Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 31 agosto 2021

Fermati 1 minuto. Senza fargli alcun male

Lettura

Luca 4,31-37

31 Poi discese a Cafarnao, una città della Galilea, e al sabato ammaestrava la gente. 32 Rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità. 33 Nella sinagoga c'era un uomo con un demonio immondo e cominciò a gridare forte: 34 «Basta! Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? So bene chi sei: il Santo di Dio!». 35 Gesù gli intimò: «Taci, esci da costui!». E il demonio, gettatolo a terra in mezzo alla gente, uscì da lui, senza fargli alcun male. 36 Tutti furono presi da paura e si dicevano l'un l'altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?». 37 E si diffondeva la fama di lui in tutta la regione.

Commento

A seguito dell'ostilità riscontrata a Nazaret al principio del suo ministero, Gesù scende verso il lago di Genèsaret, sulle cui sponde è situata la città di Cafarnao. Qui, come il suo solito, di sabato, insegna nella sinagoga. Se a Nazaret gli ascoltatori "erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca" (Lc 4,22) a Cafarnao rimangono colpiti dal suo insegnamento perché parla "con autorità" (v. 31). 

Cosa significa questo parlare con autorità? Gesù non si limita, come era consuetudine all'epoca, a richiamare i commenti alle Scritture dei dottori del passato. Egli interpreta personalmente la parola, la rende attuale e ne applica il contenuto profetico su di sé, proprio come a Nazaret si era identificato con il messia annunciato dal profeta Isaia. 

Nella sinagoga di Cafarnao la testimonianza sulla verità delle sue parole viene data da un demonio, che lo riconosce come "Santo di Dio" (v. 34). Mentre alcuni dottori della legge, come era accaduto a Nazaret, negano la sua figliolanza divina, i demoni più volte nella narrazione evangelica fanno una professione di fede del tutto ortodossa. Gesù è costretto a metterli a tacere, per evitare che i suoi avversari pensino che egli "caccia i demòni in nome del principe dei demòni" (Mt 12,24). 

Quel che sconcerta è proprio la possibilità di riconoscere chi è veramente Gesù, ma di appartenere a un regno a lui del tutto contrapposto. Proprio su questo mette in guardia l'apostolo Giacomo: “Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano!” (Gc 2,19). Lo stesso Pietro, che aveva riconosciuto in Gesù "il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16) riceve dal Signore l'appellativo di "Satana", quando cerca di dissuaderlo dall'affrontare la sua passione. Tutto ciò attesta che la fede proclamata a parole non basta. Gesù ci chiama alla sua sequela, lungo l'itinerario tracciato dalla sua esistenza terrena, nel compimento della volontà del Padre.

L'indemoniato di Cafarnao viene liberato dopo essere stato gettato a terra, davanti a tutti (v. 35); è questa come una immagine dell'umiltà davanti a Dio e davanti agli uomini, che sola può condurci alla liberazione dal male. Nel parallelo passo di Marco si dice che il demonio straziò quell'uomo gridando forte prima di uscire da lui (Mc 1,26), ma qui si specifica che il demonio lo lascia "senza fargli alcun male". 

Quando ci affidiamo umilmente nelle mani di Cristo la nostra vita riacquista libertà. Non si tratta di praticare una religiosità cupa e intrisa di sofferenze, né di fare al nostro spirito una violenza sconsiderata, ma di pregustare fin d'ora la pace e la gioia del regno di Dio. Questi avanza, infatti, contro le forze delle tenebre, strappando loro il controllo sull'umanità, finché sarà ristabilita definitivamente la signoria di Dio, con il ritorno del suo Cristo.

Preghiera

Signore Gesù, noi ti riconosciamo come il Figlio di Dio e il re del cielo e della terra; la tua grazia venga in soccorso della nostra debolezza, affinché possiamo professare non solo con la lingua ma anche con le opere la nostra fede. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 30 agosto 2021

Fermati 1 minuto. Oggi, Gesù passa in mezzo a noi

Lettura

Luca 4,16-30

16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18 Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 e predicare un anno di grazia del Signore.
20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23 Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 24 Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25 Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
28 All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29 si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

Commento

Mentre nel Vangelo di Marco il ministero di Gesù si inaugura con l'annuncio del Regno e in quello di Giovanni con il miracolo alle nozze di Cana, nel vangelo di Luca, è a Nazaret, luogo in cui Gesù era cresciuto, che egli proclama l'adempimento delle promesse dell'Antico Testamento. 

La partecipazione al culto del sabato nella sinagoga - pratica osservata regolarmente da Gesù e continuata dai primi cristiani - è l'occasione in cui egli applica su di sé, nell'"oggi" che inaugura gli ultimi tempi, alcune parole del profeta Isaia (Is 61,1-2; 58,6), presentandosi come il Cristo, che ha ricevuto l'unzione dello Spirito santo. 

Lo scetticismo dei suoi concittadini - «Non è il figlio di Giuseppe?» (v. 22) - è dettato dal fraintendimento della missione di Gesù e dalla loro incapacità di comprendere il senso della profezia. Pur "meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca" (v. 22), si attendono qualche miracolo, sono più interessati al suo potere di guarigione che alla sua Parola. 

Nell'oggi di cui parla Gesù è proclamata invece l'inaugurazione del giubileo spirituale del Signore, venuto a liberare gli oppressi, a evangelizzare i poveri, a guarire i cuori feriti. Il giubileo, prescritto dal Levitico (Lv 25,10) con l'affrancamento degli schiavi e la restituzione dei beni patrimoniali, è qui l'immagine della porta della salvezza, spalancata dal Signore nei tempi ultimi. Dalla meraviglia, gli ascoltatori di Gesù passano presto a una reazione di rabbia omicida, non tanto per il mancato miracolo, quanto per il suo sermone, le cui parole lasciano intendere con gli esempi di Elia ed Eliseo, il rivolgersi della grazia agli stranieri a causa della durezza di cuore di Israele. 

Questo testo iniziale del Vangelo di Luca determina una circolarità con le ultime pagine relative alla passione. Vediamo infatti, in esso, prefigurate numerose immagini di quest'ultima: dalle parole di Gesù «Medico cura te stesso» (v. 23) che richiamano il dileggio da parte dei capi del tempio sotto la croce («Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto»; Lc 23,35), alla sua cacciata fuori della città - così come l'esecuzione della condanna avverrà fuori dalle mura di Gerusalemme; "fin sul ciglio del monte" - che richiama la crocifissione sul Gòlgota. 

Ma l'epilogo di questo episodio e della missione terrena di Gesù non è la croce. Il passaggio - questo uno dei significati della parola "Pasqua" (ebraico: pesach) - dalla morte alla vita, con la risurrezione e l'andarsene salendo al cielo dopo le apparizioni ai suoi discepoli sembrano richiamate dalle ultime parole di questa narrazione: "passando in mezzo a loro se ne andò" (v. 30).

Il Signore passa, nell'oggi del tempo escatologico inaugurato con la sua incarnazione; passa nell'oggi delle nostre vite, con la sua parola di speranza e liberazione. Sta a noi scegliere se seguirlo, se ignorare il suo messaggio o, peggio, opporci ad esso. Chi vediamo in lui? Il semplice figlio del carpentiere o il Messia annunciato dai profeti? Un semplice maestro delle Scritture e un taumaturgo o "il Figlio del Dio vivente?" (Mt 16,16).

Proprio nella ultime pagine del Vangelo di Luca, apparendo ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) Gesù "cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui". Dal principio del suo ministero fino alla sua ascensione egli ci guida alla comprensione del piano salvifico di Dio per noi. La sua parola non è lettera morta ma è viva, animata da quello Spirito che si manifestò durante il battesimo al Giordano e che egli ci ha donato dopo la sua ascensione. Questi ci guiderà alla verità tutta intera (Gv 16,13).

Preghiera

Signore, tu attraversi le nostre vite con la tua parola di salvezza; donaci uno spirito pronto ad accoglieri, affinché possiamo seguirti fedelmente, cosicché possiamo giungere alla gloria della risurrezione. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

domenica 29 agosto 2021

Contro l'amore non c'è legge

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TREDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente e misericordioso, dal quale proviene ogni dono al popolo fedele affinché ti serva con lodevole servizio; concedici, ti supplichiamo, di poterti servire fedelmente in questa vita, per non mancare di ricevere le tue promesse celesti; per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 3,16-22; Lc 10,23-37

Commento

Amare Dio con tutto il cuore e il nostro prossimo come noi stessi. Non vi è controversia tra lo scriba e Gesù riguardo il fatto che questo sia il primo e il più gran comandamento. Si noti che il passo parallelo di Matteo aggiunge "Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti", mentre Marco aggiunge "Non c'è altro comandamento più importante di questi", utilizzando per i due comandamenti il singolare, come a indicare che si tratta delle due facce della stessa medaglia: "Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20).

Ma chi è il nostro prossimo secondo Gesù? Nell'Antico Testamento si considera prossimo ogni membro del popolo di Israele o lo straniero che abita tra gli ebrei. In epoca più tarda sono inclusi anche i proseliti pagani, ma sicuramente non venivano inclusi i samaritani, con i quali i giudei condividevano una antica ostilità. Proprio su questo punto si concentra l'interrogativo del dottore della legge a Gesù: Chi è il mio prossimo? Gesù risponde con una parabola, il cui protagonista è un uomo derubato e malmenato. Lungo la via passano prima un sacerdote, poi un levita e infine un samaritano.

I primi due "tirano dritto", forse anche per il timore di contrarre un'impurità rituale, toccando un uomo "mezzo morto"; i cadaveri erano infatti considerati impuri. Il popolo dei samaritani, cui appartiene il terzo viandante, non adorava Dio presso il tempio di Gerusalemme, ma svolgeva un culto sincretistico sul monte Gherizim. Da qui l'ostilità degli israeliti. 

Eppure l'amore congiunge ciò che è lontano. Non annulla le differenze, ma supera "la paura del contagio". Come afferma Paolo nella sua lettera ai Galati l'amore è un frutto dello Spirito, insieme a "gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà (...) Contro tali cose non c'è legge" (Gal 5,22-23). Nessuna norma religiosa potrà mai esimerci dal prenderci cura di chi è ferito, dall'amare chi è caduto per strada "sotto i colpi dei briganti", sotto la sferza delle tentazioni e le piaghe del peccato. Come il samaritano siamo chiamati a lenire le ferite e affidare al "padrone della locanda" - che è Cristo stesso - l'uomo "mezzo morto", perché "Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva" (Ez 18,23).

Gesù estende il dovere della carità oltre i confini dei nostri steccati sociali, culturali, etnici: nostro fratello è chi ha bisogno di un'evangelizzazione che è innanzitutto dono di una parola vivente ed efficace. Cristo ci ha rivelato che nell'uomo è nascosto il volto del Dio invisibile e non è autentica una religiosità meramente cultuale, priva di ricadute sul nostro modo di essere nel mondo. È questa la condizione per ereditare la vita eterna (v. 25) perché essa appartiene a quella fede che diventa azione, non per conquistare meriti, ma per mostrare riconoscenza verso Dio che ci ha soccorso per primo. «Fà questo e vivarai» (v. 28), «Va' e fa' anche tu lo stesso» (v. 37). Il verbo "fare" apre e chiude questa narrazione evangelica.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 27 agosto 2021

Cesario di Arles e la meditazione costante delle Scritture

Il 27 agosto 543 muore Cesario, monaco e vescovo della diocesi di Arles.
Nato attorno al 470 nei pressi di Chalon-sur-Saône, Cesario partì ventenne alla volta dell'isola di Lérins, dove fu iniziato alla vita monastica. A motivo degli eccessi della sua ascesi, egli fu costretto a ritirarsi ad Arles, presso il vescovo Eone, che gli affidò la direzione di un monastero. Alla morte di Eone, nel 503 Cesario fu eletto al suo posto a reggere la diocesi in tempi di grande difficoltà dovuti al succedersi di varie dominazioni e al perdurare delle controversie pelagiane. 

Cesario di Arles (ca 470-543)

Appassionato predicatore dell'Evangelo, Cesario si adoperò con insistenza per trasmettere al clero e ai fedeli l'amore per la Parola di Dio; uomo di grande discernimento, egli presiedette alcuni sinodi importanti delle chiese di Gallia, e diede impulso alla vita monastica, rimastagli nel cuore, attraverso la composizione di regole, sia per i monaci che per le monache, nelle quali tentò nuove sintesi tra l'esperienza dei padri del deserto e il monachesimo cenobitico del suo tempo. La sua opera letteraria, piuttosto vasta anche se non sempre originale, ebbe grande diffusione in tutto l'occidente medievale.

Tracce di lettura

Sorelle, quando lavorate in gruppo, una di voi legga alle altre fino alle dieci del mattino; nel tempo che rimane, la meditazione della Parola di Dio e la preghiera interiore non dovranno interrompersi. Abbiate un cuore solo e un'anima sola nel Signore; tutto abbiate in comune, come si legge negli Atti degli Apostoli.
Quando poi pregate Dio con salmi e inni, quello che viene pronunciato con la voce si rifletta nel cuore. Qualunque cosa stiate facendo, quando non vi dedicate alla lettura, rimeditate sempre qualche punto delle divine Scritture.
(Cesario di Arles, Statuti delle sante vergini 20 e 22)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Ardano le nostre vite

Lettura

Matteo 25,1-13

1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. 6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. 13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.

Commento

La parabola delle dieci vergini esprime l'importanza di essere pronti per il ritorno di Cristo, anche se ritarda rispetto alle nostre aspettative.

Nel matrimonio giudaico lo sposto accompagna la sposa in processione dalla casa paterna alla sua. La cerimonia si svolge di notte.

Confrontando questa parabola con quella dell'uomo saggio e dell'uomo stolto (Mt 7,24-26), in cui l'elemento distintivo tra i due è la presenza o l'assenza delle buone azioni, queste potrebbero essere rappresentate nella parabola delle vergini dall'olio delle lampade.

Cristo è la luce che viene nel mondo (Gv 1,9), la sua parola risplende nelle tenebre e coloro che la fanno propria risplendono come luce davanti agli uomini (Mt 5,16). Se abbiamo fede non possiamo temere di attraversare le notti della nostra vita.

Rimaste senza olio, le vergini stolte ne chiedono alle vergini sagge, ma queste non possono dargliene; ognuno infatti sarà giudicato per se stesso: il giusto vivrà per la sua fede (Rm 1,17).

L'appello delle vergini stolte, rimaste fuori dalla porta, richiama le parole di Gesù «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»  (Mt 7,21). La stessa conclusione di questa parabola, "non vi conosco", presenta parole simili al passo prcedente del Vangelo di Matteo: «Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,23).

Il Signore viene, ma non conosciamo né il giorno né l'ora (v. 13). Ardano le nostre vite, alimentate dall'olio prezioso della sua Parola; affinché come la sposa del Cantico possiamo affermare "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2); accogliendo anche le parole dell'apostolo Paolo: "sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui" (1 Ts 5,10).

Preghiera

Signore, noi desideriamo unirci a te, nel vincolo nuziale della fede. La luce della tua Parola ci guidi verso la tua dimora. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 26 agosto 2021

Fermati 1 minuto. Vigili e responsabili

 Lettura


Matteo 24,42-51

42 Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43 Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44 Perciò anche voi state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà.
45 Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l'incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto? 46 Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! 47 In verità vi dico: gli affiderà l'amministrazione di tutti i suoi beni. 48 Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, 49 e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, 50 arriverà il padrone quando il servo non se l'aspetta e nell'ora che non sa, 51 lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti.

Commento

«Sentinella, quanto resta della notte?» si domanda la vedetta nella profezia di Isaia (Is 21,11); "Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre, tutto il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutta la notte" (Is 21,8) e il salmista: "Gli occhi miei prevengono le veglie della notte, per meditare la tua parola"  (Sal 118,148). Gesù richiama questo invito a restare vigili, per essere pronti al suo ritorno.

Come nessuno sa quando il ladro irromperà nella notte, così nessuno conosce l'ora in cui il Signore verrà a visitarci con la sua grazia. Ma la visita del Signore non ha a che fare solo con una dimesione escatologica, non ha a che fare solo con "la fine dei tempi". Egli sta alla porta e bussa (Ap 3,20). Egli ci visita attraverso le ispirazioni interne, le persone che ci circondano, i fatti che vanno succedendosi nella nostra vita. Egli è sempre presente dentro di noi; ma noi siamo presenti a lui?

Siamo dèsti e pronti a riceverlo, o siamo ottenebrati dalle molteplici distrazioni con cui il mondo ci seduce? La sua visita ci chiama a rendere conto di come abbiamo impiegato la nostra vita, le nostre abilità naturali e la nostra ricchezza. La parabola dei talenti, che Gesù pronuncierà poco più avanti, riprende proprio questo insegnamento.

Vivere con consapevolezza, "in allerta" - questo il significato della parola greca gregoreo - significa vivere in un modo che possa compiacere il Signore in ogni tempo, prendendosi cura delle necessità del prossimo (v. 45). Ma significa anche vivere in profondità, oltre il flusso di stimoli e distrazioni con cui il mondo "ci seduce", ci stanca, drena le nostre energie mentali, riducendo la nostra capacità di stare alla presenza di Dio.

L'incapacità di vegliare, di vivere consapevolmente, frantuma la nostra coscienza e ci allontana da Dio, realtà ultima e pienezza dell'essere. Beati coloro che riescono a vincere il torpore in cui vorrebbe imprigionarci il mondo, per attendere colui che "verrà a visitarci dall'alto come sole che sorge" (Lc 1,78).

Preghiera

La luce della fede illumini la nostra notte, Signore, affinché possiamo vegliare nell'attesa della tua venuta. Donaci la saggezza per amministrare rettamente quanto ci hai affidato ed essere trovati come servi fedeli al tuo ritorno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona



mercoledì 25 agosto 2021

Fermati 1 minuto. Non un sepolcro ma una sorgente di vita

Lettura

Matteo 23,27-32

27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. 28 Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, 30 e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; 31 e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. 32 Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!

Commento

Secondo la legge cerimoniale (Num 19,16) chiunque aveva toccato le ossa di un morto, o un sepolcro, era impuro per sette giorni. Per tale motivo gli ebrei dipingevano di bianco l'esterno delle tombe, cosicché le persone di pasaggio non potessero inavvertitamente essere contaminate. 

Gesù paragona la religiosità dei farisei a un lieve strato di intonaco che nasconde a malapena un cuore pieno di corruzione, capace di contagiare chi ne viene a contatto. Egli rimprovera ai farisei di innalzare monumenti ai profeti ma di essere "figli degli uccisori" dei profeti stessi. Essi infatti respingono e perseguitano Gesù, profeta dei tempi ultimi, pur mostrandosi devoti a quelli del passato. 

Gesù condanna la loro ipocrisia nell'innalzare sontuosi monumenti ai testimoni della fede, per rivestirsi di una apparenza di giustizia, ignorando i segni dei tempi e camminando nell'iniquità. La chiesa non è esente da questo pericolo; è facile "nascondersi" dietro le grandi opere di architettura religiosa, le preziose urne per le ossa dei martiri, la memoria liturgica dei testimoni della fede. 

Si tratta di un rischio trasversale a tutte le confessioni cristiane: innalzare monumenti ai santi, adorare la Scrittura o custodire con gelosia le tradizioni dei Padri non sono garanzia di fedeltà al messaggio evangelico.

Ogni singolo credente è chiamato a esaminare se stesso, per evitare di essere una scatola adorna all'esterno, ma vuota o, peggio, piena di malvagità all'interno. La nostra giustizia prima ancora che davanti agli uomini deve risplendere davanti a Dio. Solo così la tradizione potrà essere non un monumento funebre, ma "tradizione vivente" e vivificante.

Preghiera

Possano i nostri cuori, o Padre, essere sorgente di vita per noi e per chi ci circonda. La memoria del tuo Figlio e dei testimoni che ne hanno seguito le orme possa tradursi in una vita conforme all'evangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 24 agosto 2021

Bartolomeo. Dal fico della Legge alla sequela di Cristo

Le chiese d'occidente ricordano oggi l'apostolo Bartolomeo.
Originario di Cana di Galilea, nel quarto vangelo egli è chiamato Natanaele ("dono di Dio"), ed è salutato da Gesù come «un israelita senza falsità». Uomo dedito allo studio della Torah, come indica secondo la tradizione rabbinica l'episodio del fico sotto cui lo vede Gesù, egli scruta le Scritture in attesa dell'arrivo del Messia. Teso dunque a riconoscere in Gesù il Messia, Natanaele è tuttavia restio ad accogliere una figura che va al di là delle sue conoscenze e aspettative, come mostra la sua perplessa reazione alla parola rivoltagli da Filippo: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù figlio di Giuseppe di Nazaret» (Gv 1,45). Ma nel mistero dell'incontro narrato da Giovanni, Natanaele oltre a proclamare Gesù re d'Israele, cioè Messia, lo proclama anche figlio di Dio, riconoscendo che colui che si manifesta ai suoi occhi è legato da un particolarissimo legame d'intimità con il Dio d'Israele. Dopo la Pentecoste, secondo alcune tradizioni, Bartolomeo si recò a evangelizzare l'India e l'Armenia, dove morì martire, scorticato vivo.

Icone dei Santi
Bartolomeo-Natanaele

In occidente non si può tacere che la sua ricorrenza è legata a uno dei più drammatici momenti della storia cristiana: la Notte di san Bartolomeo, quando nel 1572 avvenne a Parigi e poi in tutta la Francia la strage di trentamila protestanti francesi con l'innegabile complicità di moltissimi esponenti, talora di prestigio, della chiesa cattolica.
Le chiese ortodosse ricordano Bartolomeo assieme a Barnaba, l'11 giugno.

Tracce di lettura

Natanaele ascoltò attentamente il vangelo recatogli da Filippo in quanto con estrema esattezza aveva appreso il mistero che riguardava il Signore, e sapeva che sarebbe provenuta da Betlemme la prima apparizione di Dio nella carne e che, siccome sarebbe vissuto tra i nazareni, sarebbe stato chiamato «nazoreo».
Natanaele allora, essendosi incontrato con colui che gli aveva fatto vedere lo splendore di tale conoscenza, se ne uscì con queste parole: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Allora Filippo gli si fece risolutamente guida e gli disse: «Vieni e vedi». Con ciò Natanaele, lasciato il fico della Legge, raggiunse Gesù.
E così il Logos gli conferma che egli è un puro, non un falso israelita, perché aveva mostrato che in lui si era conservata quella caratteristica che era stata del patriarca: «Ecco, disse, un vero israelita, in cui non vi è inganno».
(Gregorio di Nissa, Omelie sul Cantico dei Cantici 15)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. La croce di Cristo, scala verso il Cielo

Lettura

Giovanni 1,45-51

45 Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». 46 Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47 Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». 48 Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». 49 Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!». 50 Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!». 51 Poi gli disse: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo».

Commento

A dispetto della loro umile condizione i discepoli chiamti a sé da Gesù avevano certamente familiarità con le Scritture, tale da riconoscere che egli è «colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti» (v. 45). Essi non tengono per sé questa "scoperta" ma la condividono con gioia con i propri parenti e amici; è il caso, ad esempio di Andrea con il fratello minore Simone e di Filippo con l'amico Natanaèle. Quest'ultimo è comunemente identificato con l'apostolo Bartolomeo, per diverse ragioni. 

In Giovanni 21,2 il suo nome è messo insieme a coloro che erano stati chiamati all'apostolato; mentre il nome di Natanaèle non compare mai nei sinottici, parimenti il nome di Bartolomeo non compare mai in Giovanni, cosa che depone a favore dell'identificazione dell'uno con l'altro; inoltre Bartolomeo è chiaramente un patronimico che significa "figlio di Tolomeo", mentre Natanaèle è un nome proprio.

Natanaèle era certo un uomo pio, che come Simeone e Anna, attendeva "la consolazione d'Israele", ovvero la manifestazione del Messia. Le parole «un Israelita in cui non c'è falsità» (v. 47) lo pongono, come Zaccaria ed Elisabetta tra i giusti al cospetto di Dio. Non indicano l'assenza di peccato, ma l'assenza di ipocrisia, la semplicità di mente e di cuore, che lo rendevano disponibile ad accogliere la Parola di Dio. 

Il suo scetticismo nel ritenere che da Nazaret fosse potuto venire qualcosa di buono era probabilmente dettato dal fatto che questa era una piccola e insignificante cittadina in mezzo alle colline della Galilea e forse anche dalla tendenza dei Giudei del sud a mostrare un certo disprezzo per i Galilei, a causa del loro dialetto e dei più frequenti contatti con i gentili. La risposta di Filippo è lapidaria: «vieni e vedi» (v. 46). 

Natanaèle era avvezzo alla meditazione delle Scritture, cosa che possiamo desumere dall'espressione di Gesù «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (v. 48): è questo un semitismo che indica lo studio della Legge, che veniva spesso condotto in un luogo appartato, come un giardino, sotto la frescura di una pianta. Tuttavia la frequentazione e ruminazione assidua delle Scritture è solo il punto di partenza per l'incontro con il Cristo, che può avvenire mediante l'esperienza diretta, dalla sua sequela: "Gustate e vedete quanto è buono il Signore" afferma il salmista (Sal 33,8); e la promessa di Gesù fatta a Natanaèle è di vedere colui che fu prefigurato dalla scala di Giacobbe (Gn 28,12): il mediatore tra la terra e il Cielo, tra Dio e l'umanità. 

Se il primo uomo, Adamo, con il suo peccato, aveva chiuso i cieli alla sua posterità, Gesù, il Figlio dell'uomo, il secondo Adamo, è colui che li apre nuovamente, non solo ad Israele ma a tutta l'umanità. Gli angeli salgono e scengono continuamente per servire coloro che appartengono alla Gerusalemme celeste non per "privilegio etnico" quali figli di Israele, ma in quanto credenti "nei quali non c'è falsità". Costoro divengono testimoni dei tesori celesti, di ciò che supera le loro stesse aspettative.

Il Figlio di Dio è il mediatore attraverso il quale la grazia discende a noi dal Cielo e la nostra anima, liberata dai suoi nemici può ascendervi, gradino dopo gradino, crescendo in santità e giustizia (Lc 1,75).

Preghiera

Signore, tu ci scruti e ci conosci; concedici di cercarti con cuore sincero, nutrendoci della tua parola; chiamaci per nome, affinché seguendoti senza esitazione possiamo contemplare e condividere i tesori del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 23 agosto 2021

Fermati 1 minuto. Più che una religione

Lettura

Matteo 23,13-22

13 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. [14] 15 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
16 Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. 17 Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? 18 E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. 19 Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? 20 Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; 21 e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. 22 E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Commento

A partire da questo punto del Vangelo di Matteo abbiamo otto "guai", che fanno da contraltare alle otto beatitudini pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna.

L'espressione "guai a voi" è frequente nella tradizione giudaica profetica e apocalittica, per indicare l'orrore del peccato e la punizione di coloro che lo commettono. Non si tratta tanto di una vera e propria maledizione, ma piuttosto di una minaccia piena di sdegno per una serie di atteggiamenti che Gesù condanna.

L'accusa di ipocrisia rivolta agli scribi e ai farisei si riferisce alla loro falsità e ostentazione, ma anche all'esercizio dell'autorità in maniera tale da ostacolare l'accesso al regno dei cieli. La loro religiosità legalistica, infatti, impedisce l'esperienza della grazia e della santificazione, in un rapporto filiale con Dio. Le parole di Gesù mostrano che ogni atteggiamento sbagliato può avere non solo una ripercussione su di noi, ma anche su coloro che potremmo trarre in errore con un cattivo esempio. 

I farisei "percorrono il mare e la terra" (v. 15) con le loro campagne missionarie tra i pagani, esortandoli ad abbracciare pienamente il giudaismo mediante la circoncisione e l'accettazione degli obblighi della legge. Lo zelo caratteristico dei proseliti li rende "figli della Geenna" più dei farisei.

Gesù attacca la casistica farisaica, che rende alcuni giuramenti validi e altri no, considerando validi quelli relativi a cose minori e trascurando i doveri maggiori. Dispensado dai giuramenti fatti per il tempio, per l'altare e per il cielo, i farisei profananavano il nome di Dio; rendendo vincolante il giuramento fatto per l'oro del tempio incoraggiavano le offerte, dimostrando il proprio attaccamento al denaro.

I "guai" pronunciati contro i farisei stabiliscono uno "standard" anche per i cristiani. Quando il legalismo e la legge cerimoniale soffocano lo spirito di profezia il cristianesimo si riduce a mera religione, allontanando gli uomini dalla Chiesa, che non è un'istituzione, ma il regno dei cieli in mezzo a noi (Lc 17,20). Dio, infatti, vuole essere adorato "in spirito e verità" (Gv 4,23). 

Nessun credente si senta al di sopra degli altri, si vanti di portare al collo le chiavi del regno, ostacoli o renda più stretta la via della salvezza. Il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17), più di quanto crediamo e più di quanto a volte facciamo credere a chi è in cerca della salvezza.

Preghiera

Dona integrità alla nostra vita, Signore, affinché possiamo accogliere con coerenza il tuo vangelo, testimoniando la tua vicinanza a chi ti cerca con cuore sincero Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 22 agosto 2021

Il Signore tocca con mano la nostra infermità

COMMENTO AL VANGELO DELLA DODICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che sei più pronto ad ascoltare di quanto siamo noi a pregare, e che desideri donarci di più di quel che desideriamo o meritiamo; effondi su di noi l'abbondanza della tua misericordia; perdona ciò che turba la nostra coscienza e donaci quelle buone cose che non meritiamo di chiederti. Per i meriti e la mediazione di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore. Amen.

Letture

2 Cor 3,4-9; Mc 7,31-37

Commento

Solo Marco, l'evangelista che si rivolge principalmente ai non ebrei, riferisce questo miracolo di guarigione compiuto da Gesù tra i pagani. L'episodio diviene, dunque, simbolo della loro conversione al Vangelo. Il modo in cui Gesù compie questa guarigione è piuttosto inusuale, perché mentre di solito è sufficiente la sua parola, solo in questo caso e in quello del cieco nato (Gv 9,6) egli mette in pratica una serie di azioni, toccando con la sua saliva il malato. 

Il sordomuto è impossibilitato ad ascoltare la parola salvifica di Cristo; il cieco nato è incapace di contemplare il volto della Verità incarnata. In entrambi i casi è Gesù che viene incontro a chi abbisogna della sua grazia; se la donna affetta da emorragia si fece strada tra la folla prendendo essa stessa l'iniziativa per toccare un lembo del mantello di Gesù, nella convinzione di poter essere guarita, qui è Gesù stesso a toccare il sordomuto, dopo averlo tratto in disparte dalla folla. 

Il Signore sa di cosa abbiamo bisogno, ci conduce in un luogo tranquillo, non disdegna di toccare con mano la nostra infermità e intercede per noi presso il Padre: "guardando quindi verso il cielo emise un sospiro" (Mc 7,34); in un territorio dove si cercava aiuto presso gli idoli Gesù insegna a guardare senza timore direttamente al creatore dell'universo. Il suo sospiro sembra anticipare la fatica sotto il peso della croce, carico di quel peccato che ha reso l'umanità soggetta alla malattia e al dolore; il suo Effatà, "apriti!" richiama l'imperativo con cui egli risuscita l'amico Lazzaro, agendo con l'autorità propria del Figlio di Dio. Nella sua passione Gesù renderà l'ultimo suo sospiro al Padre e sarà il Padre stesso ad aprire il suo sepolcro con la resurrezione. 

Ma il Padre non tiene lo Spirito per sé. Lo dona ai suoi discepoli per annunciare il vangelo. Il sordomuto apre gli orecchi alla voce del Verbo e la sua lingua si scioglie "come stilo di scriba veloce" (Sal 44,2); così anche le folle, sebbene ammonite da Gesù a non dire nulla di quanto accaduto, suscitano discepoli, che riconoscono la missione salvifica di Gesù. 

Giustamente Paolo afferma nella sua seconda lettera ai Corinzi: "Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2 Cor 3,5-6). Quello Spirito che dà la vita, apre le nostre orecchie all'ascolto della Parola di Dio e scioglie le nostre lingue a proclamare quanto rivelato dall'angelo ai pastori: «vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 21 agosto 2021

Thomas Schirrmacher - Cattolici ed evangelici e le loro relazioni future - Parte 5 (Conclusione)

[Segue da Parte 4]

7. Compagni di fede

Gran parte della maggiore convergenza nell'unità tra la Chiesa cattolica e i credenti delle chiese evangeliche, carismatiche e pentecostali è il risultato del movimento carismatico in generale. Questi sottolinea in particolare la vita e l'esperienza più che seguire le teologie o le dichiarazioni delle commissioni teologiche. In tal modo sono cresciuti molti i legami personali che superano qualsiasi politica della chiesa o qualsiasi affermazione teologica. Di conseguenza, un numero crescente di cristiani cattolici e non cattolici prega insieme, legge la Bibbia insieme e persino adora insieme, anche se per impostazione predefinita senza condividere la Cena del Signore.

Gli evangelici di recente sono molto guidati dall'entusiasmo del mondo maggioritario, più che dagli stili religiosi tradizionali occidentali. E c'è una crescente confluenza tra il movimento pentecostale e l'evangelicalismo. Nel complesso, si potrebbe dire che la liturgia e la spiritualità evangeliche stanno diventando più carismatiche e nello stile pentecostale, mentre una parte crescente della teologia pentecostale sta diventando evangelica per impostazione. Oggi, nel complesso, il movimento pentecostale è parte integrante del movimento evangelico e della WEA. All'interno dei vertici della WEA, spesso è difficile distinguerli, se non si chiede specificamente alle persone la loro affiliazione.

C'è un secondo fattore che contribuisce oggi al senso di unità spirituale. Questo è il gran numero di credenti cristiani che affrontano la persecuzione e il martirio per Cristo. Come ha più volte sottolineato papa Francesco, chi uccide i cristiani a causa della loro fede non fa distinzione tra le diverse chiese e confessioni. Uccidono le persone perché prendono il nome dal loro Salvatore Gesù Cristo, perché pregano Gesù Cristo o perché seguono i comandamenti e i principi di Gesù Cristo (Ap 12,17; 14,12). In mezzo a sofferenze estreme, cristiani di diverse chiese sono stati riuniti e hanno trovato riposo nell'adorare Dio insieme. Presto nella mia vita, ho trovato molto difficile mettere in discussione la fede dei martiri, o di chiunque fosse disposto a rischiare la vita per Gesù, solo perché apparteneva a una chiesa di cui mettevo in discussione la teologia.

La mia convinzione personale, che Papa Francesco è un credente pieno di Spirito Santo, deriva prima di tutto dalle mie preghiere con lui, anche se è supportata dalla mia valutazione di ciò che dice e rappresenta.
 
Questo mio giudizio personale non vincola gli altri. Evangelici, Carismatici e Pentecostali di tutto il mondo si sono sempre presi la libertà di usare la loro esperienza reale e lo studio degli altri come base per valutare la propria fede. Quando anglicani e pentecostali all'interno della WEA condividono la cena del Signore, è più sulla base della reciproca esperienza spirituale che del risultato del lavoro di una commissione teologica. All'interno della WEA, vedo varie chiese e cristiani che lavorano felicemente, pregano e adorano insieme, e concludo da quelle osservazioni che lo Spirito Santo negli altri può essere sentito o sperimentato o comunque tu voglia descriverlo, anche se questo giudizio non è assoluto e sicuramente non sostituisce il giudizio finale di Dio.

Pertanto, poniamoci la domanda chiave che è in gioco: le differenze dottrinali possono essere superate dall'esperienza personale nella preghiera comune e nell'unità sentita?

Cominciamo con un lato della storia. Penso che ci sia un posto valido per quel tipo di esperienze e giudizi privati. La fede cristiana è una cosa molto personale. Lo Spirito Santo non riempie solo il corpo di Cristo collettivamente, né è conferita solo ai suoi capi; piuttosto, riempie ogni singolo credente. Ogni credente ha la sua storia con Dio. Ogni credente non dovrebbe solo essere in grado di recitare frasi corrette agli altri, ma dovrebbe avere fiducia in Dio stesso, comprendere ed esprimere la sua fede - nell'ambito dei suoi doni e capacità - ed essere in grado di "testimoniare" della sua fede, cioè di spiegare l'immutabile rivelazione di Dio alla luce della sua vita e della sua esperienza in continuo cambiamento. La fede cristiana si incarna nella vita reale e nella storia delle relazioni personali, con Dio e con gli uomini, perché amare Dio e amare il prossimo come se stessi sono i comandamenti più alti.

Il Concilio Apostolico di Atti 15,1-33 trattava di una questione teologica molto seria. L'intera chiesa si riunì: gli apostoli, gli anziani, i delegati delle chiese e le missioni apostoliche. Il risultato finale fu riassunto dalla persona che presiedeva, Giacomo, che ha affermò che la conclusione del Concilio doveva essere vera perché era in linea con la Scrittura. Ma anche se l'interpretazione e la dichiarazione della Scrittura da parte delle autorità era il passo finale del Concilio, la discussione teologica in realtà si è incentrata sui resoconti di esperienze. Pietro, Paolo e Barnaba ebbero un ruolo importante per le tante storie commoventi che raccontarono, sostenendo che Dio aveva già deciso la cosa mandando il suo Spirito Santo sui pagani, come loro avevano assistito. Atti ci dice che Pietro si rivolse a coloro che erano radunati come segue: “Fratelli e sorelle, voi sapete che tempo fa Dio ha fatto una scelta tra di voi affinché i Gentili potessero ascoltare dalle mie labbra il messaggio del Vangelo e credere. Dio, che conosce il cuore, ha mostrato di averli accolti donando loro lo Spirito Santo, come ha fatto con noi» (At 15,7-8). E Atti aggiunge: «Tutta l'assemblea tacque mentre ascoltava Barnaba e Paolo che narravano dei miracoli e dei prodigi che Dio aveva operato per mezzo di loro tra i pagani» (15,12). Raccontare quelle storie era teologia cristiana e biblica al suo meglio, non un metodo inferiore di argomentazione teologica! Il Concilio Apostolico ha seguito la guida ufficiale, la ragione, l'esperienza e infine la Scrittura. I quattro non si escludono, ma si rafforzano a vicenda!

Anche nel Nuovo Testamento è chiaro che dobbiamo prima di tutto giudicare noi stessi: “Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi? A meno che la prova non sia contro di voi!" (2 Cor 13,5). Ciò vale anche per la cena del Signore: «Ciascuno esamini se stesso prima di mangiare il pane e di bere dal calice» (1 Cor 11,28).

Guardiamo ora all'tro lato della storia. Tutto ciò non sostituisce la necessità di affrontare questioni dottrinali molto serie. La fede cristiana segue la rivelazione affidata alla scrittura, ed è una religione dottrinale fondata su fatti storici. La Sacra Scrittura è importante per la fede e per la chiesa quanto lo Spirito Santo, suo autore e unica garanzia che la volontà di Dio possa concretizzarsi nella nostra vita quotidiana.
 
Penso che la tensione tra esperienze di unità e consapevolezza di profonde differenze dottrinali sia la miseria sentita da molti impegnati nel dialogo intra-cristiano. Sappiamo che Dio vuole che tutti i cristiani si uniscano nella preghiera, eppure vediamo una lunga strada davanti a noi quando si tratta di superare le differenze teologiche, a volte sembra anche una strada senza fine.

“Vivi una vita degna della chiamata che hai ricevuto”

A questa tensione si aggiunge il fatto che lavorare per l'unità del corpo di Cristo non è un'opzione che possiamo mettere da parte per il momento, ma un chiaro comando di Gesù (es. Gv 17) e degli apostoli (es. Ef 4) . Potremmo evitare questa tensione se l'unità fosse solo una cosa bella da avere, non una necessità. Potremmo semplicemente essere contenti del campo in cui ci troviamo e smettere di perdere tempo in dispute teologiche. Ma non abbiamo scelta qui; finché la nostra unità è incompleta, dobbiamo continuare a lottare per essa.

La storia dell'Alleanza Evangelica dal 1846 ad oggi mostra una forte preoccupazione per l'unità di tutti i cristiani. Siamo tutti impoveriti se non siamo uniti. Sì, questa deve essere un'unità nella fede, un'unità teologicamente fondata. Ma l'idea non è mai stata che l'appartenenza alla WEA definisca chi è dentro e chi è fuori dal corpo di Cristo, ma che la WEA sia uno strumento per lavorare verso l'unità dell'intero corpo di Cristo.

Il Global Christian Forum è stato avviato 25 anni fa dal Vaticano, dal Consiglio Mondiale delle Chiese, dall'Alleanza Evangelica Mondiale e dalla Pentecostal World Fellowship come un luogo di incontro tra  i leader cristiani al di fuori di tutti questi organismi. Coloro che sono furono coinvolti in questa impresa credevano che la missione di unità di Gesù non si esaurisse con i nostri confini organizzativi e che tutti quegli organismi non dovrebbero esistere per amore dell'appartenenza fine a se sttesso, ma che fosse necessario aggiungere l'obiettivo dell'unità fra tutti coloro che credono che Gesù Cristo è Dio e il loro Salvatore. Oggi molti dei cauti osservatori degli anni precedenti sono partecipanti vitali al Forum.

Siamo anche consapevoli che l'appartenenza istituzionale delle nostre chiese non è identica al corpo di Cristo, cioè a tutti coloro che confidano in Gesù Cristo come loro Salvatore e sono fratelli e sorelle di Gesù stesso. Insieme a Geoff Tunnicliffe, che all'epoca era Segretario Generale della WEA e presentava una visione evangelica dell'evangelizzazione, ho partecipato al Sinodo dei Vescovi sull'evangelizzazione presieduto da Papa Benedetto XVI, discutendo su come evangelizzare quei cattolici che sono membri della Chiesa attravers il battesimo ma non mostrano alcun segno di fede o di vita cristiana. Papa Francesco ha detto spesso che un'appartenenza "di carta" alla Chiesa non ci salva. Per gli evangelici, è ovvio che i cristiani nominali che appartengono alle nostre chiese ma non credono in Gesù come loro Salvatore non sono membri del corpo di Cristo.

Non c'è via di fuga. Il corpo di Cristo non può vivere senza dottrina o senza chiare formulazioni di verità teologiche. Ma nemmeno possiamo cedere il nostro impegno fondamentale all'obiettivo dell'unità nella fede. La nostra esigenza di perseguire l'unità dei cristiani è essa stessa una dottrina cristiana.

Naturalmente, i mezzi per esprimere quell'unità davanti al mondo che guarda possono (e dovrebbero) essere discussi, ma non possiamo ignorare la preghiera di Gesù per la chiesa in Giovanni 17,18-23 solo perché viverla potrebbe essere molto difficile e sembrare irrealistico . In effetti, l'Alleanza Evangelica Mondiale è stata fondata proprio per incarnare questa preghiera.

Gesù ha pregato: “Come voi avete mandato me nel mondo, io ho mandato loro nel mondo. La mia preghiera non è solo per loro. Prego anche per coloro che crederanno in me attraverso il loro messaggio, affinché tutti siano uno, Padre, come tu sei in me e io sono in te. Che siano anche in noi perché il mondo creda che tu mi hai mandato. Ho dato loro la gloria che tu mi hai dato, perché siano uno come noi siamo uno, io in loro e tu in me, affinché siano portati a una completa unità. Allora il mondo saprà che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Giovanni 17:18-23).

Questa è la cornice più grande possibile. Nella sua unità, la chiesa rispecchia l'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La sua unità predica forte e chiaro al mondo. Solo Dio può creare questa unità del corpo di Cristo attraverso la riconciliazione nel suo sangue, come insegna chiaramente Paolo in Efesini 2,11-22 usando l'esempio di credenti di origine ebraica e non ebraica. Come esseri umani tendiamo costantemente a costruire muri tra di noi, che possono essere superati solo attraverso la riconciliazione di Dio con noi e tra di noi.

Ma è vero anche il contrario: la disunione e una cacofonia di messaggi cristiani al mondo ostacolano la diffusione della buona novella.

Tutti i grandi movimenti ecumenici della storia hanno cercato l'unità per amore della missione cristiana. Questo era vero per l'Alleanza Evangelica Mondiale quando unì le chiese protestanti nel 1846, così come fu vero per il Consiglio Mondiale delle Chiese nel 1948 che univa le chiese protestanti, ortodosse e orientali. Quando Papa Francesco ha visitato il CEC a Ginevra per il suo 70° compleanno, ha scelto di richiamare quell'organizzazione alla sua storia di mettere al primo posto la missione, affermando che senza la testimonianza del Vangelo, nessuna unità sarebbe stata possibile (vedi https://www.bucer.org/resources/resources-search/details/bonner-querschnitte-342019-ausgabe-598-eng.html).

Di nuovo, non si tratta di sminuire le nostre differenze teologiche. Per i cristiani l'unità deriva dalla verità, non da compromessi a buon mercato. Sì, ci sono modi sbagliati per creare unità tra i cristiani. Trovare il minimo comune denominatore è uno di quei modi sbagliati. In questo approccio, il Vangelo tende a diventare sempre più piccolo con ogni nuovo giocatore che viene coinvolto. Anche solo seguire la maggioranza o l'attore più potente è un modo sbagliato.

Ma nessun avvertimento necessario sui modi sbagliati per raggiungere l'unità dei cristiani può vanificare il nostro compito di lottare per l'unità del corpo di Cristo e di proclamare un Signore, una voce, un corpo, come è affermato in Efesini 4,1-6: "Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti".

Vivere in unità significa “vivere una vita degna della nostra chiamata”. Tre volte in Efesini 4, Paolo menziona la nostra chiamata come cristiani in questi versetti come base per l'importanza di cercare l'unità. Essere cristiani implica essere umili, gentili e pazienti verso tutti, specialmente gli altri cristiani.

Questo significa che dovremmo dimenticare la verità? No! Se c'è un solo “Dio” (theos), allora alla fine può esserci solo una verità su Dio (teologia). Se c'è un solo "Spirito" e se è compito dello Spirito condurci a tutta la verità, lo Spirito e la sua verità non ci divideranno ma ci uniranno. E se c'è solo “una fede”, non dobbiamo mai scegliere tra unità e fede; piuttosto, una fede più profonda e più chiara porterà sempre all'unità, e una maggiore unità porterà a una fede più profonda e comune.

In Efesini 1–3, Paolo usa un insegnamento approfondito per prepararsi a Efesini 4. Ci rivela chi è Dio e chi è Gesù; spiega il perdono, la risurrezione, l'ascensione e altri temi centrali dell'insegnamento cristiano. Bisogna rileggere questi capitoli più e più volte per comprendere tutta la profondità del loro messaggio. Paolo dipinge una magnifica immagine dello scopo universale di Dio per la chiesa di Gesù Cristo. È così magnifico che sembra abbastanza distante dalla realtà delle nostre chiese locali spesso brutte.
 
Quindi quale risultato pratico ha l'insegnamento in Efesini 1–3? È facile: “Così vi esorto” (Efesini 4,1) a vivere e lavorare per l'unità! Gli ammonimenti di Paolo in Efesini 4 non sono la fine della rivelazione e dell'insegnamento biblici, ma il loro risultato pratico. “Invece, dicendo la verità nella carità, in ogni cosa cresceremo verso colui che è il Capo, cioè Cristo” (Efesini 4,15).

Preghiamo che lo Spirito di Dio ci protegga dai modi sbagliati di perseguire l'unità dei cristiani, ma ancor più che facciamo dei percorsi veramente biblici e spirituali verso l'unità dei cristiani, il centro del nostro pensiero sull'unica chiesa, l'unico corpo di Gesù Cristo.

AMEN.

Thomas Schirrmacher

venerdì 20 agosto 2021

Bernardo di Chiaravalle, dalla memoria alla presenza di Dio

Le chiese cattolica, anglicana, luterana e maronita ricordano il 20 agosto Bernardo di Chiaravalle, monaco e fondatore dell'abbazia di Clairvaux. Nato nel 1090 a Fontaines, presso Digione, a 21 anni Bernardo si sentì attratto dalla vita monastica. Entrò così, portando con sé una trentina di parenti e amici, nel Nuovo Monastero (così fu chiamato) fondato a Cîteaux pochi anni prima da alcuni monaci che avevano lasciato il monastero di Molesme per iniziare una vita più fedele alla Regola di Benedetto. L'impulso dato da Bernardo alla riforma cistercense fu enorme. Divenuto già nel 1115 abate della nuova fondazione di Clairvaux, a partire da essa egli diede origine a più di sessanta monasteri in tutta l'Europa. Uomo dotato di un carattere forte, ricco di dolcezza e di capacità di amare e farsi amare, Bernardo seppe interpretare l'itinerario della ricerca di Dio, imprescindibile secondo la Regola di Benedetto, come un progressivo passaggio dalla memoria Dei alla presentia Dei nel cuore del monaco; tale passaggio avviene, secondo Bernardo, grazie all'accoglienza della Parola di Dio nella fede e all'esercizio faticoso ma gioioso della carità fraterna. Al centro della sua rilettura della Regola sta infatti l'interpretazione del monastero come «scuola di carità». Fu assiduo ascoltatore delle Scritture, e tutta la sua teologia non fu che un loro commento, nel solco della tradizione dei padri e a partire dalla propria esperienza dell'incontro fra l'umano e il divino. Di tale incontro, che egli chiama «le visite del Verbo», il grande padre cistercense ci ha lasciato una splendida testimonianza letteraria nei suoi Sermoni sul Cantico dei cantici, rimasti incompiuti.

Tracce di lettura

La carità procede da tre cose: da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera. Dobbiamo la purezza al nostro prossimo, la buona coscienza a noi stessi, la fede a Dio. La purezza consiste in questo, che qualsiasi cosa la si faccia a utilità del prossimo e per l'onore di Dio. Ma è anzitutto davanti al prossimo che è necessario manifestarla, perché davanti a Dio noi siamo senza veli. Invece al prossimo non possiamo essere conosciuti se non a misura di quanto gli apriamo il nostro cuore. Due cose fanno in noi una buona coscienza, e cioè la penitenza e la continenza. Con la prima scontiamo i peccati commessi, e con la continenza cerchiamo di evitare in futuro di peccare. Infine, rimane la fede sincera, che si deve presentare a Dio con vigilanza, onde non capiti di offenderlo con il nostro modo di comportarci verso il prossimo. Si dice sincera, senza finzioni, a differenza della fede morta, quella che è senza le opere, crede per un certo tempo, e nel tempo della tentazione viene meno.(Bernardo, Sermoni diversi 45,5)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Bernardo di Clairvaux (1090-1153)

Fermati 1 minuto. Il grande comandamento

Lettura

Matteo 22,34-40

34 I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; 35 e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» 37 Gesù gli disse: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". 38 Questo è il grande e il primo comandamento. 39 Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».

Commento

Dopo avere messo alla prova Gesù con la pericolosa domanda se fosse lecito pagare il tributo a Cesare i farisei "tornano all'attacco" ponendogli una questione che non rischia questa volta di attirargli l'ostilità delle autorità politiche romane, ma delle diverse correnti farisaiche, in disputa tra loro per l'interpretazione delle Scritture. 

Viene dunque chiesto a Gesù qual è il più grande dei precetti della legge. I comandamenti riconosciuti dai maestri ebrei sono in tutto 613, di cui 365 negativi (proibizioni) e 248 positivi. Sarebbe stato facile, dunque, offrire una risposta capace di suscitare una disputa e inimicarsi coloro che lo riconoscevano come  maestro della legge. 

Gesù si spinge oltre e indica non solo quello che ritiene essere il primo comandamento e il più grande, ma anche il secondo, simile - nel testo greco omoía, della stessa sostanza - a questo, che è "Ama il tuo prossimo come te stesso" (v. 39). In questi due comandamenti Gesù riassume le due tavole della Legge: la prima, con i doveri verso Dio, e la seconda, con i doveri verso il prossimo. 

Allo stesso tempo indica che precetti, astensioni e azioni rituali hanno senso solo se suscitati dall'amore. "L'amore è l'adempimento della legge", affermerà, fedelmente al vangelo, l'apostolo Paolo nella sua lettera ai romani (Rm 13,10). Mentre Giovanni nella sua prima lettera evidenzia chiaramente il nesso tra i due comandamenti: "Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto" (1 Gv 4,20). L'esercizio della carità, verso l'uomo fatto a immagine di Dio e riscattato dal sangue del suo Figlio, è il parametro  per comprendere quanto è grande il nostro amore verso Dio.

E tuttavia, pur nella loro complementarietà i due comandamenti mostrano un'importante differenza: mentre Dio va amato "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente" (v. 37), il prossimo va amato "come te stesso" (v. 39). La carità messa in pratica dal cristiano è diversa dal semplice attivismo sociale, non nasce da un'utopia determinata da una visione puramente orizzontale.

La croce descrive la dimesione duplice del "più grande comandamento" (v. 36), declinato al singolare ma articolato in due regole di vita. L'asse verticale, proiettato verso l'alto - verso Dio - consente a quello orizzontale di abbracciare un panorama più ampio, estendendo le braccia della carità verso ogni uomo.

Preghiera

O Dio, noi riconosciamo verso di te un debito di amore senza misura; e poiché hai tanto amato l'uomo da donargli il tuo Figlio unigenito ci impegnamo ad amare i nostri fratelli e le nostre sorelle a gloria del tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 19 agosto 2021

Guerrico d'Igny e la generazione del Verbo nell'anima

Il 19 agosto 1157 muore nella propria abbazia Guerrico, abate di Igny.
Nato tra il 1070 e il 1080 a Tournai, in Belgio, Guerrico fu canonico e maestro di teologia in quella stessa città. Amante della solitudine e della preghiera, quando aveva ormai più di quarant'anni egli andò a trovare Bernardo e decise di diventare monaco a Clairvaux. Nel 1138 fu nominato abate di Igny, incarico che assolse con amore paterno e con grande dolcezza fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle sue predicazioni, che altro non sono se non una continua ruminazione e un approfondimento dei testi biblici e liturgici meditati nella preghiera comunitaria, Guerrico invita quanti lo ascoltano a lasciare che il Verbo si formi nelle loro anime come nel seno della madre del Signore, attraverso l'assiduità con le Scritture e un'ascesi orientata alla carità.
La sua vita fu più che mai attesa del ritorno del Signore, testimonianza che ricorda ai monaci e alla chiesa tutta il primato della ricerca del regno di Dio e della sua giustizia.

Tracce di lettura

Presta, come dice la Scrittura, un attento ascolto: infatti la fede viene dall'ascolto e l'ascolto è quello della parola di Dio. Contempla l'ineffabile generosità di Dio e insieme la potenza di questo mistero che non si lascia penetrare: colui che ti ha creato, è creato in te e, come se fosse poca cosa che tu lo abbia per Padre, vuole anche che tu gli divenga madre. «Chiunque - dice - fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre». O anima fedele, allarga il tuo seno, dilata gli affetti, non angustiarti nel tuo cuore, concepisci colui che la creatura non può contenere! Apri alla Parola di Dio il tuo orecchio per ascoltare. Questo è il mezzo per cui lo Spirito fa concepire fin nel profondo del cuore.
(Guerrico d'Igny, Sermone II sull'Annunciazione 4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Guerrico d'Igny (1070/1080-1157)

Fermati 1 minuto. La veste giusta per le nozze

Lettura

Matteo 22,1-14

1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Commento

All'inizio della sua missione, Gesù, manda i suoi discepoli raccomandanosi di rivolgersi "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6); la stessa intenzione egli esprime apertamente di fronte alla donna cananea che chiede la guarigione della figlia tormentata da un demonio: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 15,24). Ma siamo ora agli ultimi giorni della sua esistenza terrena e in questa parabola, che precede i sermoni profetici sulla fine dei tempi, Gesù prende definitivamente atto del rifiuto che proprio la casa d'Israele gli ha riservato. Egli esprime  in maniera ormai del tutto aperta la propria natura messianica e regale. 

In questa parabola, da non confondere con la quella "del gran convito" presente nel vangelo di Luca (Lc 14,15-24) non è un uomo comune a organizzare il banchetto ma un re che prepara le nozze del suo figlio. Qui, inoltre, gli invitati, non si limitano a rifiutare l'invito adducendo delle scuse, ma alcuni mostrano noncuranza mentre altri oltraggiano e uccidono i servi del padrone. Vi è un chiaro riferimento al rifiuto del vangelo da parte dei giudei, che giungeranno a crocifiggere il Cristo e, successivamente, a perseguitare i suoi discepoli. 

La distruzione della città degli invitati sembra una chiara allusione all'assedio e distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C. ed è significativo che, nella parabola avvenga prima dell'estensione dell'invito a "chiunque troverete", "cattivi e buoni" (v. 9-10): la salvezza è ormai estesa al di fuori dei confini del popolo di Israele, comprendendo la moltitudine delle genti. L'ingresso del re, per vedere i commensali, rispecchia una consuetudine di corte: il re entrava nella sala da pranzo sempre per ultimo, quando i commensali avevano già preso posto. L'allusione è chiaramente al giudizio alla fine dei tempi.

Il re scorge tra i tanti commensali un uomo privo della veste nuziale, simbolo della fede, requisito indispensabile per partecipare al banchetto celeste. L'uomo è gettato nelle tenebre dove vi è pianto e stridore di denti, a rappresentare il giudizio di Dio alla fine dei tempi. La frase finale attesta la chiamata dei "molti" ovvero la grazia elargita alle moltitudini, ma l'elezione che spetta soltanto a coloro che l'hanno accolta.

È chiaro che non possiamo identificare negli indifferenti e in coloro che perseguitano i servitori del re soltanto i giudei che rifiutarono Gesù. Ancora oggi tra le genti e persino tra gli stessi cristiani vi sono tanti che non si curano dell'annuncio dell'evangelo o che mostrano una fede solo esteriore. 

Accogliamo con gioia l'invito alle nozze di Cristo con la sua Chiesa, ma non gloriamoci di essere semplicemente tra i suoi commensali; ciascuno si rivesta del Signore Gesù (Rm 13,14), "esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice" (1 Cor 11,28).

Preghiera

Ti ringraziamo, o Padre, per l'invito alle nozze del tuo figlio con la sua Chiesa. Rivestiti della veste che tu stesso ci hai donato, vogliamo lodare in eterno la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona



mercoledì 18 agosto 2021

Filosseno di Mabbug. La deificazione dell'uomo per mezzo dell'amore

Nel 523 a Filippopoli, in Tracia, termina la sua parabola terrena Filosseno, metropolita di Mabbūg in Siria. Aksenaya, questo il suo originario nome siriaco, era nato attorno alla metà del V secolo a Tahal, in Persia. Frequentata la scuola di Edessa in un periodo di grandi controversie cristologiche e di forti instabilità politiche, il giovane studioso rivelò presto tutte le sue qualità di uomo di azione e di pastore attraverso un'eloquenza e una fecondità letteraria fuori del comune.
Mosso dall'incessante desiderio di conservare intatto il cuore del cristianesimo, che per lui consiste nel fatto che Dio è diventato uomo perché l'uomo diventi Dio, Filosseno scrisse per tutta la vita opere esegetiche, dogmatiche e spirituali a sostegno della sua visione e per convincere i fedeli della diocesi di Edessa, di cui fu fatto vescovo nel 485, e quanti guardavano a lui come a un maestro, a condurre una vita di assimilazione al Cristo sofferente e umiliato attraverso l'acquisizione dell'amore; solo così, egli riteneva, il credente avrebbe potuto prendere parte allo «scambio» fra Dio e l'uomo, offerto dal Cristo salvatore. Perseguitato a più riprese dagli imperatori e dai patriarchi antimonofisiti, Filosseno finì la vita in esilio. È considerato uno dei più grandi dottori della chiesa giacobita.

Tracce di lettura

Ognuno si raffigura Dio a seconda di come vede se stesso. Se è al grado dei peccatori, vede Dio come giudice. Se è salito al secondo grado, quello dei penitenti, Dio si mostra a lui con il perdono. Se è al grado dei misericordiosi, scopre l'abbondanza della misericordia di Dio. Se ha rivestito dolcezza e mansuetudine, gli apparirà la benevolenza di Dio. Se ha acquisito un'intelligenza sapiente, contemplerà l'incomprensibile ricchezza della sapienza divina. Se ha rinunciato alla collera e al furore, se la pace e la calma regnano in lui in ogni momento, è elevato all'inconfondibile purezza di Dio. Se la fede risplende incessantemente nella sua anima, egli guarda in ogni istante l'incomprensibilità delle opere di Dio, e ha la certezza che anche quelle ritenute spiegabili sono al di sopra di qualsiasi spiegazione. Se sale poi al livello dell'amore, giunto in cima a ogni grado vede che Dio non è altro che amore.
Tu lo vedrai come egli è, quando sarai divenuto come lui.
(Filosseno di Mabbūg, Omelie 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Innario siriaco

Dizionario della Musica Anglicana. Lennox Berkeley

Lennox Berkeley nacque il 12 maggio 1903 a Oxford, in Inghilterra, figlio minore e unico figlio maschio di Aline Carla (1863-1935), figlia di Sir James Charles Harris, ex console britannico a Monaco, e del capitano della Royal Navy Hastings George Fitz-Hardinge Berkeley ( 1855-1934), figlio illegittimo e primogenito di George Lennox Rawdon Berkeley, VII conte di Berkeley (1827-1888).

Lennox Berkeley (1903-1989)

Frequentò la Dragon School di Oxford, poi la Gresham's School, a Holt, Norfolk e la St George's School di Harpenden, nell'Hertfordshire. Studiò francese al Merton College di Oxford, laureandosi nel 1926.

Nel 1927 si recò a Parigi per studiare musica con Nadia Boulanger, e lì conobbe Francis Poulenc, Igor Stravinsky, Darius Milhaud, Arthur Honegger e Albert Roussel. Berkeley studiò anche con Maurice Ravel, spesso citato come un'influenza chiave nello sviluppo tecnico di Berkeley come compositore.

Nel 1936 incontrò Benjamin Britten, anche lui ex allievo della Gresham's School, all'International Society for Contemporary Music (ISCM) Festival di Barcellona. Berkeley si innamorò di Britten, che sembra essere stato cauto nell'intraprendere una relazione, scrivendo nel suo diario, "siamo arrivati ​​a un accordo su questo argomento". Tuttavia, i due compositori hanno condivisero una casa per un anno, vivendo nell'Old Mill at Snape, Suffolk, che Britten aveva acquistato nel luglio 1937. Successivamente hanno goduto di una lunga amicizia e associazione artistica, collaborando a una serie di opere; queste includevano la suite di danze catalane intitolata Mont Juic e Variazioni su un tema elisabettiano.

Berkeley lavorò per la BBC durante la seconda guerra mondiale, dove incontrò la sua futura moglie, Elizabeth Freda Bernstein (1923-2016) che sposò il 14 dicembre 1946. Insieme ebbero tre figli.

Scrisse diverse opere per pianoforte per il pianista Colin Horsley, che commissionò il Trio per corno e alcuni pezzi per pianoforte, diede le prime esecuzioni e realizzò le prime registrazioni di alcune sue opere, incluso il terzo Concerto per pianoforte (1958).

Fu professore di composizione alla Royal Academy of Music dal 1946 al 1968.

Il 1954 vide la prima della sua prima opera, Nelson, al Sadler's Wells.

Risiedette all'8 di Warwick Avenue, Londra, dal 1947 fino alla sua morte nel 1989. Il 20 marzo 1990 si è tenuto un servizio commemorativo per lui nella Cattedrale di Westminster, Londra.

La prima musica di Berkeley è ampiamente tonale, influenzata dalla musica neoclassica di Stravinsky. Il contatto e l'amicizia di Berkeley con compositori come Ravel e Poulenc e i suoi studi a Parigi con Boulanger conferiscono alla sua musica una qualità "francese", dimostrata dalla sua "enfasi sulla melodia, le trame lucide e una concisione di espressione". Mantenne una visione negativa della musica atonale almeno fino al 1948, quando scrisse:

"Non sono mai stato in grado di trarre molte soddisfazioni dalla musica atonale. L'assenza di chiave rende impossibile la modulazione, e questo, a mio avviso, causa monotonia [...] Non sono, ovviamente, favorevole ad aderire rigidamente al vecchio sistema di chiavi, ma una sorta di centro tonale rappresenta per me una necessità". (Dickinson, Peter (2003). La musica di Lennox Berkeley (2a ed.). Woodbridge: The Boydell Press. p. 161).

Tuttavia, dalla metà degli anni '50, Berkeley apparentemente sentì il bisogno di rivedere il suo stile di composizione, dicendo in seguito al compositore canadese R. Murray Schafer che "è naturale per un compositore sentire il bisogno di ampliare il proprio idioma". Iniziò a includere aspetti della tecnica seriale nelle sue composizioni intorno al periodo del Concertino op. 49 (1955) e dell'opera Ruth (1955-6). Il suo cambiamento di opinione è dimostrato in un'intervista con The Times nel 1959:

"Non sono contrario alla musica seriale; Ho tratto beneficio dallo studio, e qualche volta mi sono ritrovato a scrivere temi seriali, anche se non li elaboro secondo rigidi principi seriali, perché sono decisamente un compositore tonale. E ci sono alcune eccezioni al vangelo dell'intellettualizzazione: mi è piaciuto molto ascoltare il disco di Le marteau sans maître di Boulez, perché lì i timbri della musica erano attraenti di per sé". (Dickinson, ed. Peter (2012). Lennox Berkeley e amici: scritti, lettere e interviste. Woodbridge: Boydell Press. p. 110).