COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TREDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso, dal quale proviene ogni dono al popolo fedele affinché ti serva con lodevole servizio; concedici, ti supplichiamo, di poterti servire fedelmente in questa vita, per non mancare di ricevere le tue promesse celesti; per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Letture
Gal 3,16-22; Lc 10,23-37
Commento
Amare Dio con tutto il cuore e il nostro prossimo come noi stessi. Non vi è controversia tra lo scriba e Gesù riguardo il fatto che questo sia il primo e il più gran comandamento. Si noti che il passo parallelo di Matteo aggiunge "Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti", mentre Marco aggiunge "Non c'è altro comandamento più importante di questi", utilizzando per i due comandamenti il singolare, come a indicare che si tratta delle due facce della stessa medaglia: "Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20).
Ma chi è il nostro prossimo secondo Gesù? Nell'Antico Testamento si considera prossimo ogni membro del popolo di Israele o lo straniero che abita tra gli ebrei. In epoca più tarda sono inclusi anche i proseliti pagani, ma sicuramente non venivano inclusi i samaritani, con i quali i giudei condividevano una antica ostilità. Proprio su questo punto si concentra l'interrogativo del dottore della legge a Gesù: Chi è il mio prossimo? Gesù risponde con una parabola, il cui protagonista è un uomo derubato e malmenato. Lungo la via passano prima un sacerdote, poi un levita e infine un samaritano.
I primi due "tirano dritto", forse anche per il timore di contrarre un'impurità rituale, toccando un uomo "mezzo morto"; i cadaveri erano infatti considerati impuri. Il popolo dei samaritani, cui appartiene il terzo viandante, non adorava Dio presso il tempio di Gerusalemme, ma svolgeva un culto sincretistico sul monte Gherizim. Da qui l'ostilità degli israeliti.
Eppure l'amore congiunge ciò che è lontano. Non annulla le differenze, ma supera "la paura del contagio". Come afferma Paolo nella sua lettera ai Galati l'amore è un frutto dello Spirito, insieme a "gioia, pace, pazienza, gentilezza, bontà (...) Contro tali cose non c'è legge" (Gal 5,22-23). Nessuna norma religiosa potrà mai esimerci dal prenderci cura di chi è ferito, dall'amare chi è caduto per strada "sotto i colpi dei briganti", sotto la sferza delle tentazioni e le piaghe del peccato. Come il samaritano siamo chiamati a lenire le ferite e affidare al "padrone della locanda" - che è Cristo stesso - l'uomo "mezzo morto", perché "Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva" (Ez 18,23).
Gesù estende il dovere della carità oltre i confini dei nostri steccati sociali, culturali, etnici: nostro fratello è chi ha bisogno di un'evangelizzazione che è innanzitutto dono di una parola vivente ed efficace. Cristo ci ha rivelato che nell'uomo è nascosto il volto del Dio invisibile e non è autentica una religiosità meramente cultuale, priva di ricadute sul nostro modo di essere nel mondo. È questa la condizione per ereditare la vita eterna (v. 25) perché essa appartiene a quella fede che diventa azione, non per conquistare meriti, ma per mostrare riconoscenza verso Dio che ci ha soccorso per primo. «Fà questo e vivarai» (v. 28), «Va' e fa' anche tu lo stesso» (v. 37). Il verbo "fare" apre e chiude questa narrazione evangelica.
- Rev. Dr. Luca Vona