Giovanni da Catignano (1310 ca 1394), abate del monastero benedettino vallombrosiano di Santa Trinità, a Firenze. Era un uomo geniale, buon letterato e ottimo conoscitore di Dante e Petrarca, ma turbolento e sanguigno. S’era lasciato invischiare in un rapporto sbagliato con una nobildonna. Deposto dall’ufficio, era stato condannato a un anno di prigionia nella torre del monastero. Compiuta la penitenza, i monaci avrebbero voluto reintegrarlo nell’ufficio. Lui invece si ritira in solitudine a Vallombrosa, ma non dentro lo storico monastero: la cella di un vicino romitorio sarà la sua casa per sempre, perché ha deciso di punirsi ancora per conto suo, facendosi segregato a vita. E così, per tutti, cambia pure nome. Ora lo chiamano Giovanni delle Celle. Vive lontano da tutto, ma è in contatto per lettera con la vita politica e religiosa del suo tempo, soprattutto di Firenze. Ammiratore e amico di Caterina da Siena, la difende energicamente contro un certo frate Ruffino che l’ha accusata di eresia, e gli scrive: "Caterina gode della tua villania, per amore di colui che tante ne sostenne per lei, e piange della tua cecità e malizia, e prega Dio che ti illumini e ti perdoni". Anche Caterina scrive a lui, e in una lettera gli chiede calorosamente di intervenire a sostegno di papa Urbano VI (Bartolomeo Prignano) al quale nel 1378 alcuni cardinali hanno contrapposto l’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra). Ecco le sue parole: "Vi prego [...] che voi andiate a Firenze a dire a quelli che sono vostri amici, e che’l possono fare, che lor piaccia di sovvenire al Padre loro e d’attenergli quanto gli hanno promesso".
Chiostro dell'Abbazia di Santa Trinita, Firenze |
Giovanni ha sostenuto vigorosamente Caterina quando lottava per far cessare la residenza dei papi in Avignone. E anche ora le dà ascolto, battendosi con gli scritti in favore di papa Urbano, soprattutto con i governanti fiorentini. Ma rimane nella sua cella: per nessun motivo verrà mai meno alla segregazione perpetua che ha voluto infliggersi. Prega, studia e scrive, sempre lì per un quarantennio, guadagnandosi pure fama letteraria di "prosatore vivo e forte" (don Giuseppe De Luca). Conosce a fondo i grandi scrittori della classicità latina, e gli sono familiari anche gli italiani del suo secolo, Dante e Petrarca.
Ma soprattutto da quella solitudine Giovanni diventa guida spirituale per uomini e donne, sempre scrivendo: ai reggitori di Firenze, a laici e a chierici, a uomini e a donne, a chi ha perduto un figlio, e pure all’abate di Santa Trinità (che ha preso il suo posto quando l’hanno degradato). Nella sua cella riceve la notizia della morte di Caterina nel 1380, e lì si spegne in un anno imprecisato, 1394 o 1396. Poco dopo la sua morte, l’Ordine Vallombrosano già lo venera come beato.
L'Abbazia di Vallombrosa |