fede lo porta, però, a sottomettersi alla regalità del Messia. Potrebbe trattarsi di un ufficiale civile o militare, giudeo o romano. Gesù lo riprende, dicendo che la fede non dovrebbe dipendere dai miracoli: "Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" (Gv 4,48). Ma Gesù lo esaudisce, dimostrando che la sua parola è in grado di strappare al potere della morte.

Il funzionario regio riconosce l'intervento di Dio facendo memoria degli eventi e scandagliandoli alla luce della fede e della ragione. I miracoli non sono necessari alla fede, ma se proprio vogliamo chiederli dobbiamo essere in grado di riconoscerli per mostrare a Dio la nostra gratitudine: "Allora il padre riconobbe che era proprio in quell'ora in cui Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa” (Gv 4,53). Il vangelo ci esorta a vivere con consapevolezza, con gli occhi ben aperti di fronte a quanto Dio compie nelle nostre vite.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 22 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Che tempo fa?

Lettura

Lc 12,54-59

In quel tempo, Gesù diceva alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto? Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. Io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo».

Commento

Abbiamo la capacità di giudicare, di valutare gli eventi. Gesù lo afferma rivolgendosi alle folle, non a una élite religiosa. Egli parla a uomini comuni: pescatori, agricoltori, commercianti. Si rivolge a noi. 

Siamo capaci di dare un'nterpretazione agli eventi terreni, senza il bisogno di un aiuto esterno. Allo stesso modo dovremmo interpretare le cose spirituali, perché la nostra anima è capace di farlo. Il mondo ci spinge a farci assorbire completamente dai suoi affari e i pochi momenti di riposo diventano spesso occasione per un ozio improduttivo, che ci impedisce di vedere l'azione di Dio nella storia umana e nella nostra personale storia. 

Le parole di Gesù spronano ogni discepolo ad applicarsi allo studio delle Scritture, alla preghiera, a un apostolato capace di cogliere profeticamente i segni dei tempi. Siamo chiamati a leggere in prima persona la nostra vita alla luce del vangelo; a camminare con Cristo - che in questo passo delle Scritture è in viaggio verso Gerusalemme, dove si compirà il suo destino terreno - finché siamo in tempo. 

Finché siamo in vita, infatti, siamo per strada, e questo è il tempo della conversione e della riconciliazione. Come afferma l'apostolo Paolo: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (2 Cor 6,2). Gesù, che si fa presente con la sua misericordia nella vita di ogni uomo, ci esorta a riconoscere il tempo della nostra visitazione (Lc 19,44), riconciliandoci con Dio e con gli uomini.

Preghiera

Signore, giudice e mediatore, noi ci affidiamo a te, che hai steso le braccia sulla croce per la nostra riconciliazione. Concedici di camminare sempre alla luce della tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 21 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Come fuoco sulla terra

Lettura

Luca 12,49-53

49 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! 50 C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! 51 Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. 52 D'ora innanzi in una casa di cinque persone 53 si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Commento

Gesù, come uomo, è pienamente consapevole delle sofferenze che lo attendono nella sua passione, ma la sua volontà umana è intimamente unita a quella della sua natura divina e a quella del Padre, così l'attesa del "battesimo" che dovrà ricevere diviene angoscia finché non sia compiuto. 

Il baptismós, propriamente l'“immersione” nei dolori della passione, sarà segno di scandalo per molti (Rm 9,33) e gli stessi discepoli, in un primo momento, non coglieranno il significato profondo di quell'evento. In esso Gesù si rivela segno di contraddizione «per la rovina e la resurrezione di molti» (Lc 2,34). 

L'atteggiamento di accoglienza o di rifiuto verso il mistero pasquale determina il nostro essere o non essere partecipi della morte e resurrezione del Cristo. A stabilire l'appartenenza al suo "popolo" non è più una discendenza o comunanza di sangue, ma la fede nel suo sangue redentore. 

Adempimento del giudizio di Dio verso l'umanità, la croce, sulla quale sono stati inchiodati i nostri peccati, è il luogo di riconciliazione di tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra (Col 1,20).

Le parole di Gesù, che vorrebbe già vedere il mondo bruciare della sua carità (v. 49) costituiscono un esempio per ogni discepolo, un invito ad aspirare ai carismi più grandi (1 Cor 12,31), a desiderare quella perfezione che si compie nell'adempimento della volontà di Dio, del suo progetto sulla nostra vita.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi riconosciamo in te il Figlio di Dio, che si è fatto pietra di scandalo nella morte di croce. Concedici di essere edificati su di te come tempio del Dio vivente. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 20 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. L'amministratore fedele e saggio

Lettura

Luca 12,39-48

39 Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40 Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell'uomo verrà nell'ora che non pensate». 41 Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42 Il Signore rispose: «Qual è dunque l'amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a tempo debito la razione di cibo? 43 Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. 44 In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45 Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46 il padrone di quel servo arriverà nel giorno in cui meno se l'aspetta e in un'ora che non sa, e lo punirà con rigore assegnandogli il posto fra gli infedeli. 47 Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48 quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

Commento

Tenersi pronti, ma in maniera operosa. Questo il senso dell'ammonizione di Gesù. A chi sono rivolte le sue parole? A noi, suoi servi, che abbiamo ricevuto ogni bene da lui, ma non per trattenerlo, quanto per amministrarlo e condividerlo con il nostro prossimo. L'attesa diventa allora un tendere con sollecitudine all'altro da sé.

Il "ritardo del padrone" (v. 45) indica il mutare delle aspettative dei primi cristiani riguardo la venuta imminente di Gesù. Luca si serve della coppia di termini greci pais paidiske, servi e serve, non trascurando l'elemento femminile presente nella comunità cristiana. L'evangelista diffida i suoi lettori dall'interpretare in maniera erronea questo ritardo, che rappresenta il tempo della paziente misericordia del Signore.

La ricompensa del Signore per il servo fedele è un lavoro maggiore, una maggiore responsabilità (v. 44). Infatti, chi è il più grande tra i discepoli si farà servitore (Mc 10,43): è in questa capacità di donarsi che si trova la vera beatitudine, perché "vi è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20,35).

Il servo che attende irresponsabilmente il ritardo del padrone sarà sorpreso come da un ladro nella notte e verrà spogliato di ogni bene: «Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29). Ciascuno dovrà rendere conto a Dio in proporzione ai doni ricevuti (v. 48).

Gesù invita ogni discepolo a esercitare una speranza operosa, nel riconoscimento delle potenzialità che ogni vita, visitata dalla grazia, racchiude in sé. Ciascuno è chiamato a interrogare la propria coscienza, per ricercare nella quotidianità la volontà di Dio, Signore del tempo, e per offrire una risposta generosa verso di lui e verso l'umanità.

Preghiera

Noi invochiamo il tuo ritorno Signore, ti attendiamo come la sentinella attende l'aurora. Il tuo spirito ci renda operosi nella tua vigna, nella consapevoleza che sei esigente con gli amministratori dei tuoi beni. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 19 ottobre 2021

Paolo della Croce, annunciatore del mistero pasquale

Nel gennaio del 1694 nasce a Ovada, in provincia di Alessandria, Paolo Danei, meglio conosciuto come Paolo della Croce, presbitero e fondatore dei Passionisti. Uomo di estrema sensibilità, capace di grande fervore come di forti depressioni, egli trovò grazie a una fede alimentata dall'ascolto delle Scritture, una solidità che crebbe attraverso le tante prove della vita. 
Paolo conobbe infatti la morte prematura di nove dei suoi quindici fratelli, ma soprattutto dovette faticare a lungo per realizzare la propria vocazione, che pure aveva percepito con chiarezza fin dall'età di 23 anni. Egli aveva avvertito, infatti, già nel 1717 di essere chiamato a vivere nella solitudine, per condurre una vita penitente e di grande povertà. Di lì a poco maturò in lui anche la convinzione di dover riunire alcuni compagni per condividere con loro la ricerca di Dio in comunità, ed egli scrisse una regola a tal fine. Sostenuto dal vescovo locale, ma spesso non compreso nelle sue più autentiche intenzioni, Paolo vide riconosciuta la sua forma di vita soltanto nel 1741, quando fu approvata la congregazione dei Passionisti. Essi si caratterizzarono per la loro vita appartata in case denominate «ritiri» e per la loro assidua meditazione del mistero della passione del Signore; solo la contemplazione del mistero pasquale di Cristo poteva infatti consentire, secondo Paolo, di passare dal timore del giudizio divino alla fiducia nella sua misericordia. È a partire da questo primato della «parola della croce» nella vita interiore che Paolo della Croce, sulle tracce di Paolo di Tarso, annunciò il vangelo come «parola della riconciliazione», attraverso l'esercizio della paternità spirituale e la predicazione, che lui e i suoi compagni assunsero come fine apostolico, non avendo ottenuto l'approvazione a ordine monastico né quella a congregazione con voti solenni.
Paolo della Croce morì il 18 ottobre 1775.

Tracce di lettura

Quando lo Sposo divino vi mostra il seno della divina sua carità, cadete d'amore ai suoi piedi, tacete e amate, anzi vivete una vita tutta d'amore, vita divina e santa. Com'è dolce cadere in questo modo! Anche Maria Maddalena, innamorata impenitente, nel vedere il dolce Gesù cadeva d'amore ai suoi piedi divini. Oh, dolce caduta! Ai suoi piedi amava e taceva, e udiva la santissima parola di Gesù, e ardeva d'amore. L'amore parlava più con il silenzio che con la lingua: così vuole lo Sposo che facciate anche voi.
Oh, quanto vi raccomando quella divina solitudine, quel sacro deserto, di cui tanto vi ho parlato. Oh, quanto vi prego di star serrata in tal deserto, occulta a tutti! Non vi scordate di far vostre le pene dell'Amato. L'amore è vita intima che fa proprie le pene del diletto, che è l'amabile Salvatore.
Pongo il vostro cuore nel sangue prezioso di Gesù, anzi lo pongo nello stesso dolcissimo cuore di Gesù, affinché lo bruci, consumi, s'incenerisca in quelle sacre, fiamme. Gesù vi faccia tanto santa quanto vi desidero, e vi benedica.
(Paolo della Croce, Lettere alle religiose)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti

lunedì 18 ottobre 2021

Luca, evangelista della misericordia

La maggior parte delle chiese cristiane ricordano oggi Luca, autore del terzo vangelo e degli Atti degli Apostoli. Luca era probabilmente siro di Antiochia, di origine pagana e medico. L'apostolo Paolo nelle sue lettere parla di lui come di un compagno assai caro, che resta al suo fianco durante le due prigionie romane; tutto lascia pensare che sia stato suo compagno durante il secondo e il terzo viaggio missionario. 
L'origine pagana non fece dimenticare a Luca che la salvezza ha origine in Gerusalemme e che è la città santa il luogo dove si deve realizzare questa salvezza: là è iniziato il vangelo, là terminerà la vicenda storica di Gesù e di là prenderà le mosse la missione universale degli apostoli, dalla Giudea alla Samaria fino ai confini della terra. Da vero scriba della misericordia di Cristo, Luca sottolinea a più riprese l'amore di Gesù per i peccatori e la grandezza del suo perdono. In Gesù trovano visibilità le «viscere di misericordia» di Dio verso i poveri e gli umili, mentre ai ricchi e ai superbi è riservato un duro monito. A tutti comunque è rivolto l'invito alla conversione, che comporta una scelta radicale di povertà e di abbandono in Dio. Per Luca è lo Spirito santo il protagonista di questo ritorno al Padre, e l'invocazione dello Spirito è la preghiera per eccellenza che non dobbiamo stancarci mai di rivolgere a Dio, sull'esempio di Gesù. Tradizioni diverse e spesso non conciliabili circondano gli ultimi anni della vita di Luca: anche se riceverà il titolo di martire, è più probabile che sia morto in età avanzata di morte naturale, in Beozia, dopo aver evangelizzato l'Acaia.

Tracce di lettura

L'opus proprium della comunità cristiana è il suo compito di annunciare al mondo il vangelo; essa è comunità missionaria. Attraverso testimoni sempre numerosi e sempre nuovi, agli uomini deve essere recato l'annuncio che Dio si è curato del mondo e l'ha soccorso, che perciò il mondo non è abbandonato a se stesso, ma è amato, salvato, custodito, governato da Dio, è condotto verso la sua salvezza, e dunque tutto ciò che in esso accade - l'intera vita umana, con tutta la sua problematicità e le sue triboazioni, il peccato, la colpa e la miseria, anzi la vita intera del creato - va rapidamente incontro alla rivelazione di ciò che Dio ha già compiuto in suo favore. La comunità deve proclamare al mondo la libera grazia di Dio e lo deve fare annunciando che questa è la speranza che le è data. Essa deve dire che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è il salvatore del mondo che è venuto e ritornerà. Questo è l'annuncio del regno di Dio. Questo è il vangelo.
(K. Barth, Dogmatica ecclesiale III,4,579-580)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Luca, evangelista

Fermati 1 minuto. Una Chiesa missionaria e con un bagaglio leggero

Lettura

Luca 10,1-9

1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. 6 Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. 8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.

Commento

L'invito di Gesù a pregare affinché Dio mandi operai nella sua messe (v. 2) sta a indicare che Dio solo è qualificato a conferire questo mandato, proprio come nella sua veste regale e messianica Gesù lo conferisce ai settantadue inviati. In alcuni manoscritti il numero dei discepoli è di settanta, forse a indicare i settanta anziani nominati da Mosè. 

L'immagine degli agnelli in mezzo ai lupi si riferisce all'ostilità e ai pericoli che i discepoli troveranno durante la loro missione. Viaggiando in coppia potranno sostenersi l'un l'altro. Data l'urgenza del compito e l'impegno richiesto ai missionari, l'invito è di evitare di perdersi dietro i beni materiali e le formalità dei saluti "lungo la strada" (v. 4). Nella cultura del tempo il saluto di una persona prevedeva un elaborato cerimoniale, con molte formalità, come la condivisione di un pasto o una lunga sosta. Il discepolo deve evitare l'attaccamento alle cose e agli intrattenimenti terreni, dando sempre la priorità all'attività di missionaria. 

Le parole di Gesù sono pervase di un senso escatologico, attestando la scarsità del tempo a disposizione. Coloro che portano l'annuncio di salvezza viaggiano con passo spedito. I discepoli dovranno entrare nelle case (v. 5) e non  predicare nelle sinagoghe. Il messaggio che portano non è rinchiuso negli steccati della religiosità formalizzata e sedentaria del giudaismo farisaico. La Chiesa di Cristo, come attestano anche gli Atti degli apostoli (cfr. At 20,42; 5,20) muove i suoi primi passi come assemblea profetica e domestica. Il vangelo entra nella vita quotidiana e familiare di coloro che lo ricevono, i "figli della pace" (v. 6). 

Il comando ai discepoli di mangiare quello che sarà loro messo davanti indica che è abrogata ogni distinzione tra cibi puri e impuri. Condividere il pasto è nel mondo antico un'espressione di intima amicizia. Cibandosi di quel che gli sarà offerto il vero discepolo "si fa tutto a tutti" proprio come testimonierà successivamente l'apostolo Paolo: "mi sono fatto greco con i greci, giudeo con i giudei, mi sono adattato a tutte le situazioni, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1 Cor 9,19-22). 

Senza il timore di scontrarsi con le forze contrarie del mondo, il messaggio evangelico è capace di adattarsi, "mettendosi a tavola" con l'uomo di ogni luogo e di ogni tempo.

Preghiera

Ti preghiamo Signore, di suscitare nella tua Chiesa operai volenterosi, per portare la benedizione del tuo messaggio di salvezza ad ogni uomo. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

domenica 17 ottobre 2021

Un tempo eravate tenebre

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio onnipotente e misericordioso, per la tua tenera bontà preservaci, ti supplichiamo, da ogni pericolo; affinché possiamo essere pronti, nell'anima e nel corpo, a compiere diligentemente tutte le cose che hai comandato. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 5,15-21; Mt 22,1-14

Commento

La parabola degli invitati a nozze riportata da Matteo si divide in due parti: la prima richiama il giudizio di Israele, per il suo rifiuto del Messia promesso; la seconda, che fa da "chiosa", si riferisce al giudizio individuale, e non è presente negli altri Vangeli.

Troviamo un racconto analogo nel Vangelo di Luca: quello del "gran convito" (Lc 14,15-24), dove il banchetto è preparato da un uomo benestante, mentre in Matteo si narra di un re, che invita alle nozze del proprio figlio. La parabola assume in Matteo un maggiore significato messianico e prefigura le persecuzioni e gli oltraggi che non solo i profeti dell'Antico Testamento, ma anche i discepoli e gli apostoli del Signore, in ogni tempo, subiscono per il suo nome.

Anche la reazione di colui che ha trasmesso l'invito è differente tra i due vangeli. In Luca gli invitati vengono rimpiazzati da mendicanti, mutilati, zoppi e ciechi. In Matteo il re decide di distruggere interamente la città di coloro che hanno rifiutato l'invito: "il re allora si adirò e mando i suoi eserciti per sterminare quegli omicidi e per incendiare la loro città" (Mt 22,7). Gerusalemme, la città di Dio, è ormai diventata "la loro città" perché Dio l'ha abbandonata in mano al nemico (Gerusalemme verrà distrutta dai romani pochi decenni dopo la morte di Cristo).  Già nel libro dell'Esodo vediamo che, dopo che Israele si è costruito il vitello d'oro, Dio si rivolge a Mosè chiamando Israele "il tuo popolo" e non più "il mio popolo" (Es 32,7).

A questo punto della vicenda terrena di Gesù vi è un cambio di rotta decisivo, rappresentato dalle parole del re ai suoi servitori: "andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze". Mentre fino a prima Gesù aveva intimato ai discepoli "Non andate tra i Gentili e non entrate in alcuna città dei Samaritani" (Mt 10,5), tale divieto è ora abolito; lo stesso si può dire della distinzione tra popolo e popolo. Possiamo dire con Paolo che "qui non c'è più Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e Scita, servo e libero" (Col 3,11), ma tutti sono del pari peccatori, ai quali viene fatta l'offerta della salvezza in Cristo. Adesso le porte della mensa sono aperte a tutti.

A ben vedere non viene fatta una discriminazione neanche a partire dalle opere: "radunarono tutti quelli che trovarono cattivi e buoni e la sala delle nozze si riempì di commensali" (Mt 22,10). Che la possibilità di presentarsi al banchetto sia data per grazia è chiaro nella descrizione dei nuovi invitati nel Vangelo di Luca: i "mendicanti, mutilati, zoppi e ciechi" (Lc 14,21) rappresentano la nostra natura umana, segnata dalle ferite e dalla cecità del peccato, che ci impediscono di pervenire da soli alla salvezza.

Nel seguito della parabola matteana, invece, "il re, entrato per vedere i commensali, vi trovò un uomo che non indossava l'abito di nozze" (Mt 22,11). L'ingresso del re è l'immagine del giudizio finale e della separazione degli ipocriti dalla Chiesa di Cristo. Egli entra quando tutti gli invitati sono seduti a tavola, come era d'uso nell'antico Oriente.

La fede necessaria per presentarsi al convito è simboleggiata dall'abito di nozze, di cui uno degli invitati è sprovvisto. Era abitudine in oriente, che i re distribuissero agli invitati gli abiti per presentarsi alla festa. Era infatti inammissibile che qualcuno si presentasse con vestiti logori. Risulta chiara in questa immagine l'idea della grazia rifiutata e, dunque, della libertà della coscienza umana, di accogliere il Figlio di Dio e la sua parola salvifica.

Questa immagine è utilizzata anche dal profeta Isaia: "Io mi rallegrerò grandemente nell'Eterno, la mia anima festeggerà nel mio Dio, perché mi ha rivestito con le vesti della salvezza, mi ha coperto col manto della giustizia, come uno sposo che si mette un diadema, come una sposa che si adorna dei suoi gioielli" (Is 61,10).

Benché i peccatori siano invitati ad andare a Cristo nella condizione in cui si trovano e benché la salvezza si ottenga "senza denari e senza prezzo" (Is 55,1), Paolo riconosce che Dio "ci ha grandemente favoriti nell'amato suo figlio" (Ef 1,6), del quale siamo chiamati a rivestirci.

- Rev. Dr. Luca Vona

           

venerdì 15 ottobre 2021

Fermati 1 minuto. Ditelo sui tetti

Lettura

Luca 12,1-7

1 Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l'ipocrisia. 2 Non c'è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. 3 Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all'orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. 4 A voi miei amici, dico: Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla. 5 Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui. 6 Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. 7 Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri.

Commento

Migliaia di persone attorniano Gesù e fanno da sfondo a questa pagina evangelica, contrapposte ai discepoli, ai quali anzitutto (v. 1) egli si rivolge; discepoli che egli chiama amici (v. 4), un termine che comprare quest'unica volta nei vangeli sinottici, ma che è frequente nel vangelo di Giovanni. Il Signore li invita a vigilare, per mettersi al riparo dall'ipocrisia, che qui è paragonata a un lievito, per la sua capacità di diffondersi e moltiplicarsi nella comunità. 

Nel Nuovo Testamento troviamo associazioni sia positive che negative all'immagine del lievito. Ad esempio, nei vangeli sinottici (Mt 13,33 e Lc 13,20-21) il lievito, mescolato da una donna con tre misture di farina, è paragonato al regno di Dio. Nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 5,6-7) Paolo contrappone il lievito vecchio al lievito nuovo, ovvero l'immoralità in cui vivevano i destinatari dell'epistola prima di conoscere il vangelo e la rettitudine cui li richiama la conversione. 

Il lievito dell'ipocrisia è la tendenza ad agire con doppiezza e a trarre in inganno il proprio interlocutore, un atteggiamento che troviamo sovente descritto nei Salmi: "Con la bocca benedicono, e maledicono nel loro cuore" (Sal 61,5); "Suscitano contese e tendono insidie, osservano i miei passi, per attentare alla mia vita" (Sal 55,7). Proprio l'evangelista Luca, subito prima di questo passaggio evangelico, aveva concluso il brano sulle invettive di Gesù contro i farisei, riportando che questi "cominciarono a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie" (Lc 11,53-54). 

L'immagine esteriore di irreprensibilità dei farisei è in contrasto con le reali intenzioni del cuore. Ogni credente è chiamato alla coerenza tra essere e apparire: ne va della sopravvivenza della propria integrità (v. 5).

All'atteggiamento dei capi religiosi Gesù contrappone quello che dovrà essere l'agire dei suoi discepoli: una schiettezza nel parlare, al riparo da qualsiasi deriva "esoterica". Non vi è nulla, infatti, dell'annuncio evangelico, che debba essere tenuto nel segreto delle stanze di una casta sacerdotale, anziché essere rivelato in modo aperto e comprensibile. Il dovere della verità è tale che va adempiuto anche laddove la nostra stessa vita potrebbe risultare in pericolo, con piena fiducia nella provvidenza divina. 

L'esempio dei cinque passeri venduti per due soldi, l'equivalente di due ore di salario, attesta che Colui che è nei cieli si preoccupa dei minimi dettagli ed eventi della sua creazione. Gesù ci invita a non temere, a essere testimoni coraggiosi della verità, a far risplendere la sua luce e a fare risuonare la sua voce.

Preghiera

Poni, Signore, nei nostri cuori e nelle nostre comunità, il lievito buono della tua parola, affinché fedeli ad essa possiamo crescere in santità e giustizia davanti ai tuoi occhi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Teresa d'Avila e il castello interiore

Oggi la chiesa cattolica e quella anglicana ricordano Teresa di Gesù, monaca e riformatrice del Carmelo. Teresa de Cepeda y Ahumeda nacque nel 1515 ad Avila, in una famiglia della nobiltà spagnola. Donna di temperamento ardente, grande sognatrice, a vent'anni entrò nel Carmelo locale, affrontando la viva opposizione del padre. 


Teresa d'Avila (1515-1582)

Trasferita ogni passione nella vita interiore, Teresa conobbe una profonda intimità con il Signore, ma conobbe anche l'aridità, la «notte dei sensi». A quarant'anni, grazie a quelle che descriverà nei suoi scritti come esperienze mistiche, essa trovò una certa stabilità spirituale, pur nella malferma salute del suo fisico, segnato in modo indelebile dalle precarie condizioni di vita dei monasteri del suo tempo. Sotto la guida di Francesco Borgia e Pietro di Alcántara, e poi di Giovanni della Croce, Teresa cominciò a fondare piccole comunità carmelitane in tutta la Spagna per consentire alle monache un'intensa vita di preghiera. È l'inizio della riforma del Carmelo, che coinvolgerà di lì a poco anche il ramo maschile.

Giunta a una profonda conoscenza di se stessa e della presenza di Dio nella propria anima, Teresa lasciò ai posteri, su indicazione del proprio padre spirituale, trattati sulla preghiera e sulla vita interiore che le hanno valso il titolo di dottore della chiesa, conferitole da Paolo VI nel 1970.

Teresa morì il 4 ottobre 1582, ma è ricordata il 15 perché proprio in quel giorno la chiesa d'occidente passò dal calendario giuliano a quello gregoriano.

Tracce di lettura

Possiamo considerare la nostra anima come un castello, fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi sono molte dimore, come molte ve ne sono in cielo. Alcune sono in alto, altre in basso, altre ancora laterali; e nel centro, al cuore di tutte, si trova la stanza più importante, dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l'anima.

Non dovete immaginarvi queste dimore una dopo l'altra, come un'infilata di stanze, ma fissate lo sguardo sul centro che è la stanza o il palazzo del Re. Per quanto io ne capisca, la porta per entrare in questo castello è l'orazione e la meditazione.

Le cose dell'anima devono sempre esser considerate con larghezza, vastità e grandezza, senza paura di esagerare, perché l'anima è molto più capace di quanto possiamo immaginare e in tutte le sue parti si espande la luce del Sole che risiede nel mezzo.

(Teresa di Gesù, Castello interiore, Prime mansioni 1 e 2)

giovedì 14 ottobre 2021

Mariologia. Una voce protestante. Principali dati dottrinali (Parte seconda)

Renzo Bertalot, "Ecco la serva del Signore. Una voce protestante", Editore Facoltà Teologica Marianum (2002)


II - PRINCIPALI DATI DOTTRINALI CIRCA MARIA NELLA TRADIZIONE PROTESTANTE (Parte seconda)

4. TEOLOGI DEL SECOLO XX

4.1. Linee generali

Dal sec. XVI al nostro tempo dobbiamo prendere atto che le teologie cattoliche e protestanti si sono sviluppate non solo seguendo ognuna le proprie vie, ma insistendo, il più delle volte, sulle loro contrapposizioni. Così, mentre da parte cattolica troviamo la promulgazione di altri due dogmi mariani, l'Immacolata concezione e l'Assunzione di Maria, nel protestantesimo notiamo un crescente abbandono della linea originale della Riforma. Si parla sempre meno di Maria e si teme che il cattolicesimo diventi sempre più espressamente una religione mariana. Quello che dev'essere detto di Maria va detto anche per i profeti e per gli apostoli, ognuno secondo la propria vocazione specifica, senza graduatorie di priorità. La riflessione teologica protestante non ha un corollario mariologico, che anzi viene energicamente rifiutato. Esso è considerato, prima del Vaticano Il, non più come una spiegazione della regola cristologica, ma come una regola aggiunta (Jacques de Senarlens), come la "somma di tutte le eresie" e "un'ingratitudine a Cristo" (Roger Mehl). Anche dopo il Vaticano Il Karl Barth ne parla come di "un ramo parassitario da potare" perché condannato a morte in partenza e "intimamente bacato". Negli scritti di Oscar Cullmann, Emil Brunner e Paul Tillich non sono posti in discussione i temi classici dell'argomento. Jürgen Moltmann ne accenna in una meditazione sul Magnificat "la marsigliese della comunità cristiana", ma sostanzialmente non si discosta dalla posizione riformata tradizionale: Maria rimane allineata con gli altri testimoni biblici, anche se essa è "in maniera unica il compimento di un essere umano che viene reso letteralmente corpo materno del salvatore del mondo".

Oggi non si può dire che vi siano ragioni di scontro sull'espressione "madre di Dio". Il termine è biblico (Lc 1,43). Le posizioni della Riforma sono confermate e si nota, fin dagli anni precedenti il Vaticano II, un consenso tra tutte le chiese cristiane. Giovanni Miegge lo esprimeva, allora, richiamandosi - lui valdese - alle parole stesse di G. Roschini, noto mariologo cattolico. "Se guardiamo bene, le formule "madre di Cristo" e "madre di Dio" sono sinonime, e significano una sola e stessa cosa. La beata Vergine, infatti, non è detta "madre di Dio" in quanto generò la divinità o la natura divina del Verbo (ciò sarebbe eretico), ma perché generò l'umana natura assunta dal Verbo nell'unità della persona, ossia perché generò secondo l'umanità una persona avente l'umanità e la divinità" (2).

4.2. Max Thurian

Come eccezione all'impostazione protestante odierna della riflessione su Maria, bisogna ricordare la scuola di Taizé. A differenza del mondo protestante, in genere, e, forse, in assonanza con altri orientamenti, sorti nelle nuove forme di vita comunitaria, la ricerca su Maria è corroborata dalla presenza di icone e dalla recita dell'Ave Maria. Questi tentativi hanno avuto senz'altro il merito di rompere il silenzio e di cercare le premesse per un dialogo ecumenico. Tra i teologi che si sono particolarmente impegnati in questa direzione va ricordato Max Thurian. Il suo libro Maria Madre del Signore, immagine della Chiesa (3) è stato ampiamente apprezzato nell'area cattolica, ma non ha goduto dello stesso consenso nel mondo della Riforma. Le sue conclusioni sono eccessivamente basate sull'allegoria e non trovano, ad occhi protestanti, un supporto sufficiente al momento della verifica con i testi del NT. Egli vede, per esempio, come primo anello di una lunga catena, un titolo di Maria nell'espressione biblica "figlia di Sion". Già da un punto di vista linguistico potrebbero sorgere grosse riserve non appena si fa il confronto con altri modi di esprimersi che sono simili: "figlia di Babilonia" (Is 47,1), "figlia dei caldei" (Is 47,5), "figlia d'Egitto" (Ger 46,11). Si tratta molto probabilmente di formule idiomatiche per indicare la città o la nazione. Inoltre non sempre la bibbia parla della "figlia di Sion" in termini positivi o riferibili a Maria (Is 1,8; 3,16). Infine il NT non conosce esplicitamente l'applicazione di questo titolo a Maria. Il Signore se ne serve per indicare la città di Gerusalemme (Gv 12,15; Mt 21,5). Gli apostoli ignorano il parallelismo e ne adoperano altri come "Gerusalemme celeste" o Sara (Gal 4,21-31). Questi limiti dell'opera di Max Thurian rischiano di controbilanciare i meriti e non facilitano il richiamo dell'attenzione teologica protestante.

4.3. Karl Barth

Sono pochi i teologi che hanno inciso così fortemente sulla teologia della nostra epoca come K. Barth. Il suo pensiero ha suscitato consensi e nuovi orientamenti ben al di là della propria confessione riformata. Per quanto riguarda il nostro tema egli non si discosta sostanzialmente dalla tradizione generale del protestantesimo. Non ammette una mariologia perché passa accanto alla Maria reale. Non la ritiene determinante neppure per il rinnovamento cattolico avviato con il Vaticano II. Egli ci offre, tuttavia, il materiale teologico necessario per iniziare un discorso più rigoroso.

La Scrittura dice che tutti noi siamo stati "ribelli" e "per natura meritevoli d'ira, come gli altri" (Ef 2,3). Per Barth, Maria non fa eccezione e i padri lo confermano dicendo che tutta la natura umana è condannata. A Natale, tuttavia, assistiamo ad un fatto nuovo che Barth interpreta in assonanza con alcuni teologi cattolici. Giuseppe, come maschio, come rappresentante della storia e dell'iniziativa dell'uomo, è scartato dall'agire di Dio. Maria, invece, come donna rappresentante dell'umanità nel suo insieme, è visitata dall'alto. È nella giustificazione e nella santificazione che la natura umana, compresa quella di Maria, viene strappata alla sua fatalità e resa degna di Dio.

Detto questo, Barth fa un parallelo tra Israele e Maria. Entrambi sono "ammessi" e "accolti" per essere uniti al Figlio di Dio; confermano l'opera di Dio senza concorrervi. La loro esistenza è perciò privilegiata, che lo sappiano o no. Il loro essere è illuminato dal Regno, che si è avvicinato in Cristo, ed è orientato in modo preciso da questa determinazione. Sono beati in quanto è dato loro di sapere. Maria, infatti, crede, perché è colmata di grazia. Non v'è nulla di più grande dello sguardo di Dio rivolto alla "bassezza" di Maria. Ciò che è vero per lei è vero per noi. La nostra vocazione è di essere al suo fianco: di lasciar fare a Dio. Maria è una parabola della chiesa, è "l'esempio di una cristianità che serve unicamente e chiaramente il Signore", "che coopera con lui esclusivamente sotto forma di servizio". All'inizio della sua monumentale dogmatica Barth parla di una presenza passiva di Maria, sottolineando il miracolo di Natale, ma alla fine della sua opera non esita ad affermare che nello Spirito Santo non siamo passivi, ma resi attivi e liberi (4). Non è una contraddizione all'interno del suo pensiero, ma un dire con chiarezza qual è il ruolo di Maria nell'iniziativa dì Dio senza confondere l'uno con l'altra.

Note

(3) M. THURIAN, Maria Madre del Signore, immagine della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1965.

(4) K. BARTH, Dogmatique, Labor et Fides, Genève, vol. 3, p. 182 ss; vol. 20, p. 323 ss; vol. 21, p. 20 ss.


Mariologia. Una voce protestante. Principali dati dottrinali (Parte prima)

Renzo Bertalot, "Ecco la serva del Signore. Una voce protestante", Editore Facoltà Teologica Marianum (2002)


II - PRINCIPALI DATI DOTTRINALI CIRCA MARIA NELLA TRADIZIONE PROTESTANTE (Parte prima)

1. MARIOLOGIA

In area protestante è difficile adoperare il termine 'mariologia' perché esso è eccessivamente carico del colore che gli sviluppi storici e dottrinali del cattolicesimo gli hanno conferito. L'incidenza dei dogmi, del culto e della devozione mariani ha complicato il vocabolario che si usa nei rapporti interconfessionali. Quando si parla di mariologia si dice qualcosa di più di un discorso su Maria ed è per questo che non troviamo un parallelismo accettabile nel settore della Riforma protestante. In ogni caso e per motivi di chiarezza è preferibile non servirsi dell'espressione quando ci si riferisce alle posizioni dottrinali delle chiese riformate.

2. I VALDESI NEL SECOLO XII

Nel 1179, durante il pontificato di Alessandro III e le sedute del concilio Lateranense III, due valdesi, tra cui forse Valdo stesso, si recarono a Roma per esporre le caratteristiche del loro movimento e cercarne il riconoscimento ufficiale. Sottoposti ad un esame dottrinale, fu rivolta loro, dall'irlandese Walter Mapp, una serie di domande tra le quali rileviamo la seguente: "Credete nella madre di Cristo?". Essi risposero: "Vi crediamo". A questo punto l'assemblea scoppiò in una risata che suonò come squalifica della preparazione teologica dei laici valdesi. Non era, infatti, concepibile che si usasse il verbo 'credere' se non in riferimento alla Trinità. Averlo usato, invece, nei confronti di Maria metteva in dubbio la capacità di servire la chiesa come predicatori del vangelo (1). Nelle difficoltà, che sorsero tra il movimento valdese e la chiesa cattolica, sembra, dunque, che la questione mariana giocasse un ruolo irrilevante sul piano dottrinale. Guardando, oggi, all'incidente di Roma del XII secolo, pare che i ruoli confessionali si siano addirittura invertiti nel corso della storia.

3. LA RIFORMA PROTESTANTE

3.1. Lutero

Il commento al Magnificat del riformatore tedesco rimane il testo più significativo della posizione luterana riguardo alla figura di Maria. Lutero vi concentra la sua teologia sulla giustificazione per fede; gli altri temi vanno considerati partendo da questa prospettiva centrale che ne determina il carattere d'urgenza e di priorità. La questione mariana non è tra le più scottanti al XVI secolo. Bisogna, quindi, attingere da varie fonti alcune indicazioni che ci permettano uno sguardo sintetico della teologia soggiacente.

La perpetua verginità di Maria non è messa in discussione, ma nessuno è obbligato a credervi. Quando la bibbia parla di "fratelli di Gesù", bisogna tenere presente che il termine 'fratello' aveva, allora, una portata molto più ampia di quella moderna. L'uso che ne fa la traduzione greca dell'AT, detta dei Settanta, è una chiara conferma, per Lutero, che non ci si può attenere rigorosamente all'uso diverso che noi ne facciamo.

Maria è stata purificata e redenta dal peccato originale. Per quanto riguarda l'assunzione, il riformatore tedesco tace, con il NT, ma non esclude che il corpo di Maria sia stato trasportato in cielo dagli angeli. Esclude invece un parallelismo con l'assunzione di Cristo e questo con l'intenzione precisa di opporsi alla posizione cattolica. Per quanto riguarda i titoli mariani, Lutero non ha difficoltà a rivolgersi a Maria chiamandola "nostra madre", visto che Cristo è "nostro fratello". I credenti possono, quindi, definirsi "figli di Maria".

Vi sono altri titoli mariani che vanno corretti ed altri ancora che devono essere eliminati. Si può dire, infatti, che Maria è "regina del cielo", ma bisogna stare in guardia contro le sempre possibili deviazioni idolatriche. Non si può, invece, parlare di Maria come "mediatrice" o "avvocata" perché sono titoli rigorosamente riservati al Cristo. Non è lecito costruire su Maria prendendo al Cristo il suo onore e la sua funzione per darli alla madre: significherebbe rinnegare le sofferenze del Signore. Si può dire che Maria prega per noi, senza, però, arrivare ad invocarla, perché in questo caso si farebbe un passo verso l'idolatria.

In un primo tempo Lutero ha raccomandato la recita dell'Ave Maria, durante il culto, ma poi l'ha lasciata cadere. Nel suo commentario al Magnificat troviamo questa preghiera: "O beata madre, vergine degnissima: ricordati di noi e ottieni che a noi pure il Signore faccia queste grandi cose". In seguito alla Riforma rimangono tre feste in onore di Maria, perché hanno un riscontro nel NT e una base cristologica. Esse sono l'Annunciazione, che diventa la festa dell'Incarnazione, la Visitazione, che è messa in rapporto con la venuta del Cristo, e la Purificazione, che diventa la festa della Presentazione di Gesù al tempio.

3.2. Calvino

Il riformatore di Ginevra sopprime tutte le feste mariane. Accetta il titolo "madre di Dio", conformemente al concilio di Efeso del 431, ma per motivi pastorali preferisce usare l'espressione "madre di Cristo". È infatti difficile di fronte ai non credenti e a livello popolare spiegare la differenza che corre tra madre divina e madre della divinità. La confusione sempre possibile non facilita certo la predicazione del vangelo. Calvino sostiene con molta forza la perpetua verginità di Maria. Commentando il passo di Mt 13,55 ss. afferma che i "fratelli di Gesù" non sono altri figli di Maria, ma tutti i parenti. Sostenere l'opposto significa, inoltre, dar prova di "ignoranza", di "folli sottigliezze" e di "abuso della Scrittura".

3.3. Zwingli

Il riformatore di Zurigo mantiene tre feste mariane e la recita dell'Ave Maria durante il culto.

3.4. I valdesi e la Riforma

Nel 1532 il movimento valdese si affianca alla riforma ginevrina e si prepara a produrre le sue confessioni di fede seguendo le indicazioni delle chiese sorelle. Nella confessione del 1655, che è ancora quella attuale, troviamo al punto 15 della conclusione: "Perché non invochiamo la S. Vergine, e gli uomini già glorificati, siamo accusati di sprezzarli, mentre noi li stimiamo beati, degni di lode e d'imitazione; in particolare riteniamo la gloriosa Vergine benedetta su tutte le donne". Per rendere chiara la loro posizione fino in fondo ritengono anatema coloro che, contrariamente a quanto affermato, si lasciano andare e cedono al disprezzo.

Come abbiamo visto, la Riforma protestante affronta sporadicamente il problema mariano che rimane pertanto ai margini della discussione teologica. La preoccupazione essenziale sembra essere una rilettura cristologica della tradizione, dalla quale Maria non emerge in modo spiccato dall'insieme dei testimoni biblici.


Note

(1) A MOLNAR, Storia dei Valdesi, vol. 1, Claudiana, Torino 1974, p. 18.

(2) G. MIEGGE, La Vergine Maria, Claudiana, Torre Pellice 1950, p. 70.