Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 31 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Beata colei che ha creduto

Lettura

Luca 1,39-56

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».
46 Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre».
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Commento

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Maria si mette in viaggio "in fretta" (v. 39) verso la casa delle cugina Elisabetta. La fretta di Maria indica la sua pronta disponibilità al disegno di Dio e il suo farsi annunciatrice di salvezza, lei che per prima ha ricevuto l'annuncio del vangelo. 

Maria, divenuta dimora di Dio, compie un viaggio verso la montagna che ricorda quello dell'arca dell'alleanza (2 Sam 6,1-15) e le parole che Davide pronunciò davanti a questa riecheggiano in quelle di Elisabetta: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (v. 43). La cugina di Maria riconosce Gesù come Signore prima ancora della sua nascita, sorpresa dal sussulto del bambino che porta nel grembo alla voce del saluto di Maria. 

Nel racconto della visitazione Maria appare come vera teòfora, portatrice di Dio, capace di raggiungere coloro che attendono la salvezza e di comunicare il Cristo. Elisabetta è invece il modello, tra i figli di Israele, di chi sa scorgere l'adempimento delle promesse messianiche. Così, dopo il saluto di Maria, Elisabetta viene colmata dallo Spirito santo e benedice la cugina e il frutto del suo grembo. 

La comprensione, da parte di Elisabetta, degli eventi divini che si stanno compiendo, è straordinaria e solo la grazia illuminante può permetterle di oltrepassare la cortina di mistero che li custodisce. La sua dichiarazione di umiltà dimostra che coloro che sono ricolmi dello Spirito santo non hanno considerazione dei propri "meriti", ma una grande stima del favore ricevuto da Dio. 

Il viaggio di Maria ci insegna che quando la grazia opera nei nostri cuori desideriamo prontamente condividerla. La missionarietà del credente può assumere svariate forme, ma è sempre il segno di una fede autentica. Nell'attesa del Signore che viene siamo chiamati dallo Spirito a farci annunciatori del vangelo, solerti, anche quando il viaggio verso la montagna è faticoso.

L'inno di lode noto dalla sua prima parola della versione latina come Magnificat utilizza ampiamente il cantico che Anna innalzò a Dio per aver ricevuto in dono il figlio Samuele, nonostante la sua sterilità.(1 Sam 2,1-10) e per tre quinti riprende altri passi dell'Antico testamento. Può essere stato un inno giudeo-cristiano ritenuto da Luca adatto alla situazione e in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia in Dio, coloro che nella letteratura biblica vengono definiti in ebraico anawim, e che Gesù proclama beati (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata". 

Dio è glorificato nel cantico per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio (v. 51) non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Questo è il senso del Magnificat: il Signore è fedele e copre con la sua misericordia le infedeltà del suo popolo e di tutti quelli che lo temono (v. 50). Per sempre.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 30 maggio 2021

Il vento soffia dove vuole

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai donato a noi, tuoi servi, la grazia di riconoscere, mediante la confessione della vera fede, la gloria dell’eterna Trinità e di adorare la sua unità nel potere della Maestà Divina; ti supplichiamo di custodirci in questa fede e di difenderci da ogni avversità; tu che vivi e regni, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Ap 4,1-11; Gv 3,1-15

Commento

Nella conversazione notturna con l’amico Nicodemo Gesù ci lascia un insegnamento sul suo modo di intendere l’impegno religioso, lontano dal semplice senso di appartenenza o dalla fedeltà legalistica alla lettera dei testi sacri. Il vento soffia (Gv 3,8), ma occorre dispiegare le vele della fede per lasciarci guidare dallo Spirito.

La direzione dalla quale e verso la quale si muove lo Spirito non è prevedibile, è capace di sorprenderci sempre. Per questo occorre essere dei navigatori attenti alle sue sollecitazioni, in modo da sapere da quale direzione prendere il vento. La nostra traversata si compie sotto la spinta di una fonte di energia che non può essere accumulata e conservata. È dunque necessaria una nostra apertura allo Spirito qui ed ora, in ogni momento, che si manifesta nella meditazione assidua della Parola di Dio. La nostra docilità alla sua azione non può venire meno, se non vogliamo esporci alle correnti e andare alla deriva.

Nel lungo periodo liturgico che dalla domenica dopo Pentecoste fino all'Avvento viene chiamato, secondo una antica tradizione, "tempo della Trinità" viene riassunto il principio e al tempo stesso il fine ultimo della creazione, la ragione per cui siamo stati creati e ciò che costituirà la nostra vita quando avremo combattuto la buona battaglia e preservato la fede fino alla fine: la vita nella Trinità, la partecipazione al mistero di un Dio unico ma non solitario, un Dio in tre persone, che chiama l'uomo a partecipare a quest'intima relazione.

Ma occorre rinascere dall'alto, dall'acqua e dallo Spirito Santo. Occorre lasciarsi rigenerare da Dio, per vedere il mondo con occhi sempre nuovi, per ascoltare e gustare tutte le cose con la meraviglia di un bambino da poco venuto alla luce.

Tutto è straordinario per chi accoglie il dono dello Spirito. La vita del cristiano non ha mai nulla di ordinario nel senso peggiorativo del termine. La noia, la monotonia, il vuoto, sono sensazioni lontane dalla vita di chi possiede Cristo e, in lui, l'intera Trinità divina. Chi ha fede non ha bisogno di stordire i sensi con emozioni sempre nuove. La fede rende la vita quotidiana luogo di incontro con Dio, in cui diventiamo destinatari e al tempo stesso dispensatori delle sue benedizioni.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 29 maggio 2021

Per l'Alleanza Evangelica Italiana siamo tutti "sessualmente anormali"

Il 27 maggio 2021 si è svolta l’audizione dell’Alleanza Evangelica Italiana alla Commissione Giustizia del Senato sui ddl Zan e Renzulli sul tema del contrasto della discriminazione o violenza per sesso, genere o disabilità. Il presidente Giacomo Ciccone ha espresso le perplessità circa alcuni articoli del disegno di Legge. Nel documento presentato l'AEI afferma quanto segue:

Concorda sulla necessità di prevedere sanzioni contro chi calunnia, ingiuria o denigra le persone in base al loro orientamento sessuale e sull’opportunità di approvare una legge contro l’omotransfobia. È ancora radicata nella società una cultura del disprezzo dei comportamenti altrui e delle loro persone che talvolta sfocia in comportamenti violenti contro le persone. Questo è un “peccato” odioso e inaccettabile, che va denunciato e fermato.

Ritiene che tale tutela e protezione delle persone non debba andare a discapito della libertà di pensiero e di parola. In una società laica e plurale, deve essere riconosciuto a tutti il diritto di pensare e di esprimere le proprie convinzioni, anche in materia di orientamento sessuale. La legge non può impedire che alcuni cittadini, associazioni, chiese e gruppi sociali chiamino “peccato” e pertanto denuncino come immorale un comportamento che la loro fede e la loro coscienza ritiene tale. 

Esprime preoccupazione per alcuni elementi presenti nel ddl Zan (n. 2005). I termini impiegati nel ddl sono vaghi, generici e una specie di contenitore in cui poter mettere tutto o quasi. Si parla di “discriminazione” contro le persone LGBTI: ma cosa vuol dire in concreto? Mentre l’istigazione alla violenza va combattuta penalmente e soppressa, cosa vuol dire “discriminare”? Non è un concetto troppo “emotivo” per essere oggetto di una fattispecie di reato? 

Il documento prosegue esprimendo preoccupazione 

  • sul fatto di delegare alla magistratura il compito di definire quando c'è di mezzo un reato, 
  • sul clima di intimidazione culturale che potrebbe crearsi contro chi non condivide le teorie di genere,
  • sul investitura della scuola pubblica del compito di "educare al pensero LGBT" restrigendo il pluralismo e la responsabilità dei genitori.

Fin qui siamo nel campo di posizioni confessionali che hanno alcuni punti in comune anche con quanto espresso in ambito cattolico dalla Conferenza Episcopale Italiana e nell'ambiente politico liberal-conservatore.

Quello che risulta invece un specificità della posizione teologica dell'Alleanza Evangelica Italiana è l'impostazione sessuofoba del dibattito, laddove afferma che:

nessuno è “sessualmente normale” e che tutti noi viviamo una sessualità disturbata (che la Bibbia chiama “peccato”) e bisognosa di guarigione

Non è chiaro cosa intenda l'AEI per "sessualità disturbata". Forse il semplice desiderio che accompagna l'atto sessuale, ovvero la concupiscentia descritta nella teologia agostiniana? In che senso la sessualità umana non è, di per sé, "normale"? Perché eticamente deviata? Quale crimine sarebbe intrinsecamente connesso all'esercizio della sessualità? Oppure dobbiamo considerare la sessualità umana "anormale" in quanto patologica? Quale medico condividerebbe una simile opinione?

Così si esprime l'AEI in un testo sull'omosessualità richiamato dal documento depositato in Commissione Giustizia:

Nel nostro mondo in cui i valori fondanti della vita umana (compresa la sessualità e l’affettività) sono calpestati da tutti, non esiste una persona sessualmente normale o affettivamente normale. La sessualità, l’affettività, così come tutte le altre sfere dell’esistenza, sono intaccate da tare così profonde che tolgono ogni crisma di naturalità e ogni pretesa di immacolatezza ai modelli tradizionalmente considerati come oggettivamente normali. Nessuno è sessualmente o affettivamente normale. In questo senso, essere eterosessuale non significa essere più normale dell’omosessuale in quanto entrambi i soggetti vivono la relazione con sé e con gli altri in modo distorto. Il modo di vivere l’orientamento sessuale, qualunque esso sia, è lacerato e anormale. Una presunta superiorità dell’uno rispetto all’altro è un modo fuorviante di affrontare la questione dell’omosessualità. Tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro orientamento, vivono uno stato di disordine che solo la grazia di Dio può modificare in modo radicale, che poi è l’unico modo per ovviare alle distorsioni che caratterizzano la vita di tutti. - “Omosessualità: un approccio evangelico” (2003)

Insomma l'AEI cerca di legittimare la propria critica nei confronti dei comportamenti omosessuali livellando tutta la sessualità - di qualsivoglia orientamento - nell'ambito dell'"anormalità": siamo tutti "tarati" e sessualmente deviati. Massa damnata, massa perditionis direbbe Agostino.

Siamo sicuri che tale posizione antropologica, cupa e mortificante, sia condivisa da tutte le chiese membro dell'Alleanza Evangelica Italiana o che non sia piuttosto espressione di un ristretto quadro dirigente di orientamento neopuritano? Si può impostare un dibattito costruttivo sul ddl Zan partendo da tali presupposti?

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 28 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Non solo foglie, ma frutti di giustizia

Lettura

Marco 11,11-25

11 Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici diretto a Betània.
12 La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. 13 E avendo visto di lontano un fico che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se mai vi trovasse qualche cosa; ma giuntovi sotto, non trovò altro che foglie. Non era infatti quella la stagione dei fichi. 14 E gli disse: «Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti». E i discepoli l'udirono.
15 Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 16 e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto:
La mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le genti?
Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!».
18 L'udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. 19 Quando venne la sera uscirono dalla città.
20 La mattina seguente, passando, videro il fico seccato fin dalle radici. 21 Allora Pietro, ricordatosi, gli disse: «Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato». 22 Gesù allora disse loro: «Abbiate fede in Dio! 23 In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. 24 Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato. 25 Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati».

Commento

Entrato nel tempio di Gerusalemme Gesù osserva attentamente, forse per programmare la purificazione del giorno successivo. Gesù agisce come colui che ha l'autorità per ispezionare il suo tempio e al suo sguardo non sfugge nulla. La Chiesa, in cui i credenti adorano Dio in spirito e verità (Gv 4,23) e ogni singolo battezzato, tempio dello Spirito Santo, (1Cor 6,19), sono sottoposti al suo giudizio.

La ricerca di frutti sul fico richiama il precedente uso di quest'immagine da parte dei profeti per designare Israele (Ger 8,13; 29,17; Gl 1,7; Os 9,10.16). La maledizione del fico sterile è una parabola in azione che rappresenta il giudizio su Israele infecondo e il suo destino per non aver compreso l'insegnamento di Dio. Resta però anche un monito per la Chiesa e per il singolo credente, in ogni tempo, perché come afferma Giovanni il Battista, invitando alla conversione, "Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco" (Mt 3,10).

La presenza delle foglie e l'assenza di frutti sul fico serve a Gesù per richiamare la predominanza delle apparenze rituali rispetto alle concrete opere della giustizia. Anche noi siamo chiamati a fare frutti degni di conversione (Mt 3,8) piuttosto che confidare sterilmente nella nostra appartenenza alla Chiesa come istituzione, richiamandoci in maniera retorica alle nostre "radici cristiane".

L'azione di Gesù nel tempio è la diretta conseguenza di quanto egli ha visto il giorno prima. La purificazione non è un atto contro il tempio o contro il culto, ma contro l'ipocrisia e il commercio indecoroso praticati dai capi religiosi.
Le attività di commercio che si svolgevano nell'atrio dei pagani (il cortile più esterno) erano collegate ai sacrifici del tempio. Dato che si potevano fare acquisti solo con la moneta di Tiro chi aveva monete di altro tipo poteva rivolgersi ai cambiavalute. Chi non aveva i mezzi per acquistare una pecora o una capra poteva offrire due tortore o due colombi.

Gesù compie la sua opera di purificazione nel cortile più esterno contro gli abusi dei venditori e con l'intento di ripristinarne la funzione di casa di preghiera, da cui nessuno è escluso. La citazione dal profeta Isaia sottolinea la volontà di avvicinare a Dio anche i pagani.
La purità che Cristo esige dalla sua Chiesa e da ogni discepolo consiste nell'evitare l'ipocrisia e l'utilizzo strumentale della religione.

Se l'uomo che si compiace della legge del Signore "Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai" (Sal 1,3), l'empio non solo non porterà frutto, ma disseccherà fino alle radici.

Gesù risponde allo stupore dei discepoli per il fico appassito sottolineando l'efficacia della preghiera, quando animata dalla fede e dal perdono reciproco. Non ci sono limiti a ciò che il credente può ottenere dalla preghiera, se conforme alla volontà di Dio.

La preghiera, nutrimento dell'anima, ci rende non solo prosperi di foglie, ma carichi di frutti di giustizia; purifica il nostro cuore da ogni attaccamento egoistico, facendo spazio alla presenza di Dio.

Preghiera

Crea in noi Signore, un tempio puro e santo; affinché vi sia spazio per la tua lode e per la riconciliazione con il nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Andrea il Folle. Perdere la testa per Cristo

La venerazione di un santo è determinata soprattutto dall'ideale evangelico che attraverso la sua figura viene trasmesso di generazione in generazione. Solo così si può comprendere la straordinaria importanza di Andrea, primo folle per Cristo della chiesa bizantina.
Le notizie storiche su di lui sono contraddittorie, fino a far dubitare della sua esistenza. Egli fu forse originario della Scizia, ed era uno schiavo. Secondo il suo agiografo, un certo Niceforo presbitero di Santa Sofia, fu educato dal suo padrone che lo volle suo segretario. Poi, ancora giovanissimo e in maniera improvvisa, Andrea diede chiari segni di follia. Il padrone lo fece incatenare presso la chiesa di Sant'Anastasia, ma inutilmente: era ormai inziata la vicenda del più amato folle per Cristo di Costantinopoli. Da quel momento, egli vivrà simulando un tale degrado esteriore da far ribrezzo persino agli animali; faceva questo, secondo la tradizione, per poter servire gli uomini nell'umiltà e nel nascondimento.

Andrea il Folle (X sec.?) 

Visionario, affascinato dal futuro ultimo dell'uomo, Andrea esprime con la vita e con numerosi dialoghi la sua attesa del regno e il giudizio che il compiersi dei tempi profetizzato nelle Scritture proietta sulla storia. Lo accompagna spesso come interlocutore Epifanio, personaggio ben dotato di senno, che diverrà patriarca di Costantinopoli. A differenza del suo predecessore di Emesa, Simeone il Folle, Andrea non simula tanto la follia per smascherare i peccati di quanti incontra, ma dedica piuttosto tutta la sua vita a indicare un mondo invisibile, una sapienza «altra». Forse per questo è molto amato dai monaci bizantini, che gli dedicheranno una miriade di piccole chiese ubicate nei luoghi più impensabili.
Nella chiesa russa la memoria di Andrea è legata alla festa della Protezione della Madre di Dio, da lui profetizzata in una delle sue più celebri visioni.

Tracce di lettura

Alcuni devoti gli offrivano denaro di loro volontà e non perché egli ne chiedesse. Egli accettava di buon grado, pregando per i donatori. In una giornata poteva ricevere dai venti ai trenta oboli. Ora, Andrea conosceva un nascondiglio dove si radunavano i mendicanti; accostatosi, come per gioco, si sedette in mezzo a loro e cominciò a giocare con gli oboli, perché la sua attività spirituale non fosse riconosciuta. Quando un povero cercò di prenderglieli, gli diede uno schiaffo: allora gli altri, per vendicare il loro compagno, lo presero a bastonate. Simulando la fuga egli gettò via tutti gli oboli. Così, quello che un mendicante riusciva a trovare era suo guadagno.
(Niceforo, Vita di Andrea il Folle)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 27 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Gettare via il mantello

Lettura

Marco 10,46-52

46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». 50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51 Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

Meditazione

Protagonista di questa porzione di vangelo è Bartimèo, un nome che significa "figlio di Timeo" e che quindi ci dice solo di chi è figlio; l'altra cosa che viene detta è che egli è cieco. Privato di una vera e propria identità egli è così semplicemente "il cieco". La sua persona è identificata con la sua malattia. 

Anche noi a volte siamo vittime o responsabili verso gli altri di questo "riduzionismo", che semplifica le relazioni ingabbiando le persone in uno sterotipo ma impedisce di vedere la ricchezza che vi sta dietro. Spesso siamo noi stessi prigionieri di quel mantello che ci siamo cuciti addosso.

Gesù viene ad aprire i nostri occhi per renderci capaci di ammirare la bellezza delle opere di Dio che si esprime anche nella diversità e unicità di ogni sua creatura.

La cecità di Bartimèo lo rende improduttivo ed egli può mantenersi solo chiedendo l'elemosina. Finché non siamo toccati dalla grazia possiamo solo accontentarci di beni che soddisfano le esigenze più immediate, ma non possono donarci la libertà dei figli di Dio.

La preghiera "gridata" di Bartimèo (vv. 47-48) esprime l'angoscia nel tentativo di colmare la distanza tra l'uomo e Dio, ma è anche come il gemito di un neonato, che non lascia indifferente chi lo ha generato alla vita.

Bartimèo chiama Gesù "mio maestro" (v. 51) e confessa la sua fede in lui come "figlio di Davide" (47-48), il Messia atteso da Israele. Solo assumendo Cristo come guida potremo incamminarci verso l'orizzonte di un asservimento da ogni schiavitù.

Quando il Signore ci chiama è per aprire i nostri occhi alla contemplazione della sua gloria: nel creato, nella storia della salvezza e nelle nostre vite. Il balzo di Bartimèo verso Gesù (v. 50) rappresenta la fede capace di colmare la distanza tra il nostro stato di infermità spirituale e la pienezza della grazia che ci chiama. A volte credere di poter superare ciò che ci limita non è facile come compiere un piccolo passo ma nella parola di salvezza che ci raggiunge troviamo il coraggio e la forza per il cambiamento.

Riacquistata la vista Bartimèo abbandona il mantello (v. 50) che probabilmente utilizzava per raccogliere le elemosine. In questo gesto è raffigurata l'emancipazione dal ruolo nel quale chi gli intimava di tacere (v. 48) lo voleva tenere costretto.

Bartimèo diventa immagine del catecumeno nell'itinerario verso il battesimo, mistero dell'iniziazione cristiana che i primi credenti chiamavano "illuminazione" (photismòs). La sua fede coraggiosa e tenace non solo gli ha procurato la guarigione, ma gli ottiene anche di diventare discepolo di Gesù. Con lui si incammina verso Gerusalemme (v. 52), per partecipare al suo mistero di salvezza.

Preghiera

Signore Gesù, noi ti riconosciamo come nostro maestro e liberatore; apri i nostri occhi alla fede, affinché possiamo contemplare e proclamare le grandi opere che hai compiuto per noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Paul Gerhardt, padre dell'innografia luterana

Nel 1676 muore a Lübben, in Germania, il pastore Paul Gerhardt, forse il massimo poeta dell'ortodossia luterana.
Nato nel 1607 a Gräfenhainichen, in Sassonia, Paul compì gli studi di teologia a Wittenberg, dove rimase dieci anni. Divenuto precettore a Berlino, nel 1651 egli fu eletto pastore a Mittenwalde. Tornato a Berlino e nominato diacono alla chiesa di San Nicola, Gerhardt esercitò per un decennio il proprio ministero dedicandosi alla composizione di poesie e inni religiosi.
Nelle sue opere, egli volle unire un fedele ascolto della Scrittura a un'osservanza rigorosa dei principi della fede luterana, e soprattutto a una forte attenzione alle esigenze della devozione popolare. Ispirandosi ai grandi inni medievali e alle opere dei mistici, egli propose una poesia semplice e profonda, capace di toccare l'intimo dei cuori senza incorrere negli eccessi in cui finiranno per scivolare alcuni pietisti tedeschi mossi da analoghe intenzioni. I suoi inni più celebri, musicati da Johann Sebastian Bach, si diffonderanno in tutte le chiese del mondo, ben al di là dei confini confessionali della chiesa luterana tedesca.
Nel 1668, Gerhardt perse il posto di pastore, poiché si rifiutava di sottoscrivere gli editti di tolleranza di Federico Guglielmo di Brandeburgo, dietro ai quali vedeva una negazione della professione di fede di Concordia. Con molta pace, egli si ritirò a Lübben, dove negli ultimi anni della sua vita fu poi reintegrato nel corpo pastorale.

Tracce di lettura

O capo insanguinato
coperto di piaghe e disonore,
o capo attorcigliato
da una corona di spine,
o capo ormai redento
che irradia ovunque onore,
a te rivolgo il mio saluto,
volto irriso del Signore.
O volto di bellezza
che ogni creatura timorosa
verrà per giudicare,
quanto sei stato sfigurato!
Quanto sei fragile e sfinito!
Tu che irradiasti
una luce incomparabile,
chi ti ha ridotto in questo stato?
(Paul Gerhardt, Inno "O capo insanguinato").

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Paul Gerhardt
Paul Gerhardt (1607-1676)

mercoledì 26 maggio 2021

Filippo Neri. La gioia rende saldo il cuore

Cattolici e anglicani ricordano oggi Filippo Neri, presbitero e fondatore degli Oratoriani.
Nato nel 1515 a Firenze, Filippo ricevette una prima educazione religiosa frequentando il convento domenicano di San Marco, dove da poco si era conclusa la grande stagione spirituale animata da Girolamo Savonarola.

Filippo Neri (1515-1595)

All'età di diciotto anni, Filippo si recò a Roma, dove dimorerà per tutta la vita. Studente di teologia e di filosofia, egli amava ritirarsi in preghiera presso le catacombe, spostandosi come un pellegrino da una chiesa all'altra della città. Uomo semplice e gioviale, Filippo diede vita dapprima a una fraternità per l'assistenza di ammalati e pellegrini, quindi fu ordinato presbitero e si unì a un gruppo di preti che operavano presso la chiesa di San Girolamo.
Confessore e padre spirituale molto apprezzato, egli custodì la sua passione per la vita di preghiera anche quando si trovò circondato da un nutrito gruppo di giovani discepoli, molti dei quali diverranno a loro volta presbiteri. Nasceva in tal modo la Congregazione dell'Oratorio, così chiamata dal luogo di preghiera e d'incontro in cui troveranno ispirazione le opere di apostolato di Filippo Neri e dei suoi compagni.
Egli morì il 26 maggio del 1595. La sua fama e l'influsso della sua semplicità evangelica si diffonderanno dall'Italia alla Francia all'intera Europa occidentale. Sarà ammirato anche da un personaggio come Johann Wolfgang Goethe, non certo tenero con gli uomini di chiesa.

Tracce di lettura

Amate la vita comune, fuggite ogni singolarità, vigilate sulla purezza del vostro cuore: lo Spirito santo dimora nelle anime semplici e candide. E' lui il maestro della preghiera, che ci fa abitare nella vera pace e nella gioia incessante, facendoci pregustare in questo modo il cielo. La gioia rende saldo il cuore e consente di perseverare in una vita buona. Siate gioiosi.
(Agostino Valier, Filippo o Della gioia cristiana)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Il "premio" immeritato

Lettura

Marco 10,32-45

32 Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: 33 «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, 34 lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà».
35 E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». 36 Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: 37 «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38 Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». 39 E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
41 All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. 43 Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, 44 e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. 45 Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Meditazione

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, verso la Croce, e cammina coraggiosamente davanti a un gruppo di discepoli, che lo seguono pieni di stupore e timore (v. 32). Presi in disparte i Dodici, gli rivela l'ora buia che si approssima, che non sarà però l'ultima parola delle forze avverse al vangelo: il destino ultimo è infatti la resurrezione.

Proprio nel momento di questa rivelazione così forte da parte di Gesù, che attesta anche la volontà di confortare e infondere coraggio, emerge la richiesta "stonata" di due discepoli.

Nel Vangelo di Marco, Giacomo e Giovanni chiedono direttamente a Gesù di poter sedere l'uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra nel regno dei cieli, mentre nel Vangelo di Matteo la richiesta è avanzata dalla madre, forse per il timore di risultare poco umili nei confronti degli altri apostoli. In ogni caso gli altri dieci esprimono il loro sdegno, mostrando con ciò di porsi più o meno sullo stesso piano, quello del ripiegamento sui propri interessi egoistici; la risposta di Gesù, infatti, suona come una ammonizione verso tutti loro.

Chi di noi non vorrebbe la garanzia di un posto privilegiato accanto a Gesù? Forse saremmo anche disposti ad accettare le tribolazioni di questa vita, a "bere il calice" del Signore, come Giacomo e Giovanni professano di essere disposti a fare (v. 38). Allora la beatitudine eterna ci appare come un "premio" che ci spetta di diritto, magari a scapito di altri, che riteniamo meno "meritevoli". 

In tal modo sfugge il senso profondo della salvezza: il suo essere un dono gratuito da parte del Padre, in virtù del riscatto operato dal Figlio. Se noi partiamo da questo presupposto, allora l'atteggiamento che ne consegue non può che essere di profonda umiltà: innanzitutto verso Dio, che ci ha sciolti dalle catene di questo mondo, affrancandoci dal peccato e dalla morte.

Le catene di questo mondo sono l'asservimento a una logica di prevaricazione l'uno sull'altro, un continuo sentirsi in competizione che ci angustia, ci affanna, ci rende schiavi delle nostre ambizioni disordinate. 

Ma l'atteggiamento di umiltà che scaturisce dal sentirsi salvati per grazia deve caratterizzare anche le relazioni con il nostro prossimo. Che cosa meritiamo più di lui davanti a colui che ci ha riscattato a prezzo del suo sangue? 

La risposta di Gesù alla richiesta di un posto privilegiato nel regno a venire crea così un singolare paradosso: tra la schiavitù alle logiche del mondo e lo spirito di servizio, il farci "servi" - per utilizzare le parole stesse di Gesù - dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. 

Nella Chiesa non c'è spazio per la volontà di dominio; ogni autorità va esercitata sul modello di Gesù, come servizio agli altri e non per interesse personale. Il Vangelo ci chiama a conformarci al Figlio prediletto, nel quale il Padre si è compiaciuto (Mt 3,17), il Figlio che è venuto nel mondo per servire e non per essere servito (Mt 20,28).

Preghiera

Aiutaci a comprendere, Signore, che regnare con te è porci al servizio della tua Parola, che proclama la libertà dai lacci della morte e del peccato; affinché possiamo condividere sulla terra e celebrare in cielo la gioia della tua salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Agostino di Canterbury e l'evangelizzazione degli Angli

La Chiesa Anglicana, i veterocattolici e i luterani celebrano oggi la memoria Sant'Agostino di Canterbury, primo arcivescovo d'Inghilterra (morto a Canterbury tra il 604 e il 609). 
Nel 604, dopo aver portato a termine la sua missione in Inghilterra ed essersi assicurato un successore alla sede primaziale, muore Agostino, monaco e primo arcivescovo di Canterbury.
Fino al momento del suo invio da parte di Gregorio Magno, avvenuto nell'anno 596, di lui sappiamo soltanto che era priore del monastero romano di Sant'Andrea al Celio. La missione romana capeggiata da Agostino per evangelizzare il territorio inglese divenne possibile quando il re del Kent Etelberto sposò una principessa franca cristiana. Il papa di Roma Gregorio organizzò allora un primo gruppo di quaranta monaci per condurre l'Inghilterra alla fede in Cristo.
Agostino, non senza qualche esitazione lungo il cammino - per cui venne rimproverato da Gregorio -, alla fine obbedì, e gli fu concesso di stabilirsi nella città reale di Canterbury. In essa Agostino e compagni annunciarono il vangelo anzitutto con la testimonianza di una vita fraterna ispirata all'esempio delle comunità apostoliche.
Consacrato arcivescovo di Canterbury e primate della chiesa inglese, Agostino si adoperò, con l'aiuto di Gregorio, per dare basi solide alla comunità ecclesiale, edificando nuove chiese o restaurando le antiche chiese britanniche che erano state abbandonate dopo la prima evangelizzazione di quelle terre.
Alla dolcezza e al rispetto che Agostino mostrò verso i pagani, nella convinzione che l'adesione autentica al vangelo potesse avvenire soltanto nella piena libertà, Agostino non seppe unire un'analoga pazienza verso i problematici gruppi di cristiani già presenti nei territori occidentali dell'Inghilterra. Di conseguenza, pur avendo istituito le diocesi di York, di Londra e di Rochester, egli non riuscì a ottenere la piena unità dei cristiani britannici.
Agostino morì a Canterbury nel 604.

Statua di AGOSTINO, Cattedrale di Canterbury
Statua di Agostino, Cattedrale di Canterbury
Tracce di lettura

Appena Agostino e i suoi compagni ebbero messo piede nella sede loro concessa, cominciarono a imitare la vita apostolica della chiesa primitiva: si consacravano a preghiere continue, veglie, digiuni, predicavano le parole di vita a quelli che potevano, disprezzavano tutte le cose di questo mondo come estranee; da quelli ai quali insegnavano prendevano solo quel poco che reputavano necessario al loro sostentamento; essi stessi vivevano seguendo in tutto quei precetti che insegnavano agli altri, con l'animo sempre pronto a sopportare qualsiasi avversità, e anche a morire per la verità che annunciavano.
(Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli 1,26)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

martedì 25 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Un cuore libero per ricevere il centuplo

Lettura

Marco 10,28-31

28 Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29 Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31 E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Commento

Nel pensiero giudaico il benessere terreno è considerato una benedizione di Dio, un premio per i giusti. Lo stesso Giobbe, che viene privato di tutto ciò che gli è più caro (i propri figli, i propri possedimenti, la propria salute) vede benedetti i suoi ultimi anni da Dio (Gb 42,12) e arrivando a centoquarant'anni, "morì vecchio e sazio di giorni" (Gb 42,17).

Ma cosa giova a coloro che hanno seguito il consiglio dato da Gesù al giovane ricco, di lasciare tutto per seguirlo? «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19:27) chiede Pietro a Gesù con la sua ruvida franchezza.

Gesù promette di donare il centuplo fin da questa vita e la vita eterna nel tempo della "rigenerazione". Le sue parole non sono un invito ad abbandonare amici e parenti nelle loro necessità, ma a porre le esigenze del Regno al primo posto, per guadagnare ogni uomo alla fede e vivere il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Egli ci esorta a vivere con libertà il nostro rapporto con i beni terreni per godere dei frutti dello Spirito.

Le persecuzioni accompagneranno le benedizioni del Signore per i suoi fedeli (v. 30). Ma i problemi e le difficoltà incontrati nel mondo a causa del vangelo possono diventare essi stessi fonte di benedizione, aiuto a maturare nella fede; saremo come rami potati nella giusta stagione, per portare frutti più abbondanti.

Preghiera

Tutto quello che abbiamo, Signore, appartiene a te; ma tu ci chiedi di non presentarci alla tua presenza a mani vuote. Donaci un cuore libero per ricevere in abbondanza le tue benedizioni. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Beda il Venerabile. Leggere la storia con gli occhi di Dio


La Chiesa cattolica d'occidente, la Chiesa Anglicana e la Chiesa luterana celebrano oggi la memoria di Beda il Venerabile. 
Il 27 maggio del 735, dopo aver dettato l'ultima frase della sua traduzione in northumbro del vangelo secondo Giovanni, Beda, monaco dell'abbazia inglese di Jarrow, esala il suo ultimo respiro.
Nativo della Northumbria, Beda era stato affidato all'età di sette anni come oblato al monastero di Wearmouth, fondato da Benedetto Biscop. Nella sua vita egli fu anzitutto un monaco totalmente dedito alla ricerca della pace interiore e di quella sapienza che nasce dall'ascolto orante della Parola di Dio. Beda non si mosse mai al di là della città di York; tuttavia acquisì una tale erudizione da diventare un maestro amato e apprezzato per intere generazioni di monaci.
Egli fu interprete attento delle Scritture, sempre in ascolto dell'esegesi dei padri che lo avevano preceduto e al tempo stesso capace di spunti originali; ma fu anche attento lettore della propria epoca: in terra inglese si andava preparando la rinascita del cristianesimo occidentale, e Beda raccolse una straordinaria documentazione, con la quale redasse la sua Storia ecclesiastica degli Angli, in cui egli mostrava come Dio avesse voluto fare delle genti inglesi un popolo eletto per una particolare missione in occidente.
La sua capacità di compaginare la conoscenza delle fonti della fede e la lettura della storia fecero di Beda un tassello fondamentale per la formazione dell'autocoscienza storica e spirituale di tutto l'occidente.

BEDA il VENERABILE, miniatura del XII sec..

Tracce di lettura

I fratelli erano tutti molto tristi e piangevano, specie quando egli disse di non ritenere che essi avrebbero visto il suo volto ancora a lungo in questo mondo. Tuttavia si rallegrarono quando egli disse queste cose: «Se così gradisce il mio Creatore, è giunto per me il momento di abbandonare questo corpo, per fare ritorno a Colui che dal nulla mi ha dato l'esistenza. Ho vissuto a lungo, e il Giudice giusto non mi ha fatto mancare nulla in tutta la mia vita. Il tempo della partenza si avvicina, e io desidero fortemente essere sciolto da questo mondo per essere con Cristo. La mia anima anela alla visione di Cristo, mio re, in tutta la sua bellezza.
(Cuthbert, Lettera sulla morte di Beda)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 24 maggio 2021

Fermati 1 minuto. La Chiesa, generata sotto la Croce

Lettura

Giovanni 19,25-34

25 Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. 26 Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». 27 Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.
28 Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». 29 Vi era lì un vaso pieno d'aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. 30 E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
31 Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. 32 Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme con lui. 33 Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34 ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.

Commento

La figura di Maria, che appare in maniera discreta nei Vangeli e solo in quello di Giovanni figura sotto la croce, era stata presente durante il primo miracolo di Gesù alle nozze in Cana di Galilea. In quella occasione aveva portato all'attenzione del figlio la mancanza di vino per i commensali, ricevendo l'enigmatica risposta: "'Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora'" (Gv 2,4). 

La trasformazione dell'acqua in vino non è un miracolo di guarigione o liberazione, ma con esso Gesù sembra prefigurare in maniera incruenta il dono del suo sangue per la vita dei peccatori riconciliati.

Quell'"ora" che è un "non ancora" a Cana, scocca nel momento culminante della passione, in cui Maria diventa madre dei credenti - personificati da Giovanni - e al tempo stesso oggetto di sollecitudine del discepolo.

Maria sotto la croce è stata assurta a simbolo della Chiesa e come colei che intercede per gli uomini presso il Figlio; eppure nella loro semplicità le parole evangeliche ci mostrano il Figlio che intercede per Maria e la affida al discepolo che egli amava. 

Una madre è degna senz'altro di essere onorata - "Onora tuo padre e tua madre" (Es 20,12) - e al tempo stesso un figlio, quale viene definito Giovanni in rapporto a Maria, è oggetto delle sollecitudini materne. 

Se Maria rappresenta la Chiesa, questa è affidata ai credenti, affinché se ne prendano cura. Ma al tempo stesso essi sono figli della Chiesa, dalla quale hanno ricevuto la dottrina degli apostoli, per mezzo del vangelo. 

La Chiesa non è una istituzione umana, ma la comunità dei redenti dalla sete di anime di Cristo.

Preghiera

Noi ti lodiamo, Padre celeste, per averci donato la tua Parola vivente, rivestita di un vero corpo nel grembo di Maria; il tuo Spirito ci guidi sempre nell'amore alla tua Chiesa, generata dal sangue del tuo Figlio. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

John e Charles Wesley, iniziatori del Metodismo


La Chiesa d'Inghilterra ricorda oggi i fratelli John e Charles Wesley, iniziatori nel XVIII secolo del metodismo in terra inglese.

John (+1791) e Charles (+1788) Wesley

Figlio di un ecclesiastico anglicano, John seguì le orme paterne, ricevendo anch'egli l'ordinazione presbiterale e partendo missionario per la colonia inglese della Georgia. Il fallimento della missione gli fu tuttavia utile per mettere a punto il metodo che adotterà in seguito per la riforma spirituale della chiesa, a cui si dedicherà anima e corpo. A seguito di una forte esperienza religiosa, infatti, che egli stesso più tardi farà risalire al 24 maggio del 1738, John Wesley cominciò le sue missioni itineranti. Egli diede vita a molte piccole comunità di semplici cristiani, desiderosi di vivere radicalmente l'Evangelo a partire dall'ascolto orante delle Scritture e dalla partecipazione alla liturgia; nei cenacoli wesleyani vi fu una forte sottolineatura della dimensione comunitaria e una grande dedizione al servizio dei più poveri. Una spiritualità e una teologia equilibrate sono forse il segreto del successo lungo i secoli e in tutto il mondo che avrà il movimento metodista. A fianco di John vi fu sempre il fratello Charles, che trasformerà l'esperienza dell'amore di Dio vissuta nelle comunità metodiste in un'immensa produzione di inni, tra i più belli e i più biblici della liturgia occidentale. Per tutta la loro vita, John e Charles Wesley desiderarono rimanere fedeli alla Chiesa d'Inghilterra. Alcune loro decisioni, tuttavia, getteranno le basi per la nascita di una nuova entità ecclesiale: le Chiese metodiste.
Charles Wesley morì nel 1788, seguito tre anni più tardi dal fratello John, che morì nel 1791.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 23 maggio 2021

Se uno mi ama... noi verremo a lui


COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI PENTECOSTE

Colletta

O Dio, che in questo tempo hai istruito i cuori dei tuoi fedeli, inviando loro la luce dello Spirito Santo; concedici, attraverso lo stesso Spirito di avere un retto giudizio in tutte le cose, e di rallegrarci sempre del suo conforto; per i meriti di Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

At 2,1-11; Gv 14,15-31

Nel racconto della Pentecoste riportato dagli Atti degli Apostoli vediamo che il luogo in cui viene donato lo Spirito Santo è l'assemblea dei credenti riunita in preghiera, primizia della Chiesa. Gesù lo aveva promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). 

La preghiera che ci apre al dono dello Spirito è dunque preghiera comunitaria; e la preghiera più importante compiuta nel nome di Gesù è l'azione liturgica. 

Gesù ci esorta a chiedere con coraggio il dono più grande: Dio stesso, la sua potenza - ("come vento impetuoso" (At 2,2) -, la sua sapienza - "vi insegnerà ogni cosa" (Gv 14,26) -, la sua eloquenza - "li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue!" (At 2,11).

Il Padre avrebbe potuto effondere il suo Spirito su un solo credente, su un solo profeta, ma decide di dividerlo in diverse lingue di fuoco, conferendo a ciascun discepolo un carisma differente.
Nessuno, tra i credenti, può insuperbirsi, pensando di essere l'unico indispensabile: chi opera, infatti, è Dio, e ogni carisma conferito dallo Spirito, non è che un "ministero", un ufficio per il bene dell'intero corpo ecclesiale.

L'eloquenza conferita dallo Spirito non è la tendenza a parlarci addosso, ad essere sordi verso le culture che si esprimono in una lingua differente dalla nostra. Riconosciamo che è lo Spirito che opera nella Chiesa quando anche "quelli di fuori" comprendono la nostra predicazione su Cristo: "E tutti stupivano e si meravigliavano, e si dicevano l'un l'altro: 'Come mai li udiamo parlare nella nostra lingua natìa?'" (At 2,7-8). La Chiesa è realtà sacramentale aperta al mondo.

Se è vero che il dono dello Spirito Santo è fatto per il bene dell'intero corpo di Cristo è anche vero che si tratta di una epifania che investe la persona del credente, una esperienza intima e diretta del Dio trinitario; è Dio stesso che viene a inabitare la nostra anima: "Conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me, e io in voi" (Gv 14,20); "Se uno mi ama... noi verremo a lui" (Gv 14,23).

L'incontro con Cristo, nelle Scritture e nei sacramenti, ci trasforma, per grazia, a sua immagine, cosicché quando il Padre si china su di noi, non vede più noi ma il suo Figlio, e ci dona lo Spirito senza misura: "furono tutti ripieni dello Spirito Santo" (At 2,4).

Per ricevere tale dono Gesù ci esorta a osservare i suoi comandamenti: "Se mi amate, osservate i miei comandamenti" (Gv 14,15); "Chi ha i miei comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manfesterò a lui" (Gv 14,21).
Non deve mai venir meno, dunque, al di là delle nostre miserie, il desiderio della santificazione, intesa come obbedienza al vangelo, per opera della grazia di Dio.

"Perciò vi dico: chiedete" (Lc 11,9), esorta Gesù. Non lasciamoci vincere dal torpore, dalla rassegnazione, dalla mediocrità. Osiamo chiedere il dono più grande: una nuova Pentecoste per noi, per la Chiesa e per l'intera umanità.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 21 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Dal voler bene al dono di sé

Lettura

Giovanni 21,15-19

15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». 19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

Commento

Nell'epilogo del Vangelo di Giovanni assistiamo alla riabilitazione della figura di Pietro. Gesù gli chiede una triplice professione di amore, a riparazione del suo triplice rinnegamento. La sezione presenta l'utilizzo di due sinonimi del verbo "amare": filéo e agapáo; la prima indica il voler bene di Pietro a Gesù; la seconda esprime il dono totale di sé.

Il nome che Gesù utilizza per riferirsi a Pietro non è Cefa ("roccia") ma "Simone, figlio di Giona"; l'attenzione è posta non sul carisma che gli era stato affidato, ma sulla sua fallibile umanità. Gesù interpella la nostra debolezza perché l'umiltà è il primo passo per trovare la riconciliazione.

Gesù non chiede a Pietro quanto ha pianto il suo rinnegamento, quanto ha fatto penitenza, ma quanto egli lo ama. Solo l'amore rende accettabile ogni espressione di pentimento. A chi ha molto amato sarà molto perdonato (Lc 7,47).

Gesù accompagna la triplice domanda a Pietro con l'esortazione a occuparsi dei suoi agnelli e delle sue pecore. 

Il ruolo di nutrire il gregge era affidato usualmente a un sottoposto del pastore, in questo caso viene a indicare la devozione nel servizio al Signore. Il primo dovere di coloro che Gesù pone a guida della sua Chiesa è di insegnare la parola di Dio. L'amore verso Cristo si dimostra prendendosi cura del popolo che egli si è acquistato per mezzo del suo sangue.

Due volte Gesù chiede a Pietro se lo ama (con il verbo agapáo), se è capace del dono totale di sé. Ma egli, memore della sua caduta, non se la sente di promettere qualcosa che va oltre le proprie capacità e professa semplicemente la sua filìa, il suo umano voler bene a Gesù. La terza volta Gesù si pone al suo livello e gli chiede proprio se gli vuole bene (con il verbo filéo ); è allora che lo accoglie per quello che egli è, con i suoi limiti, le sue fragilità confessate apertamente. Proprio su di queste si innesterà la grazia soprannaturale rendendo capace Pietro di compiere il suo ministero, fino alla testimonianza estrema con il dono della vita.

Gesù rinnova a Pietro l'esortazione che fu rivolta agli apostoli al principio della loro chiamata: "Seguimi!" (v. 19). Pietro non è respinto per essere venuto meno alla sua fedeltà durante la passione, ma è riconfermato nella fede e nell'amore, affinché anch'egli possa confermare a sua volta i suoi fratelli. Solo l'umile consapevolezza di essere peccatori riconciliati può renderci buoni ministri del vangelo.

Preghiera

Vieni in soccorso, Signore, alla fragilità del nostro amore, per renderci capaci di donare generosamente le nostre vite nella testimonianza del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

I 7 monaci trappisti dell'Atlas. Martiri del dialogo interreligioso

Il 21 maggio del 1996, un comunicato del Gruppo Islamico Armato, organizzazione estremista algerina, annuncia l'avvenuta esecuzione dei sette monaci trappisti rapiti due mesi prima al monastero di Notre-Dame de l'Atlas. È la conclusione di un itinerario di testimonianza evangelica spintosi fino a rendere presente l'Emmanuele, il Dio-con-noi, in mezzo all'inimicizia che dilaga tra gli uomini. Il cammino dei monaci dell'Atlas era cominciato nel lontano 1938, con l'insediamento di alcuni di loro nella regione di Tibhirine per testimoniare nel silenzio, nella preghiera e nell'amicizia discreta la fratellanza universale dei cristiani.

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I 7 monaci trappisti dell'Atlas (+ 1996)

La comunità era stata molto prossima alla chiusura negli anni '60, ma aveva conosciuto un forte rilancio spirituale per l'intervento diretto di diverse abbazie francesi e anche grazie alla guida del nuovo priore, frère Christian de Chergé. Proprio quest'ultimo ha lasciato ai posteri alcuni scritti di grande valore evangelico, nei quali trapela la makrothymía, la larghezza d'animo di chi, a somiglianza del Maestro, sa ormai vedere l'altro, il nemico stesso, con gli occhi di Dio. Accanto a lui saranno i suoi fratelli Bruno, Célestin, Christophe, Luc, Michel e Paul a condividere sino alla morte ogni gioia e ogni dolore, ogni angoscia e ogni speranza, e a donare interamente la vita a Dio e ai fratelli algerini. Con il precipitare degli eventi essi avevano deciso insieme di rimanere in Algeria, e avevano intessuto profondi legami di dialogo e di approfondimento spirituale con i musulmani residenti nella regione. La morte cruenta di questi monaci, che ha riportato all'attenzione dei cristiani d'occidente la possibilità del martirio presente in ogni vita veramente cristiana, ha trasmesso a ogni uomo capace di ascolto la convinzione che solo chi ha una ragione per cui è disposto a morire ha veramente una ragione per cui vale la pena di vivere.

Tracce di lettura

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista... Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
E anche a te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insh'Allah.
(fr. Christian de Chergé, Testamento spirituale)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose 

giovedì 20 maggio 2021

Fermati 1 minuto. "Voglio che siano con me"

Lettura

Giovanni 17,20-26

20 Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; 21 perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
22 E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. 23 Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
24 Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.
25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. 26 E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Commento

Gesù non prega solo per i dodici, o per i settantadue discepoli, per gli uomini e le donne che lo hanno seguito durante la sua vita terrena, ma la sua intercessione abbraccia i credenti di ogni tempo (v. 20), tutti coloro che crederanno per la parola trasmessa dai suoi discepoli. Le Scritture del Nuovo Testamento e il ministero della predicazione sono stati stabiliti nella Chiesa per generare gli uomini alla fede.

L'unità per la quale prega Gesù è la comunione dei santi, di coloro che sono santificati dallo Spirito, in cielo e sulla terra, in ogni tempo e in ogni latitudine.

La pienezza dell'unità richiesta da Gesù al Padre per la sua Chiesa è segno visibile della verità della testimonianza: "perché il mondo creda" (v. 21). Se i credenti sono divisi la loro testimonianza non è credibile. 

La testimonianza data al mondo è fondata anche sul privilegio dei credenti di essere amati dal Padre come egli ha amato Gesù ("il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me"; v. 23). Apparirà al mondo che Dio ci ha amati se ci ameremo gli uni gli altri, perché quando l'amore di Dio è effuso nei cuori li trasforma a propria immagine. La nostra capacità di amare è proporzionale alla consapevolezza dell'amore di Dio per noi.

La "preghiera sacerdotale" di Gesù insiste sull'unione del Padre e del Figlio come modello per l'unione tra i discepoli ("perché siano come noi una cosa sola"; v. 22). Le divisioni tra i cristiani frantumano il riflesso dell'immagine di Dio nel mondo. Dio è comunione e la comunione tra i credenti è la via che conduce a lui.

Se inizialmente Gesù prega (erotao) per i discepoli e per chi crederà in lui (v. 20), di seguito utilizza il verbo "voglio" (thelo), esprimendo sovranamente la sua volontà, che è anche quella del Padre: "voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria" (v. 24).

La preghiera che Gesù innalza per ogni credente è la nostra forza nell'adempimento del mandato apostolico, fonte di fermezza e coraggio in mezzo alle difficoltà e ai pericoli che il mondo pone innanzi ai testimoni del vangelo.

Preghiera

Il tuo Spirito, Signore, infonda in noi il desiderio della comunione fraterna e il coraggio di renderti testimonianza, affinché il mondo possa conoscere il tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Nil Sorskij, riformatore del monachesimo russo

La chiesa russa ricorda oggi Nil Sorskij (Nilo di Sora), monaco e animatore della rinascita esicasta nella Russia del XV secolo.
D'origine aristocratica, Nil Majkov era nato a Mosca nel 1433, ed entrò molto giovane nel monastero di San Cirillo del Lago Bianco, dove fu discepolo dello starec Paisij Jaroslavov. Appresi i rudimenti dell'esicasmo, Nil si recò al monte Athos e a Costantinopoli per approfondire la propria ricerca spirituale accanto ai grandi maestri dell'epoca. Egli rimase a lungo alla Santa Montagna, dove apprese l'arte della preghiera continua e del discernimento spirituale.

Nil Sorskij (1433-1508)

Tornato sul Lago Bianco, dopo un periodo di vita solitaria Nil si stabilì sulle rive del fiume Sora, non lontano dal suo monastero, organizzandovi una nuova forma di vita monastica, a metà strada tra quella cenobitica e quella eremitica, sull'esempio delle skiti dell'Athos. Nil mostrò sempre grande umanità verso i propri discepoli, che amava chiamare «miei signori e fratelli». La sua disponibilità ad aprire l'orecchio del cuore a Dio e al prossimo gli consentirono di imparare a riconoscere il proprio peccato e l'inesauribile misericordia di Dio, e di divenire testimone credibile di tale amore misericordioso. Nil Sorskij è per tutti i monaci russi un venerabile esempio di mitezza e di sobrietà evangeliche.
Convinto di dover contribuire alla nascita di un monachesimo più povero e meno mondano rispetto a quello dominante nei grandi centri monastici del suo tempo, Nil non esitò negli ultimi anni della sua vita a porsi a capo di un vero e proprio movimento di riforma che con parresia favorì il ritorno di molti monasteri a uno stile di vita radicalmente evangelico.
Nil Sorskij morì il 20 maggio del 1508.

Tracce di lettura

I santi padri, lottando con il corpo, coltivavano anche spiritualmente la vigna del loro cuore e, dopo aver purificato in tal modo la mente dalle passioni, trovavano il Signore e acquistavano l'intelligenza spirituale. E a noi che siamo consumati dal fuoco delle passioni essi hanno comandato di attingere l'acqua viva alla fonte della divina Scrittura, la quale può estinguere le passioni che ci consumano e mostrarci la vera intelligenza.
Per questo anch'io, grande peccatore e uomo privo di senno, ho raccolto alcune cose dalla sacra Scrittura e da quello che ci hanno detto i santi padri, e le ho scritte per conservarne il ricordo, perché io pure, incurante e pigro, le possa compiere.
(Nil Sorskij, Prologo della Regola)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 19 maggio 2021

Dunstan di Canterbury e la bellezza di Dio

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Dunstan di Canterbury, monaco e arcivescovo primate della chiesa d'Inghilterra. Dunstan era nato nei pressi di Glastonbury, forse nel 910. Dalle sue biografie non traspare in modo del tutto chiaro se la sua famiglia fosse nobile, o se invece egli sia entrato dopo la sua nascita a far parte dell'importante casata del vescovo di Winchester. Ad ogni modo, fu quest'ultimo ad avviarlo alla vita monastica, spingendolo a entrare nell'abbazia benedettina di Glastonbury. Uomo di grande cultura e amante della bellezza, Dunstan si dedicò da monaco a diverse attività artistiche come la decorazione di manoscritti, la composizione di musica sacra e la lavorazione dei metalli preziosi. Nel 943 il nuovo re del Wessex lo nominò abate di Glastonbury e si avvalse della sua grande cultura per avviare la rinascita del monachesimo in tutto il paese. Da abate Dunstan promosse lo studio e l'amore per l'arte in diversi monasteri, organizzando una riforma che sarà portata a compimento quando egli verrà eletto arcivescovo di Canterbury sotto il re Edgardo. Anche se a partire dal 970 Dunstan perderà l'appoggio del re, non verrà comunque meno il suo impegno di predicatore, di maestro e di animatore del monachesimo, ed egli è ricordato dagli agiografi per il discernimento e l'energia con cui guidò sino alla fine la diocesi di cui era stato fatto pastore.


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Dunstan di Canterbury (ca 910-988)

Tracce di lettura

Dunstan studiò con diligenza i libri degli antichi pellegrini irlandesi giunti a Glastonbury, meditando sulle vie della vera fede, e sempre esaminò con attenzione i libri di altri sapienti che egli, grazie alla visione profonda del suo cuore, aveva percepito essere confermati dagli insegnamenti dei santi padri.
Egli vigilava sulla propria condotta ricorrendo ogni volta che poteva all'esame delle sante Scritture, ed era come se Dio in esse gli parlasse. E veramente, ogni volta che poteva essere sollevato dalle sollecitudini terrene per deliziarsi nella preghiera, sembrava che fosse lui a parlare a Dio.
(Vita di Dunstan 11)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Consacrati nella verità

Lettura

Giovanni 17,11-19

11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
12 Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. 13 Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14 Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
15 Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18 Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; 19 per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità.

Commento

La morte di Gesù esporrà i discepoli alla tentazione e all'odio del mondo, ma essi saranno custoditi da Dio e potranno sperimentare la stessa unità che rappresenta la vita trinitaria (v. 11).
La perdizione di Giuda non è una mancanza da parte di Gesù, ma un evento profetizzato dalle Scritture (Sal 41,9; 109,8).

Gesù chiede al Padre per i suoi discepoli la pienezza della gioia (v. 13). Il credente gioisce in Cristo di una gioia duratura, che non appassice come la gioia che dà il mondo.

Vi è una chiara somiglianza tra la richiesta di Gesù al Padre, in questa preghiera, di custodire i discepoli dal maligno (v. 15) e l'ultima petizione del Padre nostro.

L'idea della consacrazione (v. 17) rappresenta il mettere a parte qualcosa per un uso specifico. I credenti sono messi a parte da Dio per diventare annunciatori del vangelo. La santificazione non comporta l'isolamento dei discepoli dal mondo ma la loro missione verso il mondo. Gesù santifica se stesso (v. 19) compiendo totalmente la volontà del Padre.

I ministri dell'antico patto, i sacerdoti leviti, erano santificati con il sangue di tori e di capri, ma i ministri del vangelo sono consacrati dal sacrificio di Cristo (Ap 5,9-10).

Sapere che Gesù intercede per noi, che siamo presenti nella sua preghiera, ci fa vivere con la consapevoleza di essere custoditi dal suo amore. Custodire è diverso da possedere. Dio non soffoca la nostra libertà, ma ci accompagna, tra le difficoltà del mondo, in una relazione di amore, ponendo il nostro agire nella quotidianità sotto la sua benedizione.

Preghiera

Signore Gesù, incorporati per fede nel tuo sacrificio di salvezza, ci hai resi sacerdoti per il nostro Dio; la nostra vita sia trasformata in un dono prezioso mediante la tua benedizione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 18 maggio 2021

Fermati 1 minuto. Riflesso della comunione divina

Lettura

Giovanni 17,1-11

1 Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. 2 Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3 Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4 Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. 5 E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse.
6 Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. 10 Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.

Commento

Culmine degli ultimi discorsi, questo capitolo è stato definito la "preghiera sacerdotale" di  Gesù, che prega per se stesso (vv. 1-5), per i discepoli (vv. 6-19), per la Chiesa (vv. 20-26). Esistono alcune analogie tra questa preghiera e il Padre nostro: la supplica rivolta a Dio come "Padre"; l'adempimento della volontà di Dio (v. 4); la richiesta di essere liberati dal male (v. 15).

I Vangeli riportano poco delle frequenti preghiere di Gesù con il Padre; vero e proprio "faccia a faccia" con lui, questa preghiera segna come il compimento del suo ministero terreno e l'inizio del ministero di intercessione in cielo.

L'ora che "è giunta" (v. 1) è quella della morte di Gesù, mediante la quale egli sarà glorificato, come segno supremo di amore. Il Padre, sarà a sua volta glorificato dal compimento del piano di redenzione del Figlio.

La vita eterna è definita come conoscenza personale di Dio e di Gesù come Messia (v. 3). Non si tratta di una conoscenza meramente intellettuale, ma di una esperienza trasformante che si reaizza nel dono dello Spirito Santo.

La morte e il ritorno di Gesù al Padre sono così certi che egli ne parla come se fossero già compiuti: "Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare" (v. 4). Se noi veniamo meno nel mantenere le buone risoluzioni nei confronti di Dio, la fedeltà di Gesù è incrollabile: "Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse" (Eb 10,23).

I discepoli e i credenti sono un dono del padre al Figlio (v. 2), il quale li pone spiritualmente al di fuori del mondo. Questi rispondono conservando la propria fede ("essi hanno osservato la tua parola", v. 6; "le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte... e hanno creduto che tu mi hai mandato"; v. 8). Sono così espressi il lato divino e quello umano della salvezza, la promessa di Dio e la fede dell'uomo.

Gesù professa la comunione della natura divina tra lui e il Padre con le parole "Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie" (v. 10); per mezzo di lui possiamo accedere ai tesori della grazia.

Con la morte di Gesù la fede degli apostoli sarà messa duramente alla prova; per questo egli chiede al Padre di custodirli nel suo nome (v. 11), ovvero di mantenere tra di loro la verità che il Figlio ha rivelato riguardo al Padre. La comunione tra gli apostoli è un riflesso di quella tra il Padre e il Figlio ("perchè essi siano una cosa sola, come noi").

Nel vincolo della comunione fraterna siamo chiamati a diventare motivo di gloria per Dio. La fede si esprime nel com-patire con Cristo l'urgenza per la salvezza dell'umanità; e al contempo mette in azione tutte le nostre facoltà per rendere Dio e il suo regno presenti nella storia. Figli nel Figlio, fatti uno dalla carità, diventiamo un solo corpo vivificato dallo Spirito Santo, per rivelare il volto del Padre al mondo intero.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che intercedi senza sosta per la nostra salvezza, vivifica la tua Chiesa con il dono dello Spirito, affinché possa essere sacramento di unità tra gli uomini, rendendo presente la tua grazia con la predicazione della Parola e l'amministrazione dei tuoi sacramenti. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona