Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 30 agosto 2024

John Bunyan. Non tema di cadere chi si tiene in basso

Il 31 agosto 1688 muore a Londra John Bunyan, predicatore e scrittore inglese.
Nato a Elstow, vicino a Bedford, Bunyan ereditò dal padre la professione di calderaio. A venticinque anni iniziò a frequentare gli ambienti battisti di Bedford e a predicare il vangelo.
Non avendo tuttavia ricevuto l'autorizzazione alla predicazione, egli trascorse più di dodici anni in prigione, poiché non voleva promettere che avrebbe desistito dal suo fermo proposito di annunciare il vangelo; in carcere, dove aveva come uniche letture la Bibbia e il Libro dei martiri di George Fox, compose una splendida autobiografia spirituale, assieme a Il viaggio del pellegrino, opera che lo renderà noto e amato in tutto il mondo della Riforma di lingua inglese.
Uomo estremamente aderente alla realtà, Bunyan dovette alla sua educazione calvinista, che dapprima respinse ma che costituirà poi l'elemento strutturante della sua personalità, la scarsa propensione a fughe spiritualiste e il coraggio con cui affrontò quella che ritenne essere la sua unica vocazione: annunciare la Parola del Signore. Uscito dal carcere e divenuto ormai famoso, egli poté finalmente svolgere il suo ministero itinerante, che compì fedelmente sino alla fine dei suoi giorni.

Tracce di lettura

Non tema di cader chi si tien basso: | Non tema orgoglio chi si vive umile; | Iddio lo guiderà per ogni passo. (Pastorello: II; p. 263)

Lettore, guarda alla sostanza del mio dire.
Scosta la tenda, guarda dietro il velo,
scopri le metafore e non mancare
di trovar cose che, se bene cercherai,
a mente onesta potranno giovare.
Quanto trovi di scorie, abbi il coraggio
di gettarlo, ma pur conserva l'oro.
Che importa se nel sasso l'oro è chiuso?
Non getti via la mela per il torsolo.
Ma se ti sembra tutto da gettare,
forse forse, ritornerò a sognare!
(J. Bunyan, Il viaggio del pellegrino)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

John Bunyan (1628-1688)

Fermati 1 minuto. Ardano le vostre vite

Lettura

Matteo 25,1-13

1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. 6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco. 13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.

Commento

La parabola delle dieci vergini esprime l'importanza di essere pronti per il ritorno di Cristo, anche se ritarda rispetto alle nostre aspettative.

Nel matrimonio giudaico lo sposto accompagna la sposa in processione dalla casa paterna alla sua. La cerimonia si svolge di notte.

Confrontando questa parabola con quella dell'uomo saggio e dell'uomo stolto (Mt 7,24-26), in cui l'elemento distintivo tra i due è la presenza o l'assenza delle buone azioni, queste potrebbero essere rappresentate nella parabola delle vergini dall'olio delle lampade.

Cristo è la luce che viene nel mondo (Gv 1,9), la sua parola risplende nelle tenebre e coloro che la fanno propria risplendono come luce davanti agli uomini (Mt 5,16). Se abbiamo fede non possiamo temere di attraversare le notti della nostra vita.

Rimaste senza olio, le vergini stolte ne chiedono alle vergini sagge, ma queste non possono dargliene; ognuno infatti sarà giudicato per se stesso: il giusto vivrà per la sua fede (Rm 1,17).

L'appello delle vergini stolte, rimaste fuori dalla porta, richiama le parole di Gesù «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»  (Mt 7,21). La stessa conclusione di questa parabola, "non vi conosco", presenta parole simili al passo prcedente del Vangelo di Matteo: «Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,23).

Il Signore viene, ma non conosciamo né il giorno né l'ora (v. 13). Ardano le nostre vite, alimentate dall'olio prezioso della sua Parola; affinché come la sposa del Cantico possiamo affermare "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2); accogliendo anche le parole dell'apostolo Paolo: "sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui" (1 Ts 5,10).

Preghiera

Signore, noi desideriamo unirci a te, nel vincolo nuziale della fede. La luce della tua Parola ci guidi verso la tua dimora. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 29 agosto 2024

Fermati 1 minuto. Ascoltare volentieri non basta

Lettura

Marco 6,17-29

17 Poiché Erode aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva fatto incatenare in prigione a motivo di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello, che egli, Erode, aveva sposata. 18 Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello!» 19 Perciò Erodiade gli serbava rancore e voleva farlo morire, ma non poteva. 20 Infatti Erode aveva soggezione di Giovanni, sapendo che era uomo giusto e santo, e lo proteggeva; dopo averlo udito era molto perplesso, e l'ascoltava volentieri.
21 Ma venne un giorno opportuno quando Erode, al suo compleanno, fece un convito ai grandi della sua corte, agli ufficiali e ai notabili della Galilea. 22 La figlia della stessa Erodiade entrò e ballò, e piacque a Erode e ai commensali. Il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e te lo darò». 23 E le giurò: «Ti darò quel che mi chiederai; fino alla metà del mio regno». 24 Costei, uscita, domandò a sua madre: «Che chiederò?» La madre disse: «La testa di Giovanni il battista». 25 E, ritornata in fretta dal re, gli fece questa richiesta: «Voglio che sul momento tu mi dia, su un piatto, la testa di Giovanni il battista». 26 Il re ne fu molto rattristato; ma, a motivo dei giuramenti fatti e dei commensali, non volle dirle di no; 27 e mandò subito una guardia con l'ordine di portargli la testa di Giovanni. 28 La guardia andò, lo decapitò nella prigione e portò la testa su un piatto; la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. 29 I discepoli di Giovanni, udito questo, andarono a prendere il suo corpo e lo deposero in un sepolcro.

Commento

Il peccato di Erode verso la Legge è duplice: egli non solo ha commesso adulterio ma anche un incesto sposando la moglie del proprio fratellastro. Giovanni è un modello di predicazione priva di ipocrisia, pusillanimità e prudenza dettata da ragioni opportunistiche. Come egli non aveva temuto di riprendere il popolo, né i dottori della legge quando venivano a farsi battezzare al Giordano, così non ha temuto di riprendere il Tetrarca Erode per la sua condotta. 

Allo stesso modo l'apostolo Paolo esorterà Timoteo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento" (2 Tim 4,1-2). 

Le nostre chiese e i singoli cristiani tengono presente questo modello nell'evangelizzazione? Non possiamo ridurre la predicazione a una canna sbattuta dal vento (Mt 11,7) né rivestirla sempre di dolcezza e di indulgenza. Giovanni è stato la "voce che grida nel deserto" (Mc 1,3); le nostre chiese e noi come cristiani abbiamo il diritto nonché il dovere di parlare e agire  secondo giustizia, piuttosto che piegarci allo spirito del mondo, al vento del momento.

Al grido di Giovanni Battista nel deserto si contrappone, quasi come un dittico pittorico, il suo silenzio durante la prigionia e al momento della morte. Egli è consapevole che il martirio porrà il suggello definitivo sulla sua predicazione, esprimendo quella radicalità che non si ferma neanche davanti al rischio di perdere la vita. 

Precursore di Cristo nel preparare la via alla predicazione del vangelo egli anticipa in sé anche lo spirito delle beatitudini: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11). 

Per contro, l'atteggiamento di Erode verso Giovanni si mostra come un pesante monito verso di noi. Egli lo rispettava e lo "ascoltava volentieri" (Mc 6,20), ma aveva più scrupolo riguardo i propri commensali e il desiderio per Erodiade era superiore a quello per la giustizia verso Dio. 

Possa il nostro cuore custodire le parole di Gesù: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38).

Preghiera

Non prevalgano su di noi, Signore, le passioni disordinate, ma ci guidi la forza del tuo Spirito; affinché animati dal distacco per le cose terrene possiamo cercare quelle celesti. A lode della tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 28 agosto 2024

Agostino d'Ippona. Stabilisci nel tuo intimo la radice dell'amore

Nel 430, mentre la città di Ippona è assediata dai Vandali, muore Agostino, pastore della diocesi locale e padre della chiesa tra i più amati in occidente. Nato a Tagaste, in Africa, nel 354, uomo di temperamento passionale, Agostino cercò a lungo una risposta capace di saziare il suo desiderio di conoscere e di amare. Ancora giovane, a Cartagine, passò dalla ricerca di un edonismo estetizzante al progressivo interrogarsi sulla natura del male, che a suo giudizio abita le profondità del cuore umano. Dopo aver aderito per nove anni al manicheismo, egli sprofondò nello sconforto e partì per l'Italia, dove avvenne il suo incontro decisivo con la predicazione di Ambrogio a Milano. Guidato dall'amore per il bello, alimentato dall'incontro con la filosofia di Plotino, e spronato dalla presenza al suo fianco della madre Monica e dell'amico Alipio, Agostino si lasciò sedurre dalla bellezza della vita cristiana. Battezzato a Milano nella Pasqua del 387, egli fece poi ritorno a Tagaste, dove attuò senza più alcun indugio una profonda conversione. Venduto ogni bene e dato il ricavato ai poveri, egli si ritirò per vivere più radicalmente il vangelo ai margini della città, dove organizzò un cenobio con gli amici rimastigli fedeli. Ordinato presbitero e successivamente vescovo di Ippona, Agostino non smise di coltivare il suo progetto di vita monastica. Radunati attorno a sé presbiteri e diaconi, diede loro una regola per la vita fraterna - forse quella che già aveva scritto per la sua prima comunità di Tagaste - e si dedicò instancabilmente allo studio delle Scritture e alla predicazione, lottando contro ogni comprensione riduttiva del messaggio cristiano.
Agostino fu uno dei più grandi ingegni del cristianesimo, vero cantore della vita interiore; egli visse il resto dei suoi giorni con il cuore e la mente tesi al solo desiderio di conoscere sempre più il mistero di Dio e dell'uomo.

Tracce di lettura

Molte cose possono avvenire che hanno un'apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità: anche le spine hanno i fiori. Alcune cose sembrano aspre e dure, ma si fanno per instaurare una disciplina, sotto il comando della carità. Una volta per tutte, dunque, ti viene imposto un breve comando: ama e fa' ciò che vuoi; se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore; stabilisci nel tuo intimo la radice dell'amore, perché da essa non può procedere altro che il bene.
(Agostino, Commento all'Epistola di Giovanni 7,8)

Il Signore vi conceda di vivere con amore la vostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come servi sotto una legge, ma come uomini liberi sotto la grazia.
(Agostino, Regola 8,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Agostino d'Ippona (354-430)

Fermati 1 minuto. Non un sepolcro ma una sorgente di vita

Lettura

Matteo 23,27-32

27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. 28 Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, 30 e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; 31 e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. 32 Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!

Commento

Secondo la legge cerimoniale (Num 19,16) chiunque aveva toccato le ossa di un morto, o un sepolcro, era impuro per sette giorni. Per tale motivo gli ebrei dipingevano di bianco l'esterno delle tombe, cosicché le persone di pasaggio non potessero inavvertitamente essere contaminate. 

Gesù paragona la religiosità dei farisei a un lieve strato di intonaco che nasconde a malapena un cuore pieno di corruzione, capace di contagiare chi ne viene a contatto. Egli rimprovera ai farisei di innalzare monumenti ai profeti ma di essere "figli degli uccisori" dei profeti stessi. Essi infatti respingono e perseguitano Gesù, profeta dei tempi ultimi, pur mostrandosi devoti a quelli del passato. 

Gesù condanna la loro ipocrisia nell'innalzare sontuosi monumenti ai testimoni della fede, per rivestirsi di una apparenza di giustizia, ignorando i segni dei tempi e camminando nell'iniquità. La chiesa non è esente da questo pericolo; è facile "nascondersi" dietro le grandi opere di architettura religiosa, le preziose urne per le ossa dei martiri, la memoria liturgica dei testimoni della fede. 

Si tratta di un rischio trasversale a tutte le confessioni cristiane: innalzare monumenti ai santi, adorare la Scrittura o custodire con gelosia le tradizioni dei Padri non sono garanzia di fedeltà al messaggio evangelico.

Ogni singolo credente è chiamato a esaminare se stesso, per evitare di essere una scatola adorna all'esterno, ma vuota o, peggio, piena di malvagità all'interno. La nostra giustizia prima ancora che davanti agli uomini deve risplendere davanti a Dio. Solo così la tradizione potrà essere non un monumento funebre, ma "tradizione vivente" e vivificante.

Preghiera

Possano i nostri cuori, o Padre, essere sorgente di vita per noi e per chi ci circonda. La memoria del tuo Figlio e dei testimoni che ne hanno seguito le orme possa tradursi in una vita conforme all'evangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 27 agosto 2024

Cesario di Arles e la meditazione costante delle Scritture

Il 27 agosto 543 muore Cesario, monaco e vescovo della diocesi di Arles.
Nato attorno al 470 nei pressi di Chalon-sur-Saône, Cesario partì ventenne alla volta dell'isola di Lérins, dove fu iniziato alla vita monastica. A motivo degli eccessi della sua ascesi, egli fu costretto a ritirarsi ad Arles, presso il vescovo Eone, che gli affidò la direzione di un monastero. Alla morte di Eone, nel 503 Cesario fu eletto al suo posto a reggere la diocesi in tempi di grande difficoltà dovuti al succedersi di varie dominazioni e al perdurare delle controversie pelagiane. 
Appassionato predicatore dell'Evangelo, Cesario si adoperò con insistenza per trasmettere al clero e ai fedeli l'amore per la Parola di Dio; uomo di grande discernimento, egli presiedette alcuni sinodi importanti delle chiese di Gallia, e diede impulso alla vita monastica, rimastagli nel cuore, attraverso la composizione di regole, sia per i monaci che per le monache, nelle quali tentò nuove sintesi tra l'esperienza dei padri del deserto e il monachesimo cenobitico del suo tempo. La sua opera letteraria, piuttosto vasta anche se non sempre originale, ebbe grande diffusione in tutto l'occidente medievale.

Tracce di lettura

Sorelle, quando lavorate in gruppo, una di voi legga alle altre fino alle dieci del mattino; nel tempo che rimane, la meditazione della Parola di Dio e la preghiera interiore non dovranno interrompersi. Abbiate un cuore solo e un'anima sola nel Signore; tutto abbiate in comune, come si legge negli Atti degli Apostoli.
Quando poi pregate Dio con salmi e inni, quello che viene pronunciato con la voce si rifletta nel cuore. Qualunque cosa stiate facendo, quando non vi dedicate alla lettura, rimeditate sempre qualche punto delle divine Scritture.
(Cesario di Arles, Statuti delle sante vergini 20 e 22)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Cesario di Arles (ca 470-543)

Fermati 1 minuto. Il sabotaggio della nostra coscienza

Lettura

Matteo 23,23-26

23 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. 24 Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
25 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre all'interno sono pieni di rapina e d'intemperanza. 26 Fariseo cieco, pulisci prima l'interno del bicchiere, perché anche l'esterno diventi netto!

Commento

Questo pasaggio delle Scritture fa parte di una serie di sette "guai", o maledizioni, che Gesù indirizza all'ipocrisia degli scribi e dei farisei. In particolare qui rimprovera di avere esteso il pagamento della decima, prevista dalla legge mosaica per i prodotti della terra, anche alle erbe più piccole; segno, questo, della loro preoccupazione per le cose di poco conto, mentre trascurano ciò che vi è di più importante agli occhi di Dio. 

Le parole di Gesù richiamano quelle del profeta Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8). 

Gesù non dice che le prescrizioni rabbiniche non vanno considerate, ma ristabilisce la giusta priorità nel sistema della legge e in un certo senso lo supera ponendo l'amore per il prossimo - la giustizia e la misericordia - e la fedeltà verso Dio al centro della vita del credente. 

Troppe volte le religioni, non solo quella rabbinica, ma certamente anche quella cristiana, si sono compiaciute di offrire elenchi di azioni "pure" e "impure", azioni rituali vòlte a rimuovere l'impurità esteriore, "l'esterno del piatto e del bicchiere" (v. 25). Sembra questa una strategia inconscia o una tentazione sempre in agguato, per sabotare ciò che vi è di moralmente più importante e impegnativo. 

A volte sono i "dottori della legge" a farci sentire "sporchi", a volte siamo noi stessi a sentirci tali. Diventa relativamente facile sentirci "puliti" attraverso una confessione del peccato ridotta ad atto puramente esteriore. Confessione che non tiene conto degli egoismi, delle rapine e dei soprusi verso il prossimo. 

Più difficile è giungere a una radicale trasformazione del cuore, che solo la grazia può operare, laddove decidiamo - per richiamare ancora una volta le parole del profeta Michea - "di camminare umilmente con il nostro Dio".

Preghiera

Aiutaci a discernere Signore, la tua volontà; la tua legge sia lampada per i nostri passi, per andare incontro alle necessità del nostro prossimo e glorificare il tuo santo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 26 agosto 2024

Tichon di Zadonsk e la teologia della Croce

Nel 1783 muore Tichon di Zadonsk, monaco e vescovo della locale diocesi russa.
Nato a Korotsk nel 1724, Timoteo Savelič Sokolov entrò sedicenne nel seminario di Novgorod. Nel 1758 ricevette la tonsura monastica e fu ordinato presbitero. Eletto vescovo di Voronež nel 1763, Tichon si ritirò dopo soli cinque anni nel monastero di Zadonsk a motivo dei suoi gravi problemi di salute. Conoscitore della teologia latina e del pietismo tedesco, egli contribuì a diffondere una spiritualità improntata alla contemplazione del mistero dell'amore di Dio rivelatosi nel Cristo sofferente. 
L'attenzione rivolta al mistero della croce lo aiutò così ad affrontare i suoi grandi limiti nei rapporti con la gente - era molto lunatico e collerico - fino a fargli imparare l'accoglienza e la mitezza soprattutto nei riguardi dei piccoli del suo tempo, che non mancò mai di difendere quando se ne presentava la necessità. Per questo divenne uno starec molto caro alla povera gente, e uno dei santi più amati della Russia moderna. Dostoevskij si ispirò anche a lui nel tratteggiare la celebre figura dello starec Zosima nel suo capolavoro I fratelli Karamazov. Tichon trascorse gli ultimi quattro anni della propria esistenza come recluso, preparandosi nella solitudine e nella preghiera all'incontro faccia a faccia con Dio.

Tracce di lettura

O amore puro, sincero e perfetto!
O luce sostanziale!
Dammi la luce affinché in essa
io riconosca la tua luce.
Dammi la tua luce affinché veda il tuo amore.
Dammi la tua luce affinché veda le tue viscere di padre.
Dammi un cuore per amarti,
dammi occhi per vederti,
dammi orecchi per udire la tua voce,
dammi labbra per parlare di te,
il gusto per assaporarti.
Dammi l'olfatto per sentire il tuo profumo,
dammi mani per toccarti
e piedi per seguirti.
Sulla terra e nel cielo
non desidero che te, mio Dio!
Tu sei il mio solo desiderio,
la mia consolazione,
la fine di ogni angoscia e sofferenza.
(Tichon di Zadonsk, Dammi luce)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Più che una religione

Lettura

Matteo 23,13-22

13 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. [14] 15 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
16 Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l'oro del tempio si è obbligati. 17 Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l'oro o il tempio che rende sacro l'oro? 18 E dite ancora: Se si giura per l'altare non vale, ma se si giura per l'offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. 19 Ciechi! Che cosa è più grande, l'offerta o l'altare che rende sacra l'offerta? 20 Ebbene, chi giura per l'altare, giura per l'altare e per quanto vi sta sopra; 21 e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l'abita. 22 E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Commento

A partire da questo punto del Vangelo di Matteo abbiamo otto "guai", che fanno da contraltare alle otto beatitudini pronunciate da Gesù nel Discorso della montagna.

L'espressione "guai a voi" è frequente nella tradizione giudaica profetica e apocalittica, per indicare l'orrore del peccato e la punizione di coloro che lo commettono. Non si tratta tanto di una vera e propria maledizione, ma piuttosto di una minaccia piena di sdegno per una serie di atteggiamenti che Gesù condanna.

L'accusa di ipocrisia rivolta agli scribi e ai farisei si riferisce alla loro falsità e ostentazione, ma anche all'esercizio dell'autorità in maniera tale da ostacolare l'accesso al regno dei cieli. La loro religiosità legalistica, infatti, impedisce l'esperienza della grazia e della santificazione, in un rapporto filiale con Dio. Le parole di Gesù mostrano che ogni atteggiamento sbagliato può avere non solo una ripercussione su di noi, ma anche su coloro che potremmo trarre in errore con un cattivo esempio. 

I farisei "percorrono il mare e la terra" (v. 15) con le loro campagne missionarie tra i pagani, esortandoli ad abbracciare pienamente il giudaismo mediante la circoncisione e l'accettazione degli obblighi della legge. Lo zelo caratteristico dei proseliti li rende "figli della Geenna" più dei farisei.

Gesù attacca la casistica farisaica, che rende alcuni giuramenti validi e altri no, considerando validi quelli relativi a cose minori e trascurando i doveri maggiori. Dispensado dai giuramenti fatti per il tempio, per l'altare e per il cielo, i farisei profananavano il nome di Dio; rendendo vincolante il giuramento fatto per l'oro del tempio incoraggiavano le offerte, dimostrando il proprio attaccamento al denaro.

I "guai" pronunciati contro i farisei stabiliscono uno "standard" anche per i cristiani. Quando il legalismo e la legge cerimoniale soffocano lo spirito di profezia il cristianesimo si riduce a mera religione, allontanando gli uomini dalla Chiesa, che non è un'istituzione, ma il regno dei cieli in mezzo a noi (Lc 17,20). Dio, infatti, vuole essere adorato "in spirito e verità" (Gv 4,23). 

Nessun credente si senta al di sopra degli altri, si vanti di portare al collo le chiavi del regno, ostacoli o renda più stretta la via della salvezza. Il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17), più di quanto crediamo e più di quanto a volte facciamo credere a chi è in cerca della salvezza.

Preghiera

Dona integrità alla nostra vita, Signore, affinché possiamo accogliere con coerenza il tuo vangelo, testimoniando la tua vicinanza a chi ti cerca con cuore sincero Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 25 agosto 2024

Contro l'amore non c'è legge

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TREDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente e misericordioso, dal quale proviene ogni dono al popolo fedele affinché ti serva con lodevole servizio; concedici, ti supplichiamo, di poterti servire fedelmente in questa vita, per non mancare di ricevere le tue promesse celesti; per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 3,16-22; Lc 10,23-37

Commento

Amare Dio con tutto il cuore e il nostro prossimo come noi stessi. Non vi è controversia tra lo scriba e Gesù riguardo il fatto che questo sia il primo e il più gran comandamento. Si noti che il passo parallelo di Matteo aggiunge "Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti", mentre Marco aggiunge "Non c'è altro comandamento più importante di questi", utilizzando per i due comandamenti il singolare, come a indicare che si tratta delle due facce della stessa medaglia: "Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20).

Ma chi è il nostro prossimo secondo Gesù? Nell'Antico Testamento si considera prossimo ogni membro del popolo di Israele o lo straniero che abita tra gli ebrei. In epoca più tarda sono inclusi anche i proseliti pagani, ma sicuramente non venivano inclusi i samaritani, con i quali i giudei condividevano una antica ostilità. Proprio su questo punto si concentra l'interrogativo del dottore della legge a Gesù: Chi è il mio prossimo? Gesù risponde con una parabola, il cui protagonista è un uomo derubato e malmenato. Lungo la via passano prima un sacerdote, poi un levita e infine un samaritano.

I primi due "tirano dritto", forse anche per il timore di contrarre un'impurità rituale, toccando un uomo "mezzo morto"; i cadaveri erano infatti considerati impuri. Il popolo dei samaritani, cui appartiene il terzo viandante, non adorava Dio presso il tempio di Gerusalemme, ma svolgeva un culto sincretistico sul monte Gherizim. Da qui l'ostilità degli israeliti. 

Eppure l'amore congiunge ciò che è lontano. Non annulla le differenze, ma supera "la paura del contagio". Come afferma Paolo nella sua lettera ai Galati l'amore è un frutto dello Spirito, insieme a "gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà (...) Contro tali cose non c'è legge" (Gal 5,22-23). Nessuna norma religiosa potrà mai esimerci dal prenderci cura di chi è ferito, dall'amare chi è caduto per strada "sotto i colpi dei briganti", sotto la sferza delle tentazioni e le piaghe del peccato. Come il samaritano siamo chiamati a lenire le ferite e affidare al "padrone della locanda" - che è Cristo stesso - l'uomo "mezzo morto", perché "Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva" (Ez 18,23).

Gesù estende il dovere della carità oltre i confini dei nostri steccati sociali, culturali, etnici: nostro fratello è chi ha bisogno di un'evangelizzazione che è innanzitutto dono di una parola vivente ed efficace. Cristo ci ha rivelato che nell'uomo è nascosto il volto del Dio invisibile e non è autentica una religiosità meramente cultuale, priva di ricadute sul nostro modo di essere nel mondo. È questa la condizione per ereditare la vita eterna (v. 25) perché essa appartiene a quella fede che diventa azione, non per conquistare meriti, ma per mostrare riconoscenza verso Dio che ci ha soccorso per primo. «Fà questo e vivarai» (v. 28), «Va' e fa' anche tu lo stesso» (v. 37). Il verbo "fare" apre e chiude questa narrazione evangelica.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 23 agosto 2024

Fermati 1 minuto. Il grande comandamento

Lettura

Matteo 22,34-40

34 I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; 35 e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» 37 Gesù gli disse: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". 38 Questo è il grande e il primo comandamento. 39 Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».

Commento

Dopo avere messo alla prova Gesù con la pericolosa domanda se fosse lecito pagare il tributo a Cesare i farisei "tornano all'attacco" ponendogli una questione che non rischia questa volta di attirargli l'ostilità delle autorità politiche romane, ma delle diverse correnti farisaiche, in disputa tra loro per l'interpretazione delle Scritture. 

Viene dunque chiesto a Gesù qual è il più grande dei precetti della legge. I comandamenti riconosciuti dai maestri ebrei sono in tutto 613, di cui 365 negativi (proibizioni) e 248 positivi. Sarebbe stato facile, dunque, offrire una risposta capace di suscitare una disputa e inimicarsi coloro che lo riconoscevano come  maestro della legge. 

Gesù si spinge oltre e indica non solo quello che ritiene essere il primo comandamento e il più grande, ma anche il secondo, simile - nel testo greco omoía, della stessa sostanza - a questo, che è "Ama il tuo prossimo come te stesso" (v. 39). In questi due comandamenti Gesù riassume le due tavole della Legge: la prima, con i doveri verso Dio, e la seconda, con i doveri verso il prossimo. 

Allo stesso tempo indica che precetti, astensioni e azioni rituali hanno senso solo se suscitati dall'amore. "L'amore è l'adempimento della legge", affermerà, fedelmente al vangelo, l'apostolo Paolo nella sua lettera ai romani (Rm 13,10). Mentre Giovanni nella sua prima lettera evidenzia chiaramente il nesso tra i due comandamenti: "Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto" (1 Gv 4,20). L'esercizio della carità, verso l'uomo fatto a immagine di Dio e riscattato dal sangue del suo Figlio, è il parametro  per comprendere quanto è grande il nostro amore verso Dio.

E tuttavia, pur nella loro complementarietà i due comandamenti mostrano un'importante differenza: mentre Dio va amato "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente" (v. 37), il prossimo va amato "come te stesso" (v. 39). La carità messa in pratica dal cristiano è diversa dal semplice attivismo sociale, non nasce da un'utopia determinata da una visione puramente orizzontale.

La croce descrive la dimesione duplice del "più grande comandamento" (v. 36), declinato al singolare ma articolato in due regole di vita. L'asse verticale, proiettato verso l'alto - verso Dio - consente a quello orizzontale di abbracciare un panorama più ampio, estendendo le braccia della carità verso ogni uomo.

Preghiera

O Dio, noi riconosciamo verso di te un debito di amore senza misura; e poiché hai tanto amato l'uomo da donargli il tuo Figlio unigenito ci impegnamo ad amare i nostri fratelli e le nostre sorelle a gloria del tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 22 agosto 2024

Fermati 1 minuto. La veste giusta per le nozze

Lettura

Matteo 22,1-14

1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Commento

All'inizio della sua missione, Gesù, manda i suoi discepoli raccomandanosi di rivolgersi "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6); la stessa intenzione egli esprime apertamente di fronte alla donna cananea che chiede la guarigione della figlia tormentata da un demonio: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 15,24). Ma siamo ora agli ultimi giorni della sua esistenza terrena e in questa parabola, che precede i sermoni profetici sulla fine dei tempi, Gesù prende definitivamente atto del rifiuto che proprio la casa d'Israele gli ha riservato. Egli esprime  in maniera ormai del tutto aperta la propria natura messianica e regale. 

In questa parabola, da non confondere con la quella "del gran convito" presente nel Vangelo di Luca (Lc 14,15-24) non è un uomo comune a organizzare il banchetto ma un re che prepara le nozze del suo figlio. Qui, inoltre, gli invitati, non si limitano a rifiutare l'invito adducendo delle scuse, ma alcuni mostrano noncuranza mentre altri oltraggiano e uccidono i servi del padrone. Vi è un chiaro riferimento al rifiuto del vangelo da parte dei giudei, che giungeranno a crocifiggere il Cristo e, successivamente, a perseguitare i suoi discepoli. 

La distruzione della città degli invitati sembra una chiara allusione all'assedio e distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C. ed è significativo che, nella parabola avvenga prima dell'estensione dell'invito a «chiunque troverete», «cattivi e buoni» (v. 9-10): la salvezza è ormai estesa al di fuori dei confini del popolo di Israele, comprendendo la moltitudine delle genti. L'ingresso del re, per vedere i commensali, rispecchia una consuetudine di corte: il re entrava nella sala da pranzo sempre per ultimo, quando i commensali avevano già preso posto. L'allusione è chiaramente al giudizio alla fine dei tempi.

Il re scorge tra i tanti commensali un uomo privo della veste nuziale, simbolo della fede, requisito indispensabile per partecipare al banchetto celeste. L'uomo è gettato nelle tenebre dove vi è pianto e stridore di denti, a rappresentare il giudizio di Dio alla fine dei tempi. La frase finale attesta la chiamata dei "molti" ovvero la grazia elargita alle moltitudini, ma l'elezione che spetta soltanto a coloro che l'hanno accolta.

È chiaro che non possiamo identificare negli indifferenti e in coloro che perseguitano i servitori del re soltanto i giudei che rifiutarono Gesù. Ancora oggi tra le genti e persino tra gli stessi cristiani vi sono tanti che non si curano dell'annuncio dell'evangelo o che mostrano una fede solo esteriore. 

Accogliamo con gioia l'invito alle nozze di Cristo con la sua Chiesa, ma non gloriamoci di essere semplicemente tra i suoi commensali; ciascuno si rivesta del Signore Gesù (Rm 13,14), "esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice" (1 Cor 11,28).

Preghiera

Ti ringraziamo, o Padre, per l'invito alle nozze del tuo figlio con la sua Chiesa. Rivestiti della veste che tu stesso ci hai donato, vogliamo lodare in eterno la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 21 agosto 2024

Fermati 1 minuto. Operai volenterosi o mercenari?

Lettura

Matteo 20,1-16

1 «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2 Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. 5 Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. 11 Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: 12 Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. 15 Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? 16 Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».

Commento

Molte sono le interpretazioni date per questa parabola dagli esegeti nel corso della storia. Vi è chi ha visto negli operai della prima ora i figli di Israele e negli ultimi i pagani ai quali è stato esteso il messaggio della salvezza. Questo concorderebbe con il fatto che la parabola è presente solo nel Vangelo di Matteo, rivolto soprattutto agli ebrei convertiti. Altri vi hanno individuato le diverse età della vita in cui viene accolto il vangelo, oppure la durata del servizio reso al Signore. Contrapponendo per esempio i convertiti "della prima ora" a coloro che si convertono in prossimità della morte, come il buon ladrone sulla croce, che il giorno stesso della sua conversione è accolto in paradiso.

La collocazione della parabola la fa sembrare come una risposta alla domanda fatta da Pietro dopo che il giovane ricco se ne andrò contristato: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19,27). In tal caso, l'intento di Gesù sarebbe quello di fugare lo spirito opportunista di coloro che servono nella sua vigna, il regno di Dio che si fa presente nella storia. 

Lungi dal rappresentare una ricompensa data in base alle proprie opere, la parabola del padrone di casa, apparentemente ingiusto, mostra la misericordia di questi nel momento in cui tiene conto non del lavoro svolto ma dell'accoglienza sincera della grazia, sia pur compiuta all'ultima ora. Afferma infatti Paolo nella sua lettera ai Romani (citando Esodo 33,19): "Che diremo dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò" (Rm 9,14-15). 

D'altra parte, non aveva affermato, Gesù che vi è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione? (Lc 15,7). L'invidia degli operai della prima ora ricorda quella del fratello del figliol prodigo, quando il padre uccide il vitello grasso per festeggiarne il ritorno a casa. 

Non saper condividere la gioia di Dio nei confronti di chi accetta di lavorare nella sua vigna, sia pure al tramonto del giorno, significa porsi da sé lontano dalla comunione con i suoi sentimenti di misericordia e non comprendere il senso profondo del vangelo. Serviamo Dio, non con spirito mercenario, ma con gratitudine per il significato che egli dona alle nostre vite, rendendole operose, nel coltivare frutti di vita eterna.

Preghiera

Donaci, Signore, sentimenti di gratitudine per averci chiamati a partecipare al tuo progetto di salvezza e la capacità di gioire con te per la tua misericordia verso coloro che si convertono al vangelo della grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 20 agosto 2024

Bernardo di Chiaravalle, dalla memoria alla presenza di Dio

Le chiese cattolica, anglicana, luterana e maronita ricordano il 20 agosto Bernardo di Chiaravalle, monaco e fondatore dell'abbazia di Clairvaux. Nato nel 1090 a Fontaines, presso Digione, a 21 anni Bernardo si sentì attratto dalla vita monastica. Entrò così, portando con sé una trentina di parenti e amici, nel Nuovo Monastero (così fu chiamato) fondato a Cîteaux pochi anni prima da alcuni monaci che avevano lasciato il monastero di Molesme per iniziare una vita più fedele alla Regola di Benedetto. L'impulso dato da Bernardo alla riforma cistercense fu enorme. Divenuto già nel 1115 abate della nuova fondazione di Clairvaux, a partire da essa egli diede origine a più di sessanta monasteri in tutta l'Europa. Uomo dotato di un carattere forte, ricco di dolcezza e di capacità di amare e farsi amare, Bernardo seppe interpretare l'itinerario della ricerca di Dio, imprescindibile secondo la Regola di Benedetto, come un progressivo passaggio dalla memoria Dei alla presentia Dei nel cuore del monaco; tale passaggio avviene, secondo Bernardo, grazie all'accoglienza della Parola di Dio nella fede e all'esercizio faticoso ma gioioso della carità fraterna. Al centro della sua rilettura della Regola sta infatti l'interpretazione del monastero come «scuola di carità». Fu assiduo ascoltatore delle Scritture, e tutta la sua teologia non fu che un loro commento, nel solco della tradizione dei padri e a partire dalla propria esperienza dell'incontro fra l'umano e il divino. Di tale incontro, che egli chiama «le visite del Verbo», il grande padre cistercense ci ha lasciato una splendida testimonianza letteraria nei suoi Sermoni sul Cantico dei cantici, rimasti incompiuti.

Tracce di lettura

La carità procede da tre cose: da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera. Dobbiamo la purezza al nostro prossimo, la buona coscienza a noi stessi, la fede a Dio. La purezza consiste in questo, che qualsiasi cosa la si faccia a utilità del prossimo e per l'onore di Dio. Ma è anzitutto davanti al prossimo che è necessario manifestarla, perché davanti a Dio noi siamo senza veli. Invece al prossimo non possiamo essere conosciuti se non a misura di quanto gli apriamo il nostro cuore. Due cose fanno in noi una buona coscienza, e cioè la penitenza e la continenza. Con la prima scontiamo i peccati commessi, e con la continenza cerchiamo di evitare in futuro di peccare. Infine, rimane la fede sincera, che si deve presentare a Dio con vigilanza, onde non capiti di offenderlo con il nostro modo di comportarci verso il prossimo. Si dice sincera, senza finzioni, a differenza della fede morta, quella che è senza le opere, crede per un certo tempo, e nel tempo della tentazione viene meno.(Bernardo, Sermoni diversi 45,5)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Bernardo di Clairvaux (1090-1153)

Fermati 1 minuto. Vangelo del benessere o della grazia?

Lettura

Matteo 19,23-30

23 Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. 24 Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». 25 A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: «Chi si potrà dunque salvare?». 26 E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile».
27 Allora Pietro prendendo la parola disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». 28 E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele. 29 Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.
30 Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Commento

Nel pensiero giudaico il benessere terreno è considerato una benedizione di Dio, un premio per i giusti. Lo stesso Giobbe, che viene privato di tutto ciò che gli è più caro (i propri figli, i propri possedimenti, la propria salute) vede benedetti i suoi ultimi anni da Dio (Gb 41,12) e arrivando a centoquarant'anni, "morì vecchio e sazio di giorni" (Gb 42,17). 

Eppure non mancano, anche nell'Antico Testamento, e in particolare nei Salmi, attestazioni di una particolare predilezione di Dio per i poveri e ammonizioni contro gli empi, i quali conducono una vita agiata e spensierata: "Ecco, questi sono gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell'innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina" (Sal 72,12-14); continua il salmista: "Riflettevo per comprendere: ma fu arduo agli occhi miei, finché non entrai nel santuario di Dio e compresi qual è la loro fine. Ecco, li poni in luoghi scivolosi, li fai precipitare in rovina" (Sal 72,16-18). 

Non è la ricchezza di per sé a costituire un ostacolo alla salvezza, ma la cupidigia, l'attaccamento verso di essa. Anche pochi beni possono diventare un ostacolo per la salvezza, quando ci si attacca egoisticamente ad essi. 

Eppure vi è qualcosa di intrinsecamente pericoloso nella ricchezza, quasi una sua proprietà in grado di accecare l'uomo e di lasciarne invischiate le mani nelle cose terrene. Quando il cuore del ricco si chiude verso il povero Lazzaro (Lc 16,19-31) l'esito è di perdere per sempre la propria anima. E cosa gioverà all'uomo guadagnare il mondo intero se perderà la propria anima? (Mc 8,36). Da qui il paradosso illustrato da Gesù: per chi si considera ricco perché abbonda dei beni di questo mondo e non riconosce la ricchezza infinitamente maggiore del regno dei cieli, è difficile entrare in quest'ultimo come per un cammello passare attraverso la cruna di un ago. 

Gli apostoli rimangono sbigottiti di fronte a tale affermazione e si domandano chi, allora, potrà salvarsi. La risposta di Gesù esprime il primato della grazia. Solo Dio può agire sui cuori induriti, solo lui può ridonare la luce a coloro che sono accecati dalle ricchezze di questo mondo. 

Ma cosa giova a coloro che hanno seguito il consiglio dato da Gesù al giovane ricco, di lasciare tutto per seguirlo? «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (v. 27) chiede Pietro a Gesù con la sua ruvida franchezza.

Gesù promette di donare il centuplo fin da questa vita e la vita eterna nel tempo della "rigenerazione". Se sapremo vivere con distacco il nostro rapporto con i beni terreni il nostro cuore sarà allietato dai doni dello Spirito. Condividendo ciò che ci fa sentire ricchi, al di fuori di ogni desiderio di appropriazione, scopriremo la gioia della comunione fraterna.

Le persecuzioni accompagneranno le benedizioni del Signore per i suoi fedeli (v. 30). Ma i problemi e le difficoltà incontrati nel mondo a causa del vangelo diverranno essi stessi fonte di benedizione, aiuto a maturare nella fede, come rami potati nella giusta stagione, per portare frutto più abbondante.

Preghiera

Donaci la grazia, Signore, di uno spirito pronto a sacrificare tutto per te, nella certezza della tua gratitudine verso chi ha scelto di seguirti per la causa del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 16 agosto 2024

Frère Roger Schutz. La speranza della riconciliazione

Il 16 agosto 2005, durante la preghiera della sera che raduna la Comunità di Taizé e migliaia di giovani, frère Roger viene ucciso nella chiesa della Riconciliazione. Il 12 maggio precedente, circondato dai suoi fratelli, aveva festeggiato i suoi 90 anni nella semplicità e nella letizia.
Nel 1940, dopo aver concluso gli studi di teologia a Losanna e a Strasburgo, Roger Schutz, figlio di un pastore riformato svizzero, si stabilisce a Taizé, piccolo paese della Borgogna dove intende iniziare una comunità monastica dedicata alla riconciliazione dei cristiani e tesa ad alleviare la miseria umana. Nel 1949, i primi sette fratelli si impegnano nella vita comune. Convinto della necessità di fare di questa comunità un segno visibile di unità, frère Roger vi accoglie in un primo tempo fratelli appartenenti a diverse confessioni evangeliche, e successivamente, dal 1969, anche cattolici. Da allora Taizé costituisce un riferimento spirituale ed ecumenico di primo piano non solo per il mondo ecclesiale, ma anche per le decine di migliaia di giovani che la comunità accoglie anno dopo anno.
Vicino a papa Giovanni XXIII e al patriarca Athenagoras di Costantinopoli, frère Roger ha partecipato al Concilio Vaticano II in qualità di osservatore. Il suo desiderio profondo di unità lo ha sempre condotto a cercare gesti e simboli capaci di evocare, al di là delle difficoltà, l'avvento di una primavera della chiesa, chiamata ad essere una «terra di riconciliazione, di condivisione, di semplicità» al cuore della famiglia umana.

Tracce di lettura

Ci rendiamo conto che, duemila anni fa, il Cristo è venuto sulla terra non per creare una nuova religione, ma per offrire una comunione in Dio ad ogni essere umano? Dopo la sua resurrezione, la presenza del Cristo si fa concreta attraverso una comunione di amore che è la chiesa. I cristiani avranno il cuore così ampio, l'immaginazione così aperta, l'amore così ardente da scoprire questa via del vangelo e vivere da riconciliati?
Se la vocazione ecumenica ha provocato notevoli dialoghi e scambi, come dimenticare questa parola di Cristo: «Va' prima a riconciliarti»? A forza di rinviare a più tardi la riconciliazione dei cristiani, l'ecumenismo, senza rendersene conto, potrebbe alimentare un'attesa illusoria.
Quando i cristiani permangono in una grande semplicità e in un'infinita bontà del cuore, quando sono attenti a scoprire la bellezza profonda dell'animo umano, sono portati ad essere in comunione gli uni con gli altri nel Cristo.
Una credibilità può rinascere presso i giovani, quando questa comunione che è la chiesa si fa limpida, cerca con tutta la sua anima di amare e perdonare; quando, anche con pochi mezzi, si fa accogliente, vicina alle pene umane. Mai distante, mai sulla difensiva, liberata dalle severità, essa può irradiare l'umile fiducia della fede fin nei nostri cuori umani.
Sì, il Cristo chiama noi, evangelicamente poveri, a realizzare la speranza di una comunione. Anche il più semplice dei più semplici può riuscirci...
Penso che dalla mia gioventù non mi abbia mai abbandonato l’intuizione che una vita di comunità poteva essere un segno che Dio è amore, e amore soltanto. A poco a poco cresceva in me la convinzione che era essenziale creare una comunità con uomini decisi a donare tutta la loro vita, e che cercassero sempre di capirsi e riconciliarsi: una comunità dove la bontà del cuore e la semplicità fossero al centro di tutto.
(Frère Roger, Dio non può che amare)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Frère Roger di Taizé (1915-2005)

Fermati 1 minuto. Il dono integrale di sé

Lettura

Matteo 19,3-12

3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4 Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5 Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? 6 Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi». 7 Gli obiettarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l'atto di ripudio e mandarla via?». 8 Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. 9 Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un'altra commette adulterio».
10 Gli dissero i discepoli: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11 Egli rispose loro: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12 Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

Commento

La questione con la quale i farisei cercano di mettere alla prova Gesù era particolarmente spinosa al suo tempo. Vi erano infatti due grandi scuole rabbiniche, l'una piuttosto lassista, avrebbe messo in discussione l'autorità di Gesù come maestro di morale e prevedeva la possibilità del divorzio anche per motivi futili, ad esempio se la moglie non cucinava bene o se il marito si innamorava di un'altra donna; in questo senso va intesa l'espressione "ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo" (v. 3); l'altra scuola, rigorista, godeva di minore popolarità e avrebbe esposto Gesù a molte critiche, attirandogli forse anche l'odio di Erode.

Gesù va oltre l'interpretazione della legge mosaica, risalendo al principio della creazione e a quanto affermato nel libro della Genesi. Innanzitutto mette in evidenza la complementarietà dell'uomo con la donna, definendone la vocazione a "diventare una carne sola ". Tale unione è operata da Dio stesso e in ciò consiste la propria sacralità. La legge del ripudio stabilita da Dio tramite Mosè è dunque una concessione fatta da Dio a Israele per la sua durezza di cuore. Gesù ne restringe il perimetro di applicabilità al solo ambito della fornicazione, ovvero dell'adulterio. In questo caso, infatti, quell'unione è spezzata dall'adulterio stesso. 

Gesù non risponde direttamente alla domanda se sia lecito dare alla propria moglie "l'atto di ripudio", che secondo la legge mosaica era un tutela per la donna, certificando che non era un'adultera e preservandola dalla condanna a morte. Secondo il ragionamento di Gesù l'uomo che sposa una donna che sia stata allontanata per quasiasi causa che non sia l'adulterio commette egli stesso adulterio, poiché quella donna rimane sposa di un altro uomo.

Di fronte a una prospettiva come quella delineata in questo brano del Vangelo di Matteo i discepoli riconoscono che forse sarebbe meglio non sposarsi, piuttosto che rischiare un'unione con una donna fedele ma ragione di infelicità coniugale. Senza sminuire l'alto valore del matrimonio, che anzi viene tutelato dalle parole di Gesù contro un "divorzio facile", questi afferma che vi sono uomini chiamati da Dio stesso a una totale consacrazione per il regno dei cieli. Tali uomini anticipano sulla terra quella condizione che sarà propria dei risorti e che li rende simili agli angeli, i quali "non prendono moglie né marito" (Lc 20,34-36). Ma poiché si tratta di una chiamata particolare, da parte di Dio, è chiaro che non può essere imposta con un "obbligo del celibato" per l'esercizio del ministero apostolico o con l'esaltazione della castità a scapito della vocazione matrimoniale. 

L'apostolo Paolo, che aveva scelto per sé il celibato, ne loda la proprietà di rendere maggiormente liberi per l'opera di evangelizzazione: "Chi non è sposato si dà pensiero delle cose del Signore, di come potrebbe piacere al Signore" (1 Cor 7,33). Tuttavia lo stesso Paolo ci offre una pagina meravigliosa sul matrimonio, inteso come unione tra Cristo e la sua chiesa: "Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25). E nella lettera a Timoteo l'apostolo delle genti prevede che diaconi, presbiteri e vescovi (i cui termini sono utilizzati spesso in modo "intercambiabile" e non con una connotazione gerarchica) possano essere sposati, purché "irreprensibili" e "mariti di una sola moglie" (1 Tim 3,2). Paolo riconosce il diritto di prendere una moglie "sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa" (1 Cor 9,5). 

Ciascuno per Paolo "ha il proprio dono da Dio" (1 Cor 7,7). E poiché entrambi i doni, il celibato e l'unione matrimoniale, provengono da Dio, entrambi devono essere accolti dall'uomo con libertà e senso di responsabilità. Affrancati dalla legge, siamo chiamati all'esercizio della carità nel dono integrale di noi stessi, fedeli al nostro Sposo celeste.

Preghiera

Concedici, Signore, di riconoscere il tuo dono per noi e di farne buon uso, vivendo in santità e giustiza, non come servi sotto la legge, ma come credenti uniti a te in un vincolo sponsale. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 15 agosto 2024

Fermati 1 minuto. Beata colei che ha creduto

Lettura

Luca 1,39-56

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».
46 Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre».
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Commento

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Maria si mette in viaggio "in fretta" (v. 39) verso la casa delle cugina Elisabetta. La fretta di Maria indica la sua pronta disponibilità al disegno di Dio e il suo farsi annunciatrice di salvezza, lei che per prima ha ricevuto l'annuncio del vangelo. 

Maria, divenuta dimora di Dio, compie un viaggio verso la montagna che ricorda quello dell'arca dell'alleanza (2 Sam 6,1-15) e le parole che Davide pronunciò davanti a questa riecheggiano in quelle di Elisabetta: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (v. 43). Elisabetta riconosce Gesù come Signore prima ancora della sua nascita, sorpresa dal sussulto del bambino che porta nel grembo alla voce del saluto di Maria. 

Nel racconto della visitazione Maria appare come vera teòfora, portatrice di Dio, capace di raggiungere coloro che attendono la salvezza e di comunicare il Cristo. Elisabetta è invece il modello, tra i figli di Israele, di chi sa scorgere l'adempimento delle promesse messianiche. Così, dopo il saluto di Maria, Elisabetta viene colmata dallo Spirito santo e benedice la cugina e il frutto del suo grembo. 

La comprensione, da parte di Elisabetta, degli eventi divini che si stanno compiendo, è straordinaria e solo la grazia illuminante può permetterle di oltrepassare la cortina di mistero che li custodisce. La sua dichiarazione di umiltà dimostra che coloro che sono ricolmi dello Spirito Santo non hanno considerazione dei propri "meriti", ma una grande stima del favore ricevuto da Dio. 

Il viaggio di Maria ci insegna che quando la grazia opera nei nostri cuori desideriamo prontamente condividerla. La missionarietà del credente può assumere svariate forme, ma è sempre il segno di una fede autentica. Nell'attesa del Signore che viene siamo chiamati dallo Spirito a farci annunciatori del vangelo, solerti, anche quando il viaggio verso la montagna è faticoso.

L'inno di lode noto dalla sua prima parola della versione latina come Magnificat utilizza ampiamente il cantico che Anna innalzò a Dio per aver ricevuto in dono il figlio Samuele, nonostante la sua sterilità.(1 Sam 2,1-10) e per tre quinti riprende altri passi dell'Antico Testamento. Può essere stato un inno giudeo-cristiano ritenuto da Luca adatto alla situazione e in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia in Dio, coloro che nella letteratura biblica vengono definiti in ebraico anawim, e che Gesù proclama beati (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata". 

Dio è glorificato nel cantico per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio (v. 51) non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Questo è il senso del Magnificat: il Signore è fedele e copre con la sua misericordia le infedeltà del suo popolo e di tutti quelli che lo temono (v. 50). Per sempre.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

 

mercoledì 14 agosto 2024

Fermati 1 minuto. Una sinfonia di cuori davanti a Dio

Lettura

Matteo 18,15-20

15 Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18 In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. 20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».

Commento

Spesso ci viene proposto un cristianesimo consistente in una totale sospensione del giudizio e legittimazione di ogni errore in nome del principio di "non giudicare"; invece Gesù ci insegna che si può e si deve riprendere il fratello e che la correzione fraterna, quando fatta con umiltà e discrezione è essa stessa un atto di misericordia.

Se il fratello non ascolterà il nostro consiglio allora potremo tornare da lui accompagnati da due o tre amici. Secondo la legge ebraica per dar forza legale ad un'accusa o dimostrare un reclamo, si richiedevano almeno due testimoni (Dt 19,15) e Gesù, per evitare che nella comunità si facessero ingiustizie o si lanciassero false accuse, adotta la medesima regola.

Il terzo passo da compiere, qualora il fratello continui a non volere ravvedersi è il ricorso alla chiesa. Il termine greco ekklesia, che significa "assemblea", ricorre solo due volte nei Vangeli, qui e in Mt 16,18. In questo contesto si riferisce non alla chiesa universale ma all'assemblea locale, che aveva la facoltà di dirimere le questioni disciplinari. A giudicare è dunque non un vescovo o una singola autorità ecclesiastica, ma la congregazione dei credenti (non esisteva monepiscopato nel periodo apostolico).

Significativa, per comprendere la questione dell'autorità nella chiesa, è la ripetizione in questo passo della frase relativa al potere "di sciogliere e di legare" in precedenza pronunciata nei confronti di Pietro (Mt 16,18), ma ora estesa ai discepoli e a tutta la congregazione guidata dallo Spirito e in armonia con la legge di Cristo.

L'importanza delle piccole comunità, che costituivano la realtà della chiesa primitiva è attestata dal passaggio da un discorso disciplinare a quello relativo all'efficacia della preghiera. Gesù parla letteralmente di una "sinfonia" tra "due che si accordano" (gr. duo sinfonèsosin) che suscita l'ascolto da parte di Dio. Il Signore riduce al minimo indispensabile il numero di credenti che possono radunarsi in preghiera e anche qui il numero di due o tre sembra richiamare quello dei testimoni per la correzione del fratello. 

Gesù non vuole proclamare inutile la preghiera individuale, il cui valore aveva apertamente affermato: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Sottolinea però l'efficacia di una richiesta fatta nella comunione dei cuori, anche quando ridotta al suo minimo denominatore: due persone.

Per la legge giudaica del tempo di Gesù una sinagoga non poteva essere aperta se vi erano meno di dieci persone. Con queste sue parole il Signore afferma che il piccolo numero delle prime comunità cristiane non deve scoraggiare i credenti dal riunirsi in preghiera. Di più, egli promette di essere in mezzo a loro, come mediatore che intercede presso il Padre, anche quando saranno due o tre.

Il Signore non poteva essere più chiaro relativamente alla forma che deve assumere la sua chiesa nell'esercizio della disciplina e nel culto di adorazione a Dio. Non ci propone una o più persone con un potere derivante da un "vicariato". Non c'è bisogno di un vicario perché egli non è vacante dalla sua chiesa, ne è anzi il capo, mentre questa è il suo corpo vivificato dallo Spirito. La comunità, anche la più piccola, può contare sulla presenza del Risorto; egli è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

Preghiera

O Dio, manda il tuo Spirito, affinché possiamo essere un cuore solo nella tua chiesa. La comunione fraterna, nella fede e nella preghiera, ti renda presente in mezzo a noi. Amen.