Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 7 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Gesù consacra il tempo della sosta

Lettura

Luca 10,38-42

38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

Commento

Lungo il cammino Gesù decide di fare una sosta a casa di Marta e Maria, sorelle del suo amico Lazzaro. Le due donne mostrano atteggiamenti contrapposti, ma entrambi importanti nella Chiesa: Marta, con il suo servizio attivo mostra la diakonìa, il prendersi cura del Signore, presente in ogni persona bisognosa; Maria è l'esemplare della discepola dedita all'ascolto di Dio. Degna di nota è la posizione assunta da quest'ultima, seduta davanti a Gesù, tipica del discepolo e a quei tempi del tutto inusuale per una donna. 

Il Signore non rimprovera a Marta il suo servizio, ma il suo essere "tutta presa"; letteralmente "assorbita" (gr. periestàto) per il grande servizio. Gesù consacra il tempo della sosta, dedicato al suo ascolto. Se non esita di compiere miracoli e guarigioni in giorno di sabato, al tempo stesso porta la sacralità del riposo sabbatico nel quotidiano. Non c'è attività così importante che possa distoglierci da una pausa per ascoltare la sua parola. 

Gesù rimprovera a Marta di preoccuparsi e agitarsi per troppe cose. Innanzitutto, qualsiasi opera di servizio deve essere da noi svolta con una azione quieta: con le mani dobbiamo servire, ma con le orecchie dobbiamo ascoltare la voce del Cristo.

Quando Gesù vuole essere accolto nelle nostre vite non ci chiede di "strafare". L'apostolato, il servizio di Cristo nel nostro prossimo, non può schiacciare e annullare lo spazio indispensabile riservato alla contemplazione, e alla lode di Dio, vero nutrimento e ristoro dell'anima.

Cammino e sosta, scandiscono la vita di Gesù, come una melodia in cui le pause sono importanti quanto le note. Egli ci esorta alla semplificazione della nostra vita esteriore ed interiore; ci libera dagli affanni chiamandoci alla semplicità e alla gioia del discepolato, che è sapiente equilibrio tra il fare e l'ascoltare, il servizio e l'adorazione: faremo così una cosa senza trascurare l'altra, compiendo "la giustizia e l'amore di Dio" (Lc 11,42).

Preghiera

Signore, noi ti adoriamo, in ascolto, seduti ai tuoi piedi. La tua parola alimenti in noi l'amore contemplativo e l'ardore per la vita apostolica; senza che mai perdiamo l'attenzione verso la tua presenza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 6 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Chiamati ad essere prossimo

Lettura

Luca 10,25-37

25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 28 E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30 Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37 Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

Commento

La parabola del buon samaritano ci insegna che né la conoscenza della legge né il culto liturgico sono sufficienti per ottenere la salvezza: è infatti necessario passare dal "discorso su Dio" e dall'adorazione di Dio alla concreta pratica di vita, mettendo a frutto i talenti che egli ci ha dato: quei talenti che il samaritano compassionevole lascia all'albergatore affinché si prenda cura dell'uomo ferito.

Se per i dottori della legge il "prossimo" era colui che apparteneva a Israele o lo straniero che abitava tra gli ebrei, insomma il prossimo era colui che si trovava "vicino" ad Israele, Gesù ribalta questa impostazione teologica, affermando che prossimo deve essere ogni credente verso chi ha bisogno, a prescindere dalla su etnìa, religione e cultura: infatti sull'identità dell'uomo ferito non ci viene detto nulla. In tale ottica anche un samaritano, che era considerato dagli ebrei un eretico idolatra, può diventare con la sua compassione prossimo di chi è nel bisogno, prossimo dell'uomo che è immagine di Dio, adempiendo il grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo... e il prossimo tuo...».

Chi, se non Cristo stesso, è colui che senza badare a chi siamo, cosa ci meritiamo, si prende cura delle nostre ferite? Sul suo esempio siamo chiamati a passare dal "cosa c'è scritto" della legge al "fa'" del suo comandamento. Non perché siamo capaci, da noi stessi, di compiere opere tali da meritarci la nostra giustificazione; ma perché la sua grazia ci dona i talenti per farle.

Al contempo siamo anche il locandiere, al quale il Signore chiede di prendersi cura di colui che è nel bisogno, pagandogli i due denari e promettendogli di rifondere al suo ritorno il "di più" che spenderà. La Chiesa è chiamata ad essere luogo di compassione e misericordia.

Preghieria

Signore Gesù Cristo, che purifichi le ferite dela nostra anima con il tuo sangue e ci ridoni vigore con l'olio della tua grazia, fa' che siamo sempre solleciti verso coloro che sono nella necessità. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Bruno e la pace che il mondo non conosce

I cattolici d'occidente celebrano oggi la memoria di Bruno, fondatore dell'Ordine certosino.

Nel 1101 muore nel romitorio di Serra, in Calabria, Bruno, fondatore della Certosa. Nato a Colonia intorno al 1030, egli aveva dapprima compiuto gli studi nella celebre scuola cattedrale di Reims, fino a diventarne in giovanissima età scholasticus, cioè maestro di teologia.

Dopo aver posto mano alla stesura di un commento sui Salmi e averne intrapreso un altro sulle epistole paoline, Bruno visse anni difficili al servizio del vescovo Manasse, notoriamente simoniaco. Maturato un certo disgusto per la mondanità della chiesa di quel tempo, Bruno rifiutò, alla deposizione di Manasse, l'elezione ad arcivescovo di Reims, e iniziò a pensare a una forma di vita conforme al suo desiderio di ricerca del Signore nella solitudine e nel silenzio.

Dopo un tempo trascorso vicino a Molesme, decise infine di ritirarsi nei pressi di Grenoble, sul massiccio della Chartreuse, da cui prenderà il nome l'Ordine certosino, dando così inizio a una forma di vita fortemente eremitica.

Chiamato da papa Urbano II, suo antico discepolo, Bruno dovette lasciare i propri compagni per recarsi a Roma al suo servizio. Ma di fronte ai dissidi tra il pontefice e l'impero, egli prese la decisione di ritirarsi definitivamente in Calabria, dando vita all'eremo di Serra.

Animo vigilante, uomo di desideri e di amore ardente per il Signore, egli poté così dedicarsi all'ascolto della parola di Dio e all'attesa del suo Regno nella preghiera. È la preghiera, secondo Bruno, che porta l'uomo a consolidare la propria umanità nella lotta che silenziosamente ha luogo nel cuore, giorno dopo giorno.

Tracce di lettura

Io abito in un eremo, da ogni lato molto distante dalle abitazioni degli uomini, nelle lontane regioni della Calabria insieme a dei fratelli che conducono vita monastica - alcuni dei quali sono ben istruiti - e che, perseverando con saldezza nei loro posti di sentinella nelle cose di Dio, attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena busserà.
Quanta utilità e gioia divina, poi, la solitudine e il silenzio dell'eremo apportino a coloro che li amano, lo sanno solo coloro che ne hanno fatto l'esperienza. Qui, infatti, agli uomini forti è consentito ritornare in se stessi e abitare con se stessi quanto a loro piace, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e cibarsi con beatitudine dei frutti del paradiso. Qui si acquista quell'occhio dal cui sereno sguardo d'amore è colpito lo Sposo e attraverso il quale, se senza macchia e puro, si vede Dio. Qui si celebra una tranquillità solerte e si gusta il riposo mediante un quieto agire. Qui Dio dispensa ai suoi atleti, per la fatica della lotta, la ricompensa desiderata, cioè quella pace che il mondo non conosce, e la gioia nello Spirito santo. (Bruno, Lettera a Rodolfo il Verde 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


domenica 5 ottobre 2025

Per mezzo della fede, radicati nell'amore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SEDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo, possa la tua continua pietà purificare e difendere la tua Chiesa; e poiché essa non può essere al sicuro senza il tuo soccorso, preservala sempre con il tuo aiuto e la tua bontà. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 3,13-21; Lc 7,11-17

Commento

Due folle si incontrano: l'una è quella dei discepoli di Gesù e del suo vasto seguito, l'altra quella del funerale dell'unico figlio di una vedova. Nella società patriarcale di quel contesto storico-geografico le vedove erano una categoria particolarmente vulnerabile; possiamo immaginare, dunque, la tragedia per questa donna, di aver perso l'unico figlio maschio. 

Gesù "ne ebbe compassione"; con una traduzione più accurata del verbo greco splanchnizomai, possiamo dire "ne fu commosso nelle viscere". Lo stesso verbo è utilizzato da Luca nella parabola del buon samaritano e in quella del figliol prodigo. Gesù, che si commosse fino a prorompere in pianto davanti alla tomba dell'amico Lazzaro, comprende la nostra miseria di creature soggette alla morte a causa del peccato (cfr. Rm 5,12-14) e compie in questa occasione un gesto che per la legge ebraica rendeva impuri. 

Egli non solo non contrae alcuna impurità ma è anche in grado di ridonare la vita a ciò che si è avviato verso la corruzione. Un gesto semplice e una parola efficace: "Giovinetto, dico a te, alzati!" - quell'"alzati" che nel verbo originale greco egheiro descriverà nello stesso Vangelo di Luca il mistero pasquale. 

Gesù non teme di toccare con mano la nostra miseria. Troppe volte la religione inculca un senso di impurità in chi vorrebbe avvicinarsi ad essa, provocandone il rifiuto. Per paura di perdere consensi, d'altra parte, alcune chiese rimuovono la parola "peccato" dal proprio lessico, disconoscendo che nell'uomo vi è una tendenza al male, all'egoismo, alla prevaricazione. 

Il vangelo ci istruisce sul fatto che tutti abbiamo peccato ma la fede in Cristo ci consente di morire al peccato per risorgere nella grazia. Come i testimoni del giovane riportato in vita possiamo veramente dire "Dio ha visitato il suo popolo". 

"Per mezzo della fede... radicati nell'amore" conosceremo, afferma Paolo (Ef 3,17-19), la misura dell'amore di Cristo, e saremo "ripieni della pienezza di Dio". Dio che può fare molto di più di quel che possiamo aspettarci (Ef 3,20) ha mandato il suo Figlio a restaurare la sua immagine nell'uomo; non ci concede solo di vincere la morte, ma di partecipare alla sua stessa vita divina.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 3 ottobre 2025

La teologia del silenzio di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

La ricerca del divino e dell'ultima realtà ha prodotto, nelle diverse tradizioni spirituali dell'umanità, approcci apparentemente paradossali: il silenzio come linguaggio più eloquente, la negazione come affermazione suprema, il vuoto come pienezza ultima. Due figure emblematiche di questa via negativa emergono da contesti culturali distanti: Dionigi Pseudo-Areopagita, teologo cristiano del V-VI secolo, e la tradizione del Buddhismo Zen con il suo concetto di śūnyatā (vuoto). Nonostante le profonde differenze teologiche e filosofiche, questi due approcci condividono una comune intuizione: l'ineffabilità dell'assoluto e l'inadeguatezza del linguaggio concettuale nel cogliere l'ultima realtà.

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita

Il contesto e l'opera

Dionigi Areopagita, la cui vera identità rimane avvolta nel mistero, produsse un corpus di scritti che avrebbe profondamente influenzato la mistica cristiana orientale e occidentale. Le sue opere principali - "I nomi divini", "La teologia mistica", "La gerarchia celeste" e "La gerarchia ecclesiastica" - elaborano una teologia che si muove su due livelli complementari: la via affermativa (catafatica) e la via negativa (apofatica).

La via negativa

Al centro del pensiero dionisiano sta la convinzione che Dio trascenda radicalmente ogni categoria dell'essere e del pensiero umano. La teologia apofatica procede quindi per negazioni successive: Dio non è buono, non è sapiente, non è essere, non è vita - non nel senso che gli manchino queste qualità, ma perché le trascende infinitamente. Come scrive Dionigi nella "Teologia mistica": "Procedendo verso l'alto, diciamo che Egli non è anima, né mente, né ha immaginazione o opinione o ragione o intellezione, né è ragione o intellezione, né si può dire o pensare".

Questo processo di negazione non è nichilismo, ma riconoscimento dell'inadeguatezza del linguaggio umano di fronte all'assoluto trascendente. Dio è "super-essenziale", oltre ogni determinazione. Le affermazioni catafatiche (Dio è buono, Dio è sapiente) rimangono valide come simboli che ci orientano verso il divino, ma devono essere trascese nella contemplazione mistica.

La tenebra luminosa

Un'immagine centrale in Dionigi è quella della "tenebra luminosa" o "tenebra divina". Mosè che sale sul Sinai e penetra nella nube oscura dove dimora Dio diventa il paradigma dell'esperienza mistica: "Allora Mosè si libera da tutto ciò che vede e da coloro che vedono ed entra nella tenebra veramente mistica dell'ignoranza; qui fa tacere ogni conoscenza positiva, sfugge interamente a ogni presa e a ogni visione, perché appartiene totalmente a Colui che è al di là di tutto".

Questa oscurità non è assenza di luce, ma eccesso di luminosità che abbaglia la mente discorsiva. È l'esperienza dell'unione mistica che trascende la dualità soggetto-oggetto, un'esperienza che può essere vissuta ma non adeguatamente descritta.

L'influenza sulla mistica cristiana

L'influenza di Dionigi sulla mistica cristiana è stata immensa. Attraverso Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo, il pensiero dionisiano penetrò in Occidente, influenzando figure come Meister Eckhart, Giovanni della Croce con la sua "notte oscura dell'anima", e la tradizione contemplativa della "Nube della non-conoscenza". In Oriente, la sua teologia apofatica divenne parte integrante della spiritualità ortodossa, dalla Filocalia agli esicasti del Monte Athos.

Il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

Le radici nella filosofia Madhyamaka

Il concetto di śūnyatā (vuoto) nel Buddhismo Zen affonda le sue radici nella filosofia Madhyamaka di Nāgārjuna (II-III secolo). Śūnyatā non indica il nulla nichilistico, ma l'assenza di esistenza intrinseca, indipendente e permanente in tutti i fenomeni. Ogni cosa esiste in relazione, in dipendenza da cause e condizioni, priva di un'essenza fissa e sostanziale.

Nāgārjuna, attraverso la sua dialettica delle "quattro negazioni" (catuṣkoṭi), decostruisce sistematicamente ogni posizione metafisica: la realtà ultima non è, non non-è, non è sia essere che non-essere, né è né essere né non-essere. Questa logica tetralemmatica dissolve ogni tentativo della mente concettuale di afferrare l'assoluto.

Lo Zen e la realizzazione diretta

Il Buddhismo Zen, sviluppatosi in Cina (Chan) e poi in Giappone, radicalizza l'approccio alla śūnyatā enfatizzando l'esperienza diretta oltre le parole e i concetti. Il famoso verso attribuito a Bodhidharma recita: "Una trasmissione speciale al di fuori delle scritture, non dipendente da parole e lettere, che punta direttamente alla mente umana, permettendo di vedere nella propria natura e raggiungere la buddhità".

Il vuoto nello Zen non è un concetto da comprendere intellettualmente, ma una realtà da realizzare attraverso la pratica meditativa (zazen) e l'illuminazione improvvisa (satori o kenshō). È la percezione diretta della natura vuota di tutti i fenomeni, incluso il sé, che libera dall'attaccamento e dalla sofferenza.

Il Paradosso della Forma e del Vuoto

Il celebre Sutra del cuore condensa questa visione nella formula: "La forma è vuoto, il vuoto è forma; la forma non è altro che vuoto, il vuoto non è altro che forma". Questo non è dualismo, ma la comprensione non-duale che la vacuità dei fenomeni non li nega ma ne costituisce la vera natura. I fenomeni non possiedono esistenza sostanziale, eppure appaiono e funzionano nel mondo relativo delle cause e condizioni.

Nel Buddhismo Zen, questa comprensione si traduce in un'affermazione radicale dell'ordinario: "Prima dell'illuminazione: tagliare legna, portare acqua. Dopo l'illuminazione: tagliare legna, portare acqua". Il sacro non è altro dal profano; il nirvana non è separato dal samsara. La realizzazione del vuoto non ci porta fuori dal mondo, ma trasforma il nostro modo di essere nel mondo.

I Kōan come Pedagogia del Vuoto

Una caratteristica distintiva dello Zen Rinzai è l'uso dei kōan, enigmi che sfidano la logica razionale e costringono la mente a trascendere il pensiero dualista. Domande come "Qual è il suono di una mano sola?" o "Mostrami il tuo volto originale prima che i tuoi genitori nascano" non ammettono risposte concettuali. Servono a cortocircuitare il pensiero discriminante e a precipitare l'esperienza diretta della vacuità.

Convergenze e risonanze

L'ineffabilità dell'Assoluto

Sia Dionigi che lo Zen condividono una profonda diffidenza verso il linguaggio concettuale quando si tratta dell'ultima realtà. Per Dionigi, Dio è al di là di ogni nome e predicato; per lo Zen, la natura di Buddha non può essere catturata dalle parole. Entrambi riconoscono che il linguaggio, nato dalla dualità soggetto-oggetto, è intrinsecamente inadeguato a esprimere ciò che trascende tale dualità.

Questa comune enfasi sull'apofatismo non è mero agnosticismo: è il riconoscimento che l'esperienza dell'assoluto supera le capacità della ragione discorsiva. Come afferma Dionigi nella "Teologia mistica", si devono abbandonare i sensi e le operazioni dell'intelletto per unirsi al divino. Similmente, lo Zen insiste che "se incontri il Buddha per strada, uccidilo" - un modo provocatorio per dire che qualsiasi concetto o immagine del risveglio deve essere trasceso.

La via della negazione

Entrambe le tradizioni impiegano strategie negative per indicare l'assoluto. Le negazioni successive di Dionigi ("né questo né quello") trovano un parallelo nel metodo di Nāgārjuna e nei kōan dello Zen che demoliscono sistematicamente ogni posizione concettuale. Questa negazione non è fine a se stessa, ma strumento di purificazione della mente dalle sue costruzioni e attaccamenti.

Tuttavia, c'è una differenza significativa: mentre Dionigi procede da affermazioni catafatiche a negazioni apofatiche mantenendo comunque una direzione verso un Dio trascendente personale, lo Zen tende a dissolvere ogni reificazione, inclusa quella di un assoluto separato dal relativo. Il vuoto buddhista è vuoto anche di sé stesso: non è un'entità metafisica ma l'assenza di sostanzialità in tutti i fenomeni.

L'Esperienza trasformativa

Centrale in entrambe le tradizioni è l'idea che la comprensione ultima non sia questione di acquisire nuove informazioni ma di trasformazione esistenziale. L'unione mistica di Dionigi e il satori dello Zen non sono conoscenze "su" qualcosa, ma modi radicalmente nuovi di essere e percepire la realtà.

In Dionigi, questa trasformazione avviene attraverso la contemplazione che culmina nell'henōsis (unione) con il divino. Nello Zen, è la realizzazione improvvisa o graduale della propria natura di Buddha, il riconoscimento che illuminazione e confusione, sacro e profano, non sono due realtà separate ma aspetti della stessa realtà ultima.

Il ruolo del maestro e della tradizione

Entrambe le tradizioni riconoscono l'importanza della guida spirituale. Dionigi parla delle gerarchie celesti ed ecclesiastiche come mediazioni necessarie; lo Zen enfatizza la trasmissione diretta da maestro a discepolo (ishin-denshin). Nonostante l'enfasi sull'ineffabile, entrambi riconoscono che la realizzazione spirituale avviene all'interno di comunità di pratica e attraverso la trasmissione vivente.

Divergenze fondamentali

Teismo e non-teismo

La differenza più radicale sta nella natura dell'assoluto. Per Dionigi, nonostante tutta la via negativa, Dio rimane un essere supremo personale, creatore trascendente che si rivela attraverso la creazione e l'incarnazione di Cristo. La teologia apofatica cristiana afferma che Dio è al di là dell'essere, ma non nega che sia il fondamento personale di ogni esistenza.

Il Buddhismo Zen, invece, non postula alcun Dio creatore o assoluto personale. La śūnyatā non è un'entità divina ma la natura ultima di tutti i fenomeni. Il Buddhismo evita consapevolmente le speculazioni metafisiche su un'origine prima o un creatore, concentrandosi invece sulla liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione della natura vuota dell'io e dei fenomeni.

Creazione vs. originazione dipendente

Per Dionigi e il cristianesimo, il mondo è creato ex nihilo da Dio e mantiene una distinzione ontologica tra Creatore e creato, anche se la creazione partecipa dell'essere divino. Nel Buddhismo, la dottrina del pratītyasamutpāda (originazione dipendente) nega qualsiasi creazione assoluta: ogni fenomeno sorge in dipendenza da cause e condizioni, in una rete infinita di interdipendenza senza inizio primo.

Il ruolo della grazia e dello sforzo

Nella mistica cristiana dionisiana, l'unione con Dio è ultimamente un dono della grazia divina. L'ascesi e la contemplazione preparano l'anima, ma l'henōsis è opera di Dio che si dona al mistico. Nello Zen, invece, l'illuminazione dipende dallo sforzo personale nella pratica (jiriki, "potere proprio"), anche se alcune scuole buddhiste, come la Terra Pura, enfatizzano il "potere altro" (tariki).

Persona e non-sé

Il cristianismo, anche nella sua mistica più radicale, mantiene l'identità personale dell'anima anche nell'unione con Dio. Meister Eckhart può parlare della "nascita di Dio nell'anima", ma l'anima mantiene la sua identità di fronte a Dio. Il Buddhismo, invece, nega l'ātman (sé permanente) come illusione fondamentale. L'anattā (non-sé) è una delle tre caratteristiche dell'esistenza, e la realizzazione buddhista include il riconoscimento che non esiste un'anima sostanziale, permanente e indipendente.

Implicazioni filosofiche e spirituali

Epistemologia mistica

Entrambe le tradizioni sfidano l'epistemologia razionalista occidentale che privilegia il pensiero concettuale e la conoscenza proposizionale. Propongono invece forme di conoscenza non-duale, contemplativa o meditativa, che trascendono la separazione soggetto-oggetto. Questa epistemologia mistica ha influenzato profondamente la fenomenologia contemporanea e gli studi sulla coscienza.

La docta ignorantia (dotta ignoranza) di Niccolò Cusano, influenzato da Dionigi, e il "non-sapere" (wu-wei) del Buddhismo Zen suggeriscono che la saggezza ultima comporti un disimparare, uno svuotamento delle certezze concettuali piuttosto che un accumulo di conoscenze. Questo ha profonde implicazioni per come concepiamo l'educazione spirituale e la maturità intellettuale.

Etica e compassione

Interessante è notare come entrambe le tradizioni, pur enfatizzando il trascendente o il vuoto, non conducano al quietismo ma a un'etica dell'azione compassionevole. In Dionigi, l'amore (agape) è centrale: il movimento estatico verso Dio si riflette nell'amore per il prossimo. Nello Zen e nel Buddhismo Mahāyāna più ampiamente, la realizzazione della vacuità genera spontaneamente compassione (karuṇā): riconoscendo che tutti gli esseri sono vuoti di esistenza intrinseca e interconnessi, sorge naturalmente il desiderio di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza.

Linguaggio e paradosso

Entrambe le tradizioni hanno sviluppato sofisticate strategie linguistiche per parlare dell'ineffabile. Dionigi usa il linguaggio simbolico e la via della negazione; lo Zen impiega paradossi, ossimori, poesia e gesti non verbali. Questo riconosce che, sebbene il linguaggio sia inadeguato, è l'unico strumento che abbiamo. Il linguaggio deve quindi essere usato abilmente per puntare oltre se stesso, come un dito che indica la luna senza essere la luna.

Dialogo interreligioso contemporaneo

Nel contesto del pluralismo religioso contemporaneo, il confronto tra la teologia apofatica cristiana e il concetto buddhista di vuoto offre terreno fertile per il dialogo. Pensatori come Thomas Merton, che praticò lo Zen pur rimanendo monaco cristiano, hanno dimostrato che è possibile un arricchimento reciproco senza sincretismo superficiale.

Teologi come John Cobb Jr. hanno esplorato come il processo filosofico possa mediare tra buddhismo e cristianesimo. Altri, come Masao Abe e la Scuola di Kyoto, hanno cercato di pensare insieme śūnyatā e kenōsis (svuotamento) cristologica, vedendo in entrambi un movimento di auto-svuotamento che apre alla trasformazione.

Tuttavia, è importante mantenere l'onestà intellettuale: le convergenze, per quanto profonde, non devono oscurare le differenze reali. Il rischio del dialogo interreligioso è talvolta quello di creare un "minimo comune denominatore" che impoverisce entrambe le tradizioni. Una vera convergenza rispetta le particolarità: il Dio personale e trascendente del cristianesimo non è riducibile alla śūnyatā buddhista, e viceversa.

Due vie, una saggezza?

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen rappresentano due delle più raffinate articolazioni dell'esperienza mistica dell'umanità. Nonostante le profonde differenze teologiche, ontologiche ed epistemologiche, entrambe condividono un'intuizione fondamentale: l'ultima realtà trascende le categorie del pensiero concettuale e può essere realizzata solo attraverso una trasformazione radicale della coscienza.

Dionigi ci invita a salire nella tenebra luminosa dove Dio dimora oltre ogni nome e concetto. Lo Zen ci chiama a realizzare il vuoto in ogni forma, a vedere attraverso l'illusione del sé separato e riconoscere la nostra natura originale. Entrambi i percorsi richiedono coraggio: il coraggio di abbandonare le certezze concettuali, di morire alle nostre costruzioni mentali, di aprirci a una realtà che eccede infinitamente la nostra comprensione.

In un'epoca caratterizzata dal nichilismo da un lato e dal fondamentalismo dall'altro, queste tradizioni apofatiche offrono una terza via: né il rifiuto cinico di ogni verità ultima, né l'attaccamento dogmatico a formulazioni concettuali, ma un'umile apertura al mistero che ci trascende. Sia la tenebra luminosa di Dionigi che il vuoto luminoso dello Zen ci insegnano che l'apofasi - il silenzio davanti all'ineffabile - non è resa o agnosticismo, ma la forma più alta di saggezza.

Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein concludeva il suo "Tractatus" con le parole: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Ma questo silenzio non è vuoto di significato; è gravido di presenza. Forse è in questo silenzio eloquente, in questa negazione affermativa, che Oriente e Occidente, Dionigi e lo Zen, si incontrano veramente - non nelle parole che pronunciamo, ma nella profondità indicibile verso cui entrambi ci conducono.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Una colpevole indifferenza

Lettura

Luca 10,13-16

13 Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. 14 Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. 15 E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata! 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».

Commento

Il monito di Gesù si rivolge in questo passo evangelico a tre città della Galilea; un invito a pentirsi, accompagnato da un severo giudizio per coloro che, dopo avere ascoltato la sua predicazione non l'hanno accolta. Non si tratta di una ostilità aperta al suo messaggio, in effetti non riportata da nessuno dei Vangeli, ma di quella indifferenza che è più colpevole dell'ignoranza. 

Aver avuto il privilegio di ascoltare il mesaggio di salvezza e non averlo accolto apre le porte degli inferi (cfr. At 2,27.31), luogo contrapporto al "cielo" nello stesso versetto (v. 15). Gesù ci insegna che l'intensità della punizione finale, sarà proporzionata ai privilegi religiosi, ed ai mezzi di grazia goduti dagli uomini, e da loro volontariamente rigettati. 

Se Corazin, Betsàida e Cafarnao rappresentano il luogo in cui il Signore aveva iniziato la sua predicazione e compiuto i suoi miracoli, Tiro e Sidone erano due città fenice sul mare e costituivano un importante snodo commerciale in cui si riversava l'opulenza asiatica. Queste erano dunque considerate città dissolute. 

Gesù esprime un solenne avvertimento a tutti quelli che ascoltano le sue parole. Coloro che in ogni tempo godono dell'istruzione religiosa odono predicare il vangelo, e vivono in un ambiente atto a condurli a Cristo, senza però abbracciarlo, rassomigliano a quelle città. Così l'invio dei settandadue discepoli si conclude con questo avvertimento, la costatazione di uno stato di peccato più che una maledizione, e la solenne affermazione che chi respingerà la predicazione dei discepoli respingerà Cristo stesso e il Padre dal quale egli proviene. 

Il vangelo ci chiama a scegliere con responsabilità e saggezza dove collocarci nella geografia dello spirito, a non disprezzare con l'indifferenza e le preoccupazioni del mondo, l'opportunità ricevuta di essere annoverati tra i figli adottivi di Dio.

Preghiera

Signore, che ci hai ammonito ricordando che l'indifferenza verso la tua parola di vita è peggio dell'ignoranza; concedici di accogliere il vangelo della salvezza, per partecipare con te alla gloria celeste. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Pseudo_Dionigi l'Areopagita e la tenebra luminosa del silenzio

Le chiese ortodosse ricordano in questo giorno l'autore del Corpus Areopagiticum, passato alla storia con lo pseudonimo di Dionigi l'Areopagita. Forse per nessun padre della chiesa vi è una così forte discrepanza tra ciò che sappiamo sulla sua vita e l'enorme influsso da lui avuto sulla spiritualità e la teologia successive. Dionigi fu probabilmente un cristiano di origine siriaca che soggiornò a lungo ad Atene. Fortemente influenzato dagli ultimi filosofi neoplatonici ivi residenti, egli compose una serie di scritti che pose sotto il nome dell'ateniese convertito dalla predicazione di Paolo all'Areopago, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (cf. At 17,34). Nella Gerarchia ecclesiastica e nella Gerarchia celeste, Dionigi indagò l'ordine cosmico al cui vertice vi è unicamente Gesù Cristo, in cielo come nella chiesa militante sulla terra. Nei Nomi divini analizzò gli attributi che la Scrittura riferisce a Dio, in cerca di ciò che gli uomini possono provare a dire su Dio a partire dalla rivelazione, seguendo una teologia «positiva». Ma Dionigi fu soprattutto un grande cantore della teologia «negativa», secondo la quale si può giungere a Dio soltanto dicendo ciò che non può essergli attribuito, ovvero entrando nella «tenebra più che luminosa del silenzio» e della non conoscenza di Dio, che sola conduce al mistero ineffabile della Triunità divina.

Tracce di lettura

Trinità sovraessenziale, oltremodo divina e oltremodo buona, custode della divina sapienza dei cristiani, portaci non solo al di là di ogni luce, ma al di là della stessa inconoscenza fino alla più alta vetta delle mistiche Scritture, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra più che luminosa del silenzio.
È nel silenzio infatti che s'imparano i segreti di questa tenebra della quale troppo poco è dire che brilla della luce più abbagliante in seno alla più nera oscurità, e che, pur rimanendo perfettamente intangibile e invisibile, riempie di splendori più belli della bellezza le intelligenze che sanno chiudere gli occhi. Questa la mia preghiera. (Dionigi l'Areopagita, Teologia mistica 1,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 2 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Un'alleanza benedetta da Dio

Lettura

Marco 10,1-12

1 Partito di là, si recò nel territorio della Giudea e oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava, come era solito fare. 2 E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». 3 Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4 Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». 5 Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6 Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; 7 per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. 8 Sicché non sono più due, ma una sola carne. 9 L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». 10 Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: 11 «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; 12 se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

Commento

In tutti e tre i Vangeli sinottici questo è il primo contatto di Gesù con la "folla" della Giudea. La folla gli va incontro spontaneamente come in Galilea (Mc 4,1; 5,24).

Il dibattito tra Gesù e i farisei sull'abolizione del divorzio, indica la volontà di questi ultimi di screditarlo pubblicamente e sarà un motivo di controversia tra giudei e cristiani nel primo secolo. La legge mosaica consentiva il ripudio della moglie nel caso fosse intervenuto "qualcosa di vergognoso" (Dt 24,1), ma doveva avvenire tramite il rilascio di un attestato scritto, per salvaguardare la donna dall'accusa di adulterio. 

Gesù dichiara che la legge mosaica permette il divorzio solo "per la durezza del vostro cuore" (v. 5), indicata con il termine greco sklerokardia, che indica nel Nuovo Testamento l'incapacità dell'essere umano di comprendere e attuare il piano di Dio (cfr. Mt 19,8; Mc 16,14). 

Nel Vangelo di Matteo Gesù fa un'eccezione al divieto assoluto di divorzio, indicata con il termine greco pornéia; questo è stato interpretato da alcuni come "concubinato", che indica i rapporti illegittimi tra consanguinei; altri interpretano il termine con il significato di "adulterio".

Citando il libro della Genesi (1,27; 2,24) Gesù proclama che fin dall'inizio il matrimonio è stabilito come patto eterno (vv. 6-8) e continua in questo senso con l'ammonizione "l'uomo non separi ciò che Dio ha congiunto" (v. 9). L'uomo e la donna diventano "una carne sola" agli occhi di Dio. Il matrimonio non è presentato come un'invenzione umana, ma come un'istituzione divina.

Il Signore è paziente e misericordioso nei confronti delle nostre fragilità e nel custodire il patto con il suo popolo. La sua clemenza deve essere presa a modello dell'alleanza tra l'uomo e la donna, benedetta da Dio. Siamo chiamati a superare una visione consumistica delle relazioni, coltivando la libertà nella responsabilità. La fede e la piena adesione a Cristo ci otterrano la fedeltà, dono di Dio.

Preghiera

Santifica e vivifica con il tuo Spirito, Signore, le nostre relazioni; affinché possiamo imparare da te, che sei mite e umile di cuore, a essere fedeli al piano che hai stabilito dai tempi antichi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 30 settembre 2025

Diwali: la Festa induista delle luci

Ottobre è il mese in cui la comunità induista di tutto il mondo celebra la Dipavali (o Diwali), la Festa delle Luci, una delle ricorrenze più amate e cariche di significato spirituale della tradizione induista. Quando la luna nuova di Kartika avvolge il subcontinente indiano nell'oscurità più profonda, milioni di luci si accendono simultaneamente, trasformando la notte in un mare scintillante di speranza e devozione. Il nome deriva dal sanscrito "dipavali", che significa letteralmente "fila di lampade", e cattura perfettamente l'essenza di questa celebrazione millenaria.

Il Significato Profondo

Questa festa segna la vittoria della luce sull'oscurità, del Dharma sull'Adharma, della conoscenza sull'ignoranza. Al di là del suo splendore visivo, Diwali incarna un messaggio spirituale universale profondamente radicato negli insegnamenti vedantici: la luce interiore che risiede in ogni essere umano può dissipare le tenebre dell'ego, dell'avidità e dell'odio. È il tempo in cui le case vengono accuratamente purificate e illuminate dai diya - piccole lampade a olio in terracotta - mentre i cuori si rinnovano attraverso preghiera, condivisione e offerta. Le lampade rappresentano quella scintilla divina che può guidare l'individuo dal buio alla luce, dall'irreale al reale, verso una consapevolezza più elevata.

Le Radici Mitologiche

La Dipavali richiama alla memoria il glorioso ritorno di Rāma ad Ayodhya dopo quattordici anni di esilio nella foresta e la vittoria su Rāvana, il demone re di Lanka che aveva rapito Sita. Secondo il Ramayana, gli abitanti di Ayodhya, traboccanti di gioia per il ritorno del loro amato principe, illuminarono l'intera città con file di lampade per guidarlo attraverso l'oscurità verso casa. Contemporaneamente, la festa celebra la benevolenza della Dea Lakṣmī, consorte di Vishnu e personificazione della ricchezza spirituale e materiale, che porta prosperità e armonia nelle nostre vite. In diverse regioni dell'India, Diwali assume significati complementari: nel nord celebra la dea Kali, in Gujarat coincide con il capodanno, mentre per i jainisti commemora il nirvana di Mahavira.

I Cinque Giorni di Celebrazione

Tradizionalmente, Diwali si estende su cinque giorni, ciascuno con rituali specifici. Dhanteras inaugura le celebrazioni con l'acquisto di metalli preziosi e la prima lampada accesa. Choti Diwali commemora le vittorie divine con bagni rituali purificatori. Lakshmi Puja, il terzo giorno, rappresenta il cuore della festa: nella notte di luna nuova, le famiglie accendono innumerevoli lampade e pregano la dea affinché entri nelle loro case portando prosperità, lasciando porte e finestre aperte in segno di accoglienza. Govardhan Puja celebra la protezione divina con offerte abbondanti, mentre Bhai Dooj conclude le festività onorando il sacro legame tra fratelli e sorelle.

Tradizioni e Rituali

La preparazione inizia settimane prima con una pulizia profonda delle abitazioni, non solo per ragioni estetiche ma anche spirituali: si crede che Lakshmi visiti solo case pure e ordinate. L'arte del rangoli trasforma gli ingressi in opere d'arte effimere: intricati disegni geometrici e floreali creati con polveri colorate, fiori o riso, che rappresentano l'invito simbolico alle divinità. Le famiglie si riuniscono per preparare montagne di dolci tradizionali - ladoo, barfi, jalebi - che vengono consumati e scambiati con parenti e vicini, rafforzando i legami comunitari. I fuochi d'artificio illuminano il cielo notturno, simboleggiando la celebrazione della vittoria del bene.

Dimensione Sociale e Contemporanea

Diwali ha un impatto profondo sulla vita economica e sociale: le imprese chiudono i vecchi bilanci e ne aprono di nuovi, le famiglie fanno acquisti importanti, i datori di lavoro offrono bonus. È anche tempo di riconciliazione: si sanano vecchie dispute, si chiede perdono e si rinnovano le relazioni. Nel ventunesimo secolo, la festa ha trasceso i confini dell'India, diventando una celebrazione globale riconosciuta da Londra a New York, da Singapore a Toronto, dove la diaspora indiana mantiene vive queste tradizioni.

Un Messaggio Universale

In un mondo spesso segnato da divisioni e conflitti, Diwali ci ricorda che una singola piccola lampada può iniziare a dissipare l'oscurità, e quando milioni di queste luci si uniscono, possono illuminare il mondo intero. Come recita l'antico mantra sanscrito: Tamaso ma jyotir gamaya - guidami dall'oscurità alla luce. Questo è il dono eterno che Diwali offre all'umanità: la speranza che la luce prevarrà sempre e che dentro ciascuno di noi risiede il potere di illuminare il mondo.

Fermati 1 minuto. Sottrarsi alle logiche del mondo

Lettura

Luca 9,51-56

51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme 52 e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55 Ma Gesù si voltò e li rimproverò. 56 E si avviarono verso un altro villaggio.

Commento

Come già all'inizio del ministero in Galilea, anche il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che conclude la sua parabola terrena, comincia con un rifiuto, da parte dei Samaritani.

Ma si tratta solo in apparenza di una parabola discendente, perché il rifiuto, la passione e la morte di Gesù segnano il principio della sua "assunzione", come suggerisce il verbo greco analèmpis (sollevamento, innalzamento), utilizzato per indicare il suo "essere tolto" dal mondo.

La risolutezza con cui Gesù si dirige verso Gerusalemme, letteralmente "indurendo il suo volto" (gr. prosòpon estèrisen) richiama la stessa espressione semitica utilizzata nel libro di Isaia per descrivere l'atteggiamento del servo sofferente: "rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,7).

I messaggeri inviati da Gesù hanno il compito di trovare un posto per dormire e qualcosa da mangiare a Gerusalemme, dove Gesù celebrerà la Pasqua. Il rifiuto espresso dai samaritani è motivato dal fatto che Gesù "era diretto verso Gerusalemme", città per la quale essi nutrivano un'antica ostilità. I samaritani, abitanti di una regione centrale della Palestina, si erano mescolati in tempi lontani con le popolazioni importate in quella terra dagli assiri e avevano elaborato un culto ibrido tra giudaismo e paganesimo, con un suo tempio nel monte Gerizim; per questo, al ritorno degli ebrei dall'esilio babilonese (VI sec. a. C.) furono da questi respinti come "impuri".

Il linguaggio di Giacomo e Giovanni (v. 55) richiama il secondo libro dei Re, in cui Elia per due volte invoca il fuoco dal cielo per distruggere i suoi avversari (2 Re 1,10.12). Il rimprovero di Gesù è reso con la parola greca epitìmesen, che indica il "vincere con un comando", minacciare, richiamando i suoi esorcismi, in quanto i due discepoli si oppongono al suo cammino verso la croce proponendogli una visione trionfalistica del messianismo. 

Di fronte al rifiuto dei samaritani Gesù sceglie semplicemente di cambiare strada. A volte la migliore testimonianza nei confronti dell'ostilità del mondo al messaggio evangelico è di sottrarsi alle sue logiche, alla sua influenza - evèrtere, più che sovvertire -, perseverando sulla via che conduce al compimento della volontà del Padre.

Preghiera

Guidaci, Signore, sulle vie della mitezza, affinché anche i tuoi nemici possano diventare per noi campo di missione, mediante la predicazione del tuo vangelo con le parole e con la testimonianza di vita. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Gregorio l'Illuminatore. Padre del cristianesimo armeno

Gli antichi calendari d'oriente e d'occidente ricordano il 30 settembre Gregorio l'Illuminatore, apostolo degli armeni.

Gregorio era figlio di un principe parto, Anak, e nacque in Armenia perché il padre vi si era trasferito attorno alla metà del III secolo. In Armenia la sua famiglia, coinvolta nella congiura ordita dal re sassanide Artaserse per eliminare il re di Armenia Cosroe, fu sterminata dai figli di quest'ultimo, e Gregorio sfuggì alla morte riparando a Cesarea di Cappadocia. A Cesarea ricevette il battesimo cristiano, si sposò, ed entrò alla corte del re Tiridate, figlio di Cosroe. A motivo della sua fede cristiana e dell'appartenenza alla famiglia di Anak egli conobbe dure persecuzioni, fino a essere recluso nel carcere di Artaxata per quindici anni, dal 298 al 313.

Secondo i più antichi racconti agiografici, Gregorio guarì il re Tiridate da una grave malattia, e questi si convertì al cristianesimo. Per questo motivo, a Gregorio è attribuita tradizionalmente la conversione di gran parte dell'Armenia al cristianesimo.

Sul piano storico, è certo che Gregorio, una volta ottenuta la libertà, fu ordinato vescovo a Cesarea nel 314 dal vescovo Leonzio, e grazie all'aiuto delle chiese cappadocie riuscì a riorganizzare profondamente la vita dei cristiani armeni, portando il vangelo in territori dove non era ancora stato predicato.

Sempre secondo la tradizione, egli morì solitario, dopo essersi ritirato in una grotta vicino al villaggio di Thordan. Gli armeni ne ricordano in tre date differenti l'inizio della prigionia, la fine della prigionia e il ritrovamento delle spoglie mortali.

Tracce di lettura

L' inconoscibile venne nella carne e fu toccato e conosciuto nella carne; ed egli assunse liberamente su di sé tutte le passioni della carne, e soffrì nell'umiliazione, trovandosi in mezzo a stranieri. E senza esservi costretto da nessuno, ma per sua stessa indipendente volontà, egli portò tutto ciò, come sta scritto: «Io ho il potere di deporre la mia vita secondo il mio beneplacito, per poi riprenderla di nuovo». E nacque da una vergine e volontariamente adempì la volontà di colui che l'aveva inviato. Dice infatti: «Sono venuto a compiere la volontà del Padre mio», così da mostrare l'unica, indissolubile e indivisibile unità che regna tra di loro. (Gli insegnamenti di san Gregorio 379-380)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Gregorio l'Illuminatore (ca 260-328)


Girolamo. Le Scritture hanno le radici piantate in cielo

Nel 420 muore a Betlemme Girolamo, padre della chiesa e monaco. Nato in Dalmazia negli anni '40 del IV secolo, Girolamo si recò a Roma per studiare i classici latini. Nella capitale dell'impero egli conobbe la vita ascetica dell'occidente, e si recò poi in oriente per conoscere la tradizione monastica del deserto siriaco. Giunto ad Antiochia, fu ordinato presbitero, suo malgrado, dal vescovo Paolino. Tornato a Roma, Girolamo fondò sull'Aventino un luogo di preghiera frequentato dalle donne dell'aristocrazia romana, tre delle quali, Marcella, Paola ed Eustochio, lo seguiranno in Palestina nel 385. A Roma Girolamo acquisì un profondo amore per le Scritture, che non lo abbandonerà più fino alla morte. Uomo dal carattere passionale, egli ebbe amicizie intense, come quella con Rufino di Aquileia, che non tardarono a diventare contrapposizioni altrettanto profonde quando questioni di principio si frapposero tra lui e i suoi interlocutori. Alla morte di papa Damaso, deluso da molti di coloro che aveva amato sino ad allora, Girolamo lasciò tutto e ripartì per l'oriente, alla volta di Betlemme, dove, fondato un monastero maschile e uno femminile, si dedicò alla traduzione e al commento dei libri della Scrittura. È a lui che si deve la Vulgata, il testo latino della Bibbia che fu adottato in tutto l'occidente. Ma neppure nella solitudine monastica trovò pace, poiché venne coinvolto, per la sua conoscenza allora ineguagliabile delle Scritture, nelle grandi controversie teologiche del tempo. Nei suoi scritti, e in particolare nel suo vasto epistolario, Girolamo ha lasciato alla chiesa un tesoro monumentale di insegnamenti e intuizioni sulla vita cristiana e sull'ascesi monastica, ed è ricordato giustamente come uno dei più grandi dottori della chiesa indivisa.

Tracce di lettura

Ora ti domando, carissimo fratello, se non ti pare di abitare, già qui sulla terra, nel regno dei cieli, quando si vive fra i testi della Scrittura, li si medita, non si conosce o non si cerca di conoscere nessun'altra cosa.

Non vorrei che ti fosse di danno, nella sacra Scrittura, la semplicità e - vorrei dire - la banalità delle parole. Può essere che questa stesura dipenda da difetto d'interpretazione, oppure che sia stata fatta appositamente per renderne più facile la comprensione al pubblico, per far sì che in un'unica e medesima frase, tanto l'uomo di cultura quanto l'ignorante potessero coglierne il senso secondo la propria capacità.

Da parte mia non sono così superficiale e stupido da farmi passare per uno che tutte queste cose le conosce, o che vuol cogliere in terra i frutti di quelle radici che sono piantate in cielo. Confesso però che ne ho il desiderio e che ho pure voglia di impegnarmi con tutte le mie forze per intraprendere il cammino verso tale meta.

(Girolamo, Lettera 53,10)

Girolamo (ca 342-420), le icone di Bose

lunedì 29 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Un ordine meraviglioso

Lettura

Giovanni 1,47-51

47 Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». 48 Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». 49 Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!». 50 Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!». 51 Poi gli disse: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo».

Commento

Gli angeli, "messaggeri" (gr. anghelos; ebr. malak) celesti, sono presenti in diverse pagine dell'Antico Testamento e li troviamo anche in alcuni momenti cruciali della vita di Gesù; in particolare, nel deserto, dopo che egli ha vinto le tentazioni del demonio - "gli angeli lo servivano" (Mc 1,13) - e prima della sua passione, durante la preghiera nell'orto degli ulivi - "gli apparve un angelo dal cielo a confortarlo"(Lc 22,43). Successivamente, fanno da custodi alla sua tomba, annunciando alle donne del seguito di Gesù la sua risurrezione. 

Nel passo evangelico in cui Giovanni riporta il dialogo tra Gesù e Natanaèle viene richiamata la visione della scala di Giacobbe (Gen 28,10-22). In quel frangente il patriarca stava fuggendo dal fratello Esaù, per andarsi a rifugiare dallo zio Labano; Giacobbe sognò una scala che dalla terra si protendeva fino al cielo e gli angeli salivano e scendevano sopra di essa; Dio gli parlava, promettendogli la terra sulla quale stava dormendo, una discendenza numerosa come la sabbia del mare, la benedizione in lui di tutte le famiglie della terra. Tale benedizione si realizza in Cristo, il quale è il vero mediatore tra Dio e gli uomini, egli stesso "scala" attraverso la quale gli angeli discendono ad amministrare la grazia di Dio sulla terra e risalgono a Dio, portando le suppliche della Chiesa. 

Gli angeli nelle Scritture sono esseri spirituali creati da Dio, posti al suo servizio e a servizio dell'uomo. La loro azione di messaggeri è attestata nel Nuovo Testamento nel racconto dell'annunciazione a Maria, nell'invito ai pastori ad andare ad adorare il Messia appena nato a Betlemme, nell'avvertimento in sogno a Giuseppe di fuggire in Egitto per salvare il bambino Gesù da Erode. Negli Atti degli apostoli assistiamo alla liberazione di Pietro dalla prigione per opera di un angelo. 

Il culto ebraico e quello cristiano della chiesa primitiva non prevedono l'adorazione degli angeli, come leggiamo nel libro dell'Apocalisse: "Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell'angelo che me le aveva mostrate. Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. È Dio che devi adorare»" (Ap 22,8-9). Ma nel momento in cui ci affidiamo a Dio siamo certi che egli ci assiste mediante intelligenze e potenze spirituali, che lo servono e gli danno lode in cielo e ci soccorrono e difendono sulla terra, nel nome di Gesù Cristo. Per questo, con il salmista, innalziamo a lui la nostra lode: "Lodatelo, voi tutti, suoi angeli, lodatelo, voi tutte, sue schiere" (Sal 148, 2).

Preghiera

Dio onnipotente, che hai ordinato e stabilito il servizio degli angeli e degli uomini in un ordine meraviglioso; concedi misericordioso che così come gli angeli ti servono sempre in Cielo, possano, per tuo incarico, soccorrerci e difenderci sulla terra. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Festa di San Michele arcangelo e di tutti gli angeli

Le chiese d'occidente fanno oggi memoria di Michele arcangelo e di tutti gli angeli, messaggeri del Signore.
Gli angeli, secondo tutta la tradizione biblica, riassunta nella Lettera agli Ebrei, «sono spiriti inviati da Dio al servizio di coloro che devono ereditare la salvezza» (Eb 1,14). A loro, nella prima come nella nuova alleanza, Dio affida il compito di trasmettere la sua volontà al popolo d'Israele o a uomini da lui prescelti per una missione particolare. Certo, Paolo ricorda che «uno solo è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini: l'uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5), tuttavia le chiese cristiane hanno fin da principio riconosciuto un ruolo ai messaggeri di Dio nell'economia del Verbo: nel Nuovo Testamento è agli angeli che viene affidato l'incarico di annunciare l'incarnazione del Figlio di Dio, di custodirne il cammino terreno, di proclamarne la resurrezione, di spiegame l'ascensione, di accompagnarne il ritorno glorioso. Secondo la testimonianza degli antichi testi eucaristici d'oriente e d'occidente, i messaggeri di Dio celebrano alla presenza del Signore un'ininterrotta liturgia celeste, alla quale la liturgia della chiesa sulla terra non fa che unirsi per proclamare Dio tre volte Santo.

Tracce di lettura

La mediazione non è sostanzialmente più necessaria, là dove il Figlio ha il Padre presso di sé e dimora anzi nel seno del Padre e agisce a partire dal proprio vedere, ascoltare e toccare il Padre, in forza della propria potestà ricevuta direttamente dal Padre. E tuttavia gli angeli non possono mancare, in primo luogo perché fanno parte della gloria celeste del Figlio dell'uomo, ma in secondo luogo e soprattutto perché devono rendere visibile il carattere sociale del regno dei cieli, nel quale il cosmo dev'essere trasformato. Non deve sorgere l'impressione che il regno che il Figlio è venuto a fondare e che certamente incarna nella sua totalità (come autobasileía), sia un luogo solitario nell'assoluto. Piuttosto questo luogo in Dio, al quale devono essere condotti i redenti della terra, è fin dall'inizio «la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste», con le sue innumerevoli schiere di angeli, la comunità festosa dei primi nati. (H. U. von Balthasar,  Gloria I. La percezione della forma)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Preghiera

Dio onnipotente ed eterno che hai e costituito il servizio degli angeli e degli uomini in un ordine meraviglioso, concedici, ti supplichiamo, che come gli Angeli santi ti offrono un perpetuo servizio nei cieli, allo stesso, modo, secondo l'incarico che gli hai affidato, possano soccorrerci e difenderci sulla terra. Per Gesù Cristo, nostro Signore. (The Book of Common prayer)




Chiesa di San Michele arcangelo, Amburgo

domenica 28 settembre 2025

L'ansia per il mondo e quella per il Regno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SEDICESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Custodisci, ti supplichiamo, Signore, la tua Chiesa con la tua misericordia; e, poiché per la fragilità umana senza di te non possiamo che cadere, mantienici sempre al riparo da ciò che è dannoso e guidaci verso ciò che è profittevole per la nostra salvezza; per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 6,11-18; Mt 6,24-34

Commento

Gesù ci raccomanda di non avere ansia per le ricchezze o per il nostro domani, ma è giusto avere ansia per la nostra salvezza e per la salvezza del prossimo; il cristiano e la Chiesa non devono mai venir meno a tale sollecitudine.

La vita del cristiano non è spensierata e concentrata sul cogliere edonisticamente l'attimo presente. Preghiamo invocando il Regno di Dio e il compimento della sua volontà, sospiriamo come le anime davanti al trono dell'agnello e come il salmista, dicendo "Fino a quando Signore?" (Sal 13,1; Sal 79,5; Ap 6,10).

Il messaggio evangelico non ci chiede di essere anestetizzati, di fuggire il senso di limitatezza e imprevedibilità che caratterizza la nostra esistenza umana in questo mondo. C'è un'ansia da curare e c'è un'ansia che non necessita di cure, perché è semplicemente un richiamo della retta coscienza a lavorare nella vigna che il Signore ci ha affidato, in prossimità del suo ritorno.

Esiste poi un'ansia religiosa contraria alla volontà di Dio. L'apostolo Paolo ci parla nella sua Lettera ai Galati, di coloro che vogliono fare bella figura nella carne e costringono gli altri a farsi circoncidere per non essere perseguitati per la croce di Cristo (Gal 6,12). Costoro sono anche ipocriti, perché "neppure quelli stessi che sono circoncisi osservano la legge, ma vogliono che siate circoncisi per potersi vantare nella propria carne" (Gal 6,13). 

Anche le chiese cristiane rischiano di adottare segni esteriori, atteggiamenti etici e pastorali, nell'ottica del conformismo e alla ricerca del consenso, per evitare le persecuzioni del mondo. Viene persa, così, quella sollecitudine positiva, per l'evangelizzazione, per l'annuncio coraggioso del vangelo.

Gesù ci vuole liberare da queste ansie sbagliate, che esprimono un ripiegamento egocentrico e, in definitiva, una vita meschina e sofferente. Ci chiede di spostare il baricentro da noi stessi, liberandoci dalla schiavitù che caratterizza il timore della perdita, l'avversione per ciò che disturba i nostri interessi, il senso di incertezza che paralizza la nostra volontà.

La vita nella grazia è un'esperienza di liberazione da tutte quelle sollecitudini vane, perché legate a ciò che è transitorio, impermanente, imponderabile. Da tutto ciò che è rassicurazione illusoria di essere salvati, come la circoncisione, le questioni di cibo o di bevanda (Rm 14,17), o qualsiasi altro segno "esteriore" di appartenenza religiosa. 

È la riscoperta di un'esistenza centrata in Dio, alimentata dalla fiducia nel Padre, che con amore si prende cura delle sue creature. Egli stesso infatti ci rivestirà di un abito nuovo e splendente, come e più dei gigli del campo; ci donerà un abito di santità, perché “né la circoncisione né l'incirconcisione hanno alcun valore, ma l'essere una nuova creatura” (Gal 6,15).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 26 settembre 2025

Fermati 1 minuto. L'alterità e la prossimità di Cristo

Lettura

Luca 9,18-22

18 Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda: «Chi sono io secondo la gente?». 19 Essi risposero: «Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20 Allora domandò: «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro, prendendo la parola, rispose: «Il Cristo di Dio». 21 Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno. 22 «Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno».

Meditazione

Gesù cerca la solitudine per pregare, ma pur trovando "un luogo appartato" (v. 18) è con i suoi discepoli. Questa contemporanea distanza e prossimità sembra testimoniare la necessità di una ricerca personale e intima con il Padre e al contempo la dimensione comunitaria, "ecclesiale" della preghiera.

Poco prima nel suo Vangelo, Luca ci ha riferito la curiosità di Erode di vedere Gesù, ma sappiamo dal racconto della passione che il tetrarca lo considerava niente di più che un uomo capace di compiere prodigi, ricercandolo per soddisfare la propria curiosità.

Gesù termina questo suo momento di preghiera ponendo una domanda ai discepoli, forse afflitto dalle incomprensioni trovate durante la sua predicazione e richiedendo un'aperta attestazione di fede. I discepoli gli riferiscono chi pensa la gente che egli sia: Giovanni il Battista, Elia, uno degli antichi profeti. Insomma, "nulla di nuovo". Le folle - contrapposte a pochi uomini e donne che venono guariti e lo riconosco per chi egli è - relegano la sua identità a un retaggio del passato, non riescono a cogliere la totale alterità della sua persona rispetto all'uomo, in quanto Figlio di Dio, e al contempo la sua totale prossimità al genere umano in quanto Dio incarnato. 

A rispondere a nome dei discepoli è Pietro, che riconosce in Gesù il Cristo di Dio (v. 20), il Messia atteso da Israele. Questa affermazione non gli viene da una deduzione intellettuale ma gli è rivelata dal Padre, messa in bocca dallo Spirito. 

Matteo nel suo Vangelo riporta la risposta di Gesù alla professione di fede di Pietro: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17), evidenziando che la fede stessa è un dono della grazia. Gesù ordina di non riferire ciò a nessuno. Egli si aspetta una risposta personale da ciascuno di noi alla sua domanda: «Chi sono io?»: nessuna autorità religiosa potrà costringere la nostra coscienza a professare ciò che Dio chiede da noi come un atto di libertà, capace di accogliere la luce della grazia. 

Ma Gesù dice anche che egli "deve soffrire molto" (v. 22); si tratta di un imperativo: egli sa che il suo destino è la croce e gli va incontro senza esitazioni, perché sarà proprio la croce a rivelare pienamente chi egli veramente è: colui che dona la sua vita per i peccatori. La croce sarà lo scandalo più grande, ma al contempo anche la più alta rivelazione del Dio di misericordia all'umanità. Su questa verrà posto il sigillo della risurrezione.

Preghiera

Noi ti confessiamo, Signore, come il Cristo, salvatore dell'umanità e di ciascuno di noi individualmente. La preghiera, rivolta al Padre, vicino a te, ci aiuti a comprendere sempre più a fondo la tua misericordia e lo Spirito santo ci conforti nelle prove della vita presente. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 24 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Come riconoscere il vero apostolo di Cristo

Lettura

Luca 9,1-6

1 Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. 2 E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. 3 Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno. 4 In qualunque casa entriate, là rimanete e di là poi riprendete il cammino. 5 Quanto a coloro che non vi accolgono, nell'uscire dalla loro città, scuotete la polvere dai vostri piedi, a testimonianza contro di essi». 6 Allora essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni.

Commento

Gesù comunica la sua stessa potenza ai dodici apostoli che si è scelto e li manda - questo il significato del termine apostoli: "inviati" - ad annunciare il regno di Dio, a cacciare i demòni e a curare tutte le malattie. Non c'è altro di cui debba occuparsi un apostolo: annunciare il vangelo e confortare gli infermi nell'anima e nel corpo. L'instaurazione del regno di Dio non è opera umana, per questo Gesù chiede ai Dodici di non preoccuparsi di nulla, neanche di ciò che sembra indispensabile, come il pane o un cambio di vestiti.

All'apostolo è richiesta una radicale semplicità di vita e un totale affidamento alla provvidenza di Dio. Da ciò deriva anche il dovere della "stabilità": lungi dal girare di casa in casa, magari per cercare beni e ricompense, gli apostoli dovranno stabilirsi presso una sola casa in ogni città; ma tale stabilità non deve portare a un attaccamento contrario al dovere della predicazione itinerante. 

Essi, dunque, ripartiranno di là, dopo aver proclamato il vangelo a quella città, e andranno altrove a portare il lieto annuncio, liberare e sanare. Se non saranno accolti andranno oltre, rifiutando di portare con sé persino la polvere di quella città; non pronunceranno maledizioni ma compiranno il gesto di una rottura completa con coloro che non credono. 

Da tutti questi segni riconosceremo il vero apostolo: l'annuncio fedele del vangelo, la sobrietà di vita, il disinteresse verso qualsiasi ricompensa per il suo ministero, il sedersi alla mensa di chiunque lo accolga (come fece Gesù anche con i pubblicani e i peccatori), la capacità di un distacco per andare oltre ad annunciare la parola di Dio, la mitezza e al contempo la radicalità di fronte al rifiuto della sua missione.

Preghiera

Donaci, Signore, la gioia dell'anuncio del vangelo, la coerenza espressa nella semplicità di vita e una salda fiducia nella tua misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Silvano del Monte Athos e la docilità all'azione dello Spirito

Nel 1938 muore al monte Athos lo starec Silvano. Semën (Simeone) Ivanovič Antonov era nato nel 1866 a Šovsk, in Russia, da una famiglia di poveri contadini, ed era entrato nel 1892 nel monastero athonita di San Panteleimon. La sua parabola monastica fu una straordinaria ricerca di docilità all'azione dello Spirito santo. Silvano aveva infatti cominciato ad avvertire da giovane la presenza dello Spirito nel suo cuore, e aveva deciso di dedicarsi interamente a custodire mediante la preghiera il dono ricevuto. Nominato economo del monastero, egli continuò a riservare ogni giorno un tempo ragguardevole per la preghiera, pur avendo ormai più di 200 monaci a cui provvedere. Ammaestrato dallo Spirito a riconoscere Gesù e in Gesù la misericordia del Padre, Silvano intraprese un cammino di assimilazione al suo Signore. Egli capì che solo nell'umiltà, nel riconoscersi «terra desolata», «carne di peccato», avrebbe potuto raggiungere la piena comunione con Cristo disceso agli inferi per amore di tutti gli uomini. Ebbe la grazia della preghiera continua ed ebbe la visione del Cristo oltre a soffrire molto da parte di demoni. Ma l'esperienza mistica che più lo marcò, avvenne attorno all'anno 1906, quando in preda a grande sconforto per non riuscire a estirpare i suoi sentimenti di orgoglio, così si rivolse a Dio: «Signore, tu vedi che cerco di pregarti con spirito puro, ma il demonio me lo impedisce.» Ricevette allora nel suo cuore questa risposta: «Gli orgogliosi devono sempre soffrire da parte dei demoni.» Silvano rispose: «Allora, Signore, dimmi cosa devo fare perché la mia anima diventi pura.» Di nuovo ricevette la risposta: «Tieni il tuo spirito in inferno e non disperare mai». In realtà, proprio per essersi accusato, lui stesso di essere un orgoglioso, e aver pregato Dio di estirpargli questo sentimento, ha mostrato un grande spirito di umiltà. Nonostante non avesse ricevuto una istruzione superiore, assunse grande fama presso i pellegrini che lo cercavano per i suoi utili consigli, tra essi anche altri prelati, vescovi e cattedratici. Passò gli ultimi anni della sua vita a ricevere migliaia di persone che venivano dai luoghi più lontani per chiedere una parola o una preghiera: colui che ormai era noto a tutti semplicemente come lo «starec Silvano».

Tracce di lettura

Spirito santo, non abbandonarci! Quando tu sei in noi, l'anima avverte la tua presenza, trova in Dio la sua beatitudine: tu ci doni l'amore ardente per Dio. Spirito santo, non mi abbandonare! Quando ti allontani da me, i pensieri malvagi assalgono il mio cuore: l'anima mia piange lacrime amare. 

(dagli Scritti di Silvano dell'Athos).

Abba Paisio pregava per un proprio discepolo che aveva rinnegato Cristo. Mentre pregava, gli apparve Cristo e gli disse: « Paisio, per chi stai pregando? Non mi ha forse rinnegato?». Ma il santo continuò ad aver compassione del proprio discepolo. Allora il Signore gli disse: «Paisio, tu mi sei divenuto simile mediante l'amore»

(Detto dei padri che Silvano amava ripetere)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monstica di Bose; Wikipedia

Silvano del Monte Athos (1866-1938)

martedì 23 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Quale famiglia cristiana?

Lettura

Luca 8,19-21

19 Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20 Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». 21 Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».

Commento

Non sappiamo se i "fratelli" di Gesù menzionati in questo brano fossero figli di Maria o, come accadeva secondo una usanza semitica, il termine greco adelphos (f. adelphe) va inteso come "cugini", "nipoti", "fratellastri" (vedi ad es. Gn 14,16; 29,15; Lv 10,4). Una antica e diffusa tradizione patristica afferma la verginità di Maria anche dopo aver partorito Gesù. 

Tutto ciò poco conta ai fini dell'interpretazione del racconto di Luca. Ciò che esso ci trasmette è che, senza disprezzare la famiglia naturale, Gesù pone al di sopra di essa la famiglia che egli "si è scelto", quella di coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (v. 21). Il passo evangelico, "ingentilito" rispetto al parallelo di Marco (Mc 3,31-35) - in cui Gesù afferma «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». (Mc 3,33) - riferisce che "non potevano avvicinarlo", "stavano fuori" e "desideravano vederlo", ma tutto ciò gli era impedito dalla folla. 

Vi è una distanza, una barriera impenetrabile che si frappone tra Gesù e i suoi familiari. In un passo ancor più "duro" di Marco ci viene riferito che i familiari di Gesù, in altra occasione "uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé» (Mc 3,21)". Altrove Gesù afferma: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,4). 

Gesù relativizza l'istituto familiare; non ne fa "una gabbia", un contesto chiuso e autoreferenziale, ma lo pone in secondo piano rispetto al senso di appartenenza alla famiglia dei credenti. In questo senso, «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Altrove Gesù afferma: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. (Mt 10,34-35)». 

Ma se la parola di Dio è una spada che può recidere i legami familiari è anche un vincolo che può rafforzarli, arricchirli di una forza di unione soprannaturale. Allora la famiglia diventa qualcosa di più di una sorta di "clan"; diviene il focolare della Parola di Dio, laddove due o tre riuniti nel nome di Gesù lo rendono presente in mezzo a loro; diventa nucleo fecondo per l'evangelizzazione al di fuori di essa.

Preghiera

Custodisci le nostre famiglie Signore, affinché la tua parola possa rendersi presente in mezzo a noi, per vivificare le nostre relazioni e renderci apostoli del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona