COMMENTO ALLA LITURGIA DELL'UNDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ
Colletta
O Dio, che hai manifestato la tua onnipotenza principalmente mostrando la tua pietà e misericordia; concedici benigno la tua grazia in abbondanza, affinché noi, correndo sulla via dei tuoi comandamenti, possiamo ottenere la ricompensa promessa e prendere parte al tuo regno celeste. Per Gesù Cristo nostro Signore Amen.
Letture
1 Cor 15,1-11; Lc 18,9-14
Commento
Le parole con cui Luca introduce la parabola del pubblicano e del fariseo ci informano che egli la pronunciò per coloro che “erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri (Lc 18,9). I protagonisti della parabola rappresentano due tipologie di credenti e la tentazione di sentirsi tra coloro che appartengono “alla chiesa giusta”, al popolo degli “eletti”, biasimando, o quantomeno compatendo, “quelli di fuori”.
Il Vangelo di Luca, dopo averci riportato, in questo stesso capitolo, l’esortazione di Gesù a pregare continuamente “senza stancarsi” (Lc 18, 1), offre questa parabola in cui viene spiegato come bisogna pregare.
La preghiera del fariseo, apparentemente, è una preghiera di ringraziamento a Dio. In realtà, il fariseo è completamente centrato su se stesso, nella presunzione di non essere “come gli altri uomini” (Lc 18,11). Compie diverse opere buone, andando anche molto al di là di ciò che è richiesto dalla legge mosaica: digiuna due volte a settimana, mentre all’ebreo osservante era comandato di digiunare una volta l'anno in occasione della memoria annuale della distruzione del primo tempio; paga la decima di tutto, mentre in realtà la decima era richiesta solo su alcuni prodotti.
Ciò che Gesù mette in discussione non sono le opere buone del fariseo, ma il suo atteggiamento interiore, contrapposto a quello del pubblicano, che risulta molto diverso. Il fariseo prega stando ritto in piedi - una posizione che sembra testimoniare una grande sicurezza di sé davanti a Dio - e parlando “dentro di sé” (Lc 18,11), trasformando la sua preghiera in una mormorazione contro il prossimo, rendendola dunque una sorta di bestemmia.
Il pubblicano, invece, proclama ad alta voce il suo status di peccatore. D’altra parte, era un peccatore “pubblico”, per il suo ruolo di agente della risocossione delle tasse per conto dell’occupante romano (e spesso tale riscossione, già considerata riprovevole di per sé, si macchiava ulteriormente di disonestà). Ma egli non respinge le accuse che gli vengono rivolte: ciò che il fariseo mormora dentro di sé contro il pubblicano questi lo riconosce, portando la propria vergogna davanti a Dio. Di qui la sua preghiera, a sguardo basso e a debita distanza dal Santo dei Santi, il luogo del Tempio che rappresentava la presenza di Dio sulla terra: “stando lontano, non ardiva neppure alzare gli occhi al cielo” (Lc 18,1). Il pubblicano non ha nulla di cui gloriarsi, soltando chiede a Dio “sii placato verso me peccatore” (Lc 18,14).
Gesù non condanna le buone opere del fariseo, né sminuisce il peccato del pubblicano; ma loda il suo modo di pregare, ovvero il modo in cui egli si relaziona con Dio e, di conseguenza, con il prossimo. Il pubblicano appare consapevole del male arrecato e del suo essersi posto lontano da Dio e dai suoi comandamenti. Questa è la condizione di tutti noi, compreso il fariseo, con il suo perfezionismo spirituale.
Così Paolo, nella sua Prima lettera ai Corinzi, rappresenta i cardini della nostra fede: “Il vangelo che vi ho annunziato (…) e nel quale state saldi, e mediante il quale siete salvati (…) Cristo è morto secondo i nostri peccati, secondo le scritture (…) fu sepolto e risuscitò” (1Cor 15,1-4).
Paolo, in una lezione di umiltà, che non scade nella falsa modestia, si considera “il minimo degli apostoli, neppure degno di essere chiamato apostolo (1Cor 15,9), ma riconosce anche che “la grazia verso di me non è stata vana, anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 10). Questa consapevolezza è strettamente correlata alla fede nella risurrezione di Cristo: non sapere riconoscere che la grazia può operare e certamente opera in noi, per santificarci dopo averci giustificati, significa rendere vana la risurrezione di Cristo.
La parabola del fariseo e del pubblicano, ci insegna che pregare bene significa essere veritieri con se stessi, riconoscendosi bisognosi di salvezza; e significa essere veritieri con Dio, riconoscendolo come un Dio misericordioso, che in Cristo, ha donato se stesso per la nostra salvezza.
- Rev. Dr. Luca Vona