Fu allievo di Daniélou e De Lubac. Il suo testamento spirituale è stato quello di credere a una “riforma radicale del cattolicesimo” che ripartisse soltanto dalle fonti del Vangelo
Se ne è andato in silenzio a Parigi alla soglia dei 105 anni, il mattino del 28 luglio scorso, il teologo gesuita Joseph Moingt con il suo stile di uomo semplice ma convinto che il cristianesimo avesse un futuro anche nella sua Francia ormai post-cristiana. Tra i dati biografici più singolari di padre Moingt dopo la morte nel 2014 di Gustave Martelet e di Xavier Tilliette nel 2018 vi era quello di essere l’ultimo testimone o per meglio dire “epigono” di una formidabile generazione di gesuiti che avevano reso grande la facoltà gesuitica di Lyon -Fourviére; un luogo accademico che aveva formato giganti come Henri de Lubac, Jean Daniélou e Hans Urs von Balthasar.
Joseph Moingt (1915-2020) |
Era nato infatti il 19 novembre 1915 nel comune di Salbris nel dipartimento centrale della Valle della Loira. A 23 anni, nel 1938, fece il suo ingresso nella Compagnia di Gesù. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu obbligato ad arruolarsi nell’esercito. Conobbe la prigionia sotto i tedeschi, che sperimentò sia in Svezia sia in Polonia. Minuto di statura era un uomo dotato di un incredibile “sense of humor”. E tra i dati più singolari della sua sterminata cultura era la conoscenza dei primi secoli del cristianesimo.
Terminata la guerra, completò il noviziato e, nel 1949, ricevette l’ordinazione sacerdotale. Studiò filosofia a Villefranche-sur-Saône e si laureò in teologia nella Facoltà dei gesuiti di Fourvière, al tempo della Nouvelle théologie, osteggiata allora dal Sant’Uffizio.
Nel 1955 si laureò all’Istituto cattolico di Parigi con una monumentale tesi su Théologie trinitaire de Tertullian, seguito da Jean Daniélou, che fu pubblicata più tardi. Fu poi De Lubac a indirizzare il promettente teologo verso lo studio di Cirillo d’Alessandria. Nel 1956 divenne docente di teologia alla Facoltà dei gesuiti di Fourvière, a Lione.
Gli fu poi affidata la direzione della rivista dei gesuiti Recherches de science religieuse che, fondata nel 1910 da Léonce de Grandmaison, si occupava della storia delle religioni. Nel 1974 divenne professore al Centro Sèvres di Parigi senza interruzione fino al 2002, all’età di 87 anni. Come fondamentale nella sua lunga vita accademica è stata la sua collaborazione con l’Istituto Cattolico di Parigi.
Padre Moingt durante i suoi ultimi interventi o interviste rilasciate, tra gli altri, al quotidiano La Croix – che nell’edizione del 29 luglio gli ha reso omaggio con un ampio ritratto – si era detto convinto che il futuro della Chiesa soprattutto in Francia potesse rinascere e fondarsi su un numero di cristiani sicuramente molto meno numerosi, ma meglio formati e che vivono «una vera vita spirituale e apostolica».
Non è un caso che proprio nel suo saggio – un autentico testamento spirituale – edito nel 2013 Croire quand même Moingt sintetizzò il suo percorso di uomo e di teologo, riflettendo sul «bisogno religioso» in una società secolarizzata. Al crepuscolo della sua vita si diceva convinto della necessità di credere a una “riforma radicale del cattolicesimo” quasi nel solco del magistero di papa Francesco – che ripartisse solo dal Vangelo. «È urgente ripensare tutta la fede cristiana per dire “Gesù Cristo vero Dio e vero uomo” – amava ripetere – nel linguaggio di oggi e in continuità con la Tradizione».
I funerali si svolgeranno questa mattina alle 10.30 nella chiesa di Saint-François-d’Assise a Vanves (Hauts-de-Seine).
- Avvenire, 1 agosto 2020
Tracce di lettura
Moingt era fondamentalmente un liberale collocabile nella corrente del nuovo umanesimo e, nello specifico, dell'umanesimo cristiano. In questo consiste forse il suo limite - ovvero nell'idea di una lettura dei vangeli che può prescindere dalla fede - ma d'altra parte anche la concezione evangelica di un cristianesimo come "lievito" del mondo e baluardo per arginare la contemporanea "deriva barbarica".
«Si vedrà alla fine se l’idea religiosa si mantiene e si fortifica diversamente, o se essa è abbandonata. Che cosa resterà del cristianesimo alla fine di questo secolo, non lo so, e non posso dirlo. Non mi dimentico che parlare della crisi della Chiesa è un’astrazione, bisogna veramente parlare di una crisi generale della civiltà. E che cosa ne verrà fuori? Che cosa si conserva della nostra civiltà umanista, non lo so proprio. Allora, io, come dire, cerco di conservare la mia fede in Dio, nel Dio rivelato in Gesù Cristo, la conservo facendo – o piuttosto – lasciando evolversi le rappresentazioni religiose il più lontano possibile, cioè in maniera che possa sempre pensare la fede cristiana con uno spirito di uomo del XXI secolo, conservare una fede capace di abbracciare le sfide di tutta l’umanità. Ecco come cerco di pensare la mia fede (…).
Per il momento, direi che ho un criterio di verità: è che la mia fede mi aiuta a vivere, a pensare. Non mi sradica – evidentemente perché non la lascio evolversi – dalla società con la quale vivo; resto solidale con l’umanità, anche in crisi. Per il momento, la mia fede mi dà la convinzione che la conserverò e che potrò anche riprenderla, almeno sotto la forma di umanesimo evangelico; è là dove sono più utilmente solidale con la società e dove aiuto l’umanità a evolversi verso un destino veramente umanista e non verso un destino di barbarie che si vede spuntare e che è anche talvolta apertamente denunciato nei giornali che non sono per niente giornali cristiani! Vorrei poter dire che la causa di Dio è la causa dell’uomo».