Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 30 aprile 2021

Fermati 1 minuto. La verità è un cammino

Lettura

Giovanni 14,1-6

1 «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».
5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.

Commento

Con questo discorso di commiato, che si svolge nella stanza in cui si è consumata l'ultima cena, mentre Giuda si è già allontanato, Gesù incoraggia i discepoli in vista della sua passione che sta per compiersi.

Al turbamento dei discepoli espresso dal verbo greco tarasso - lo stesso usato da Gesù alla morte di Lazzaro - viene contrapposta la fede che vince il mondo (1 Gv 5,4). Uniti a Gesù i discepoli ricevono la forza per sconfiggere la paura e perseverare con coraggio nelle prove fino alla vittoria finale.

Gesù non chiede ai discepoli di anestetizzare le proprie emozioni, di non provare tristezza o dolore per quanto sta per accadere, ma di non lasciarsi "travolgere" da esse. La fede rappresenta un'àncora nelle tempeste del mondo. Se anche l'esteriorità dell'anima è provata, il suo fondo resta nella quiete.

La "casa del Padre" è nell'Antico testamento il Tempio, ma successivamente venne a rappresentare nella cultura ebraica la casa stabilita nei cieli, nella quale si trovano le dimore dei giusti.

Gesù annuncia chiaramente il suo ritorno alla fine dei tempi per portare in cielo i giusti, insegnamento presente anche in Matteo (Mt 24,36-44) e ripreso da Paolo (1 Cor 15,51-54; 1 Ts 4,13-18).

La "via" cui si riferisce Gesù, è egli stesso, il vangelo impartito con le sue parole e con la sua vita. Il termine "la via" verrà a contraddistinguere lo stesso cristianesimo nell'età apostolica, come testimoniato dal libro degli Atti (At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22).

Gesù non è semplicemente una guida che conduce alla salvezza ma è la verità e la vita (v. 6), Parola che procede dal Padre, per mezzo della quale tutte le cose sono state create (Gv 1,3) e che ha il potere di far diventare figli di Dio quanti la accolgono (Gv 1 12).

L'essere "via" di Gesù implica che la verità e la vita rappresentano un cammino, prima ancora che una mèta. Il viaggio stesso della vita del credente è crescita nell'esperienza di Dio.

C'è una dimora in cielo che attende coloro che in questa vita "hanno lasciato casa a causa del vangelo" (Mc 10,29). Il Risorto non solo prepara una casa per noi ma prepara anche noi per questa casa, assistendoci con la sua grazia nel percorso che conduce al Padre.

Preghiera

Signore, che hai avuto misericordia del peregrinare dell'uomo su questa terra, tu hai tracciato per noi la strada che conduce alla pienezza della vita. Il tuo Spirito ci assista affinché possiamo essere trovati da te sul retto cammino quando ci verrai incontro. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Giuseppe Benedetto Cottolengo. Non facciamo economia con i poveri

Nel calendario della chiesa ambrosiana si ricorda oggi Giuseppe Benedetto Cottolengo, presbitero e fondatore della Casa della Divina provvidenza. Nativo di Bra, nei pressi di Cuneo, Giuseppe Cottolengo, al pari di molti altri aspiranti al presbiterato del suo tempo, ebbe molte difficoltà nello studio per la chiusura dei seminari seguita alla Rivoluzione francese. Egli riuscì tuttavia a ricevere l'ordinazione presbiterale all'età di venticinque anni, nel 1811, nel seminario di Torino. Dapprima, si dedicò intensamente agli studi teologici, entrando a far parte di una congregazione torinese di preti teologi; ma la sua vera vocazione si rivelò essere un'altra.

G.B.COTTOLENGO
Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842)

Dedito già da tempo a un ripensamento silenzioso, anche difficile, della strada intrapresa, egli s'imbatté nella drammatica situazione di una malata che nessun ospedale, per diversi motivi, voleva o poteva accogliere. Cottolengo iniziò così nel 1827 a creare uno spazio di accoglienza per ogni sorta di malati «rifiutati» dalla società: poveri e orfani, malati di mente e invalidi. Nei restanti quindici anni della sua vita, Giuseppe Benedetto diede vita a una serie impressionante di iniziative caritatevoli, fondando la Casa della Divina provvidenza e avviando una congregazione di preti, suore e laici dediti al sostegno dei malati più emarginati della società. Vero e proprio «genio del bene», come lo definirà papa Pio IX, Cottolengo manifestò come la multiforme sapienza dell'uomo di fede possa trovare risposte a ogni appello rivolto dai bisogni lancinanti degli ultimi e degli abbandonati. Cottolengo morì dopo aver contratto il tifo, il 30 aprile del 1842. Al momento della sua morte, le sue case di accoglienza avevano curato più di 6.500 malati.

Tracce di lettura

Esercitate la carità, ma esercitatela con entusiasmo! Per far del bene ai poveri dovete, se occorre, insozzarvi fino al collo: questa è la carità che dovete esercitare.
Non fatevi chiamare due volte: siate solleciti! Interrompete qualunque altra occupazione, anche santissima, e volate in aiuto dei poveri.
E' una bella cosa sacrificare la salute e anche la vita per il bene dei nostri fratelli abbandonati o infermi. Essi sono i nostri padroni e i nostri fratelli, sono le perle della Piccola casa.
E non facciamo economia con i poveri, perché quanto abbiamo è tutto loro, e noi stessi apparteniamo a loro e non ad altri.
(G. B. Cottolengo)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 29 aprile 2021

Fermati 1 minuto. Educati docilmente alla responsabilità

Lettura

Matteo 11,25-30

25 In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Commento

Esistono diversi paralleli tra queste parole di Gesù e alcuni passi della letteratura sapienziale dell'antichità giudaica. Solo il Padre conosce il Figlio così come solo Dio conosce la sapienza: "Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi" (Gb 28,12.23). Il Figlio conosce il Padre, così come la sapienza conosce Dio: "Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto?" (Sap 9,17).

La rivelazione di Dio e della sua sapienza, del Padre e del Figlio, è destinata non a coloro che si ritengono "sapienti" e "intelligenti", ma ai "piccoli" (v. 25). L'umiltà è la chiave che consente di accedere ai tesori di Dio.

La ricerca della sapienza è faticosa per l'uomo e nella misura in cui viene raggiunta accresce a sua volta le sofferenze rispetto a chi conduce una vita spensierata: "molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore (Qo 1,18) afferma l'Ecclesiaste.

Gesù chiama a sé gli affaticati e gli oppressi, con l'affermazione paradossale che questi troveranno ristoro prendendo su di sé il suo giogo. Come è possibile essere liberati dall'oppressione sottomettendosi e aggiogando se stessi?

Gesù ci libera dalla schiavitù dai beni impermanenti di questo mondo, ma anche dal peso di doverci salvare da soli, mediante il tentativo di portare i carichi che gli scribi e i farisei vogliono porre sulle nostre spalle (Lc 11,46). Il vangelo è più che una religione, un insieme di regole da seguire: è un'esperienza di comunione con Dio.

La pedagogia che Gesù adotta con i suoi discepoli è improntata alla mitezza. La grazia non fa violenza alla nostra natura, ma la educa docilmente. L'essere stati liberati dai lacci del mondo e da quelli di una religiosità legalistica deve tenerci lontano da due estremi: dal sentirci liberi di fare tutto ciò che vogliamo, dimenticando la responsabilità cui siamo stati chiamati; e dalla tentazione, sempre latente, di ricadere nel legalismo e nella precettistica "farisaica", seppur sotto una veste cristiana. 

Mettersi alla sequela di Cristo significa liberarsi da una religiosità opprimente e mortificante, per annunciare con gioia il suo messaggio di salvezza. La vera religione è un'esperienza di liberazione e di gioiosa partecipazione all'opera divina.

Preghiera

Liberaci dai lacci del mondo, Signore, e il tuo Spirito buono ci guidi in terra piana; affinché possiamo regnare con te, giustificati e santificati dalla grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Caterina da Siena. Una vita per la riconciliazione

Nel calendario romano e in quello anglicano ricorre oggi la memoria di Caterina da Siena, terziaria domenicana e maestra della fede. Caterina Benincasa nacque a Siena nel 1347, ventiquattresima di venticinque figli. Nutrendo fin da piccola una particolare propensione per la vita interiore, a quindici anni si fece terziaria domenicana, attratta dall'attività caritativa verso i poveri e i malati. Il suo amore per Cristo, alimentato da un costante dialogo interiore, e la radicale vita evangelica che conduceva, le attirarono un piccolo cenacolo di discepoli, che la seguiranno ovunque per partecipare dei suoi doni e del suo ministero. Caterina votò tutta la propria vita alla causa della pace e dell'unità, operando - fatto del tutto inusuale per una giovane donna del suo tempo - per la riconciliazione delle città in lotta e per la riforma della chiesa, afflitta dalla corruzione e dallo scisma. 

CATERINA DA SIENA, Andrea Vanni, XIV sec.
Caterina da Siena (1347-1380), Andrea Vanni, XIV secolo

Caterina visitò i poveri per portare loro conforto e i potenti per indicare loro la via della riconciliazione esigita dal vangelo. Ebbe un'intensa corrispondenza, grazie alla quale elargiva consigli spirituali a tutti coloro che le chiedevano una parola, e lasciò un cantico d'amore di rara bellezza nel suo Dialogo sulla divina provvidenza. Caterina fu proclamata dottore della chiesa da Paolo VI nel 1968, titolo che le è riconosciuto anche dalla Chiesa d'Inghilterra. Essa morì in questo giorno, nel 1380, e pur avendo vissuto un lasso di tempo così breve ci ha lasciato con la sua vita una delle pagine più belle della spiritualità cristiana.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 28 aprile 2021

Fermati 1 minuto. L'ultimo giorno

Lettura

Giovanni 12,44-50

44 Gesù allora gridò a gran voce: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; 45 chi vede me, vede colui che mi ha mandato. 46 Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. 47 Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. 48 Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno. 49 Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. 50 E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me».

Meditazione

La Passione è ormai vicina. La predicazione pubblica di Gesù è al suo termine. Prima di ritirarsi per dedicarsi in modo speciale ai suoi discepoli Gesù grida "a gran voce" (v. 44) un'ultima dichiarazione che è un sommario del suo ministero.

Gesù proclama quel che nessun profeta prima di lui aveva osato, la sua perfetta unità con il Padre: "chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato" (v. 44)... "chi vede me, vede colui che mi ha mandato" (v. 45).

L'umanità di Gesù ci rivela un'"oltre", che è la sua uguaglianza divina con il Padre, e da questo le sue parole acquisiscono non solo autorità, ma anche una infinita profondità di significato.

Gesù è parola che rivela il Padre, narrazione capace di offrirsi come fonte inesauribile di verità. Parola che dà la vita ma parola che può trasformarsi anche in condanna per chi rifiuta di mettersi in ascolto del senso ultimo delle cose. 

Per tutti noi infatti c'è un "ultimo giorno", che non necessariamente coincide con l'ultimo della nostra vita. Si tratta di quel momento in cui siamo chiamati a interrogarci sul senso, la direzione della nostra esistenza, solo apparentemente fatta di giorni tutti uguali, con il sole che sorge, tramonta e di nuovo sorge.

Gesù è la luce che entra nel mondo a spezzare questa circolarità. Chiudere gli occhi di fronte ad essa significa porsi da soli nella regione d'ombra che priva di quella profondità di senso che è preludio della visione e della comunione con il Padre, sorgente di ogni cosa.

Preghiera

Signore, tu ci chiami a gran voce e non ti stanchi di attirarci a te con la tua grazia e le tue parole di vita. Rendici pronti ad abbandonare le ombre del mondo per lasciarci illuminare dalla tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 27 aprile 2021

Fermati 1 minuto. La cadenza perfetta

Lettura

Giovanni 10,22-30

22 Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. 23 Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. 24 Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25 Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; 26 ma voi non credete, perché non siete mie pecore. 27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28 Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. 29 Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola».

Commento

"Era d'inverno" (v. 22). C'è qualcosa di malinconico in questa immagine ritratta da Giovanni nel suo Vangelo. Gesù passeggia solitario sotto il portico del Tempio cercando riparo dal vento freddo che proveniva dal deserto.

Sono i giorni della festa della dedicazione (ebr. Hanukkah), all'incirca i primi di dicembre. Mancano circa tre mesi alla crocifissione.

La festa della dedicazione dura otto giorni e si celebra per ricordare la nuova dedicazione dell'altare e la purificazione del tempio da parte del condottiero Giuda Maccabeo nel 164 a.C., in seguito alla sconsacrazione operata dal dominatore siriano Antioco Epifane (Dn 8,13; 9,27), il quale nel 170 a.C. aveva conquistato Gerusalemme e posto un altare pagano al posto dell'altare di Dio.

Simbolicamente Gesù è colui che instaura il nuovo tempio e la vera guida di Israele. Eppure, quasi al termine della sua missione terrena l'incomprensione sulla sua persona è ancora diffusa tra i giudei.

Un gruppo di questi si avvicina e gli chiede "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso?" (v. 24). Vogliono che egli affermi o neghi apertamente se è il Cristo o no, come fece Giovanni Battista.

I giudei che interrogano Gesù non sono mossi da un sincero desiderio di conoscere chi egli sia, ma si attendono una sua professione messianica per contestarla e condannarlo.

Per la loro incredulità Gesù li annovera tra coloro che non fanno parte del suo gregge - "voi non credete, perché non siete mie pecore" ( 26) - ma rivolgerà loro un ulteriore appello alla fede poco più avanti: "Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre»" (Gv 10,37-38).

La domanda dei giudei che si sentivano con l'animo sospeso di fronte alla figura di Gesù può attraversare anche le nostre coscienze. Egli ci invita a guardare le sue opere, ma siamo circondati dall'iniquità, dall'ingiustizia, dalla sofferenza. Eppure il vangelo ci annuncia una presenza di vita e di salvezza. La fede è capace di generare Dio nella nostra anima e nel mondo, come un fiore di loto che risplende immacolato su uno stagno. 

Credere alle opere di Dio significa farsi presenza di Cristo nel mondo. Credere, riconoscere le opere di Dio, non è una attività meramente intellettiva, ma implica il potere fecondo, generativo, della fede, che trova conferma nelle opere stesse che è capace di produrre.

Come il Padre ci ha posto nelle mani di Cristo facendo dipendere la nostra salvezza dal potere sovrano di Dio, al contempo si è messo nelle nostre mani, nella misura in cui, rinati in Cristo, condividiamo con lui la responsabilità per l'intero gregge.

Il termine utilizzato per proclamare l'unità di Gesù con il Padre è neutro e non al maschile: lui e il Padre non sono "uno", ma "una cosa sola". Gesù è pienamente Dio, ma una persona divina distinta dal Padre. L'unità di Gesù con il Padre è rappresentanta dalla perfetta sinergia nella parola e nell'azione.

Anche noi siamo chiamati a non restare con l'animo sospeso ma a entrare nel flusso benedetto di questa sinergia, trovando in Cristo la cadenza perfetta nella sinfonia della nostra vita.

Preghiera

Purifica il tempio del nostro cuore, Signore; affinché possiamo dedicarci al vero culto in spirito e verità, magnificando le tue opere e riconoscendoti come il nostro pastore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Mechitar di Sebaste e il monachesimo come promotore di pace

La mattina del 27 aprile 1749, al termine di una vita totalmente spesa per Dio e per la formazione religiosa dei fratelli, si spegne a Venezia Mechitar (Mxit'ar) di Sebaste, monaco e fondatore della congregazione armena di San Lazzaro. 
Mechitar, che al battesimo aveva ricevuto il nome di Manuk, era nato a Sebaste nel 1676. Entrato giovanissimo nel locale monastero della Santa Croce, egli desiderava unire un'intensa vita interiore a un'insaziabile ricerca intellettuale. 
In quegli anni l'Armenia era scossa da divisioni interne alla chiesa, causate dagli strascichi delle controversie cristologiche del primo millennio. Mechitar decise allora di studiare a fondo tali controversie, per cercare vie di pace all'interno della chiesa armena e con la sede apostolica di Roma. 
Trasferitosi a Sebaste, entrò in relazione con diversi uomini di chiesa d'oriente e d'occidente, e maturò l'idea di fondare un centro monastico dove lo studio della tradizione potesse formare una nuova generazione di uomini aperti al dialogo e iniziati alla mitezza evangelica. 
Quando il vescovo di Erzurum, ostile al dialogo con Roma, divenne patriarca, Mechitar dovette fuggire con i suoi compagni e si rifugiò nel Peloponneso; costretto a un nuovo esilio per l'avanzata ottomana, egli finì per stabilirsi a Venezia, sull'isola di San Lazzaro. 
Nella laguna veneta fu accolto molto bene, e la sua congregazione monastica, che aveva fondato già nel 1711, crebbe rapidamente. A San Lazzaro Mechitar portò a termine il suo progetto di un monachesimo promotore del dialogo e della pace attraverso lo studio e la preghiera, nella convinzione che una verità che non tenesse conto del fratello non si sarebbe mai potuta dire veramente cristiana.

Mechitar di Sebaste (1676-1749)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 26 aprile 2021

Fermati 1 minuto. La voce del pastore

Lettura

Giovanni 10,1-10

1 «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 2 Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4 E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6 Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
7 Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.

Commento

La figura allegorica del buon pastore è frequente nell'Antico testamento per rappresentare rappresenta Dio (Es 34; Gn 48,15; 49,24; Mic 7,14; Sal 23,1-4; 80,1). Anche il Nuovo testamento utilizza frequentemente l'immagine delle pecore e del pastore. Gesù, vedendo le folle che lo seguivano in giro per i villaggi, "ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore" (Mt 9,36). In occasione della prima moltiplicazione dei pani Gesù "Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore" (Mc 6,34). Preannunciando la sua passione dirà "Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse" (Mc 14,27). Per rappresentare la gioia in cielo per il peccatore convertito annuncia la parabola della pecora smarrita e ritrovata (Lc 15,1-7). Pietro parla di Cristo come del "pastore e guardiano delle vostre anime" (1 Pt 2,25) e lo definisce il "pastore supremo" dal quale riceveremo la corona di gloria che non appassisce (1 Pt 5,4). Anche la lettera agli Ebrei chiama Gesù "il Pastore grande delle pecore" che il Dio della pace ha fatto tornare dai morti in virtù del sangue di un'alleanza eterna (Eb 13,20).

Non è un caso, allora, che questa immagine sia la più diffusa nell'iconografia protocristiana.

Il buon pastore tratta le pecore non semplicemente come un gregge, ma chiama ciascuna per nome. Il suo chiamarci per nome indica un rapporto personale con noi. Il mondo è pieno di ladri e briganti che non ci chiamano per nome ma ci trattano solo come merce di scambio. Altri poi si dimenticano del tutto di noi: è l'esperienza della solitudine, quando nessuno più ci chiama, ci cerca, ci desidera.

Ma il buon pastore, Gesù, non si dimentica di noi e non ci lascia chiusi nel recinto, ma ci conduce verso pascoli erbosi e acque correnti (Sal 23,2). La fede non è una gabbia, ma la scoperta di nuovi sentieri, improvvisi scorci, vasti orizzonti, in un rapporto di amore e di fiducia con colui che ci guida.

Diversamente dai pastori dell'estremo oriente che guidavano il gregge servendosi anche di cani, i pastori mediorientali utilizzavano soltanto la propria voce. L'immagine diventa così esemplificativa del rapporto intimo tra discepolo e maestro.

Spesso i pastori mediorientali dormivano presso la porta dell'ovile, così Gesù presenta se stesso non solo come il pastore che conduce le pecore al pascolo, ma anche come la porta che custodisce il gregge. 

Il recinto dell'ovile era costituito da una muratura priva di copertura. Il termine aulè, indica generalmente nella Bibbia greca dei Settanta il vestibolo dinanzai al tabernacolo del tempio.
Come porta dell'ovile Gesù è dunque il vero Messia mediante il quale accedere alla vita eterna, prima di lui sono venuti molti falsi profeti - e molti ne verranno anche fino al suo ritorno - ma le pecore non ascoltano la loro voce. Chi è chiamato per nome da Cristo ha la capacità di discernere la via che conduce alla salvezza. Nelle Scritture risuona la sua voce e in esse abbiamo il parametro per verificare se coloro che si propongono come pastori guidati dallo Spirito sono realmente tali.

Il temrine kalós, "buono", non indica semplicemente qualcuno abile a fare qualcosa, ma una persona nobile. Diversamente dai mercenari, che fuggono davanti al pericolo, Gesù dà la vita per le sue pecore. Egli ha dato la vita veramente, non solo in senso figurato. Si è preso cura delle "pecore" che il Padre gli aveva affidato esponendosi alla morte nella sua passione e riscattando l'intero "gregge".
Con la sua risurrezione ci ha aperto la strada verso il sacro recinto della Gerusalemme celeste. La sua voce risuona nelle parole di vita che ci ha lasciato e mediante lo Spirito che ci ha donato.

Preghiera

Signore tu non smetti di chiamarci per nome e di guidarci con la tua grazia; concedici di perseverare sul retto cammino, per giungere nel tuo regno e dilettarci della tua presenza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 25 aprile 2021

La vostra tristezza si muterà in gioia

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO PASQUA


Colletta

Dio Onnipotente, che mostri a coloro che sono nell’errore la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia; concedi a tutti coloro che sono ammessi alla sequela di Cristo, di evitare quelle cose contrarie alla loro professione, e di seguire tutte le cose a lui gradite. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 2,11-17; Gv 16,16-22

Commento

La fede nella risurrezione, che è al centro della vita di ogni cristiano, ci dona la certezza che la verità e la giustizia, in Cristo, hanno vinto il mondo. E questa fede, lungi dal rappresentare un sogno consolatorio, ci porta a diventare noi stessi, in Cristo, protagonisti della vittoria sulla menzogna, sull’ingiustizia, sulla morte e sul peccato. 

Dio, però, non ci tratta come pedine su uno scacchiere. Egli ci mostra la luce, ma non ci obbliga a riceverla. La natura umana è immersa nelle tenebre e il Signore visita e illumina le nostre tenebre. C’è una scintilla divina in ciascuno di noi; e siamo liberi di alimentarla e trasmetterla, di trasformarla in un focolare o in un incendio che divampa; così come possiamo stoltamente soffocarla, metterla sotto il moggio (Mt 5,14-15). Un giorno ci verrà chiesto conto del dono che abbiamo ricevuto e dell’uso che ne abbiamo fatto.

Il Risorto, nel suo discorso di commiato, parla di un breve momento in cui i suoi discepoli non lo vedranno più, e allora piangeranno e si lamenteranno, mentre il mondo si rallegrerà; ma poi lo ritroveranno e la loro tristezza si muterà in gioia.

Il vero cristiano sente di non appartenere completamente a questo mondo, ha nostalgia di Dio, cerca la comunione con lui. Le gioie del mondo per lui non sono abbastanza e con il salmista esclama “l’anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente. Quando verrò e comparirò davanti a Dio?” (Sal 42,2). 

La nostra fede ci rende Dio presente, ma la Verità si fa strada in maniera sofferta tra le tenebre, come se dovesse venire alla luce tra i dolori del parto (Gv 16,21). Questo è stato vero per la vicenda terrena di Gesù, dalla sua predicazione, accolta con entusiasmo - ma anche oggetto di aspre contestazioni - alla condanna della croce, fino alla vittoria della risurrezione, che ha prevalso sulla morte e sul peccato.

Anche la storia della Chiesa, così come la nostra personale vicenda di fede, ripercorrono queste tappe obbligate: la gioiosa rivelazione del Verbo incarnato, di una presenza divina che abita la creazione e che ha posto nel cuore dell’uomo la sua dimora; il faticoso ritorno dell’uomo dal suo esilio alla comunione con il Creatore, e da qui il richiamo di Pietro a comportarci come pellegrini, astenendoci dai "desideri della carne".

Ma cosa sono i desideri della carne? Lungi dall'esprimere una visione sessuofobica, la parola "carne", (gr. sarx) rappresenta la componente mortale della nostra natura umana. L'astensione dai suoi desideri significa la capacità di non renderci schiavi delle cose finite, caduche, transitorie. Se ci ripieghiamo su di esse, ricercando lì la salvezza, ciò che troveremo sarà soltanto tenebra.

Se tratteremo le cose buone che sono nel mondo per quello che sono, come mezzi e non come il fine, potremo attraversarle indenni, guidati dalla luce divina e trasfigurando esse stesse in luce.
Allora la nostra tristezza si muterà in gioia.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 24 aprile 2021

Il genocidio degli armeni (1915-1918)

Si celebra oggi "il giorno della memoria" dei martiri armeni del XX secolo. La notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915 vengono arrestati in massa a Costantinopoli uomini politici, ecclesiastici, giornalisti, avvocati e letterati armeni, con il pretesto che sta per compiersi una rivolta premeditata di tutti gli armeni residenti in Turchia. È l'inizio di quello che sarà il secondo genocidio della storia in termini numerici, dopo quello degli ebrei compiuto dal regime nazista. Deportazioni massicce e trattamenti disumani porteranno tra il 1915 e il 1918 alla scomparsa sulla via dell'esilio e tra le sabbie della Siria di 1.500.000 armeni. 

Martiri Armeni (1) – Risveglio Popolare

Quanti riescono a fuggire si rifugeranno nei campi profughi mediorientali oppure oltre le prime montagne del Caucaso. Sebbene non sia facile districare il complicato groviglio di fede, identità nazionale e azione politica volta all'indipendenza che portò al genocidio del loro popolo, gli armeni ricordano i loro fratelli morti durante la prima guerra mondiale come martiri, perseguitati in odio alla loro fede e alla loro diversità.
È comunque storicamente accertato che pochissimi furono coloro che, pur di salvarsi dalla furia distruttrice dei turchi, si convertirono all'islam rinnegando la fede dei loro padri.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

venerdì 23 aprile 2021

Fermati 1 minuto. Reciproca assimilazione

Lettura

Giovanni 6,52-59

52 Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53 Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
59 Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao.

Commento

Solo gli adulti competenti nelle Sacre scritture potevano prendere la parola nella sinagoga e il discorso di Gesù a Cafarnao, quando dal "pane di vita" passa a parlare della necessità di mangiare la sua carne e il suo sangue si fa davvero duro da comprendere. "Allora i giudei si misero a discutere tra di loro " (v. 52). Il verbo greco machomai indica una discussione molto accesa. Le parole di Gesù non suscitano più perplessità ma alimentano una vera e propria lite.

La legge mosaica proibiva di bere sangue o assumere cibo contenente sangue (Gen 9,4; Lev 17,10-14; Dt 12,16). Gli interlocutori di Gesù si mostrano incapaci di andare oltre la prospettiva fisica nell'interpretare le sue parole.

La nostra anima ha bisogno di nutrirsi di Cristo tanto quanto il nostro corpo ha bisogno del cibo ordinario per vivere e restare in salute.

Il passaggio dalla metafora del pane a quella del cibarsi della carne e del sangue di Gesù racchiude la dimensione sacrificale del suo donarsi per noi. Non c'è pane se prima non c'è il chicco di grano che discende nel terreno, muore e fruttifica nella spiga (Gv 12,24).

Nutrirsi della sua carne e bere il suo sangue significa partecipare spiritualmente al sacrificio della croce. Per i giudei l'idea di un Messia crocifisso era inaccettabile (At 17,1-3).

Le parole di Gesù preludono anche alla celebrazione dell'eucaristia, che verrà istituita poco prima della sua passione e mediante la quale il credente può rimanere (gr. meno) in lui: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (v. 56); è il realizzarsi di un vincolo di comunione e di reciproca "assimilazione".

La chiave della fede ci apre la porta per dimorare in Cristo (v. 56); in lui possiamo trovare una "casa" dove riposarci dal peregrinare tra le tribolazioni del mondo, rifugiarci quando fuori infuria la tempesta, accogliere i nostri fratelli e sorelle, per condividere la gioia del vangelo.

Preghiera

Tu sei la nostra casa, Signore; aiutaci a ritornare a te ogni volta che ci affatichiamo sulle vie del mondo; affinché possiamo partecipare alla comunione del tuo mistero di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

San Giorgio. Patrono della Chiesa d'Inghilterra

Il 23 di aprile nei calendari di tutte le chiese cristiane si celebra la memoria di Giorgio di Lidda, il martire più venerato di tutta la cristianità. Egli nacque probabilmente in Cappadocia. Suo padre, Geronzio, era un pagano di origine persiana, mentre la madre Policronia era cristiana. Avviato alla carriera militare, Giorgio si fece discepolo convinto del Signore, abbandonando le armi e dando ogni suo bene ai poveri. Quanto al suo martirio, i racconti sono talmente intrisi di dati leggendari da rendere difficile una ricostruzione dell'accaduto. Anche la data della sua morte è incerta, mentre sicuro è il luogo della sua sepoltura, nella città palestinese di Lidda, dove già nel 350 era sorta una basilica in suo onore. 
Statuo di San Giorgio,Berlino, quaertiere di Nikolaviertel

La sua antica Passio conobbe traduzioni e arricchimenti in ogni lingua d'oriente e d'occidente. Si tratta di un racconto traboccante di miracoli, alcuni dei quali davvero eclatanti. Famoso è l'episodio, immortalato in numerosissime varianti iconografiche e narrato da Jacopo da Varagine nella sua Leggenda aurea, in cui Giorgio uccide il drago che terrorizzava la città di Silene in Libia. Simbolo della lotta contro le potenze del male, Giorgio è patrono dell'Inghilterra, e il numero di chiese a lui dedicate in tutto il mondo è pressoché incalcolabile.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 22 aprile 2021

Emergenza Covid. Cremona conferisce la cittadinanza onoraria ai Samaritan’s

Cremona, 21 aprile 2021

Un anno fa l’Italia era in piena emergenza covid: le strutture ospedaliere non reggevano il ritmo dei nuovi ricoveri e, mentre si provava ad arginare l’avanzata del virus con il confinamento generale, il sistema sanitario riceveva provvidenziali aiuti dall’estero. 

Uno di questi arrivò dalla Samaritan’s Purse: l’organizzazione umanitaria evangelica fondata da Billy Graham allestì a Cremona, di concerto con le autorità lombarde, un ospedale da campo da 60 posti letto seguiti da 75 unità tra medici e paramedici che, da metà marzo a metà maggio, si presero cura di quasi trecento pazienti. L’impegno ricevette un immediato apprezzamento dall’amministrazione locale e venne rilanciato dai media nazionali come esempio virtuoso di solidarietà.

A un anno di distanza dallo sbarco in Italia, il Consiglio comunale di Cremona ha premiato la missione conferendole la cittadinanza onoraria; l’atto è stato votato all’unanimità, a sottolineare il plauso per il lavoro svolto dalla missione. - Evangelici.net


L'ospedale da campo della Samaritan's Purse a Cremona











Fermati 1 minuto. Attiraci a te

Lettura

Giovanni 6,44-51

44 Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 45 Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.
48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50 questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Commento

L'iniziativa di andare a Gesù non è nostra ma è suscitata in noi dal Padre. Il verbo "attirare" con cui Gesù indica la chiamata del Padre rievoca la mistica sponsale del libro del profeta Osea e del Cantico dei Cantici: "la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" (Os 2,16); "Attirami dietro a te, corriamo! M'introduca il re nelle sue stanze" (Ct 1,4).

Dio suscita la fede nell'anima non facendole violenza e trascinandola in catene, ma affascinandola come un amante gentile; e poiché non può esservi amore dove non c'è libertà, egli lascia libera l'anima di accoglierlo o di rifiutarlo.

La chiamata universale alla salvezza è annunciata da Gesù con l'affermazione che tutti saranno ammaestrati da Dio, che parafrasa le parole del libro di Isaia "Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore" (Is 54,13).

Gesù - "colui che viene da Dio" (v. 46) è l'unico che ha visto il Padre (Gv 14,9) e a lui possiamo essere condotti ascoltando il Figlio, sua immagine visibile. Attraverso l'incarnazione, il Logos non solo si rende presente all'uomo ma si fa suo nutrimento. Nel suo donarsi come "pane" Gesù esprime la sua volontà di essere accolto in una comunione totale con noi.

Gesù mostra la differenza tra la manna e il pane di vita che è dispensato nella sua persona. La prima, sebbene venisse dal cielo serviva solo per il sostegno del corpo e non poteva impartire la vita eterna né offrire un nutrimento spirituale. Infatti tutti i padri che mangiarono la manna furono comunque soggetti alla morte. Il pane di vita che è Gesù rappresenta invece il pegno della risurrezione.

L'identificazione da parte di Gesù con il pane vivo disceso dal cielo, e di questo pane con la sua carne allude all'eucaristia. Sebbene il termine usato qui, sarx, carne, sia diverso da quello adoperato nell'ultima cena, soma, corpo, gli equivale nel lessico giovanneo. Il termine "carne" sottolinea maggiormente la realtà concreta del corpo di Gesù, la sua uguaglianza con il nostro corpo, e nel farsi "pane" la possibilità di essere assimilato da noi e, per noi, di essere assimilati da lui nella fede, partecipando della sua eternità.

Preghiera

Attiraci a te, o Dio, facci correre verso le alture della conosceza dei tuoi divini misteri; e ristoraci con il pane di vita, che nutre l'anima e rende incorrutibile il corpo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Maria Gabriella Sagheddu. Un'offerta silenziosa per l'ecumenismo

Ricorre oggi la memoria di Maria Gabriella Sagheddu, monaca trappista spentasi il 23 aprile del 1939 a soli 25 anni di età. Maria Sagheddu era nata a Dorgali, in Sardegna, in una povera famiglia di pastori. Ragazza molto brillante, aveva dovuto tuttavia rinunciare agli studi secondari per aiutare la madre rimasta vedova a mantenere i suoi fratelli e le sue sorelle. Poco interessata ai problemi religiosi, Maria cambiò profondamente all'età di 18 anni: iniziata un'intensa vita di preghiera, la giovane si diede alla catechesi e all'apostolato, maturando a poco a poco una chiara vocazione alla vita monastica. Abbandonata la Sardegna, Maria entrò a 21 anni nella Trappa di Grottaferrata. 

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Maria Gabriella Sagheddu (1914-1939)

Sotto la sapiente guida della badessa, madre Pia, essa scoprì l'ecumenismo spirituale di Paul Couturier, e decise sulla scia di altre sorelle della sua comunità di offrire la propria vita e le proprie sofferenze per la causa dell'unità fra i cristiani. Ammalatasi pochi mesi dopo di tubercolosi, Maria, divenuta nel frattempo suor Maria Gabriella, visse i restanti mesi di vita immersa nella preghiera di Gesù per l'unità dei credenti in lui. Sebbene la sua vicenda sia per certi versi assimilabile a quella di altri testimoni della passione per l'ecumenismo, la piccolezza e la semplicità di Maria apparve subito un segno importante per indicare la via verso la comunione fra le diverse confessioni cristiane. La sua vita ebbe un impatto enorme, soprattutto sul nascente ecumenismo della chiesa cattolica, e toccò i cuori di cristiani di ogni paese e confessione. Suor Maria Gabriella è stata beatificata da papa Giovanni Paolo II al termine della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani del 1983.

Tracce di lettura

Ho letto questa frase di Ruusbroec: «Con un cuore umile e generoso, offri e presenta Cristo come fosse la tua offerta, come un tesoro che libera e colma di ogni bene. Egli, a sua volta, ti offrirà al suo Padre celeste come frutto prezioso per il quale egli è morto, e il Padre ti abbraccerà con il suo amore». Mi sono fermata... mi è parso che il Signore volesse farmi capire: «Questa parola è per te». Gesù mi ha scelta come oggetto privilegiato del suo amore, dandomi da portare la sua sofferenza per essere sempre più conforme a lui... Penso che non capirò mai pienamente l'amore che Gesù mi ha mostrato offrendomi questa croce. (Maria Gabriella Sagheddu, Conversazioni con la sua badessa)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 21 aprile 2021

Fermati 1 minuto. Non solo spettatori

Lettura

Giovanni 6,35-40

35 Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. 36 Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. 37 Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, 38 perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39 E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. 40 Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno».

Commento

Vincere per sempre la fame e la sete è quanto ci promette Gesù presentandosi come il pane di vita donato per noi. Non allude solo ai nostri bisogni corporali, ma all'estinzione di quella brama che infebbra la nostra anima dal primo istante di vita e ci accompagna fino alla morte.

Si tratta della condizione umana dopo la perdita dello stato di vita primigenio, quando poteva pascersi liberamente di ogni frutto del giardino di Eden.

Ma dopo la caduta tutto è sudore della fronte e travaglio del parto; ogni cosa va guadagnata con fatica e sofferenza.

Gesù è disceso dal cielo per riconciliare con il Padre l'uomo e l'intera creazione, deturpata dalla nostra disobedienza. Con lui si inaugura il tempo escatologico, quando gli uomini "Non avranno più fame, né sete, e saranno protetti dal sole cocente e dallʼarsura. Perché lʼAgnello, che sta davanti al trono, sarà il loro pastore e li condurrà alle sorgenti dellʼacqua che dà la vita. E Dio asciugherà dai loro occhi tutte le lacrime" (Ap 7,16-17).

L'agnello che si fa pastore: un paradosso che non riuscirono a comprendere molti di coloro che pure avevano Gesù davanti agli occhi.

Il verbo theoreo non indica il vedere in senso fisico, ma è l'aprire gli occhi interiori al bisogno di Dio, disporsi a "vedere" per credere. 

Sebbene la salvezza sia un dono gratuito di Dio vi è dunque una responsabilità umana nel passare dal vedere al credere, dall'essere semplici "spettatori" del piano di salvezza di Dio al diventare agenti del suo operare mediante la fede.

Siamo stati dati in dono dal Padre al Figlio, per essere risuscitati nell'ultimo giorno. La nostra fiducia nella salvezza, il nostro conforto, trovano il proprio fondamento in Gesù stesso, che si prende cura di quanto il Padre gli ha donato e porta pienamente a compimento la sua volontà.

Credere in Gesù significa credere nella sua promessa di salvezza e ritrovare così anche la fiducia in noi stessi, nonostante i nostri fallimenti e i tentativi di svalutazione del mondo nei nostri confronti.
Non importa quante volte siamo caduti. Il vero miracolo è riscoprirci ogni volta di nuovo in piedi. Mite come un agnello è il nostro pastore. Geloso di noi come di un dono prezioso che custodisce con cura. Pane che ci rafforza lungo il cammino.

Preghiera

Rinfranca le nostre anime, Signore, tu che sei pane di vita e sorgente inesauribile di grazia; affinché possiamo camminare verso la mèta della resurrezione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona


Anselmo d'Aosta e le ragioni della fede

La Chiesa cattolica d'occidente, la Chiesa luterana e la Chiesa anglicana celebrano oggi la memoria di Anselmo di Aosta, monaco e Arcivescovo di Canterbury.

Anselmo nacque ad Aosta attorno al 1033. Poco dopo i vent'anni, egli lasciò la sua città e viaggiò per conoscere i monasteri e i centri spirituali del suo tempo. Giunto all'abbazia di Bec, in Normandia, fu profondamente colpito dall'incontro con l'abate Lanfranco, uomo di grande erudizione, che lo convinse a rimanere a Bec per farsi monaco. 
Anselmo, già da tempo cultore appassionato delle discipline filosofiche e teologiche, trovò nell'austera quiete della Normandia l'humus ideale per approfondire i propri studi. Alla ricerca di una migliore intelligenza della fede, Anselmo affrontò le questioni teologiche con un metodo nuovo, che troverà pieno sviluppo nella scolastica medievale.
Divenuto priore e abate di Bec, egli fu chiamato nel 1093 a succedere a Lanfranco anche come arcivescovo di Canterbury. Come primate della chiesa inglese, nonostante l'amicizia personale con il re d'Inghilterra, Anselmo si batté per la libertà della chiesa dalle ingerenze del potere politico e fu costretto due volte all'esilio. Malgrado le contraddizioni patite, la vita e l'insegnamento di Anselmo sono permeati di una pace e una gioia profonde, frutto della contemplazione di Dio e del suo mistero, e sono animati da quella dolce compassione per le sofferenze di Cristo che, diffusa in seguito dai cistercensi, darà vita a un nuovo e ricco filone nella storia della spiritualità occidentale. Anselmo morì a Canterbury il 21 aprile 1109.
ANSELMO DI AOSTA, cattedrale di Canterbury
Anselmo d'Aosta (ca 1033-1109)

Tracce di lettura

Veramente, o Signore, è inaccessibile questa luce in cui tu abiti; veramente non c'è altro che possa penetrare questa luce, allo scopo di investigarti. Proprio perciò io non la vedo, perché è eccessiva per me. Tuttavia, per mezzo suo vedo tutto quel che vedo, così come il debole occhio vede quel che vede per mezzo della luce del sole, luce che non può vedere nel sole stesso. Il mio intelletto non ha potere nei suoi confronti - troppo risplende -, non l'afferra, e l'occhio dell'anima mia non riesce a fissarsi in lei troppo a lungo. Ne è colpito dal fulgore, ne è sconfitto dall'ampiezza, ne è soffocato dall'immensità, ne è schiacciato dalla capacità.
O luce somma e inaccessibile! O completa e beata verità, quanto sei lontana da me, che ti sono tanto vicino! Quanto sei remota dalla mia vista, mentre io sono così presente alla tua! Dovunque sia, sei tutta presente, e io non ti vedo. In te mi muovo e sono in te, e non posso avvicinarmi a te. Tu sei dentro e attorno a me, e io non ti sento.
(Anselmo di Aosta, Proslogion 16)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monstica di Bose

martedì 20 aprile 2021

In Francia gli evangelicali superano i protestanti storici

Sono il 54% degli evangelici francesi
 
Un nuovo studio del sociologo francese Sébastian Fath mostra che gli evangelicali in Francia hanno di gran lunga superato in termini numerici i protestanti storici francesi (riformati e luterani). I primi sono il 54% del totale, mentre i secondi scendono al 30%.  Il numero totale dei protestanti francesi supera i due milioni di persone. Negli Anni Sessanta, gli evangelicali erano il 10% del protestantesimo francese, ora sono oltre la metà.

 
La componente evangelicale è l’unica che cresce nel mondo protestante al punto che studiosi come Fath e J.-P. Williame sostengono che si stia verificando una riconfigurazione del protestantesimo francese. Il centro di gravità si sta spostando dalle istituzioni del protestantesimo storico alle iniziative del movimento evangelicale. Un ruolo centrale in questo cambiamento, tutt’ora in corso, lo ha avuto il Consiglio Nazionale degli Evangelici in Francia (CNEF), il corrispondente transalpino dell’Alleanza evangelica italiana.
 
La crescita degli evangelicali è principalmente segnata da “conversioni” di persone prima non credenti o diversamente credenti e dalla fondazione di nuove chiese, oltre che ad essere accompagnata da una postura pubblica che ha dato un profilo visibile agli evangelicali, sia nella discussione delle leggi sulla bioetica sia in quella sulle restrizioni della laicità.

- Ideaitalia, 20 aprile 2021
 

Fermati 1 minuto. Non saremo sazi finché non ci nutriremo di lui

Lettura

Giovanni 6,30-35

30 Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». 32 Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; 33 il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34 Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35 Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.

Meditazione

Gesù ha da poco compiuto la moltiplicazione dei pani e dei pesci per i cinquemila uomini, ed è dovuto fuggire perché la folla voleva proclamarlo re. Ma questo entusiasmo dura poco e adesso un gruppo di giudei gli chiede un altro segno, "all'altezza" di quello di Mosè, che per quarant'anni procurò la manna agli Israeliti nel deserto.

Secondo la tradizione ebraica (Midrash) la manna, con la quale Dio nutrì Israele nel deserto, sarà fatta discendere nuovamente dal cielo dal Messia degli ultimi tempi.

Il doppio "Amen" ("In verità") con cui Gesù introduce la risposta a coloro che gli chiedono un segno sottolinea l'importanza dell'annuncio. Gesù si appresta infatti a proclamare che è lui il pane del cielo, il dono di Dio all'uomo.

La manna caduta nel deserto era un nutrimento per il corpo, per sostenere Israele nel suo lungo esodo verso la terra promessa. Ma Cristo è il vero pane che il Padre dona al mondo, non solo ad Israele, e che nutre l'anima, facendo crescere l'uomo in santità nel suo peregrinare verso il Regno dei cieli.

La manna era un cibo deperibile e si putrefaceva se non veniva consumata lo stesso giorno. Cristo invece è pane che resta etarnamente fragrante. Eppure anche lui è fatto per nutrire l'uomo giorno per giorno: la sua Parola, la sua stessa presenza eucaristica, lungi dall'essere adorati come "sacre reliquie" sono realtà viva e devono costituire il nostro nutrimento quotidiano, vanno "masticati" e assimilati per produrre oggi stesso frutti di santità.

Rischieremo altrimenti di cadere nell'errore dei giudei che avevano davanti agli occhi Colui che poteva saziare la loro fame di vita eterna ma chiedevano, senza riconoscerlo, "Signore, dacci sempre questo pane" (v. 34).

Per procurarci questo cibo, Gesù aveva detto poco prima l'unica cosa che dobbiamo fare: "Questa è l'opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato" (Gv 6,29). La fede aprirà i nostri occhi e ci farà tendere le mani verso il nutrimento di cui abbiamo bisogno.

Si tratta di vincere quell'"accidia" spirituale che ci fa sentire forti della nostra appartenenza religiosa, per quanto vissuta con disimpegno e come vuoto perpetuarsi di antiche tradizioni. Vediamo senza discernere; tocchiamo, senza sentire veramente: "Il prigro tuffa la mano nel piatto, ma dura fatica a portarla alla bocca (Pr 26,15). La fede rinnovata ci dia l'occasione di gustare il profumo e il sapore del pane buono di Cristo, che possiamo ricevere nella meditazione della Parola e nella comunione con i fratelli nella Santa Cena. Non saremo sazi finché non ci nutriremo del suo amore.

Preghiera

Liberaci dalla fame che il mondo non può saziare, Signore; affinché fortificati dalla tua Parola e dalla tua carità possiamo diventare noi stessi pane spezzato per i nostri fratelli. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Johannes Bugenhagen, riformatore della Danimarca

Il 20 aprile la Chiesa luterana celebra la memoria di Johannes Bugenhagen (Wollin, 24 giugno 1485 – Wittenberg, 20 aprile 1558), religioso e predicatore tedesco. Soprannominato Pomeranus per via della sua patria d'origine (la Pomerania), Bugenhagen fu una delle personalità più illustri della riforma protestante che interessò la Germania e, in seguito, buona parte del continente europeo a partire dal 1517.

Nacque nella regione della Pomerania, a Wollin (oggi Wolin, in Polonia), nel 1485 e, durante la sua adolescenza, ricevette una buona educazione prima di giungere agli studi universitari dedicandosi a svariati campi dello scibile umano. Presso l'accademia di Greifswald si occupò particolarmente di grammatica, dialettica, musica e persino di fisica.

Johannes Bugenhagen (1485-1558)

Personalità poliedrica, mostrò grande ingegno nel campo pedagogico, promuovendo gli studi scolastici inizialmente nella scuola di Treptow. Furono, questi, anni vivacissimi ed intensi sotto il profilo della ricerca intellettuale, che fecero approdare Bugenhagen alla scoperta delle idee di Erasmo da Rotterdam e dei numerosi umanisti che auspicavano una riforma di tutta la Chiesa.

Tale desiderio si rafforzerà allorquando entrerà in possesso delle opere di Lutero e, con precisione, del De Captivitate Babiloniae, inizialmente giudicato da lui stesso eretico e pernicioso per l'integrità della fede e, in seguito, accolto come foriero di verità da propagare. Nel 1522, dopo aver carpito le attenzioni e gli elogi di Lutero, venne nominato ministro della collegiata di Wittenberg; incarico che conserverà sino alla morte.

A partire dallo stesso anno si occuperà dell'organizzazione di numerose chiese in varie località della Germania (tra le altre Amburgo e Lubecca) prima che il re di Danimarca e di Norvegia, Cristiano III, lo chiamasse per dare ordine e struttura alla chiesa del suo regno, imprimendole il sigillo delle dottrine luterane.

Bugenhagen soppresse la gerarchia cattolica nominando sovrintendenti luterani, e ordinò circa 24 000 ministri di culto per ciascuna delle due parti componenti il regno danese. Inoltre, attivo fu anche il suo operato volto alla riorganizzazione delle università, prima fra tutte quella di Copenaghen, e alla promozione di scuole femminili, da affiancare a quelle maschili, dopo che avevano visto la chiusura in seguito alla soppressione degli ordini religiosi cattolici. Contemporaneamente, favorì ed incrementò la nascita e lo sviluppo delle prime Università popolari della storia, rivolte all'alfabetizzazione culturale degli adulti.

lunedì 19 aprile 2021

Fermati 1 minuto. Perché lo cerchiamo?

Lettura

Giovanni 6,22-29

22 Il giorno dopo, la folla, rimasta dall'altra parte del mare, notò che c'era una barca sola e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma soltanto i suoi discepoli erano partiti. 23 Altre barche erano giunte nel frattempo da Tiberìade, presso il luogo dove avevano mangiato il pane dopo che il Signore aveva reso grazie. 24 Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. 25 Trovatolo di là dal mare, gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
26 Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27 Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28 Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». 29 Gesù rispose: «Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato».

Commento

Dopo la moltiplicazione dei pani per i cinquemila e il desiderio della folla di farlo re, Gesù era fuggito in un luogo solitario sul monte; ora passa dall'altra perte del mare, seguito dai sui discepoli. Le folle lo raggiungono poco dopo. Il passaggio all'altra riva del mare segna anche la necessità di un cambio di mentalità nella folla. Alla domanda di come sia giunto lì, Gesù risponde "Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati" (v. 26). Gesù non soddisfa la curiosità della gente, ma corregge le motivazioni errate di questa ricerca. Le folle vedono ancora in lui il Messia al quale chiedere la soluzione dei propri problemi materiali.

Nel movimento della folla alla ricerca di Gesù vediamo la rappresentazione dei nostri bisogni primari più superficiali. Egli, che poco prima si è preso cura di dispensare il nutrimento corporale, spinge ora a guardare a quella fame dell'anima che è molto più difficile da saziare, ma per la quale si è fatto pane vivo e vivificante.

Comprendere la ragione autentica per cui cerchiamo Gesù è il primo passo per liberarci dall'attaccamento a quel cibo che non sazia il nostro corpo o il nostro ego, per volgerci a Colui che ci sfama per la vita eterna. Non di rado questo cibo perituro è fatto di "sostanza spirituale": la ricerca del prodigio miracoloso, dei carismi straordinari, di suggestive rivelazioni private. Gesù ci richiama alla sobrietà, nutrendoci del pane solido e nutriente della sua parola e del suo dono sacramentale.

Gesù è il cibo che nutre e non deperisce come qualunque altro alimento della terra, ma per trovarlo bisogna imparare a comprendere il significato spirituale della sua persona e della sua missione, il cui sigillo è stato messo dal Padre mediante lo Spirito Santo (v. 27).

La domanda posta da questo episodio del Vangelo di Giovanni è semplice e diretta: "Per quale ragione cerchiamo Gesù?" Se cerchiamo in lui semplicemente un taumaturgo, o un dispensatore di benesse o il leader carismatico di un movimento rivoluzionario egli continuerà a sfuggirci.

L'"opera di Dio" che ci chiede di compiere Gesù, e che porta l'uomo alla salvezza è la fede  (v. 28). Essa presuppone la sua accoglienza da parte nostra come Figlio di Dio e l'assunzione del vangelo come regola di vita. La fede è l'atto che precede ogni opera buona, ma al tempo stesso anche il fine dell'annuncio e della testiomnianza: che tutti gli uomini credano in Cristo. 

Preghiera

Nutrici Signore, con il pane solido e soave della tua parola di vita; affinché fortificati nella fede possiamo dedicarci incessantemente all'opera di Dio. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 18 aprile 2021

Fuori dal recinto

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DOPO PASQUA

Colletta

Dio Onnipotente, che hai donato il tuo unico Figlio affinché fosse per noi un sacrificio e un esempio di retta vita; concedici la grazia di poter ricevere sempre con gratitudine questo inestimabile beneficio e dedicare quotidianamente noi stessi alla sequela dei beati passi della sua vita. Per lo stesso tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 2,19-25; Gv 10,11-16

Commento

L'aggettivo "buono", kalòs, non indica solo una persona abile a far qualcosa, ma una persona nobile. Diversamente dai "mercenari" che fuggono davanti al pericolo, Gesù è il pastore che dà la vita per le sue pecore: "offrire la vita", "dare la vita", sono espressioni tipicamente giovannee (Gv 15,13; 1 Gv 3,16).

Nell'Antico testamento il pastore è immagine del leader ideale e del re giusto. Conoscere le pecore significa qui curarsi di loro, amarle. Gesù come pastore legittimo entra nell'ovile dalla porta. Egli conduce fuori le pecore perché possano nutrirsi. La fede in Cristo non è "una gabbia"; egli guida le sue pecore per pascoli erbosi e ad acque tranquille (Sal 23,2), affinché possano pascersi della libertà, custodite dal pericolo dei predatori. Condotti fuori dal recinto di una religiosità legalistica, siamo introdotti da Cristo nella libertà dei figli di Dio, guidati dalla sua voce, dalla sua Parola.

Il mercenario, invece, è interessato solo al suo salario, non lavora per amore del gregge, e quando viene il pericolo fugge. Queste parole dovrebbero fare riflettere ciascuno di noi su come mettiamo in pratica lo specifico ministero che lo Spirito Santo, distribuendo i suoi carismi, ci ha affidato nella Chiesa. Il monito è rivolto soprattutto a coloro che rivestono una carica pastorale, i quali devono essere mossi dalla cura dei fedeli e non dalla ricerca di benefici terreni.

Le "altre pecore" (v. Gv 10,16) di cui si fa menzione sono i pagani, ma anche i "figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11,52), le "pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6; 15,24). Queste ascolteranno la sua voce, il suo vangelo che giungerà fino ai confini della terra (At 1,8), perché chiunque è dalla verità ascolta la sua voce (Gv 18,37). Gesù riunirà in un unico corpo i giudei e i pagani, "uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione" (Ap 5,9), e questi formeranno la sua Chiesa.

Il pastore pronto alla morte per salvare le sue pecore (v. Gv 10,15) è una immagine davvero paradossale, ma esprime efficacemente il sacrificio del Cristo per noi, l'infinta distanza tra la sua natura divina e la nostra natura umana, che pure viene a cercare, mentre siamo erranti e feriti (1 Pt 2,25). Con la sua passione e risurrezione egli si fa "porta della vita" attraverso la quale possiamo passare per essere rinnovati come figli adottivi di Dio.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 16 aprile 2021

Fermati 1 minuto. La primavera del nuovo popolo di Dio

Lettura

Giovanni 6,1-15

1 Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, 2 e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi. 3 Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4 Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. 5 Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. 7 Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». 8 Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9 «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». 10 Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. 11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. 12 E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!». 15 Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.

Commento

Il miracolo della moltiplicazione dei pani per i cinquemila uomini è l'unico riportato da tutti e quattro i vangeli e precede nel Vangelo di Giovanni il discorso di Gesù sul pane di vita.

Il pane moltiplicato miracolosamente ricorda il miracolo della manna nel deserto (oggetto di riflessione durante la pasqua ebraica) e, oltrepassandolo, indica, allo stesso tempo che il vero cibo dell’uomo è il Logos, la Parola eterna, il senso ultimo dal quale veniamo "sfamati".

La folla segue Gesù per i suoi segni miracolosi (v. 2); nonostante sia mossa da curiosità egli ne ha compassione e si preoccupa di procurare il cibo necessario. Gesù non respinge una fede ancora debole e immatura, ma la educa e la nutre affinché possa crescere e rafforzarsi.

Il monte in cui avviene questa moltiplicazione dei pani è associato nei Vangeli ad altri importanti eventi: il "discorso della montagna" e la proclamazione delle beatitudini (Mt 5-7); la chiamata dei Dodici (Mc 3,13); l'apparizione di Gesù risorto e il mandato alla missione universale (Mt 28,16).

Filippo era di Betsaida, cittadina di quella regione, e forse per questo Gesù chiede a lui dove poter comprare del cibo per la folla. La domanda che Gesù rivolge a Filippo è una messa alla prova della sua fede. Il discepolo confessa la scarsità delle risorse a disposizione, di fronte a quelle che sarebbero necessarie per sfamare la folla. Un denaro (una moneta d'argento) era normalmente la paga giornaliera di un lavoratore. Duecento denari corrispondevano a circa otto mesi di salario.

Nel brano evangelico viene indicato il numero degli uomini - cinquemila - ma aggiungendo le donne e i bambini la folla doveva essere composta di circa ventimila persone. Una distesa enorme che, seduta su quel prato verdeggiante, preannunciava la primavera del nuovo popolo di Dio.

Gesù avrebbe potuto produrre i pani e i pesci necessari dal nulla, ma sceglie di moltiplicare i cinque pani e i due pesci che possiede un ragazzino (gr. paidarion). La grazia di Dio non disprezza la nostra povertà ma la trasforma in ricchezza sovrabbondante. Di qui le dodici ceste di pani avanzati dopo che tutta la folla fu saziata.

Nell'esercizio della carità - che non è solo l'elemosina, ma il sapersi donare al prossimo - Gesù ci chiede dunque fiducia e anche un po' l'ingenuità di quel ragazzino, che mise a disposizione la sua merenda per sfamare tutte quelle persone.

Il verbo eucharisteo (esser grato, ringraziare) è lo stesso usato dai Vangeli sinottici nell'ultima cena (che Giovanni non includerà nel suo Vangelo). La gratitudine verso il Padre moltiplica a dismisura gli stessi beni che ci ha donato, in modo da farci ricevere "grazia su grazia" (Gv 1,16).

Di fronte al prodigio compiuto da Gesù la folla non ha dubbi nel riconoscerlo come "il profeta che doveva venire nel mondo" (v. 14), ma non comprende che egli è venuto per dispensare se stesso per la nostra fame.

La folla desidera un Messia politico che liberi il popolo di Israele dall'oppressione romana. Rappresenta così il tipo di coloro che cercano un Cristo che non domandi nulla, ma possa soddisfare le proprie egoistiche richieste. Gesù si sottrae a chi vuole "farlo re" con queste intenzioni. Il suo ritirarsi sulla montagna, "tutto solo" (v. 15) esige che lo raggiungiamo su quelle altezze interiori con un disinteressato atto di fede e di amore.

Preghiera

La nostra anima ha fame, Signore, finché non si sazia di te. Nutrici con la tua parola di vita e soccorrici con la tua misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Benedetto Giuseppe Labre. Un "Folle per Cristo" nella Chiesa d'Occidente

Il mercoledì santo del 1783 si spegne a Roma Benedetto Giuseppe Labre, vagabondo di Dio.
Nativo del borgo di Amettes (oggi nella diocesi di Arras), nel Nord della Francia, egli ricevette un'istruzione sufficiente a leggere in latino i grandi testi spirituali del suo tempo. Benedetto avvertì fin da giovanissimo di essere chiamato alla vita monastica, ma la sua ricerca vocazionale non fu facile. Egli fu infatti rifiutato da diverse certose a motivo della sua età precoce e di una salute malferma. I trappisti, dal canto loro, non lo ritennero in grado di condurre una vita religiosa tradizionale. 
Il giovane Labre non si arrese, e a partire dai propri limiti e dal rifiuto patito giunse a discernere la chiamata a una forma di testimonianza diversa e nel contempo profondamente evangelica. Divenuto pellegrino senza fissa dimora, in cerca della città futura, Benedetto si immerse nella preghiera, che non lo abbandonerà più fino alla morte, e visitò i grandi centri dell'Europa cristiana portando nella propria borsa unicamente il Nuovo Testamento, il breviario e l'Imitazione di Cristo. 

BENEDETTO G. LABRE, stampa del XVIII sec.
Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783)

Giunto a Roma all'età di ventott'anni, egli visse vagabondando per sette anni da una chiesa all'altra e dormendo tra le rovine del Colosseo, in ascolto di poveri e pellegrini, amico di eretici e non credenti, totalmente abbandonato, come aveva sognato fin da piccolo, all'amore misericordioso di Dio. Alla sua morte si diffuse per le vie di Roma la voce: «E' morto il santo», e migliaia di poveri e di vagabondi vollero assistere in Santa Maria dei Monti ai suoi funerali. Benedetto Labre, vagabondo di Dio e povero sulle tracce di Cristo, testimonia al cuore della chiesa d'occidente una possibilità paradossale di santità, che lo accosta alle grandi figure dei «folli per Cristo» delle chiese d'oriente.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 15 aprile 2021

Fermati 1 minuto. La grazia è l'inizio della gloria

Lettura

Giovanni 3,31-36

31 Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. 32 Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; 33 chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero. 34 Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura. 35 Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36 Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio incombe su di lui».

Commento

Non si sa a chi riferire le parole di questo brano evangelico: se a Giovanni Battista, a Gesù o al suo stesso autore. Il loro significato è un profondo richiamo a orientare correttamente la nostra vita.

Gesù aveva parlato a Nicodemo della necessità di "rinascere dall'alto" (Gv 3,3); questa rinascita può realizzarsi proprio mediante l'incontro con colui che "viene dall'alto" (v. 31), il quale "è al di sopra di tutti" e la cui natura è diversa da chi "viene dalla terra". Il termine per riferirsi alla terra non è qui il kosmos, "il mondo", che ha un'accezione fortemente negativa nel Vangelo di Giovanni, ma ges e indica la differenza sostanziale tra la natura divina di Cristo e i profeti che lo hanno preceduto, uomini terreni, sebbene ispirati.

Mentre i profeti dell'Antico testamento hanno ricevuto lo Spirito secondo l'importanza dei compiti loro assegnati "colui che Dio ha mandato", Cristo, "dà lo Spirito senza misura" (v. 34). Le sue parole sono parole di vita eterna (Gv 6,68) e colui che si abbevera ad esse non avrà più sete, anzi quell'acqua diventerà in lui una sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14).

Chi crede in Cristo certifica, "pone il sigillo" (gr. sphragizo), sulla sua testimonianza e permette ad altri di avvicinarsi alla vita. Non si tratta soltanto di mettere un sigillo con le labbra, pronunciando una formula di fede, ma di testimoniare con tutto il nostro essere colui che ha sigillato con il sangue le sue parole.

Attestando da dove proviene Gesù il vangelo ci indica anche il nostro destino. Siamo dunque invitati a cercare "le cose di lassù" (Col 3,1), coltivando un misurato distacco dalle cose terrene. Queste, infatti, non solo non placano la nostra sete ma la accrescono nella misura in cui ce ne attacchiamo.

L'ultimo versetto costituisce il culmine di tutto il capitolo, ponendo due alternative: la fede genuina e la disobbedienza, aprirsi o chiudersi alla verità e alla vita. I veri credenti pregustano fin d'ora la vita eterna. La grazia è l'inizio della gloria.

Preghiera

Concedici, Signore, di camminare con lo sguardo rivolto a te, che hai ricevuto dal Padre ogni bene e desideri condividerlo con noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona