Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 30 giugno 2023

Fermati 1 minuto. La comunione ritrovata

Lettura

Matteo 8,1-4

1 Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. 2 Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi a lui dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi». 3 E Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii sanato». E subito la sua lebbra scomparve. 4 Poi Gesù gli disse: «Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va' a mostrarti al sacerdote e presenta l'offerta prescritta da Mosè, e ciò serva come testimonianza per loro».

Commento

Sotto il termine di lebbra, nell'Antico Testamento, venivano indicati diversi tipi di lesioni e imperfezioni sia della pelle umana che di stoffe, pelli o pareti domestiche. Essendo considerata la lebbra uno dei sintomi più gravi dell'impurità e tale perciò da comportare l'esclusione dalla comunità ebraica il lebbroso chiede a Gesù non semplicemente di essere guarito ma di purificarlo (gr. katharizai). Toccandolo, e contravvenendo in questo modo alle prescrizioni giudaiche (Lv 5,3), Gesù lo restituisce alla vita sociale. Il fine della legge è infatti il bene dell'uomo (Mc 2,27).

Mentre nel successivo miracolo descritto da Matteo, quello per la guarigione del servo del centurione, Gesù opera a distanza, nel caso del lebbroso questi necessita di un contatto fisico, che gli era stato negato durante la sua infermità.

Il lebbroso non ha alcun dubbio sulla capacità di Gesù di guarirlo, ma solo sulla sua volontà: "Signore, se tu vuoi puoi sanarmi" (v. 2).

L'intimazione al lebbroso di non dire ad alcuno della sua guarigione è dovuta alla necessità di Gesù, in questa fase del suo ministero, di non attirare l'ostilità delle autorità religiose e di non attirare l'attenzione delle folle sui suoi miracoli, ma sul contenuto della sua predicazione. Ma è anche la testimonianza per noi che ci sono miracoli che Dio compie nelle nostre vite che devono restare nel segreto del nostro rapporto intimo con lui.

Gesù invita il lebbroso sanato a far comprovare al sacerdote l'avvenuta guarigione e a suggellarla con l'offerta prescritta (Lv 14,1-33).

Anche noi siamo chiamati a riconoscere il nostro bisogno di guarigione da quelle lacerazioni che ci allontanano dalla comunione con Dio e con il prossimo; e per questo come il lebbroso dobbiamo compiere un atto di fede nella potenza di Dio, affidandoci alla sua libertà, che non può che volere il nostro bene.

Preghiera

Signore Gesù, stendi la tua mano sulle nostre piaghe; affinché restituiti alla salute dell'anima e del corpo possiamo lodarti e ritrovare la comunione fraterna con il nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 29 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Solo la fede ci apre alla comprensione

Lettura

Matteo 16,13-19

13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». 14 Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15 Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». 16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17 E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Commento

In un momento di riposo dal suo ministero Gesù coglie l'occasione per domandare ai suoi discepoli cosa pensa la gente di lui. Le opinioni sono diverse. D'altra parte Gesù ha detto che sarebbe venuto a portare divisione (Lc 12,51). Molte ipotesi sul suo conto sono buone: alcuni credono che egli sia Elia, Geremia o Giovanni Battista tornati dai morti. Ma non sono opinioni all'altezza della sua vera natura. 

Egli non è un semplice profeta, ma "il Figlio del Dio vivente" (v. 16) e questa verità è professata da Simon Pietro, che parla per primo, forse per il suo carattere un po' irruento, ma facendosi anche portavoce degli altri apostoli. 

Dio apre il suo cuore alla conoscenza della natura di Cristo per fede. Pietro non esprime una tesi "accademica" riguardo l'identità di Gesù; la sua è una confessione personale resa possibile dalla rigenerazione interiore operata dallo Spirito. Solo chi crede può comprendere la vera natura di Gesù di Nazaret. 

Simone riceve un nuovo nome, "Pietro", "roccia", diventando il padre della Chiesa, l'assemblea di coloro che si riuniscono nel nome di Gesù, così come Abramo, che pure ricevette un nome nuovo, divenne, con la sua fede, padre di tuti i credenti. Le parole dette da Gesù a Pietro attestano che la Chiesa non è una mera istituzione umana ma è fondata sulla fede nel Cristo. Con la sua confessione di fede Pietro pone la pietra fondativa di questa costruzione divina.

A capo della Chiesa, proprio in quanto istituzione soprannaturale, vi è Cristo stesso, come testimonianto da numerosi passi neotestamentari (At 4,11; 1 Cor 11, Ef 5,23), da Gesù in prima persona (Mt 21,41) e da Pietro nella sua prima epistola: "Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare" (1 Pt 2,7). 

Significativo è anche l'utilizzo dell'aggettivo possessivo, "la mia Chiesa" (gr. mou ten ekklesian) da parte di Gesù, a sottolineare che egli ne è il costruttore, proprietario e Signore. La Chiesa non è la chiesa di Pietro, la chiesa di qualche particolare confessione cristiana, ma è la Chiesa di Cristo. Così afferma l'apostolo Paolo: "Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: 'Io sono di Paolo', 'Io invece sono di Apollo', 'E io di Cefa', 'E io di Cristo!'. Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor 1,12-13). 

Gesù rappresenta gli inferi come una fortezza cinta da mura, le cui "porte" simboleggiano il potere della morte, l'arma definitiva di Satana, dalla quale la Chiesa sarà preservata. Anche il sangue dei martiri, infatti, lungi dall'indebolire la Chiesa, sarà seme di nuovi credenti. 

"Legare" e "sciogliere" equivalgono a "proibire" e "permettere". Questo potere conferito a Pietro lo costituisce garante dell'insegnamento di Gesù nella Chiesa. Inteso come possibilità di rimettere i peccati, il potere di "legare" e "sciogliere" va considerato alla luce di quanto poco più avanti affermato da Gesù (Mt 18,15-18), dove la stessa autorità è riconosciuta a tutti i discepoli e la possibilità di allontanare un peccatore dalla Chiesa è affidata all'assemblea: "se non ascolterà neanche l'assemblea sia per te come un pagano e un pubblicano" (Mt 18,17). 

Il giudizio dell'assemblea non potrà essere arbitrario, ma fondato sulla Parola di Dio, della quale gli apostoli sono depositari, custodi e annunciatori. L'autorità della Chiesa nel corso della storia dovrà dunque fondarsi sulla dottrina apostolica, come testimoniata dalle Scritture. Il giudice non fa la legge ma dichiara ciò che ne è conforme. 

Anche a noi è dato di dischiudere i segreti del Regno agli uomini, nella misura in cui resteremo fedeli all'insegnamento del vangelo. Saremo allora beati come Pietro (v. 17) e fonte di beatitudine per chi incontreremo sul nostro cammino.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi ti riconosciamo come Figlio del Dio vivente e pastore della tua Chiesa; edificaci in essa come pietre vive, per testimoniare la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 28 giugno 2023

Ireneo di Lione e la riconciliazione di ogni creatura in Cristo

Gli anglicani, i Cattolici d'occidente, i luterani e i maroniti fanno memoria oggi di Ireneo vescovo di Lione (+ 202) e forse martire durante la persecuzione di Settimio Severo.
Originario dell'Asia Minore, di famiglia pagana, Ireneo fu discepolo di Policarpo di Smirne, che gli trasmise ciò che a sua volta aveva appreso dagli apostoli.
Nel 177 era presbitero nelle giovani chiese di Lione e di Vienne durante la persecuzione che colpì quelle comunità, e fu chiamato a succedere al vescovo Potino, morto martire in quell'anno. Come pastore Ireneo esercitò un'intensa attività missionaria tra le popolazioni della Gallia, correggendone le deviazioni dalla fede apostolica e rappacificando le chiese già allora segnate dalla divisione e dalle controversie.



Ireneo di Lione (+ ca 202), vetrata di Lucien Bégule (1901), Chiesa di S. Ireneo, Lione

Partendo dalla Scrittura, letta nella sua totalità e unità e interpretata alla luce del canone di verità rappresentato dalla predicazione degli apostoli, Ireneo narrò con grande passione l'esperienza di fede della chiesa, che si tramanda di generazione in generazione come un deposito che ringiovanisce.
Per Ireneo la fede cristiana è la fede in un Padre buono, che non ha abbandonato l'uomo, sua creatura, ma che ha continuato a parlargli e a prepararlo alla salvezza recata dall'incarnazione del Figlio.
Ireneo testimoniò nei suoi scritti, che sono anche i primi esempi di teologia cristiana, la bontà delle realtà create e dell'uomo, immagine e somiglianza di Dio, chiamato a diventare la gloria di Dio sulla terra. Prima di morire si adoperò per riconciliare le chiese d'oriente e d'occidente, divise sulla data di celebrazione della Pasqua, dando un ulteriore segno della propria totale dedizione alla riconciliazione. La riconciliazione di ogni creatura, ricapitolata in Cristo, del resto, era per Ireneo il cuore del lieto annuncio cristiano.

Tracce di lettura

Coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore. Allo stesso modo, coloro che contemplano Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica!
Perciò il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi economie, mostrando Dio agli uomini e presentando l'uomo a Dio: salvaguardando l'invisibilità del Padre affinché l'uomo non divenisse disprezzatore di Dio e avesse sempre un punto verso il quale progredire, ma nello stesso tempo mostrando Dio visibile agli uomini per mezzo delle molte economie, affinché l'uomo, privo totalmente di Dio, non cessasse di esistere.
Infatti la gloria di Dio è l'uomo vivente, e la vita dell'uomo è la manifestazione di Dio. Ora se la manifestazione di Dio che avviene attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, molto più la manifestazione del Padre mediante il Verbo darà la vita a coloro che contemplano Dio
(Ireneo di Lione, Contro le eresie 4,20,5-7).

Fermati 1 minuto. I frutti buoni della fede

Lettura

Matteo 7,15-20

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. 16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

Commento

I discepoli di Gesù che dichiaravano di parlare in nome di Dio erano chiamati profeti (cfr. Mt 10,4; 23,34). Come nell'Antico testamento, accanto ai profeti veri, ci sono però quelli falsi: la differenza sta nella qualità dei loro "frutti" (v. 16), cioè nella bontà o nella malvagità delle loro azioni.

I falsi profeti sono coloro che propongono la via larga, che conduce a perdizione (Mt 7,13-14). Gesù insegna che non tutti coloro che dichiarano di far parte della comunità dei credenti sono tali. Alcuni sono come lupi tra le pecore, case che appaiono simili ma hanno differenti fondamenta (Mt 7,21-27), zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24), vergini stolte tra le sagge (Mt 25,1-13), servi malvagi tra i buoni (Mt 25,14-30).

Il punto di riferimento per giudicare i profeti e i loro frutti sono le Scritture. Nessuna forma di gerarchia, nella Chiesa, può porsi al di sopra della loro autorità.

I frutti buoni sono la testimonianza di una fede viva ed efficace. Come ammonisce l'apostolo Giacomo "Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede" (Gc 2,18).

Ma se le buone opere sono espressione della fede, questa richiede di essere pazientemente coltivata, proprio come un albero "che darà frutto a suo tempo" (Sal 1,3). Non temiamo, dunque, la prova dell'inverno, la necessaria potatura per migliorare la crescita; attendiamo con speranza, davanti ai rami ancora spogli, l'apparire dei primi germogli; gustiamo e condividiamo, finalmente, i frutti, quando questi saranno giunti a piena maturazione.

Preghiera

Signore, vieni e visita la tua Chiesa, albero che la tua destra ha piantato; vivificalo con la tua grazia e insegnaci a prendercene cura. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 26 giugno 2023

Fermati 1 minuto. La differenza tra guardare e vedere

Lettura

Matteo 7,1-5

1 Non giudicate, per non essere giudicati; 2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. 3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? 4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? 5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

Commento

L'esortazione di Gesù a non giudicare non consiste nel non riconoscere gli errori degli altri, ma nel non giudicarli in modo arrogante, ignorando la fallibilità e la debolezza stessa di chi giudica. Il discepolo è dunque chiamato al discernimento, con rettitudine e prudenza. Poco più avanti, infatti, Gesù mette in guardia i discepoli dai falsi profeti e li invita a giudicarli dai frutti (Mt 7,15); mentre nel Vangelo di Luca, Gesù rimprovera la capacità di saper valutare i segni metereologici ma di non saper riconoscere i segni dei tempi, giudicando ciò che è giusto (Lc 12,54-56).

Il verbo greco relativo all'osservare la pagliuzza, blepo, indica semplicemente il "vedere", potremo dire il "guardare", che è azione più superficiale del "vedere attentamente", indicato dal verbo diablepo, in riferimento all'accorgersi della trave. La capacità di un retto giudizio dipende dal saper discernere in profondità l'animo umano. Gesù invita, dunque, a non giudicare secondo le apparenze (cfr. Gv 7,24), perché solo Dio può giudicare il cuore e le intenzioni profonde dell'uomo.

L'appellativo di "ipocrita", rivolto in precedenza agli scribi e ai farisei, è indirizzato ora al discepolo che si preoccupa degli errori altrui, anche se piccoli (la pagliuzza), ignorando i propri, ben più grandi (la trave). Mostrare zelo per la correzione degli altri e permissivismo verso se stessi pone fuori dalla misericordia di Dio che ci sarà offerta nella misura con cui misureremo il nostro prossimo (v. 1).

Accettare gli altri per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero, riconoscere noi stessi per quello che siamo, è il punto di partenza per un cammino di crescita spirituale. Solo partendo dalla verità dei nostri inciampi e delle nostre ferite potremo fare spazio, in noi e negli altri, al dono della grazia che giustifica e rende santi agli occhi di Dio.

Preghiera

Donaci, Signore, l'umiltà per riconoscre la verità della nostra fragile condizione umana; affinché possiamo giudicare con rettitudine e misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Mari, disseminatore di comunità cristiane in oriente

Il secondo venerdì d'estate, la chiesa caldea e quella assira ricordano mar Mari, apostolo della Siria, della Mesopotamia e della Persia.
Le fonti che narrano la vita di Mari, discepolo di Addai, che sarebbe stato il primo dei settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, sono tardive e contraddittorie. Con esse ciò che si vuole tuttavia ricordare e affermare è l'origine antichissima delle chiese siro-orientali.

Monastero di Bose - Preghiera - Page #176
Addai e Mari (I-II sec.)

Secondo la tradizione, Mari fu scelto da Addai per continuare la sua missione evangelizzatrice nell'oriente, risalente all'apostolo Tommaso. Ricevuto tale mandato, egli percorse la Mesopotamia orientale, spingendosi a predicare sino ai contrafforti dell'altopiano dell'Iran e fondando oltre 300 comunità cristiane.
A lui si deve la fondazione delle sedi episcopali di Nisibi, di Kaškar e l'evangelizzazione della regione di Seleucia-Ctesifonte.
Ad Addai e Mari è attribuita una delle più antiche anafore eucaristiche, tuttora in uso nelle liturgie siro-orientali.
I due apostoli sono ricordati insieme in varie regioni orientali, in date che variano da una zona all'altra; la festa più importante è forse quella che si celebra in Iraq e in Kurdistan il 5 di agosto, con una ricca liturgia propria.

L'Anafora di Addai e Mari

L'anafora di Addai e Mari è un'antica preghiera eucaristica cristiana, caratteristica della Chiesa d'Oriente.

Attribuita dalla tradizione a Taddeo di Edessa e Mari, discepoli di san Tommaso apostolo e santi del I secolo, risale al III secolo secondo la maggioranza degli studiosi.

Ha la peculiarità di non contenere in modo coerente e ad litteram le parole dell'istituzione dell'eucaristia da parte di Gesù Cristo ("Questo è il mio corpo", "questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza..."). Sono presenti invece "in modo eucologico disseminato, ossia integrate nelle preghiere di rendimento di grazie, di lode e di intercessione". Si riportano tre passaggi interessanti: "[...] abbiamo ricevuto per tradizione l'esempio che viene da te, rallegrandoci, glorificando, esaltando, facendo memoria e celebrando questo mistero grande e terribile [...] nella memoria del corpo e del sangue del tuo Cristo, che noi offriamo a te sull'altare puro e santo, come tu ci hai insegnato, [...] sacramento vivificante e divino che io posso amministrare al tuo popolo, il gregge del tuo pascolo".

Nel 2001 la Chiesa cattolica ha riconosciuto la validità dell'anafora di Addai e Mari - sostenuta da una tradizione ininterrotta risalente all'epoca post-apostolica - nel contesto della possibilità di intercomunione, in caso di necessità pastorale, tra i fedeli della Chiesa assira d'Oriente e la Chiesa cattolica caldea.

domenica 25 giugno 2023

Il buon pastore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Signore, ti supplichiamo di ascoltarci nella tua misericordia; tu che ci hai donato un ardente desiderio di pregare, concedici che attraverso il tuo aiuto, possiamo essere difesi e confortati in ogni pericolo e avversità; per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 5,5-11; Lc 15,1-10

Commento

L’iconografia del buon pastore o, più precisamente del “bel” pastore (il termine greco è, infatti, kalòs), apparteneva anche al mondo greco e romano, prima dell’avvento del cristianesimo, ed era considerata di buon auspicio per i defunti. Rispetto all'analogo racconto di Matteo l'evangelista Luca aggiunge il dettaglio del pastore che pone la pecora ritrovata sulle spalle.

L’immagine di Dio come pastore di Israele, che mostra il proprio amore per la pecora perduta è ben presente nella religiosità ebraica, e in particolare nella letteratura profetica. Così in Ezechiele leggiamo: "Dice il Signore, Dio: 'Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre'" (Ez 34,11-12). E poi vi è il ben noto salmo 23, utilizzato tradizionalmente anche nell’ambito del rito delle esequie: "Il Signore è il mio pastore" (Sal 23,1).

Il protagonista della parabola del buon pastore si comporta in modo paradossale, sfidando la comune logica umana: chi lascerebbe novantanove pecore per andare a cercarne una sola che si è smarrita, senza la certezza di ritrovarla, e con il rischio di perdere l’intero gregge?

Dio non ragiona con mentalità di profitto, semplicemente in termini di costi e benefici. Il suo amore per noi è amore non solo dell’umanità nel suo insieme, ma per la nostra individualità. Per questo si fa carico di venirci a cercare, se anche fossimo gli unici dispersi del suo gregge.

Egli non ci abbandona e non sta neanche nell’ovile ad aspettare il nostro ritorno, ma ci viene incontro, si affatica nella ricerca e quando ci ha trovati aggiunge fatica a fatica caricandoci sulle spalle. Troviamo così in quest'immagine la passione del Dio incarnato per l'umanità. 

Dio ci chiede la stessa sollecitudine verso il fratello più debole, nella consapevolezza che tutti siamo preziosi ai suoi occhi e che egli è venuto perché nulla vada disperso.

Umiliamoci, dunque, sotto la potente mano di Dio, come ci ammonisce l’apostolo Pietro (1 Pt 5,6); perché se ci lasciamo trovare, la sua mano ci raggiunge, non per castigarci, ma come mano tesa, che ci offre il suo soccorso e il suo conforto, in ogni pericolo e avversità.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 24 giugno 2023

Nascita di Giovanni il Battista. Profeta, frutto della promessa

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la natività di Giovanni il Battista, profeta e precursore del Signore.

Figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta la sterile, Giovanni è frutto della promessa di Dio e annuncia i tempi messianici in cui la sterile diventa madre gioiosa di figli e la lingua dei muti si scioglie nella lode profetica. Con lui rivive la profezia e si fa più urgente il richiamo alla conversione rivolto da Dio al suo popolo.

Secondo la parola dell'angelo, Giovanni venne con lo spirito e la forza di Elia per preparare al Signore un popolo ben disposto. Egli visse nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele e lì, nella solitudine e nel silenzio, nell'ascesi e nella preghiera, si preparò alla sua missione.
Insieme a Gesù, il Battista è l'unico personaggio di cui il Nuovo Testamento narri la nascita, ed è l'unico santo celebrato dalla chiesa antica con più feste durante l'anno.

Quando nel IV secolo la nascita di Gesù venne fissata nel solstizio d'inverno, quella di Giovanni venne posta nel solstizio d'estate per rispettare la lettera del racconto evangelico. La coincidenza con il solstizio d'estate e l'inizio dell'accorciarsi delle giornate è stata vista dai padri come una conferma delle parole di Giovanni e della sua testimonianza al Cristo: «Egli deve crescere e io invece diminuire».
Asceta vissuto nel deserto, Giovanni è diventato ben presto il modello del monachesimo nascente ed è sempre stato venerato con particolare amore dai monaci, che nell'ascesi, nel silenzio, nella preghiera e nell'assiduità alle Scritture cercano di predisporre ogni cosa per poter accogliere Dio nelle loro vite.


Tracce di lettura

Annunciazione, concepimento, santificazione e nascita di Giovanni ci sono presentate in parallelo ad annunciazione, nascita, consacrazione di Gesù, e con questi dittici dei capitoli 1 e 2 del suo vangelo, con questi eventi della preistoria di Giovanni e di Gesù, Luca ci mostra che anche nell'infanzia Giovanni è stato il precursore del Messia ... Poi il silenzio del vangelo su Giovanni come su Gesù: Giovanni vivrà nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele, Gesù vivrà soggetto a Maria e Giuseppe a Nazaret. Per entrambi è il nascondimento, la crescita, la preparazione alla missione, al dies ostensionis ad Israel.
(E. Bianchi, Amici del Signore).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

venerdì 23 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Non bruciare invano

Lettura

Matteo 6,1-6.16-18

1 «Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini, per essere osservati da loro; altrimenti non ne avrete premio presso il Padre vostro che è nei cieli.
2 Quando dunque fai l'elemosina, non far suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. 3 Ma quando tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra, 4 affinché la tua elemosina sia fatta in segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. 5 «Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. 6 Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. 16 «Quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. Io vi dico in verità: questo è il premio che ne hanno. 17 Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, 18 affinché non appaia agli uomini che tu digiuni, ma al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.

Commento

La preghiera, l'elemosina e il digiuno sono i tre grandi doveri del cristiano, il quale è chiamato non solo ad astenersi dal male ma anche a fare il bene e ad essere perfetto: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). 

Mediante la preghiera serviamo Dio con la nostra anima; digiunando, con il nostro corpo e compiendo le opere di carità, con i nostri beni. Gesù ci insegna come dobbiamo praticare l'elemosina, la preghiera e il digiuno, mettendoci in guardia dall'atteggiamento degli scribi e dei farisei di ogni tempo, i quali strumentalizzano la religiosità per ottenere lodi e consenso. 

La preghiera, le opere di carità e la penitenza possono aprirci a Dio e al prossimo se non rappresentano la volontà di salvarci da soli e la ricerca di ammirazione. La preghiera e le opere di pietà fatte con ipocrisia non solo non ci ottengono nulla da Dio ma diventano occasione di peccato. 

L'elemosina, lungi dall'essere qualcosa di "straordinario", tale da farci suonare orgogliosamente la tromba, è un atto di giustizia naturale verso i poveri, prima ancora che una virtù: consiste infatti nel donare loro quei beni di cui hanno bisogno e dei quali noi siamo stati costituiti da Dio non come proprietari esclusivi ma semplici amministratori.

Gesù riconosce una grande importanza alla preghiera personale, fatta nel segreto. Egli stesso è descritto di frequente nei vangeli mentre prega in luoghi solitrari. I farisei, al contrario, preferiscono pregare nelle sinagoghe e agli angoli delle strade, "stando ritti": una posizione appropriata per il cristiano (si veda Mc 11,25 dove l'utilizzo della prola greca estotes indica la postura eretta), ma alla quale è da preferirsi quella in ginocchio per le sue numerose attestazioni nei Vangeli (Lc 22,41; At 7,60; Ef 3,14).

Lo stare ritti dei farisei indica la loro sicurezza di sé davanti a Dio. La raccomandazione di Gesù a non usare troppe parole quando preghiamo deve portarci a una preghiera che sia animata dalla fiducia nel Signore, che conosce ogni nostra necessità, e a un pieno coinvolgimento di tutte le nostre facoltà: intellettive, affettive e spirituali. Quando ci rivolgiamo a Dio, una sola parola che sgorga dal profondo del cuore vale più di tutte le parole del mondo, e le più belle parole non valgono nulla se non è il cuore a parlare. Tuttavia Gesù non condanna le ripetizioni nella preghiera ma solo l'utilizzo di parole "vane", pronunciate in maniera meccanica. Egli stesso prega nel Getsèmani ripetendo le stesse parole (Mt 26,44). L'invito alla semplicità della preghiera non è nemmeno in contrasto con la perseveranza e l'insistenza cui Gesù ci invita altrove (Lc 11,1-8). Egli stesso "se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione" (Lc 6,12). Quando preghiamo, poi, non siamo mai soli, infatti "lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili" (Rm 8,26).

Le parole sul digiuno testimoniano una pratica che era comune nel tardo giudaismo e rientra pienamente nella vita spirituale del cristiano. Il digiuno è attestato ampiamente nel Nuovo testamento: Anna "non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (Lc 2,37); i discepoli impongono le mani su Barnaba e Saulo "dopo aver digiunato e pregato" (At 13,3). Ma Gesù ci mette in guardia dal praticare un digiuno come mero "esercizio fisico" con la pretesa di dimostrare la nostra giustizia agli uomini. Il digiuno del corpo non serve a nulla, ed è anzi controproducente, se anziché purificare la nostra anima la rende gonfia di sé. Siamo poi chiamati a digiunare con gioia, mostrandoci lieti in volto e profumando il nostro capo. D'altra parte cosa rappresenta il vero digiuno se non rinunciare a una parte di noi stessi per ottenere da Dio quella ricompensa che è egli stesso?

Fare l'elemosina, pregare, digiunare, così come ci insegna Gesù, lungi dal dare semplicemente "qualche cosa" (i nostri beni, i nostri affetti, il nostro tempo) significa dare noi stessi a Dio, in quel "culto spirituale" cui ci chiama l'apostolo Paolo (Rm 12,1). Noi che siamo terra in cui Dio ha soffiato il suo alito di vita siamo chiamati a ritornare cenere solo dopo aver bruciato con ardore, consumandoci per Dio e per il nostro prossimo; finché tutto sarà compiuto (Gv 19,30).

Preghiera

Insegnaci a donarci, Signore, come sacrificio a te gradito; affinché possiamo crescere in santità ai tuoi occhi e ricevere in pegno la tua salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 22 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Gesù, maestro di preghiera. Commento al Padre nostro

Lettura

Matteo 6,7-15

7 Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. 8 Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. 9 Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
10 venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
14 Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Commento

Prima di offrirci un modello perfetto di preghiera con il "Padre nostro" Gesù ci esorta a essere parsimoniosi nelle parole da utilizzare. Il rapporto con Dio deve essere filiale, e quindi improntato a semplicità di cuore. Lo sproloquiare (gr. battalogeo, chicchierare) può essere riferito all'abitudine dei pagani di recitare una lunga lista di nomi divini. Nella nostra preghiera dobbiamo stare attenti a comprendere quel che diciamo e a dire solo ciò che scaturisce dal profondo del nostro cuore.

Eviteremo dunque la ripetizione di formule senza prestare attenzione, ma ciò non costituisce una proibizione contro la preghiera insistente, alla quale ci esorta, ad esempio, la parabola dell'amico importuno (Lc 11,5-8). Gesù stesso prega ripetendo le stesse parole nell'orto degli ulivi: "lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole" (Mt 26,44). Non è dunque condannata la ripetizione di parole ma la vana ripetizione. Neanche è condannata la preghiera che si protrae a lungo. Gesù prega tutta la notte (Lc 6,2) ed esorta i suoi discepoli a pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1).

La preghiera del Padre nostro comprende tutte le nostre reali necessità e tutto ciò che è legittimo chiedere. Era entrata sicuramente a far parte della liturgia già al tempo in cui Matteo scrive, ma lungi dal rappresentare una semplice formula è un modello di brevità, semplicità e completezza, che dovrebbe ispirare ogni altra preghiera. Delle sei petizioni tre sono rivolte a Dio e tre riguardano le necessità dell'uomo. Gesù ci esorta infatti a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutte le altre cose ci saranno date in aggiunta (Mt 6,33). 
Le richieste per le necessità umane sono tutte rivolte al plurale, a indicare che dobbiamo pregare gli uni per gli altri, in un vincolo di comunione.

Le prime parole della preghiera rivelano la natura intima di Dio: Egli è padre; e noi possiamo chiamarlo Padre perché in Cristo abbiamo ricevuto lo spirito di adozione a figli. Lo Spirito stesso intercede nella nostra preghiera, con gemiti inesprimibili (Rm 8,26), gridando "Abbà, Padre" (Gal 4,6).

Il primo atto della preghiera è un atto di adorazione: "sia santificato il tuo nome" (v. 9). Tutte le altre richieste devono essere subordinate a questa e devono avere come unico scopo questa. Santificare (gr. hagiazo) il nome di Dio può essere inteso come un atto di ossequio e obbedienza; ma è anche una invocazione affinché Dio santifichi il suo stesso nome, manifestando la sua potenza e la sua gloria con l'avvento del suo regno. Nella supplica che segue (v. 10) si chiede infatti che il regno, predicato da Cristo e dai suoi apostoli, giunga a compimento sulla terra, così come è realizzato perfettamente in cielo.

"Sia fatta la tua volontà" esprime la necessità che ogni richiesta sia sottomessa ai piani e alla gloria di Dio. Con questa invocazione chiediamo che in questo mondo, deturpato dal maligno, prevalga la volontà di Dio, che lo rende simile al Cielo.

Gesù ci invita a chiedere al Padre che ci doni il pane quotidiano (v. 11). Non che ce lo venda, né che ce lo presti, ma che ce lo dia per la sua misericordia. La nostra sopravvivenza, materiale e spirituale, dipende dalla grazia di Dio.
L'aggettivo greco epiousios viene comunemente tradotto con "quotidiano", a indicare il nutrimento materiale essenziale per il nostro sostentamento. Ma il termine potrebbe anche essere reso con "futuro", assumendo una connotazione escatologica e venendo a significare il pane del giorno che verrà, il pane del regno, tanto desiderato e ora urgentemente atteso ("dacci oggi"). Con queste parole chiediamo dunque anche il pane che nutre il nostro spirito, il pane sacramentale e la grazia di Dio, con cui riceviamo Cristo, il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51).

La richiesta di rimettere, letteralmente "lasciar andare", i debiti (v. 12), ovvero i peccati contratti verso Dio, è correlata al perdono nel giudizio finale. Chiediamo di essere perdonati come noi perdoniamo ai nostri debitori, non comportandoci come il servo al quale fu condonato molto dal suo padrone ma che non ebbe pietà del suo conservo (Mt 18,21-35).

Gesù ci esorta a chiedere di non essere introdotti nella tentazione (v. 13); questo il senso traslato della parola greca eisphero, che significa "portar dentro" Tenendo conto quanto afferma Giacomo nella sua lettera, dove è detto che "Dio non tenta nessuno al male" (Gc 1,13) si arriva alla conclusione che non è Dio l'agente attivo della tentazione, sebbene l'esempio di Giobbe dimostra che egli può mettere l'uomo alla prova esponendolo all'azione di Satana. Ciò che si chiede al Padre è di essere preservati dalle tentazioni, che qui possono essere riferite sia ai peccati che alle più generali prove della fede. Nel contesto escatologico dominante di questo passo il senso potrebbe essere anche quello di chiedere a Dio di risparmiare ai discepoli le prove e le persecuzioni che precedono la fine dei tempi. 

Il termine greco hò poneròs indica il male, da cui si chiede di essere liberati; è chiaramente maschile e sta a indicare il Maligno, a causa del quale il peccato e la morte sono entrati nel mondo.

Esortandoci a perdonare per essere perdonati (vv. 14-15), Gesù non condiziona la nostra giustificazione alle nostre opere. La grazia che ci è stata accordata dal sangue di Cristo e che trova espressione nel segno sacramentale del Battesimo ci ha purificati completamente dal peccato, ma qui siamo invitati a chiedere a Dio e concedere al nostro prossimo una remissione dei peccati quotidiani, come un lavacro parziale: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo" (Gv 13,10). Con le parole a commento della sua preghiera (v. 14) Gesù attesta che egli è venuto nel mondo non solo per riconciliarci con il Padre ma anche per riconciliarci l'un l'altro.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, insegnaci a pregare; perché possiamo crescere in santità e sapienza in un continuo dialogo con il nostro Padre che è nei Cieli. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

John Fisher e Thomas More, martiri riabilitati dalla Chiesa d'Inghilterra

In questo giorno, nel 1535, muore decapitato dopo essere stato rinchiuso nella torre di Londra John Fisher, professore all'università di Cambridge e vescovo di Rochester.
Nato nel 1469, Fisher fu un umanista e un teologo molto apprezzato. Di lui Erasmo diceva: «Non c'è uomo più colto né vescovo più santo». Pastore in una delle più piccole e povere diocesi d'Inghilterra, Fisher amò e servì con ogni cura il piccolo gregge che gli era stato affidato.

John Fisher - Wikipedia
John Fisher (1469-1535)

Sempre a Londra, due settimane dopo John Fisher, il 6 luglio 1535 sale sul patibolo sir Thomas More.
Nato nella capitale inglese il 6 febbraio 1478, dopo gli studi di diritto e un periodo di discernimento di quattro anni trascorso in una certosa, Thomas si era avviato alla carriera politica, fino a diventare deputato nel 1504. Grande amico di Erasmo, che lo definì «modello per l'Europa cristiana», Thomas, un gradino dopo l'altro, era asceso fino alla carica di Gran cancelliere del sovrano d'Inghilterra.

Tommaso Moro - Wikipedia
Thomas More (1478-1535)

La fedeltà di More e Fisher al re trovò però un ostacolo nei passi intrapresi da quest'ultimo per divorziare e trasmettere i diritti di successione ai figli della seconda moglie, Anna Bolena. L'atto decisivo, tuttavia, al quale entrambi rifiutarono di sottomettersi e che pagarono con il martirio, è l'Atto di supremazia, nel quale il re veniva riconosciuto come capo supremo sulla terra della chiesa d'Inghilterra.
Gli scritti dal carcere dei due martiri inglesi, soprattutto le lettere di Thomas More, sono tra le più alte testimonianze della spiritualità cristiana. Nutriti da un dialogo costante con il Signore nell'intimo della coscienza, More e Fisher mostrarono fino all'ultimo grande carità e misericordia verso i loro persecutori.
La testimonianza estrema al vangelo resa da More e Fisher è ricordata anche dalla Chiesa d'Inghilterra, che ne celebra la memoria il 6 di luglio.

Tracce di lettura

Finché sarò su questa terra, la mia condotta non potrà che dar modo al re di persuadersi a pensare il contrario di quel che pensa ora: di più non posso, se non rimettere tutto nelle mani di Colui, nel timore del cui sfavore, nella difesa dell'anima mia guidata dalla mia coscienza (senza rimproveri o biasimi per quella di nessun altro) io soffro e sopporto questo tormento. Io lo supplico di condurmi, quando a Lui piacerà, lontano dall'afflizione del tempo presente nella sua felicità eterna del cielo, e nel frattempo di dare a me e a voi a me cari la grazia di rifugiarci, devotamente prostrati, nel ricordo di quell'amara agonia che il nostro Salvatore patì sul monte degli Ulivi prima della sua passione. E se faremo questo con amore, credo proprio che vi troveremo gran conforto e consolazione.
(Thomas More, Lettera 59 a Margaret Roper)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 21 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Quale mèta rincorriamo?

Lettura

Matteo 6,19-23

19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; 20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. 21 Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
22 La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; 23 ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

Commento

L'accumulo di tesori "in cielo" (v. 20) non ha a che fare solo con le buone azioni compiute sospinti dalla grazia, ma anche con l'utilizzo dei beni terreni guidati da spirito di carità e condivisione.

Agire cristianamente nell'amministrare i beni terreni significa praticare l'elemosina, digiunare e vivere con sobrietà confidando in Dio nella preghiera, come raccomandato da Gesù stesso (Mt 6,1-18).
Se la manna stessa, cibo disceso dal cielo, messa in serbo per il giorno successivo "fece i vermi e si imputridì" (Es 16,20), il cristiano nel suo esodo verso la vita eterna non deve preoccuparsi di accumuare ricchezze. Anche le grazie spirituali che riceviamo da Dio non devono portarci a confidare su una "scorta di meriti", perché quotidianamente dobbiamo alimentare la nostra fede, rendendola efficace nella carità.

Gli uomini pongono il proprio cuore là dove è il loro tesoro (Mt 6,19-21) e allo stesso modo fissano i loro occhi in ciò che desiderano di più (vv. 22-23). Un occhio puro ama posarsi sui beni celesti e rende limpido il nostro intero essere. Un desiderio disordinato dei beni terreni è rappresentato da Gesù con l'analogia dell'occhio malvagio, nel quale non può entrare alcuna luce e che farà giacere tutto l'uomo nelle tenebre.

La luce che è tenebra (v. 23) è da intendersi come espressione di una religiosità esteriore, ipocrita: una  mosca morta rovina l'olio del profumiere (Eccl. 10,1). Per questo l'occhio malvagio rappresenta anche la cattiva intenzione nelle azioni dell'uomo, per malizia o per colpevole ignoranza.

Tutte le realtà terrene sono caratterizzate dall'impermanenza e dall'incapacità di colmare il desiderio di bene presente nel cuore dell'uomo, il quale trasformandole in idoli non potrà che andare incontro alla delusione.

Gesù ci chiama a fare chiarezza su quale mèta stiamo rincorrendo, qual è il fine che abbiamo scelto per la nostra vita, ciò che la riempie di senso, invitando la nostra anima a scegliere "la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10,42).

Preghiera

Donaci, Signore, la saggezza per scegliere la via del vangelo, per rendere la nostra fede operosa e far fruttare i doni del tuo Spirito. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 20 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Supplemento di amore

Lettura

Matteo 5,43-48

43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Commento

La prima parte del comandamento citato da Gesù, l'amore per il prossimo, è contenuta nella legge mosaica (Lv 19,18). Sebbene l'odio verso i malvagi nell'Antico Testamento sia considerato giusto (Sal 139,19-22), non c'è propriamente un comandamento che prescriva di odiare i propri nemici. Inoltre va rilevato che la parola "odiare" in ambito semitico non ha la connotazione estremamente negativa acquisita nel nostro linguaggio. 

Gesù estende ai nemici il comandamento dell'amore e invita i suoi discepoli a imitare l'esempio del Padre, che concede i suoi doni sia ai buoni che ai cattivi. Un cenno all'amore per i nemici è contenuto nell'Antico Testamento, nel libro dei Proverbi (Prov 25,21).

I pubblicani vengono assurti a simbolo del "nemico" di Israele per eccellenza. Erano infatti gli esattori delle tasse al servizio dei romani e perciò particolarmente odiati. Matteo era stato uno di loro, prima di diventare discepolo di Gesù.

L'esortazione di Gesù a non limitarsi ad amare i propri fratelli (v. 47) mette in guardia da ogni settarismo, che era proprio delle diverse correnti ebraiche e rischia di essere replicato nella Chiesa. Un atteggiamento stigmatizzato anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: "Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli (...) che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: 'Io sono di Paolo', 'Io invece sono di Apollo', 'E io di Cefa', E io di Cristo!'" (1 Cor 1,12). I cristiani dovrebbero dunque evitare che le differenze denominazionali diventino fonte di divisione nella Chiesa.

Ai discepoli di Gesù è richiesto un supplemento di amore, che li renda capaci di dare a tutti più degli altri; questo è il distintivo del loro essere cristiani.

Gesù ci insegna che la pratica del vangelo è più che semplice umanesimo. Lo sforzo che richiede per vincere la tendenza retributiva della nostra natura e imitare il Padre nella sua benevolenza può giungere a compimento solo con l'assistenza della grazia santificante, effusa dallo Spirito.

Preghiera

Rendici capaci, Signore, di un amore senza condizioni; come tu per primo ci hai amato, donandoci tutto te stesso nell'opera della redenzione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 19 giugno 2023

Romualdo e il monachesimo integrale

La singolarissima vicenda umana e spirituale di Romualdo, animatore dell'eremitismo nell'Italia centrale e settentrionale all'alba del secondo millennio, è stata tramandata dalla Vita dei cinque fratelli del suo amico Bruno di Querfurt, ma soprattutto dalla Vita del beato Romualdo scritta pochi anni dopo la morte di Romualdo da Pier Damiani.
Romualdo nacque a Ravenna verso la metà del X secolo, da una famiglia nobile. Dopo tre anni di vita benedettina abbandonò il monastero ravennate di Sant'Apollinare in Classe con il proposito di ritrovare la solitudine e il rigore del monachesimo egiziano testimoniato dalle Vite dei padri e dalle Conferenze di Cassiano. Ispirandosi a questi testi, con alcuni compagni egli cercò di mettere in pratica i principi di un'ascesi più ordinata rispetto a quella dei solitari del suo tempo, basandola sul lavoro manuale, il totale distacco dal mondo, la stabilità nella cella, la familiarità con la Scrittura, le veglie e il digiuno.
Uomo di lacrime e di preghiera, Romualdo unì al rigore dell'insegnamento un'anima appassionata, capace di grande calore umano e di intenso affetto. Egli visse circa dieci anni nei pressi del monastero di San Michele di Cuxa, nei Pirenei, dando vita ad una colonia di eremiti. Tornato in Italia, Romualdo fu chiamato a riformare la vita monastica e a fondare numerosi eremi, incontrando incomprensioni e ostilità.
Delle sue numerose fondazioni sono sopravvissute fino a oggi con alterne vicende quelle di Camaldoli e di Fonte Avellana.
La congregazione camaldolese coniuga la dimensione comunitaria e quella solitaria, espressa, architettonicamente, dalla presenza sia dell'eremo sia del monastero. Questa comunione di vita comunitaria ed eremitica è espressa anche nello stemma, formato da due colombe che si abbeverano a un solo calice. Il cenobio, dotato di una sua autonomia, può costituire una tappa di preparazione alla vita eremitica. L'Ordine prevede anche, per chi ne senta la vocazione, l'aspetto missionario di evangelizzazione presso le genti. Quest'ultimo aspetto conferisce oggi all'Ordine camaldolese una grande apertura al dialogo ecumenico e interreligioso.
Romualdo morì nel silenzio e nella solitudine con Dio, cui aveva sempre anelato e che aveva inseguito attraverso mille peripezie, nel monastero di Val di Castro, il 19 giugno del 1027.

Icona di GIOVANNI MEZZALIRA, tempera all’uovo su tavola telata e gessata, cm 30 x 40
San Romualdo (+ 1027)
Tracce di lettura

Siedi nella tua cella come in paradiso; scaccia dalla memoria il mondo intero e gettalo dietro le spalle, vigila sui tuoi pensieri come il buon pescatore vigila sui pesci. Unica via, il salterio: non distaccartene mai. Se non puoi giungere a tutto, dato che sei qui pieno di fervore novizio, cerca di penetrarne il senso spirituale almeno in alcuni punti, e quando leggendo comincerai a distrarti non smettere, ma correggiti subito cercando il senso di quel che hai davanti.
Poniti anzitutto alla presenza di Dio con timore e tremore; annullati totalmente e siedi come un pulcino contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo nonché di procurarsene.
(parole di Romualdo in Bruno di Querfurt, Vita dei cinque fratelli 32)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 18 giugno 2023

Se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, che non manchi mai di aiutare e governare coloro che conduci nel tuo timore e nel tuo amore; mantienici, ti supplichiamo, sotto la protezione della tua buona provvidenza, affinché abbiamo un timore e un amore perpetuo del tuo santo Nome. Per Cristo nostro Signore.

Letture

1 Gv 3,13-24; Lc 14,16-24

Commento

“Non vi meravigliate se il mondo vi odia” afferma l’evangelista Giovanni, riprendendo le parole di Gesù: “Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi”. L’odio del mondo si manifesta come il rifiuto della luce da parte delle tenebre: “la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa” (Gv 1,5).

Del rifiuto da parte del mondo nei confronti della luce, cioè di Cristo, abbiamo un esempio nella parabola del gran convito. Gesù offre questa narrazione in risposta a ciò che esclama un uomo che lo stava ascoltando predicare: “Beato chi mangerà del pane nel regno di Dio”. Questa beatitudine, ci insegna il Signore, non è compresa da molti. Dio ci invita gratuitamente al suo banchetto, ma l’ossessione per il possesso, il commercio, l’attaccamento alle cose e alle persone possono diventare un ostacolo alla comunione con lui. 

Così i protagonisti di questa parabola evangelica: il primo ha appena comprato un podere e deve andare a vederlo; il secondo ha comprato un paio di buoi e vuole provarlo; il terzo ha appena preso moglie. Ma Gesù ci ammonisce: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26), mentre nel Vangelo di Matteo, sempre Gesù afferma: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).  

Certo Dio, che ha comandato di amare il padre e la madre (Es 20,12), non ci chiede di ripudiarli. Ma Gesù mette radicalmente in discussione l’antica Legge per portarla a compimento: le relazioni umane devono essere organizzate sotto il principio ordinatore dell’amore di Dio.

Le letture di oggi ci ricordano i due grandi comandamenti per il cristiano: l’amore del prossimo, soprattutto del fratello nel bisogno, e l’amore di Dio, al di sopra di ogni altra cosa. E la parabola del gran convito esprime la dimensione comunitaria e liturgica dell’essere cristiani: la partecipazione al culto domenicale non è un qualcosa di accessorio nella vita del credente. Molti cristiani pensano di poter coltivare un rapporto individualistico con Cristo. Gli affari, gli impegni familiari, sono le scuse più frequenti che molti trovano per non santificare il giorno del Signore. E a costoro Gesù dice: “nessuno di quegli uomini gusterà la mia cena” (Lc 14,24).

Molti si considerano membri di un popolo eletto per un'appartenenza alla Chiesa puramente nominale. Non dimentichiamo che Dio è pronto, in ogni momento, a rivolgere il suo invito alla festa a chi è lontano, a popoli considerati "ai margini" del mondo ma che si mostrano pronti ad accogliere con entusiasmo il vangelo. Dio può far nascere figli di Abramo, veri credenti, anche dalle pietre (Lc 3,8);  Facciamo nostra l'esortazione del salmista: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Sal 95,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 16 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Educati dolcilmente alla responsabilità

Lettura

Matteo 11,25-30

25 In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Commento

Esistono diversi paralleli tra queste parole di Gesù e alcuni passi della letteratura sapienziale dell'antichità giudaica. Solo il Padre conosce il Figlio così come solo Dio conosce la sapienza: "Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi" (Gb 28,12.23). Il Figlio conosce il Padre, così come la sapienza conosce Dio: "Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto?" (Sap 9,17).

La rivelazione di Dio e della sua sapienza, del Padre e del Figlio, è destinata non a coloro che si ritengono "sapienti" e "intelligenti", ma ai "piccoli" (v. 25). L'umiltà è la chiave che consente di accedere ai tesori di Dio.

La ricerca della sapienza è faticosa per l'uomo e nella misura in cui viene raggiunta accresce a sua volta le sofferenze rispetto a chi conduce una vita spensierata: "molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore (Qo 1,18) afferma l'Ecclesiaste.

Gesù chiama a sé gli affaticati e gli oppressi, con l'affermazione paradossale che questi troveranno ristoro prendendo su di sé il suo giogo. Come è possibile essere liberati dall'oppressione sottomettendosi e aggiogando se stessi?

Gesù ci libera dalla schiavitù dai beni impermanenti di questo mondo, ma anche dal peso di doverci salvare da soli, mediante il tentativo di portare i carichi che gli scribi e i farisei vogliono porre sulle nostre spalle (Lc 11,46). Il vangelo è più che una religione, un insieme di regole da seguire: è un'esperienza di comunione con Dio.

La pedagogia che Gesù adotta con i suoi discepoli è improntata alla mitezza. La grazia non fa violenza alla nostra natura, ma la educa docilmente. L'essere stati liberati dai lacci del mondo e da quelli di una religiosità legalistica deve tenerci lontano da due estremi: dal sentirci liberi di fare tutto ciò che vogliamo, dimenticando la responsabilità cui siamo stati chiamati; e dalla tentazione, sempre latente, di ricadere nel legalismo e nella precettistica "farisaica", seppur sotto una veste cristiana. 

Mettersi alla sequela di Cristo significa liberarsi da una religiosità opprimente e mortificante, per annunciare con gioia il suo messaggio di salvezza. La vera religione è un'esperienza di liberazione e di gioiosa partecipazione all'opera divina.

Preghiera

Liberaci dai lacci del mondo, Signore, e il tuo Spirito buono ci guidi in terra piana; affinché possiamo regnare con te, giustificati e santificati dalla grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Giovanni Taulero e l'abisso dell'anima

La chiesa luterana celebra oggi la memoria di Johannes Tauler.

Il 15 giugno 1361 muore a Strasburgo, dov'era nato agli inizi del secolo, Johannes Tauler, frate domenicano e testimone fra i più amati nel medioevo occidentale.

Di famiglia benestante, Johannes era entrato nel convento domenicano di Strasburgo non ancora quindicenne, e vi aveva ricevuto una tradizionale educazione scientifica, teologica e spirituale. Ma la vera spinta a ripensare in profondità la sua fede gli venne dal fatto di vivere un tempo di grandi conflitti e contraddizioni al vangelo, anche in seno al suo Ordine, che avevano provocato a più riprese gli interventi diretti del capitolo generale dei Predicatori.

Johannes Tauler - Wikiquote
Johannes Tauler (ca 1300-1361)

Per rispondere alla decadenza nella vita spirituale dei religiosi e del popolo cristiano, Tauler diede vita ai cosiddetti «amici di Dio», ossia a gruppi di cristiani impegnati a vivere una vita di fede maggiormente fondata sull'ascolto del vangelo e sulla preghiera personale.
In anni di intenso apostolato in seno ai conventi domenicani dell'Alsazia e presso i beghinaggi della regione, Tauler insegnò un modo di vivere l'esperienza dell'incontro con Dio ispirato alla visione teologica dei padri della chiesa e nel contempo alla mistica di Meister Eckhart. Egli formò così intere generazioni di credenti a una spiritualità capace di sostenere un impegno concreto e coerente con il vangelo nella vita di tutti i giorni.
Alla sua morte, Tauler lasciò una collezione di Sermoni che rimangono fra le espressioni più sobrie ed evangeliche della letteratura mistica medievale.

Tracce di lettura

L'autentica preghiera è una vera ascensione in Dio, che eleva completamente lo spirito, cosicché Dio può in verità entrare nel fondo più puro, più intimo, più nobile, più interiore, dove solo c'è vera unità, riguardo al quale Agostino dice che l'anima ha in sé un abisso nascosto che non ha nulla a che fare con il tempo e con tutto questo mondo.
In questo nobile, delizioso abisso, in questo regno celeste, là s'immerge la dolcezza, è là eternamente il suo posto, e là l'uomo diventa tanto silenzioso, essenziale e assennato, e sempre più distaccato, più interiorizzato e più elevato in una maggior purità e passività, e sempre più abbandonato in ogni cosa, perché Dio stesso è venuto di presenza in questo nobile regno, e vi opera, vi dimora e vi regna.
Allora l'uomo acquista una vita tutta divina, e lo spirito si fonde qui completamente, s'infiamma in ogni cosa ed è attirato nel fuoco ardente della carità che è essenzialmente per natura Dio stesso. Da tale stato, gli uomini ridiscendono poi a tutte le necessità del santo popolo cristiano, si volgono con una preghiera e un desiderio santi verso tutto ciò per cui Dio vuole essere pregato, e a vantaggio dei loro amici, vanno ai peccatori e si adoperano in tutta carità a trovare rimedio per i bisogni di ciascun uomo.
(J. Tauler, Sermoni 24,7)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 15 giugno 2023

Fermati 1 minuto. La strada giusta per presentarsi a Dio

Lettura

Matteo 5,20-26

20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!

Commento

Gli scribi e i farisei erano gli insegnanti della legge e avevano fama di essere grandi osservanti della stessa. Gesù ci chiede di "superarli" non limitandoci a un'obbedienza puramente esteriore, ma ricercando il rigore della carità. Egli parla con l'autorità di un legislatore e non di un semplice interprete o commentatore della legge - "io vi dico" (v. 20), non "così dice il Signore" - e approfondisce i precetti consegnati da Dio sul Sinai, portandoli a pieno compimento. Sul Calvario, appeso alla croce, fisserà su di essa la legge suprema dell'amore.

Gesù considera la collera e le ingiurie - che a seconda del loro grado di gravità venivano condannate (anche a morte) da parte di un tribunale locale o del sinedrio - meritevoli della Geenna, la valle di Hinnom, posta a sud di Gerusalemme, maledetta dal re Giosia (perché sede del culto di Moloch, cui venivano offerti sacrifici umani) e destinata a immondezzaio della città. Poiché nella Geenna ardeva continuamente il fuoco, nei Vangeli è presa a simbolo dell'Inferno. 

Il rigore cui richiama Gesù ci fa comprendere quanto sia difficile per l'uomo adempiere in pienezza i suoi precetti. L'unica giustizia dalla quale il peccatore può essere giustificato è la perfetta giustizia di Cristo, imputata a nostra salvezza mediante la fede in lui. Questo non ci esime, tuttavia, dall'impegno sulla via della santificazione, che la grazia ci spinge a percorrere. 

Gesù ci invita a sanare immediatamente le nostre relazioni quando entriamo in contesa con qualcuno e stabilisce il primato dei rapporti fraterni rispetto allo stesso culto sacrificale presso il tempio, cuore della religiosità ebraica. La strada per presentarci innanzi a Dio in adorazione passa attraverso la riconciliazione con il nostro prossimo.

Preghiera

Insegnaci a guardare a te, Signore, che sei mite e umile di cuore; affinché fissando lo sguardo sulla tua passione possiamo imparare a offrire il perdono ai nostri nemici. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Evelyn Underhill. La vita mistica è per ogni cristiano

Il 15 giugno del 1941 muore a Londra Evelyn Underhill, scrittrice, guida spirituale e predicatrice tra le più feconde nella recente storia inglese.

Evelyn nacque nel 1875 a Wolverhampton, in una famiglia agiata. Poté in tal modo compiere gli studi universitari al King's College di Londra e completare la propria istruzione viaggiando per l'Europa e per il mondo.

Evelyn Underhill (1875-1941)

Decisivo per la sua vita spirituale fu l'incontro con il barone von Hügel, padre spirituale di un'intera generazione di anglicani. Sotto la sua guida, Evelyn apprese l'importanza di rimanere fedeli alla propria tradizione religiosa, alimentando tuttavia i contatti con le altre confessioni cristiane a livello della preghiera e delle intense amicizie personali.
Sposatasi con un amico d'infanzia, Stuart Moore, la Underhill si dedicò intensamente a un ministero di predicazione e di maternità spirituale del tutto inusuali nella chiesa inglese d'inizio secolo per una donna. Persona di grande equilibrio, Evelyn fu la prima oratrice invitata a tenere una conferenza teologica pubblica a Oxford. Ricevette quindi la laurea honoris causa in teologia e divenne fellow al King's College di Londra.
Evelyn impiegò il resto dei suoi giorni a far conoscere con scritti di grande qualità umana e spirituale l'importanza della vita interiore e mistica nella vita di ogni cristiano.

Tracce di lettura

Signore, penetra gli oscuri recessi
in cui celiamo ricordi e inclinazioni
su cui non ci diamo pena di vegliare,
ma che mai noi oseremmo riesumare
per portarli liberamente fino a te
perché siano purificati e trasformati:
il rancore ostinatamente sotterrato;
l'inimicizia solo in parte confessata
che ancora cova sotto la cenere;
l'amarezza per questa o quella perdita
che ancora non abbiamo volto in sacrificio;
il benessere privato a cui noi ci aggrappiamo;
la segreta paura di perdere che svuota ogni nostra iniziativa
e che di fatto non è che orgoglio capovolto;
il pessimismo che insulta la tua gioia, Signore.
A te portiamo tutte queste cose,
prendendone coscienza con vergogna e pentimento
davanti alla tua salda luce.
(E. Underhill, Preghiera).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 14 giugno 2023

Fermati 1 minuto. Il codice dell'amore

Lettura

Matteo 5,17-19

17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.

Commento

Lo iota è la nona lettera dell'alfbeto greco, corrispondente alla decima dell'alfabeto ebraico (jod), che è la più piccola. Il termine greco keraia, tradotto con "segno", significa "corno", "apice" e indica probabilmente il piccolo segno aggiunto a scopo decorativo a numerose consonanti dell'alfabeto ebraico. Il senso delle parole di Gesù è che nessun particolare della legge potrà essere trascurato, ma dovrà giungere a compimento.

Gesù è un ebreo osservante, ma allo stesso tempo fa nuove tutte le cose: riafferma i dieci comandamenti, ma li arricchisce con il "discorso della montagna"; osserva il Sabato, ma non si esime in quel giorno dal compiere miracoli e guarigioni; difende la purità rituale del Tempio, scacciando venditori e cambiavalute, ma proclama il nuovo culto "in spirito e verità"; celebra la Pasqua ebraica, ma con la sua Croce inaugura la nuova Pasqua, della quale l'antica era solo una prefigurazione.

Il "compimento" di cui si proclama artefice Gesù è il realizzarsi delle profezie antiche; egli non solo porta a perfezione la legge morale ma realizza in se stesso l'incarnazione della legge cerimoniale, simbolo del suo sacrificio pieno, perfetto e sufficiente, realizzato sulla croce.

Il riferimento alla legge e ai profeti è presente, poco più avanti nel Vangelo di Matteo, nell'enunciazione, da parte di Gesù, della "regola d'oro": "'Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti'" (Mt 7,12).

Gesù afferma l'autorità delle Scritture dell'Antico Testamento come parola di Dio. Ciò implica che il Nuovo Testamento non soppianta l'Antico, ma lo completa e ne spiega il significato. La verità nascosta nelle Scritture ebraiche rimane valida e risplende ora alla luce del vangelo.

Natura non facit saltus affermavano gli antichi: la natura non procede per gradini, ma attraverso un piano inclinato, per progressive integrazioni. Così è per alcune pagine dell'Antico Testamento, che possono risultare "scandalose" per l'uomo di oggi, intrise di violenza, inganni, e piene di precetti che fatichiamo a comprendere. Ma c'è una progressività della rivelazione, che conduce fino all'epifania di Cristo.

Coloro che custodiranno e insegneranno la parola di Dio saranno ritenuti grandi nel regno dei cieli (v. 19): "Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52).

In Gesù abbiamo la pienezza della rivelazione. Egli non si propone come semplice interprete della Legge ma si colloca al di sopra di essa, come sua fonte. Gesù è la Parola che si è fatta carne (Gv 1,14), per farci conoscere il codice dell'amore, il cui giogo è dolce e il carico leggero.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, aiutaci a riconoscerti come norma di vita e a conformarci a te, per progredire nell'amore e testimoniare la tua giustizia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona