Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

sabato 30 novembre 2019

Andrea apostolo. Il primo dei chiamati

Oggi le chiese d'oriente e d'occidente ricordano Andrea, apostolo del Signore. Figlio di Giona e fratello di Simon Pietro, Andrea era originario di Betsaida ed esercitava il mestiere di pescatore. Discepolo del Battista, egli comprese in profondità la testimonianza resa da Giovanni a Gesù di Nazaret e si mise subito alla sequela dell'Agnello di Dio. Andrea fu il «primo chiamato», e si prodigò per portare a Gesù quanti attendevano il Messia. Secondo la tradizione, dopo la morte e resurrezione di Gesù egli annunciò il vangelo in Siria, in Asia Minore e in Grecia. Divenuto pescatore di uomini attraverso l'annuncio della stoltezza della croce, Andrea morì a Patrasso, crocifisso come il suo Maestro. Nel IV secolo, le sue reliquie furono trasferite a Costantinopoli. Finite poi in occidente, esse sono state restituite alla chiesa di Patrasso da papa Paolo VI nel 1974, in segno d'amore verso l'ortodossia, che venera in Andrea il primo arcivescovo della chiesa di Costantinopoli.

Tracce di lettura

Andrea, dopo essere rimasto con Gesù e aver imparato tutto ciò che Gesù gli aveva insegnato, non tenne chiuso per sé il tesoro, ma si affrettò a correre da suo fratello per comunicargli la ricchezza che aveva ricevuto. Ascolta bene cosa gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa Cristo». Questa è la parola di un'anima che con grande ansietà prepara la venuta di lui e attende la sua discesa dai cielo, ed è piena di gioia sovrabbondante quando l'Atteso si è manifestato, e si affretta ad annunziare agli altri la grande novità. L'aiutarsi reciprocamente nella vita spirituale è proprio segno di benevolenza, di amore fraterno, di sincerità d'animo. Guarda anche Pietro: Andrea «lo condusse da Gesù», affidandolo a lui perché imparasse tutto da lui direttamente.
(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Giovanni 19,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

ANDREA APOSTOLO, dipinto su tela copia di affresco bizantino
(Andrea apostolo, 6-60 d.C.)

giovedì 28 novembre 2019

Evangelizzare per sottrazione, sabotaggio, diserzione


File:Le combat de Carnaval et de Carême Pieter Brueghel l'Ancien.jpg
Pieter Brueghel il Vecchio, Le combat de Carnaval et de Carême

Per quanto possibile, stai lontano dall'agitarsi che fa la gente. Infatti, anche se vi si attende con purezza di intenzione, l'occuparsi delle faccende del mondo è un grosso impaccio, perché ben presto si viene inquinati dalle vanità, e fatti schiavi. Più di una volta vorrei essere stato zitto, e non essere andato in mezzo alla gente. - L'Imitazione di Cristo (X,1)


Il mondo si agita senza sosta, si affanna, si logora e non sa nemmeno per cosa... Pare che gli uomini debbano portare sulle proprie spalle l'intero globo terracqueo, quando contano meno di un granello di polvere e non hanno il potere  di far crescere un solo capello del proprio capo. Uscire di casa mi fa sentire sempre più spesso spettatore di qualcosa di impietoso, o meglio, di un qualcosa che muove veramente alla pietas, per quanto folle risulta l'agitarsi della maggior parte degli uomini, per lo più per cose assolutamente vane, o anche nobili, come guadagnare qualche soldo da portare a casa, crescere dei figli. Ma è davvero necessario agitarsi così tanto? Produrre così tanto? Consumare così tanto? Sgomitare l'un l'altro per farsi spazio, accrescere il proprio spazio vitale e la propria porzione di ossigeno, senza accorgersi di essere tutti avviati verso il macello... O, peggio ancora, essendone pienamente consapevoli, ma agire ed agitarsi per riempire il vuoto che riempire l'abisso insaziabile del nostro ego con l'abisso di oggetti inutili (se non dannosi), relazioni superficiali, parole vane, che stuprano la bellezza del silenzio; palazzi enormi e squallidi quartieri, cattedrali del consumo e frastornanti richiami all'acquisto su cartelloni che ci lasciano intravedere solo qualche lembo di cielo?

Per cosa ci affatichiamo per cosa ci agitiamo? Lavoriamo otto ore al giorno, qualcuno un po' meno, qualcuno molte di più, qualcuno è disoccupato e sta più in agitazione degli altri o si deprime perché nelle nostre città anonime è stato sradicato il benché minimo senso di comunità e solidarietà umana.

Ieri ho cenato con degli ospiti russi. Mi dicono che là si lavora normalmente tredici ore al giorno ma si arriva anche a diciassette. Per un euro al giorno. Da noi in Italia ce la passiamo un po' meglio, magari ne guadagniamo otto o nove di euro all'ora, ma mentre nella cittadina russa le case costano cento euro al mese di affitto da noi a Roma o Milano ci vogliono ottocento euro per un monolocale. Entrambe le situazioni sono cristianamente disgustose. La giovane moglie del mio ospite poi chiedeva quanto costano i profumi e i vestiti all'OVS e i fumetti per i bambini. Non avevano nove euro per un fumetto di Spiderman in inglese per il bimbo di quattro anni. Era preoccupata di sapere quanti millilitri di profumo ci sono nella boccetta che vendono a pochi euro all'OVS. Era entusiasta nel sapere che ce ne sono più di cento millilitri. Voleva regalarla al marito e anche regalargli una t-shirt. Ma lui l'ha dissuasa. Probabilmente questa vacanza da quindici euro a notte sarà l'unica o una delle poche della loro vita. Mi hanno fatto una grande tenerezza. Non c'era vanità nei loro desideri, ma un affetto che da tempo non vedevo in una coppia di ventenni con figli. A dire il vero, è da tempo che non vedo ventenni con figli.

Ma non mi voglio abbandonare a discorsi che sarebbero altrettanto mondani come quelli poc'anzi fustigati. Il fatto è che lavoriamo e ci agitiamo per una vita che non può essere onestamente definita tale. Non è solo il fatto che le città ci hanno provato della vista di un fiore, di un animale selvatico. Il che sarebbe già grave. Più grave è che se anche ce ne fossero non avremmo tempo di vederli, tra un part time a quattro euro l'ora e un secondo lavoro a  partita iva, le tasse, il bollo, le bollette, e un flusso martellante di notifiche... da Whatsapp, da Facebook, da GMail (dal mio stesso Blog! chiedo venia). Il telefono cellulare è ormai una estensione del nostro corpo post-umano e ci rende reperibili incessantemente. Quanto era bello quando avevo dieci anni e dovevo chiamare con il telefono fisso a casa del mio compagno delle elementari, Mirko (che nomi a partire dagli anni '80!), per farmi dire i compiti assegnati per il giorno dopo che non mi ero scritto sul diario... Le telefonate costavano un tot al minuto ed erano piuttosto care... Non ci perdevi ore al telefono e di sicuro non esisteva un flusso continuo di messaggi digitali che ti accompagnava da mattina a sera, fino a un attimo prima di spegnere la luce del comodino. Non voglio fare la parte del vecchio rimbambito che tesse l'elogio dell'era analogica e la sua superiorità su quella digitale. Ci sono già troppi quarantenni (e oltre) come me che fanno circolare meme sul tema nei vari social.

Il fatto è che anche i cristiani sono stati infettati e posseduti da questo demone inquieto e quando si parla di "missionarietà" di "evangelizzazione" è tutto un programmare strategie, porsi interrogativi su come aggiornare l'annuncio del Vangelo, un fare analisi sociali per capire come portare buoni frutti. E proprio quei cristiani che proclamano a gran voce il sola gratia spesso sembrano sposare questo ideale di evangelizzazione manageriale più prontamente di altri.

Di questo intiepidimento e invischiamento del cristiano con la mentalità mondana (altro che Editto di Costantino!) se ne resero conto già quei tanti fedeli che nel V secolo costellarono di eremi i deserti di Egitto. Già secoli prima qualcuno vi si era rifugiato per sottrarsi alle persecuzioni, ma ora che il Cristianesimo era diventato religione di Stato gli animi si erano affievoliti e i credenti fuggivano sempre più verso il deserto per ritrovare la semplicità della vita evangelica.

Vogliamo fare evangelizzazione verso i non credenti o verso quei credenti che - come mi diceva l'altro giorno un commerciante - regalano un iPhone da 1200 euro per la prima comunione del figlio?
Allora non serve stampare un bel migliaio di volantini e metterci a distribuirli agli angoli delle strade, non serve solo fare opere su opere, per quanto buone, necessarie e doverose esse siano. 
Preghiera. Preghiera. E penitenza. Penitenza. Entrambe intese come distacco dal disordine, dalla malvagità, dalla violenza e dalla cupidigia di questo mondo. Silenzio. Solitudine. Come segno profetico; sì, come segno profetico, come indice innalzato verso il cielo, di fronte a coloro che guardano solo alla terra, dimenticando l'Unico necessario a cui dare gloria, l'unica fonte di ogni nostro bene; anzi l'unico Bene.

La nostra evangelizzazione agirà efficacemente, ma  per sottrazione. La sua portata sovversiva sarà proporzionale alla nostra capacità di diserzione. Il nostro silenzio deve divenire assordante. La nostra assenza deve essere spiazzante come un sabotaggio.
Questo è il radicalismo di una evangelizzazione capace di scuotere realmente le coscienze e imprimere una forza di impatto su una civiltà ridotta in mille frantumi, dentro e fuori le Chiese, sebbene spesso mascherati da "fraternità", "comunione", "agape"... cocci rotti tenuti malamente insieme, croniche tendenze identitarie, confessionali, individualistiche, impossibili da rimettere assieme. Impossibile agli uomini, ma non impossibile a Dio.

"Venite, prostriamoci e adoriamo, inginocchiamoci davanti al Signore che ci ha creati". Nella preghiera solitaria, che Cristo ricercò spesso nel deserto, sui monti e nel giardino degli ulivi; che preparò Mosè ed Elia alla visione della gloria di Dio... lì può esserci nello spirito orante del solitario, il cui cuore, distaccato da tutti è aperto a tutti, può esserci l'accoglienza dell'intera umanità. E se non crediamo che ciò possa avere efficacia per l'evangelizzazione, semplicemente, non siamo cristiani.

              Rev Dr. Luca Vona, Eremita


mercoledì 27 novembre 2019

Il percorso ecumenico di frère Roger Schutz

Comunicato stampa emesso dalla Comunità ecumenica di Taizé dopo le notizie diffuse dalla stampa in merito a una una presunta conversione al cattolicesimo dello scomparso frère Roger, fondatore della Comunità.

* * *

«In un articolo riguardante frère Roger, il giornale “Le Monde” del 6 settembre 2006 ha dato credito e voce alle affermazioni di un piccolo foglio d’informazione, legato ad una corrente tradizionalista, che deforma il reale cammino di frère Roger e ne danneggia la memoria.

Un testo del Pontificio Consiglio per L’Unità dei cristiani, di Roma, è citato per sostenere la tesi di una “conversione” di frère Roger, mentre in realtà non dice niente di tutto ciò. In merito poi al vescovo emerito di Autun, Mgr Séguy, lo stesso ha già chiarito le sue parole. Rifiutando il termine “conversione”, ha dichiarato all’AFP: “Non ho detto che Frère Roger avrebbe abiurato il protestantesimo, bensì che ha manifestato di aderire pienamente alla fede cattolica”.

D’origine protestante, frère Roger ha percorso un cammino senza precedenti dopo la Riforma: entrare progressivamente in una piena comunione con la fede della Chiesa cattolica senza alcuna “conversione” che implicasse una rottura con le sue origini. Nel 1972, l’allora vescovo di Autun, Mgr LeBourgeois, diede a frère Roger la comunione per la prima volta, semplicemente, senza chiedergli un’altra professione di fede se non il Credo recitato durante l’Eucaristia e comune a tutti i cristiani. Diversi testimoni presenti lo potrebbero riferire.

Parlare rispetto a ciò di “conversione”, significa non capire l’originalità di ciò che frère Roger ha ricercato.

Questo percorso di frère Roger non ha mai avuto nulla di nascosto. Nel 1980, durante uno degli incontri europei dei giovani a Roma, in presenza del Papa Giovanni Paolo II nella basilica di San Pietro, lo ha pubblicamente espresso con queste parole: “Ho trovato la mia vera identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rompere la comunione con nessuno”.

Il cammino di frère Roger non è stato compreso da tutti ma è stato accolto da molti, dal Papa Giovanni Paolo II, da vescovi e teologi cattolici che sono venuti a celebrare l’eucaristia a Taizé, ed anche da responsabili delle Chiese protestanti ed ortodosse, con i quali frère Roger ha pazientemente costruito una relazione di fiducia nel corso degli anni.

Coloro che vogliono ad ogni costo che le confessioni cristiane trovino ciascuna la propria identità contrapponendosi fra di loro, non possono certamente cogliere il cammino di frère Roger. Era un uomo di comunione e forse è proprio questo che per certe persone è difficile da capire».

6 settembre 2006

Comunità di Taizé

Frère Roger di Taizé (1915-2005)

Chi era frère Roger Schutz

«Ho trovato la mia vera identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rompere la comunione con nessuno». - frère Roger Schutz


Roger Louis Schutz, noto semplicemente come frère Roger (Provence, 12 maggio 1915 – Taizé, 16 agosto 2005), è stato un monaco cristiano svizzero di fede cristiana riformata, fondatore della comunità monastica ecumenica a carattere internazionale dei Fratelli di Taizé.

Figlio di un pastore protestante svizzero, dal 1937 al 1940 ha studiato teologia riformata a Strasburgo e Losanna.

Nel 1940, a venticinque anni, viaggiando in bicicletta si trasferì in Francia, paese di sua madre. Per diversi anni aveva sofferto di tubercolosi polmonare. La lunga malattia aveva maturato in lui la vocazione a creare una comunità religiosa i cui valori fondamentali fossero la semplicità e la benevolenza del cuore, nella fedeltà al Vangelo.

Quando cominciò la seconda guerra mondiale si sentì chiamato a imitare sua nonna, la quale, durante la prima guerra mondiale, aveva aiutato in tutte le forme possibili le persone provate dal conflitto. Cercò quindi un posto dove stabilirsi e lo trovò nei pressi di Cluny, storica sede di un'importante esperienza monastica. Nel piccolo villaggio di Taizé, in Borgogna, rimase colpito dalle suppliche di un'anziana abitante di quel paesino che gli chiedeva di fermarsi su quella collina. Inoltre, Taizé era vicinissimo alla linea di demarcazione che divideva in due la Francia: era ben collocato per accogliere i rifugiati di guerra che fuggivano dal conflitto.

Grazie a un modico prestito, Roger poté comprare una casa abbandonata da anni con degli edifici adiacenti. Propose alla sorella Geneviève di venire ad aiutarlo nel servizio dell'accoglienza. Le disponibilità economiche erano poche. Non avendo acqua corrente, andavano ad attingere al pozzo del villaggio. Il cibo era modesto; mangiavano soprattutto minestre a base di farina di granoturco comperata a poco prezzo al vicino mulino.

Cominciò quindi ad accogliere e ad aiutare i profughi della guerra, soprattutto ebrei.

Molto discreto, anche in considerazione della diversa fede di molti ospiti, Roger pregava da solo: andava a cantare lontano dalla casa, nel bosco. Affinché i rifugiati, ebrei o agnostici, non si trovassero a disagio, Geneviève spiegava a tutti che era meglio per chi lo desiderava pregare da solo nella propria stanza.

I genitori di Roger, sapendo che il figlio e la figlia erano in pericolo, chiesero a un amico di famiglia, ufficiale francese in pensione, di vegliare su di loro. Questi lo fece coscienziosamente e nell'autunno 1942 avvertì Roger che erano stati scoperti dalla Gestapo e che dovevano andarsene subito da Taizé. Roger vi poté ritornare solo nel 1944, ma non più solo: si erano nel frattempo uniti a lui alcuni fratelli che avevano iniziato insieme una vita comune che continuarono a Taizé.

Nel 1945 un giovane della regione di Taizé creò un'associazione che si faceva carico di ragazzi rimasti orfani per la guerra. Propose alla comunità di frère Roger di accoglierne un certo numero a Taizé. La comunità, costituita di soli uomini, capì che non poteva occuparsi di ragazzi. Fu allora che frère Roger chiese a sua sorella Geneviève di ritornare a Taizé per prendersene cura e per fare loro da madre. Di domenica, poi, i fratelli accoglievano anche dei prigionieri di guerra tedeschi internati in un campo vicino a Taizé. Poco alla volta qualche altro giovane venne a unirsi ai primi fratelli e il giorno di Pasqua 1949 si impegnarono tutti al celibato, alla vita comune e alla semplicità di vita. Nel silenzio di un lungo ritiro durante l'inverno 1952-1953, frère Roger scrisse la Regola di Taizé, esprimendo per i fratelli “l'essenziale permettendo la vita comune”.


«Quale pastore o quale parroco avrebbero ottenuto mezz'ora di silenzio totale da parte di 40.000 giovani riuniti?» - Alain de Penanster (L'Express, 9 settembre 1974)


Fin dal 1957 la comunità monastica che si andava costruendo fece anche dell'accoglienza e dell'ascolto ai giovani un suo tratto distintivo. Questo si aggiunse alla tensione verso l'unità dei cristiani, alla ricerca di una profonda spiritualità che si richiamasse ai modelli antichi del monachesimo occidentale, all'assoluta semplicità delle proprie condizioni di vita, all'impegno umanitario in svariate realtà del Terzo mondo.

Per questo divenne un punto di riferimento nel panorama religioso europeo, specie tra i giovani. Alla fine degli anni sessanta e soprattutto dopo la fase di contestazione del famoso 1968 francese, sempre più numerosi i giovani arrivarono a Taizé per cercare una nuova fede e nuove motivazioni.

Il Sessantotto aveva messo in discussione il mondo degli adulti senza risparmiare le stesse chiese cristiane. La comunità di frère Roger e frère Max non perse l'occasione e lanciò la proposta di un Concilio dei giovani. L'annuncio ufficiale avvenne durante le celebrazioni della Pasqua del 1970. Malgrado il freddo e la mancanza di alloggi, erano presenti 2500 giovani.

Gli eventi successivi avrebbero superato ogni previsione. Le parole di frère Roger e l'espressione "concilio dei giovani" avevano fatto nascere una speranza. La parola concilio faceva pensare a un evento di chiesa. Molti giovani vi trovavano una possibilità di impegno nella fede.

Da quell'anno si sarebbero moltiplicate le presenze e la Pasqua sarebbe stata sempre il momento culminante degli appuntamenti a Taizé.

Nei 4 anni programmati per la preparazione del concilio fu clamorosa la partecipazione. La disordinata gioventù degli anni settanta, una vera marea umana, che si riversò sulla collina in quegli anni, non spaventò frère Roger e la sua comunità. La collina di Taizé fu attrezzata con tende e coperte per accogliere tutti.

Nella settimana di Pasqua del '71 si ritrovarono 6500 giovani di 40 nazionalità. Diventarono 16.000 contemporaneamente presenti nella settimana pasquale del '72. Questi numeri non diminuirono nella Pasqua del '73 e nel '74 quando i giovani sulla collina durante la Settimana santa nonostante le avverse condizioni meteo che moltiplicavano il disagio per la precarietà degli alloggi e dei servizi superarono i 20.000. Diverse migliaia furono presenti per ogni settimana dell'anno fino a 40.000 contemporaneamente presenti nell'agosto 1974, data di inizio del Concilio dei giovani.

Il 16 agosto 2005, durante la preghiera pubblica serale, frère Roger fu aggredito e ucciso da una squilibrata che gli si era avvicinata con un coltello. Circa 12 000 persone parteciparono alla cerimonia funebre il 23 agosto 2005. Le esequie in rito cattolico furono presiedute dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, nella chiesa della Riconciliazione a Taizé. Frère Rogerfu sepolto in una tomba nel cimitero presso la chiesa romanica di Taizé.

A succedergli alla guida della comunità fu frère Alois (Alois Löser), che lo stesso Roger aveva indicato come suo successore alcuni anni prima.

La comunità di Taizé riunisce oggi un centinaio di frères di diverse confessioni cristiane, provenienti da più di 25 nazioni. Piccole fraternità si sono stabilite in quartieri poveri di Asia, Africa, America Meridionale e America del Nord.

I giovani che provengono dal mondo intero si ritrovano oggi a Taizé tutte le settimane dell'anno, arrivando a essere anche seimila da una domenica all'altra e a rappresentare più di settanta nazioni.

Perché soffriamo?

Perché soffriamo se siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio? Perché Dio permette il male?

Sono domande che un cristiano si sente rivolgere continuamente e in maniera legittima dal mondo. Al quale è doveroso offrire una risposta, cercandola, con umiltà, tra la Parola di Dio, ricordando però, che tutti gli amici di Giobbe che si avventurarono in questo tentativo furono rimproverati da Dio, per la pochezza del loro intelletto. Perché, in effetti una risposta di questo tipo non può essere formulata con la sola ragione (risultando alcuni mali di questo mondo davvero irragionevoli e crudeli).

La ragione dell sofferenza e la via della liberazione da essa costituiscono uno dei nuclei essenziali della maggior parte delle religioni. Il cristianesimo dice che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio ma tanto l'ebraismo che il cristianesimo affermano che questa immagine e somiglianza è stata perduta (per ragioni che vengono espresse solo allegoricamente nel Libro della Genesi, ma che sono non meno veritiere, costituendo piuttosto un mistero ancestrale, che sfugge alla nostra capacità di indagine); sicché l'uomo nasce in un mondo segnato dalla sofferenza, dalla malattia e dalla morte (come afferma anche il buddhismo, per esempio).

Il Principe di questo mondo, nella predicazione di Gesù, è Satana e tutto è in suo potere fino alla fine dei tempi, anche se è già stato sconfitto dalla croce di Cristo. Sarà spodestato al suo ritorno, dopo un lungo lasso di tempo (anche se per Dio mille anni sono come una veglia nella notte, come afferma il Libro dei Salmi) in cui sarà data all'umanità l'opportunità di accogliere il messaggio dell'Evangelo o di rifiutarlo. Neanche Cristo si è reso esente dal male cui è soggiogato il mondo (eccetto il peccato), accettando la fatica, la sofferenza e la morte, anche se come Dio avrebbe potuto tranquillamente evitarle. Con questo ha voluto condividere fino in fondo la natura e la condizione di noi uomini, salvandoci attraverso la Croce, che è il simbolo della rinuncia totale a questo mondo imperfetto e perverso, di una umiltà che si fa totale spoliazione di sé per lasciare all'accoglienza di Dio solo.

Chi vuole essere suo discepolo prenda la sua croce e lo segua (così afferma il Cristo). Non c'è altra strada, non c'è altra scala per salire in Cielo. E nessuno potrà evitare, comunque, che gli sia messa una croce sulla spalla, non poterono evitarlo né il buono né il cattivo ladrone. Solo che i due la portarono diversamente, vi salirono diversamente e abbandonarono questo mondo con parole diverse: l'uno dicendo «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!»; l'altro dicendo: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» e ricevendo in tutta risposta: «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso».

Rev. Dr. Luca Vona, Eremita

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"La croce resta salda, mentre il mondo gira" - Stemma e Motto dell'ordine certosino

Il culto cristiano del Buddha nella Storia di Barlaam e Iosafat

La Chiesa Cattolica occidentale e la Chiesa maronita celebrano il 27 novembre la memoria di Barlaam e Iosafat.

Barlaam e Iosafat (o Josaphat), anticamente venerati come santi cristiani, sono i protagonisti di un romanzo agiografico, popolarissimo in età medievale, ispirato alla vicenda della conversione del Buddha.

La vita del Buddha venne conosciuta dai cristiani nell'Iran orientale e nell'Asia centrale dove i cristiani vivevano a contatto con i buddisti, con i mazdeisti e i manichei, grazie anche alla diffusione di qualche testo scritto come il Lalitavistara.

La prima redazione del testo, risalente presumibilmente al VI secolo, fu scritta nell'iranica lingua pahlavi, quindi venne tradotto in siriaco e in arabo e da queste derivarono molte altre traduzioni, a partire dal greco. La successiva traduzione in latino, aprì le porte alla diffusione in tutta l'Europa del testo, convertito a sua volta anche in lingue volgari. Il più antico manoscritto che ce la tramanda è del 1021 ed è conservato a Kiev; il suo parente più stretto è al Monte Athos; l'altro del 1064 è ad Oxford.

Il racconto, giunto in Occidente nell'XI secolo ed attribuito a Giovanni Damasceno, conobbe una rapida diffusione e venne ritenuto storico, tanto che i nomi di Barlaam e di Iosafat vennero inseriti nel Martirologio Romano al 27 novembre.

Narra del principe indiano Iosafat al cui padre, pagano, viene predetto che si convertirà al cristianesimo: Iosafat viene quindi tenuto lontano dalle miserie del mondo, in mezzo al lusso ed ai piaceri, ma ciò non gli impedisce di prendere coscienza delle miserie della vita umana (conosce la malattia, la vecchiaia e la morte). Il giovane viene quindi convertito dal santo eremita Barlaam e, divenuto eremita egli stesso, converte al cristianesimo il padre ed i sudditi.

La storia venne in realtà ricalcata sul modello della vicenda della conversione del Buddha (il nome sanscrito Bodhisattva si trasformò in Budasaf e poi in Iosafat; dal nome dell'eremita Balahuar, sdoppiamento del Buddha stesso, si arrivò al nome di Barlaam): venne tradotta in greco e poi in latino, quindi in numerose lingue volgari. Divenne tanto popolare da essere inclusa da Jacopo da Varagine nella sua Legenda Aurea e da ispirare alcune opere di Bernardo Pulci e di Lope de Vega, oltre a numerose opere scultoree, come quella nel Battistero di Parma di Benedetto Antelami, miniature e vetrate, nonché alcune immagini sul mosaico di Otranto.

Per approfondire:

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martedì 26 novembre 2019

Alipio lo stilita. Colonna della fede

Il 26 novembre la Chiesa Cattolica, le Chiese ortodosse e Greco-Cattoliche, celebrano la memoria di Alipio lo stilita

Gli Stiliti

"Stiliti" furono poi indicati anche quei monaci cristiani anacoreti che vissero nel Vicino Oriente a partire dal V secolo. Avevano la particolarità di trascorrere la propria vita di preghiera e penitenza su una piattaforma posta in cima ad una colonna, rimanendoci per molti anni, spesso sino alla morte. Questa pratica voleva essere anche una testimonianza, una pubblica dimostrazione di fede.
Lo stilita, con la sua posizione "onnisciente", voleva simboleggiare se stesso come monito "vivente" per chiunque conoscesse o vedesse la sua condizione di vita.
Pratica propria dell'Oriente, soprattutto dei dintorni di Antiochia e della Siria, nella Chiesa greca durò anche dopo lo scisma e presso i Russi fino al secolo XV.
Gli stiliti erano assistiti dai loro confratelli che, una volta al giorno, provvedevano a rifornirli di cibo, sempre molto frugale, e di acqua.

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Alipio lo stilita (515-614). 

Alipio. Da diacono ad asceta

Alipio lo stilita (515-614) è conosciuto erroneamente come Stiliano il Paflagone, nome che gli derivò dal fatto di essere uno "stilita" (un asceta, che per penitenza viveva in meditazione sulla sommità di una colonna isolata o di vecchi ruderi). Il primo stilita fu san Simeone il Vecchio (V secolo) che ebbe numerosi imitatori fra gli anacoreti orientali. Alipio nacque nel 515 ad Adrianopoli in Paflagonia (regione dell'Asia Minore) e a tre anni rimase orfano del padre. Fu così mandato dal vescovo Teodoro per essere istruito. Venne nominato diacono ed economo della Chiesa di Adrianopoli, finché a 30 anni volle ritirarsi in solitudine, chiudendosi in una cella, dove rimase per due anni. Infine salì su una colonna fuori dalla città. Il suo ascetismo attrasse attorno alla colonna molti discepoli. Alipio decise quindi di fondare due monasteri, uno maschile e uno femminile. Sembra che Alipio sia rimasto in piedi sulla colonna per 53 anni. Poi colpito da paralisi alle gambe, restò per altri 14 anni disteso su un fianco, finché morì a 99 anni verso il 614. (Avvenire)

domenica 24 novembre 2019

La nostra cittadinanza è nei cieli

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTITREESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, nostro rifugio e forza, che sei l’autore di ogni cosa buona; sii pronto, ti supplichiamo, ad ascoltare le devote preghiere della tua Chiesa; e concedici che le cose che chiediamo con fede possiamo ottenerle con efficacia. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 3,17-21; Mt 22,15-22

Commento

Era una convinzione rabbinica che colui che coniava la moneta di un paese ne fosse il dominatore. Secondo questa teoria, null'altro occorreva che di accertare quale fosse la moneta corrente in Giudea a quel tempo, per ottenere una risposta concludente alla domanda che era stata posta a Gesù: "è lecito o no pagare il tributo a Cesare?" (Mt 22,17).

La moneta romana circolava liberamente nel paese e i giudei non esitavano ad usarla in ogni affare e contrattazione. Se, come nazione si fossero astenuti dall'impiegarla ci sarebbe potuto essere almeno un pretesto per mettere in dubbio la legittimità del tributo richiesto dal governo romano; ma vivendo, come facevano, sotto la protezione delle leggi dell'imperatore, e facendo ogni giorno uso della moneta di Roma, lo riconoscevano di fatto come l'autorità sovrana del Paese. La legge sacra consentiva, infatti, ad Israele, di scegliersi il proprio governo, vincolandolo unicamente a continuare a corrispondere il tributo al tempio.

Come "le cose di Cesare" implicavano, nei fatti, più del semplice testatico (il tributo all'imperatore), "le cose di Dio", cui fa riferimento Gesù, significano di più che non semplicemente il tributo del tempio: includono il cuore con le sue affezioni, la coscienza, la volontà, le ricchezze individuali, in una parola la consacrazione a Dio di tutto intero l'uomo, del corpo non meno che dello spirito.

La risposta di Gesù non separa, ma unisce i doveri politici e quelli religiosi dei cristiani. Colui che è interamente votato a Dio, infatti, non può disinteressarsi della polis, del consesso umano in cui vive e nel quale è chiamato a esprimere la carità cristiana. Diversamente, il cristianesimo si ridurrebbe a sterile devozionalismo più che a quell'opera di trasformazione radicale e sostanziale del credente di cui parla Paolo nel capitolo terzo della sua lettera ai Filippesi.

Paolo afferma che "la nostra cittadinanza è nei cieli" (Fil 3,20), ma è qui sulla terra che già si misura il progresso nella santificazione che Cristo stesso compie in noi, "secondo la sua potenza che lo rende in grado di sottoporre a sé tutte le cose" (Fil 3,21).

Se il dominio di Cesare, il cui volto era impresso nel denaro, è infatti puramente convenzionale e soggetto alla volontà di Dio, il dominio di Cristo sulle nostre vite, in virtù del segno impresso nelle anime dalla fede battesimale, è l'esercizio di una sovranità reale. A ben vedere, non vi è cosa, nel cosmo, che non rechi impressa in sé il marchio del suo Creatore e che, dunque, non vada a lui ricondotta. Tutto è da Dio e tutto è per la lode e gloria di Dio.

Cristo, dimorando in noi, riproduce nella nostra vita la propria fisionomia morale; questa conformità sarà completata nei cieli dove "il nostro umile corpo sarà reso conforme al suo corpo glorioso" (Fil 3,21).

La garanzia che rende certa questa trasformazione è la sua potenza illimitata, il suo impero universale. Egli non ha coniato una moneta: era con il Padre quando, come Logos eterno, creava l'uomo a sua immagine e somiglianza; quando ha assunto la nostra natura umana, elevandola e unendola alla propria natura divina; quando ci ha purificati con le acque battesimali e segnati con il sangue della sua passione. Egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo (Sal 95,7). Siamo suoi. E nostra è la sua grazia; nostra la sua carità, che deve passare in abbondanza come moneta corrente tra le nostre mani.

- Rev. Dr. Luca Vona

Il mio Regno non è di questo mondo

La Chiesa Cattolica, la Chiesa anglicana e alcune chiese presbiteriane, luterane e metodiste, celebrano oggi la solennità di Cristo re dell'Universo. Gv 18,33-38 33 Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?» 34 Gesù gli rispose: «Dici questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?» 35 Pilato gli rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani; che cosa hai fatto?» 36 Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui». 37 Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». 38 Pilato gli disse: «Che cos'è verità?»
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Preghiera (Dal Book of Common Prayer del 1979)

Dio onnipotente ed eterno, la cui volontà è di restaurare ogni cosa nel tuo amato Figlio, Re dei re e Signore dei signori; concedi misericordioso al tuo popolo sulla terra, diviso e posto sotto la schiavitù del peccato, di essere liberato e di ritrovare l'unità sotto il governo del tuo Figlio; che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen

Almighty and everlasting God, whose will it is to restore all things in thy well-beloved Son, the King of kings and Lord of lords: Mercifully grant that the peoples of the earth, divided and enslaved by the calamity of sin, may be freed and brought together under his most gracious rule; who liveth and reigneth with thee and the Holy Spirit, one God, now and for ever. Amen.


sabato 23 novembre 2019

Colombano. «Bussiamo forte, per entrare in cielo»

Il 23 novembre del 615 si spegne nel monastero di Bobbio, sull'Appennino tosco-emiliano, Colombano, monaco irlandese e pellegrino per Cristo. Ciò che sappiamo di lui è contenuto principalmente nella Vita scritta dal discepolo Giona di Bobbio. Nativo della provincia irlandese di Leinster, Colombano sentì presto la chiamata a lasciare la propria terra, secondo l'esempio di Abramo, caro a tutti i monaci, per porsi in cammino verso la patria dei cieli, sulle tracce di Cristo.
Dopo essersi formato alla vita monastica nel celebre cenobio gallese di Bangor, Colombano proseguì il suo cammino lasciando i paesi celtici assieme a dodici compagni. Arrivato in Bretagna attorno al 590, iniziò a fondare monasteri e a svolgere un'azione missionaria. Uomo di forte personalità e di radicale attaccamento al vangelo, egli si scontrò spesso con i potenti del suo tempo, e fu costretto a più riprese a ripartire per nuove peregrinazioni. Alcune sue fondazioni, in particolare quella di Luxeuil, in Francia, divennero centri importanti dell'irradiamento monastico irlandese in Europa. Colombano fu esiliato da Luxeuil a causa dei suoi aspri rimproveri al re Teodorico, e dopo un tempo trascorso presso il lago di Costanza raggiunse Bobbio, due anni prima della morte. Colombano fu un aperto sostenitore delle tradizioni ecclesiali irlandesi, e non esitò a rivolgersi a Gregorio Magno per esporre le ragioni dei cristiani irlandesi sulla data della Pasqua e sulle nuove discipline penitenziali da loro introdotte in tutta l'Europa. Le sue regole monastiche ebbero una certa diffusione, ma saranno più tardi soppiantate dall'imposizione a tutto l'occidente della Regola di san Benedetto.

Tracce di lettura

È proprio dei pellegrini affrettarsi verso la patria, ed è egualmente loro caratteristica sperimentare la precarietà durante il cammino, la sicurezza invece nella patria. Affrettiamoci dunque verso la patria, noi che siamo viandanti. Dio è così grande che non si può vedere in tutta la sua grandezza. Tuttavia bussiamo forte, soprattutto qui, sia per entrare in cielo da veri familiari, sia per comprendere in modo più chiaro i beni che ci aspettano.
(Colombano, Istruzioni 8,1)

Clemente di Roma e il vincolo della carità

Agli inizi del II secolo muore martire Clemente, secondo la tradizione terzo vescovo di Roma e autore di un'Epistola ai Corinzi, che è uno dei più toccanti testi letterari della cristianità primitiva. Secondo il Liber Pontificalis, Clemente nacque nel I secolo nel quartiere romano di Montecelio. Di lui si sa con certezza che fu vescovo a Roma sotto gli imperatori Galba e Vespasiano, e che, a nome degli anziani della sua chiesa ritenne opportuno intervenire per riportare la concordia nella chiesa di Corinto, lacerata da divisioni riguardanti l'autorità nella comunità cristiana.
Nella sua lettera, con un tono umile e al tempo stesso pieno di sapienza e di parresia evangeliche, Clemente ricorda ai cristiani di Corinto che la via dell'unità e della pace tracciata da Cristo passa per l'umiliazione e la sottomissione reciproca per amore, secondo gli insegnamenti di san Paolo, che costituivano un legame profondo tra i cristiani di Roma e quelli di Corinto. La sua fama di uomo mite ed evangelico crebbe a tal punto che nei secoli successivi fiorirono numerose tradizioni a suo riguardo. Secondo alcune di esse, Clemente morì martire in Crimea, dove fu annegato per ordine dell'autorità romana.

Tracce di lettura

Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L'altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: «La carità copre la moltitudine dei peccati». Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima.
(Clemente di Roma, Epistola ai Corinzi 49)

giovedì 21 novembre 2019

Soli per gli altri

Dio è solitario, e lo è essenzialmente: perché, presente in tutti gli esseri, non si mescola con nessuno, i suoi attributi lo tengono infinitamente distante dal nulla e dall'imperfezione delle creature: "Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi" (Is 40,4b) Ma questa separazione, che la natura divina esige tra lui e ciò che non è lui, non può però portare all'indifferenza o al disprezzo per tutto ciò che è uscito dalle sue mani. Al contrario, egli per amore l'ha chiamato all'esistenza e la sua carità lo avvolge da tutte le parti: "tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato" (Sap 11,24). Tutti i beni della creazione provengono da questo abisso della divinità, che è impenetrabile per quella.
C'è anche un abisso tra il bene e il male. Tra quel che Dio ha fatto e tra quel che egli non ha fatto. Il peccato, l'imperfezione, non è opera sua, ma frutto dell'uomo: così, per separarci maggiormente dal male e da ciò che è imperfetto, viviamo lontani dal mondo, dalla sua mentalità e dalle sue vanità. Più noi rimaniamo estranei al mondo, attenti solo all'unico necessario, più saremo per il mondo dei serbatoi e dei canali del flusso divino. Tutto ciò che ci riavvicina al mondo diminuisce contemporaneamente la nostra azione sulle anime che devono essere salvate.
Stiamo attenti a non fare della nostra vita solitaria una vita di egoismo, occupati unicamente nei nostri interessi, anche spirituali. S. Giovanni Crisostomo definisce sterile una simile "filosofia" presso i monaci. Senza dubbio siamo venuti nel deserto per trovare Dio e per godere di lui, bramosi di partecipare quaggiù, per quel che ci è possibile, della beatitudine che l'Altissimo possiede nella sua infinita semplicità. Ora, la Bontà senza misura si comunicherebbe forse ad un anima senza al tempo stesso inondarla con il torrente di amore che si effonde sugli esseri creati?
Viviamo nella solitudine con il desiderio della purezza di cuore e di dissetare la nostra brama del Bene supremo; ma al tempo stesso la nostra solitudine sia per il mondo una sorgente di grazia, per l'ardore delle nostre intercessioni e per la generosità dei nostri sacrifici.

Louis M. Baudin (+1926), Méditation cartusiennes, t. 2, pp. 226-228)

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Un monaco certosino in preghiera nella sua cella

mercoledì 20 novembre 2019

La restauratrice della vita religiosa nella Chiesa anglicana

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Lydia Sellon o Priscilla Lydia Sellon (1821-1876) fondatrice britannica di un ordine religioso femminile anglicano.

Vita

Priscilla Lydia Smith crebbe a Grosmont nel Monmouthshire, ma era nata il 21 marzo 1821 a Hampstead. Sua madre morì quando lei era ancora in tenera età. Suo padre, il comandante Richard Baker Smith, che era nella Royal Navy si sposò di nuovo e ebbe altri undici figli. Nel 1847 suo padre ricevette una eredità dalla zia materna e di conseguenza il nome della famiglia fu cambiato in Sellon.

Nel 1848 Henry Phillpotts, vescovo di Exeter, fece appello al settimanale anglicano "The Guardian", che apparve nel gennaio del 1848 in cerca di aiuto per i poveri di Devonport. La richiesta di Phillpotts era di istituire nuove chiese e centri di istruzione per la popolazione che si era accresciuta oltre le possibilità della strutture urbane. A questa richiesta rispose Lydia Sellon che stava per recarsi in Italia per motivi di salute. Sellon contattò Edward Bouverie Pusey che conosceva e la presentò a un sacerdote locale. Sellon e Catherine Chambers, che era una amica di famiglia, ricevettero consigli dal clero locale e lavorarono in una scuola locale. Con il sostegno di suo padre, Sellon creò rapidamente altre nuove istituzioni. Una scuola di avviamento al lavoro nell'industria per ragazze, un orfanotrofio per i bambini dei marinai, una scuola per i senzatetto e una scuola notturna per ragazzi.

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Lydia Sellon (1821-1876)

Iniziò a lavorare a Devonport occupandosi dei poveri. L'ispirazione di Philpott e di Sellon portò alla formazione di un ordine religioso anglicano del quale assunse la guida la Sellon poiché dopo pochi anni diverse donne si unirono alla suo Istituto religioso che prese il nome di Devonport Sisters of Mercy (Sorelle della Misericordia di Devenport). Sebbene questa non fosse la prima fraternità anglicana, giunse a una fusione con le Sorelle della Santa Croce, il cui ordine aveva visto la luce nel 1845 a Londra. Lydia Sellon guidò l'organizzazione che nacque dall'unione dei due Ordini, sebbene anche prima le due organizzazioni collaboravano abitualmente tra loro. Quando Florence Nightingale fece un viaggio in Crimea nel 1854, prese 38 infermiere e quattordici di queste erano suore di quella che sarebbe diventata l'organizzazione della Sellon. Una delle loro importanti azioni iniziali fu quella di prendersi cura delle vittime dell'epidemia di colera del 1849, che iniziò intorno a Union Street.

Lydia Sellon guidò la nuova Società della Santissima Trinità dal 1856 e nel 1860 fece costruire il primo convento, Ascot Priory, per il nuovo Ordine. Il costo di questo nuovo edificio fu sostenuto in gran parte dal Reverendo Pusey, ma un'altra fonte ritiene che la Sellon si fece carico del costo delle utenze. L'autocratica Sellon a volte usava un bastone pastorale ed era considerata badessa. L'ordine risiedeva nell'abbazia di St Dunstan nel Devon. Nel 1864 alle suore fu chiesto dalla regina Emma di usare le loro abilità per migliorare l'educazione dei bambini in quelle che oggi sono le Hawaii.

Lydia Sellon morì a West Malvern nel 1876 dopo quindici anni di paralisi.

Eredità

La Chiesa d'Inghilterra  celebra la memoria di Lydia Sellon il 20 novembre ricordandola come la restauratrice della vita religiosa nella Chiesa anglicana.

Il suo Ordine fu attivo per tutto il ventesimo secolo e l'ultima sorella morì nel 2004 e fu seppellita nell'Ascot Priory.

Oggi nella Chiesa anglicana esistono decine di ordini religiosi.

martedì 19 novembre 2019

Matilde di Magdeburgo. Oltre le tradizionali forme di vita religiosa

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Matilde di Magdeburgo (ca 1208-1283), beghina.

Il monastero di Helfta fu nel XIII secolo un luogo di alta spiritualità e un ritrovo di grandi mistiche che trovavano alimento nella ruminazione quotidiana delle Scritture. Molte di loro non erano monache tradizionali, ma beghine rifugiatesi in monastero per le persecuzioni attuate contro il beghinaggio da parte soprattutto dei frati domenicani. Fra le beghine giunte a Helfta, la più celebre fu senz'altro Matilde di Magdeburgo. Poco si sa della sua vita. Nata intorno al 1208 nella diocesi di Magdeburgo, appartenente a una famiglia nobile, Matilde decise giovanissima di ritirarsi presso una comunità di beghine, cioè di donne che rifiutavano le tradizionali forme di vita religiosa, ma che desideravano vivere un'intensa vita interiore in piccoli nuclei ai bordi dei villaggi. Per trent'anni Matilde visse una profonda comunione con il Signore nella preghiera; non appena però, su ordine del confessore, si accinse a mettere per iscritto le proprie esperienze, iniziarono per lei i guai, soprattutto perché denunciava con molta franchezza la corruzione del clero di cui spesso era stata testimone. Nel 1261, dopo il sinodo domenicano di Magdeburgo contro le beghine, Matilde si rifugiò a Helfta, dove fu compagna di Matilde di Hackeborn e maestra di Gertrude di Helfta.
Nella pace di quel cenobio e nella compagnia di donne straordinarie, Matilde portò a termine la sua opera letteraria, le Rivelazioni, in cui raffigurava - con immagini tra le più belle della letteratura medievale - lo sprigionarsi della luce divina in un cuore che ha meditato per tutta la vita la parola di Dio. Matilde morì attorno al 1283, completamente cieca, ma con una vivida luce negli occhi del cuore. La data odierna è quella in cui Matilde è ricordata dalla Chiesa d'Inghilterra, lo stesso giorno in cui nel Calendario monastico si fa memoria di Matilde di Hackeborn.


I beghinaggi

Tra l’XI e il XIV secolo sorse in Europa, nelle Fiandre, un grande movimento di rinnovamento spirituale, con le donne come protagoniste. Questo  movimento spirituale di donne di ogni estrazione sociale, fu ispirato dal desiderio di condurre una vita di intensa spiritualità fuori dai monasteri, vivendo nella propria casa e nella propria città. Queste autentiche “donne di preghiera e carità”, anche per aiutarsi l’un l’altra, si stabilirono in case vicine formando piccole comunità in piccoli quartieri chiamati “beghinaggi” ai margini delle città e dei villaggi. Il primo di questi “beghinaggi” comparve a Liegi su iniziativa del presbitero Lambert la Bègue, che cercò di organizzarle in comunità, da cui il nome di “beghine”. Le beghine hanno incarnato una delle esperienze di vita femminile più libere della storia. Laiche e religiose al tempo stesso, esse cercarono forme di vita che permettesse loro di conciliare una doppia esigenza: quella di una vita monastica e quella di cristiane che vivono nel mondo, ai margini della struttura ecclesiastica.

Le beghine non erano delle suore, non prendevano infatti i voti e potevano ritornare alla vita normale in qualsiasi momento: vivevano in castità e spesso dedite alla carità, un po' come delle converse, cioè delle suore laiche. Inoltre non chiedevano l'elemosina (da cui si capisce che è errata l'etimologia da beg begard), ma mantenevano le loro proprietà originarie, se ne avevano, oppure, se necessario, lavoravano, per esempio filando la lana o tessendo.
La prima donna ad essere identificata come beghina fu la mistica Maria di Oignies, che influenzò il cardinale Jacques di Vitry (1160-1240), protettore del movimento, di cui Vitry ottenne il riconoscimento, purtroppo solo a parole, da Papa Onorio III (1216-1227) nel 1216.
Successivamente, i beginaggi divennero delle vere e proprie comunità, orientate alla cura dei malati e all'aiuto di donne sole, non accettate dai conventi. Ci furono beghinaggi, forti anche di migliaia di beghine (come a Ghent), in tutte le città e paesi del Belgio e dell'Olanda, dove, nonostante le vicissitudini storiche (furono per esempio aboliti durante la Rivoluzione Francese), esistono oggigiorno, dopo ben sette secoli, ancora 11 comunità in Belgio e 2 in Olanda.

Beghinaggio fiammingo di Bruges

Ci fu anche una forma maschile di beghinaggio, che ebbe minore diffusione rispetto alla controparte femminile e fu denominata (con un connotato negativo in senso eretico) begardi.
In Italia furono denominati anche bizzocchi o pinzocheri o beghini, condussero spesso una vita da predicatori erranti (molto diffusa nel Medioevo) e furono molto impegnati nel denunciare il nicolaismo (l'abitudine dei religiosi di vivere in concubinato con donne) e la corruzione del clero, propendendo per una vita apostolica e povera, come quella di Gesù e dei primi Apostoli.
Su questi punti in comune si allearono spesso con i Francescani spirituali nel combattere il comune nemico Papa Giovanni XXII (1316-1334), che contro di loro scatenò il famoso (o meglio famigerato) inquisitore Bernardo Gui (1261-1331).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 17 novembre 2019

Jacob Böhme (1575–1624), mistico luterano

La Chiesa luterana celebra oggi la memoria di Jacob Böhme (1575 – 1624), filosofo, teologo, mistico e luterano tedesco. Egli è stato uno dei principali esponenti del misticismo cristiano moderno, ed era detto dai suoi contemporanei «Philosophus teutonicus».

Jacob Böhme nacque nell'aprile del 1575 nella tedesca Seidenberg, ora parte di Sulików. Figlio di contadini, frequentò per poco tempo la scuola del villaggio dove era nato, poi fu mandato nella vicina Görlitz ad imparare il mestiere di calzolaio, che esercitò come maestro in una bottega presso le mura alla porta del Neiße fin verso il 1613.

Nei sette anni successivi unì la predicazione ad attività commerciali, e solo negli ultimi quattro anni della sua vita si sarebbe dedicato esclusivamente alla ricerca mistico-religiosa.
Nel 1599 sposò la figlia di un macellaio, Catharina Kunschmanns, dalla quale ebbe quattro figli. Per il resto egli condusse, per quanto gli fu possibile, la vita modesta di un uomo mite e paziente.

La diffusione della sua prima opera, manoscritta e pubblicata a sua insaputa da parte di un suo estimatore, gli attirò la diffidenza del pastore di Görlitz, Gregorius Richter, che lo accusò di eresia e rimase suo oppositore per tutta la vita. Quando, nel 1624, Böhme fu chiamato a Dresda per giustificare le proprie opere dinanzi a un consesso di religiosi, i suoi scritti vennero colpiti da interdetto. Richter morì appena qualche mese prima di Böhme, consentendo a quest'ultimo di morire, a sua volta, riabilitato, grazie alla confessione evangelica raccolta dal nuovo pastore.

La sua esperienza mistica, il fatto stesso che egli ne parlasse e si sforzasse di descriverla, aveva rappresentato per il suo paese un forte motivo di scandalo, esponendolo agli attacchi della comunità religiosa locale, che dopo la sua morte giunse ad oltraggiarne la tomba. D'altro canto ebbe anche parecchi sostenitori a livello personale, che lo veneravano al punto da farne quasi oggetto di culto.

Böhme aveva ricevuto una educazione luterana, come era normale nel suo paese e nella sua classe sociale. Per via della sua scarsa istruzione, disse di sé: «Ho letto un solo libro, il mio libro, dentro di me». Il bisogno di comunicare le proprie esperienze mistiche, tuttavia, lo spinse verso i libri e la scrittura. Ampliò la sua educazione luterana studiando da autodidatta severo, mediante letture delle opere della tradizione mistica tedesca del Trecento (Eckhart, Taulero, Suso), oltre ai mistici naturalisti del Cinquecento (Paracelso, J.B. Van Helmont, S. Franck, V. Weigel). Insieme ai mistici, dunque, legge anche opere di alchimia, astrologia e cabala.

Il rigido luteranesimo imperante all'epoca condannava ogni possibilità di trascendenza diretta e ogni atteggiamento di tipo ascetico o mistico. Eppure, Jakob si trova a vivere esperienze estatiche diverse volte nella sua vita. Una prima, nel 1600, poi nel 1610 e ancora nel 1617. Tali esperienze, coinvolgenti tutto il suo essere fisico e spirituale, hanno la durata di alcuni giorni ciascuna. Egli le vive come esperienze che illuminano la sua conoscenza di Dio più che come un'unione diretta con Dio e ineffabile. Da esse riceve lo stimolo continuo a studiare le Scritture ed approfondire le sue conoscenze, in modo che potessero rendere più esplicite (a parole) le esperienze vissute. 

Böhme era convinto che l'uomo avesse la capacità di comprendere il mistero di Dio, da lui concepito come la realtà informe e originaria da cui prende vita la creazione. Per tale motivo, il suo misticismo difficilmente poteva conciliarsi con il cristianesimo protestante, in quanto metteva in discussione il nodo teologico della Riforma, che indica nella Bibbia l'unica fonte del contatto tra l'uomo e Dio, sottolineando l'inattingibilità di quest'ultimo per vie diverse. Proprio per questa ragione il luteranesimo, essendo in quei decenni tutto proteso a fondare la propria teologia in antagonismo con quella di Roma, non ammetteva possibilità di santificazione del singolo uomo che nell'aldilà, e dunque giudicava negativamente la venerazione di cui Böhme era fatto oggetto.

Per certi aspetti egli apparve più vicino alle posizioni del cattolicesimo, che riconosce la possibilità di una teologia naturale e di un contatto diretto, immediato e personale con la divinità, sebbene Böhme se ne discostasse per l'esaltazione del primato della fede. È comunque attestata la sua profonda venerazione per la Vergine Maria.

Rifacendosi alle concezioni tradizionali, l'uomo è per Böhme un microcosmo, in quanto in lui, quale coronamento della creazione, stanno tutte le cose, Dio e gli angeli, il cielo e l'inferno. Ultimo nel processo creativo di Dio, egli ha il compito di risalire la corrente e tornare verso il Principio. Per fare ciò deve essere un'immagine compiuta di Dio e possedere una volontà libera. In questo però sta la grandezza unitamente al pericolo: se l'uomo volge la propria volontà verso l'esterno (le creature e il mondo), realizza in sé l'aspetto tenebroso del divino, costruendosi l'inferno per la propria anima. Se invece si distacca dalle creature e dal mondo in genere, annullando la propria visione particolaristica e la propria volontà separata per lasciare spazio alla volontà divina, in lui si realizza l'amore di Dio, la luce del Paradiso. Se l'uomo si rivolge al male, non lo fa che per ignoranza o cecità, in quanto, essendo immagine di Dio, egli non può che cercare sempre e comunque il bene. La libertà della volontà dell'uomo consente dunque di conoscere ed esperire la dolorosa lontananza da Dio. All'uomo decaduto non spetta che effettuare un cenno di rinuncia al male (essendo la presenza luminosa di Dio costante e sempre in attesa di rivelarsi): a quel punto, la volontà che passa dall'esteriore all'interiore permette la nascita di Cristo in sé.

Secondo Böhme, in Dio è presente una polarità di forze contrapposte: per un verso Egli è il Nulla, un abisso insondabile e indeterminato, dal quale però scaturisce un incontenibile desiderio di vita, attraverso il quale prendono forma le diverse realtà in cui si esplica la Creazione. Dio racchiude in sé sia il Bene che il Male, lo spirito e la materia, la luce e le tenebre. Rifacendosi alla tradizione neoplatonica che vedeva in Dio l'unità dei contrari, come potenza che si attua dinamicamente nel mondo, Böhme tuttavia va oltre la concezione agostiniana del male inteso come semplice non-essere, riconoscendo anche la positività del negativo.

Jacob Böhme (1575-1624)

Riepilogo essenziale

Gli scritti di Böhme sono stati considerati complessi, oscuri, difficili nella lettura e nella comprensione, a parte alcuni passaggi, che possono essere considerati anche affascinanti. È però possibile enucleare il suo pensiero a grandi linee: 

  • se desideriamo contemplare ciò che è divino ed eterno, dobbiamo credere che il divino e l'eterno possano rivelarsi nella costituzione stessa dell'uomo, come principio spirituale insito nell'uomo stesso e che non vada cercato altrove;
  • la Parola di Dio, la Scrittura deve essere interiorizzata, passando dalla "storia all'essenza": in tal modo si attua la redenzione dell'uomo da parte di Dio e della sua Parola;
  • non basta la speculazione teorica sulle cose che appartengono allo Spirito nell'uomo per giungere alla sua comprensione;
  • l'uomo deve riconoscere l'esistenza di un principio divino al suo stesso interno, arrivando fino al fondo della propria anima, scendendo in un abisso che è la Divinità stessa (che in realtà è senza fondo per garantirne la trascendenza);
  • l'uomo che desidera avvicinarsi a Dio, penetrando sempre di più nell'abisso, deve arrendersi a Dio, rimettendo a Lui la propria volontà, consegnando se stesso alla divinità. La volontà che non si consegna non permette di incontrare Dio e la sua Sapienza: in tal modo non riusciamo a vedere Dio, ma la propria volontà malata riesce a vedere soltanto il mondo e il diavolo (il bene pervertito);
  • il modo in cui Dio può essere percepito nella sua Parola e nella sua Essenza è che l'uomo giunga ad uno stato di unità con se stesso, abbandoni ogni cosa che riguardi il suo sé personale (beni, denaro, padre e madre, fratelli, sorelle, moglie, figli, il proprio corpo e la propria vita) e che tale sé divenga un nulla per lui; deve cedere ogni cosa e divenire povero come un uccello del cielo, senza nessun nido per il proprio cuore;
  • ciò non significa che la persona debba abbandonare la propria casa e i propri familiari, uccidersi o vendere le proprietà, ma soltanto smettere di pretendere tutte queste cose come possesso, uccidendo o annichilendo soltanto la propria volontà;
  • l'uomo che ha ceduto se stesso a Dio entra nell'unione divina con Cristo, è rigenerato da Cristo (nato nuovamente in lui) così da vedere Dio stesso, parlare con Dio, conoscere veramente la sua Parola e la sua Essenza.

Böhme è certamente un caso esemplare non solo di mistica protestante (capace di raccogliere anche la tradizione cattolica "renana", la filosofia naturale e la tradizione esoterica ebraica e alchemica), ma di "pensiero cristiano alternativo" che ha dato vita a diversi filoni della Riforma radicale.

I seguaci di Böhme, detti behmenisti, si diffusero ovviamente in Germania, dove l'erede spirituale di Böhme fu Abraham von Franckenberg (1593-1652), e in Olanda, dove Abraham Willemsz van Beyerland (1586/7-1648) provvide alla stampa dell'intera opera letteraria. Quest'ultimo influenzò il diplomatico Michel le Blon (1587-1658), responsabile della successiva diffusione degli scritti di Böhme in Svezia, dove interessarono la famosa regina Cristina (1626-1689), e in Inghilterra.

In quest'ultimo paese, dove per la verità, i suoi lavori circolavano già dagli anni '40 del XVII secolo, si svilupparono gruppi di seguaci del pensiero di Böhme. Alcuni behmenisti inglesi si fusero in seguito con il movimento dei quaccheri, il cui fondatore, George Fox era rimasto particolarmente colpito dal pensiero del "Calzolaio di Görlitz". Anche il familista reverendo James Pordage fu un suo accanito lettore. Assieme a Jane Leade, Pordage fondò la Società dei Filadelfi (The Philadelphian Society) nel 1670 proprio per promuovere un maggiore interesse nel pensiero di Böhme.


- Fonti: Wikipedia, Mistica.info, Eresie.com

Ugo di Lincoln. Certosino e maestro di carità

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Ugo di Lincoln spentosi il 16 novembre del 1200 all'età di sessant'anni

Nativo dei dintorni di Grenoble Ugo era stato educato presso i canonici agostiniani di Villarbenoît, dove aveva emesso i voti religiosi. Desideroso di una vita più ritirata, a 25 anni egli ottenne di entrare nella Grande Chartreuse, dalla quale sarà presto inviato a presiedere la Certosa inglese di Witham, che versava in cattive condizioni. Eletto nel 1186 vescovo di Lincoln, allora la più grande diocesi inglese, Ugo accettò unicamente per obbedienza al suo priore, e si dedicò con tutto se stesso all'incarico pastorale ricevuto. Egli fece rifiorire a Lincoln la locale scuola teologica, e sovrintendette al restauro della cattedrale partecipando talvolta di persona ai lavori più pesanti. Uomo di grande compassione ed equilibrio, Ugo fu spesso chiamato a giudicare le cause più difficili. Per amore della giustizia non esitò a contrapporsi con franchezza ai re e ai confratelli nell'episcopato, senza mai serbare rancore o inimicizia verso nessuno. Si racconta che giunse a rischiare la propria incolumità personale per salvare dalla morte alcuni ebrei, ingiustamente accusati a seguito di un tumulto popolare. Ugo intervenne personalmente per curare i lebbrosi, e si batté perché anche i più poveri potessero avere una sepoltura dignitosa. Egli nutriva inoltre un profondo amore per la natura, ed è spesso raffigurato in compagnia del suo cigno addomesticato, che visse con lui nell'episcopio di Lincoln. Alla sua morte era conosciuto in tutta l'Inghilterra, e da nessuno era posta in discussione la sua santità.

Tracce di lettura

Con l'aiuto di molti uomini di valore che si scelse quali suoi consiglieri, il nuovo vescovo di Lincoln trasformò immediatamente la sua diocesi. Egli predicava la parola di Dio con vigore, obbedendo premurosamente ai comandi contenuti in essa e seguendo un celebre adagio della Scrittura: «Dov'è lo Spirito del Signore, là c'è libertà». Egli riprendeva con fermezza i peccatori, senza curarsi dell'importanza delle persone a cui si rivolgeva.
È poi impossibile ricordare adeguatamente la sua grande compassione e tenerezza verso gli ammalati, specie verso quanti soffrivano di lebbra. Egli li accudiva di persona, lavandone e asciugandone i piedi e baciandoli con affetto. E dopo averli ristorati, li colmava di doni, senza badare alla misura. In alcune residenze episcopali aveva fatto costruire ospedali, nei quali trovavano ricovero uomini e donne afflitti da simili mali.
Quando visitava i lebbrosi, era solito sedersi in mezzo a loro in una piccola stanza per confortare le loro anime con le sue parole delicate, e così alleviava le loro sofferenze con la sua tenerezza materna.
(Adamo di Eynsham, Vita di sant'Ugo di Lincoln)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Ugo di Lincoln
Ugo di Lincoln (1140-1200)

Il perdono come frutto di giustizia

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTIDUESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa, nella tua bontà; affinché mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e servirti con devozione in ogni buona opera, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 1,3-11; Mt 18,21-35

Commento

Vi è un profondo legame tra i "frutti di giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude l'odierna pericope paolina dalla lettera ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.

La giustizia, ovvero la nostra giustificazione e santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, matura da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericordia di Dio, che ci condona ogni colpa. I frutti di giustizia, infatti, "si hanno per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioè non dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, nella comunione che si realizza attraverso la fede. E a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria di Dio, cioè la sua bontà, e di suscitare nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.

Ciò non viene compreso dal protagonista della parabola del creditore spietato. L'occasione di questo racconto è suscitata da una domanda posta da Pietro a Gesù. Pietro aveva compreso che il Signore era molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande testo di esegesi delle Scritture ebraiche. Gesù si mostra ancora più esigente del previsto, affermando che occorre perdonare il nostro nemico fino a settanta volte sette (quattrocentonovanta volte); ovvero un numero di volte pressoché illimitato.

L'immagine del re che vuole fare i conti è di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio alla fine dei tempi e quello individuale alla fine della vita. È un rendiconto cui nessuno può sottrarsi.

Il debito del servitore - forse un ministro di stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del servitore di restituire tutto il dovuto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un condono completo.

Nella scena immediatamente successiva, il debitore incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di misericordia di cui è stato destinatario, non è riuscito a coglierne il senso profondo. Si mostra privo di compassione con il suo creditore, facendolo gettare in prigione. Che il creditore spietato non avesse mai sentito né pentimento profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari.

È evidente che la sola paura della punizione non può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio, sospeso il castigo, il suo timore svanisce rapidamente. Probabilmente egli avrebbe tremato se avesse potuto udire le preghiere dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del perseguitato. Ma a quel punto è troppo tardi: "il suo signore lo chiamò a sé". 

Il creditore incapace di rimettere i debiti viene dunque consegnato agli aguzzini, letteralmente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi pagassero al posto loro. 

La parabola del debitore spietato insegna che il condono dei nostri grandi debiti da parte di Dio deve suscitare il perdono dei piccoli debiti che gli uomini hanno nei nostri confronti. Quando ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a perdonarci gli uni gli altri.

Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento" (Fil 1,9), soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo "essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo" (Fil 1,10). Puri di quella purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 16 novembre 2019

Giovanni Amos Comenio e i Fratelli Moravi

La Chiesa luterana celebra oggi la memoria di Giovanni Amos Comenio (in latino Iohannes Amos Comenius; in ceco Jan Amos Komenský; in ungherese János Comenius-Szeges; Nivnice, 28 marzo 1592 – Amsterdam, 15 novembre 1670), teologo, pedagogista, filosofo, grammatico, scrittore, educatore, insegnante e pacifista ceco.

Fu uno dei pastori più colti ed importanti dell'Unione dei Fratelli Boemi.

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Giovanni Comenio (1592-1670)

I Fratelli Boemi (o Fratelli Moravi)

I moraviani, anche detti Unione dei Fratelli boemi, Fratelli moravi, Chiesa moraviana o Chiesa morava, sono un gruppo religioso cristiano originatosi dal movimento hussita a Kunvald, Boemia, nel 1457-1462; dopo anni di persecuzioni e migrazioni, venne ricostituito da Nikolaus Ludwig von Zinzendorf nel 1727.

Rappresentano la prima e più antica confessione protestante tuttora esistente e in passato erano conosciuti soprattutto come Fratelli boemi. Il nome originale di questa chiesa cristiana era Unitas Fratrum e viene utilizzato ancora oggi.

I moraviani derivano dalla Unitas Fratrum, un gruppo religioso hussita diffuso in Boemia e Moravia che seguiva la dottrina del riformatore boemo Jan Hus: ritenevano che molti aspetti della Chiesa cattolica rappresentassero una forma corrotta del cristianesimo genuino, consideravano la Bibbia l'unica norma per la fede e la pratica religiosa, la natura umana corrotta e che la redenzione venisse solo da Gesù Cristo; secondo loro i veri cristiani dovevano manifestare la loro nuova vita in Cristo seguendo l'esempio della prima comunità cristiana descritta negli Atti degli Apostoli.

Essenzialmente i moraviani condividono le stesse credenze fondanti delle chiese luterane e riformate, quindi si basano sulla definizione di Calcedonia. I moraviani credono nella Santissima Trinità, Gesù Cristo è il Salvatore del genere umano, e la salvezza deriva solo dalla grazia tramite la fede in Dio, totale e completa solo con l'amore; i sacramenti sono solo due, battesimo e Cena del Signore.

Il fulcro della chiesa moraviana consiste nel leggere ed interpretare correttamente la Bibbia, cosa che non sarebbe possibile fare senza l'aiuto dello Spirito Santo. Molte chiese moraviane si caratterizzano per il valore estremamente liturgico del culto, ma anche delle festività cristiane e di celebrazioni ordinarie o sacramentali, per le quali hanno formulato diversi riti liturgici. I Fratelli Boemi furono, a questo proposito, autori del testo di molti canti religiosi, che, musicati, erano poi utilizzati durante le funzioni liturgiche.

La loro teologia ebbe grande influenza su John Wesley, fondatore dei metodisti, e Friedrich Schleiermacher, padre della teologia protestante liberale.

Sebbene i moraviani pongano grandissima enfasi ed importanza sulla Cena del Signore, riconoscono che comunque è essenziale e necessario predicare la parola di Dio, quindi diffondere il Vangelo.

Molte chiese moraviane hanno assunto interpretazioni sul valore dell'eucaristia, spesso luterane o calviniste, ma la verità è che i moraviani originali preferiscono non dare nessuna definizione teologica della Santa Cena; per loro Gesù è presente nelle specie del pane e del vino, ma non interessa in che modo o con quali modalità avvenga questa presenza, dal momento che i sacramenti stessi sono dei "misteri" impossibili da comprendere per l'uomo, delle quali dinamica ed efficacia sono conoscibili solo a Dio; la frequenza delle celebrazioni eucaristiche varia da chiesa a chiesa.

Le chiese moraviane condividono credo cattolici, ortodossi e protestanti[:

Simbolo degli Apostoli
Simbolo atanasiano
Simbolo niceno-costantinopolitano
Confessione dell'Unione dei Fratelli Boemi del 1535
Confessione augustana
Piccolo Catechismo di Lutero
Sinodo di Berna del 1532
Trentanove articoli di religione
Dichiarazione di Barmen
Catechismo di Heidelberg

Sono organizzate in provincie o comunità, ognuna delle quali si gestisce autonomamente. Ci sono tre forme di ordinazione: vescovi, presbiteri e diaconi, i quali però non sono organizzati in una gerarchia: i vescovi si limitano ad amministrare la comunità a loro affidata, mentre i presbiteri e i diaconi svolgono il loro ruolo religioso.

I moraviani si distinguono dalla maggior parte delle altre Chiese perché pongono l'accento sul vivere una vita cristiana piuttosto che sui dogmi o sulle teorie.

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Il loro motto è «Unità nelle cose fondamentali, libertà dove c'è il dubbio, carità in tutto» («In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas»). 
La frase, a volte erroneamente attribuita ad Agostino di Ippona, In realtà sembra che sia stata usata per la prima volta da Marco Antonio de Dominis (1560-1624), arcivescovo di Split (Spalato), nel libro IV, capitolo 8, della sua opera De republica ecclesiastica libri X, pubblicato a Londra nel 1617: «E tutti abbracceremmo la reciproca unità di opinione nelle situazioni critiche, l'autonomia in quelle non difficili, in tutte le situazioni benevolenza».
Un candidato più antico, autore del detto, è ravvisabile nel teologo luterano tedesco Peter Meiderlin, conosciuto anche come Rupertus Meldenius, il quale nella sua Paraenesis votiva pro pace ecclesiae ad theologos Augustanae (1626) aveva scritto: «In una parola, dirò: se conserveremo l'unità nelle cose necessarie, la libertà in quelle non necessarie, e in entrambe la carità, le nostre faccende saranno certamente in ottima condizione»

Afferma Joseph Lecler che la sostituzione di non necessariis con dubiis avvenne in circoli largamente cattolici, ed ebbe l'effetto di estendere la regola di Meldenius, che in origine si riferiva a ciò che è necessario o non necessario per la salvezza. Così la frase perse il suo accento protestante, e si trovò a riferirsi a ciò che era definito o meno dalla Chiesa. Ma certamente Lecler si basava sull'antica opinione che la massima fosse nata in circoli proto-pietistici intorno al teologo luterano Johann Arndt.

Il dottor Gustav Krüger, in uno scritto del 1927, rivendicò questa frase irenica al Meldenius, ma aggiunse che egli avrebbe riprodotto, se non le parole, il pensiero che Seneca esprime in una delle sue epistole e perfezionato quello che Isacco Casaubon nel 1612 scrisse al cardinale Jacques Du Perron (1556-1618) di Parigi, per incarico del re Giacomo I d'Inghilterra, per facilitare l'intesa fra Anglicani e Cattolici.

La massima è oggi largamente riportata in difesa della libertà teologica e religiosa.
È il motto non solo della della Chiesa Morava ma anche della Chiesa Presbiteriana Evangelica degli Stati Uniti.

Comenio e lo sviluppo di un metodo didattico integrale

La fama e le dottrine di Comenio sono dovute non solo alla vita da rifugiato religioso e alla difesa dell'istruzione pubblica e della scuola materna paritaria, ma anche alla sua enorme conoscenza e alle sue innovazioni letterarie. Pensatore tra i più importanti del Seicento, viene considerato il padre dell'educazione moderna.

Comenio visse in un periodo in cui l'Europa fu afflitta dai sanguinosi conflitti religiosi seguiti alla Riforma protestante. Convinto che l'educazione fosse uno dei principali strumenti in grado di garantire la pacifica e civile convivenza tra gli uomini, Comenio introdusse fondamentali innovazioni nei metodi di insegnamento, gettando le basi della didattica moderna.