Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

sabato 8 marzo 2025

Giovanni di Dio. Un "folle per Cristo" d'occidente

Il discernimento della propria vocazione non sempre passa per vie piane e lineari. Lo testimonia Giovanni di Dio, di cui oggi ricorre la festa secondo il Calendario romano. 
Nato nel 1495 a Montemoro-Novo, in Portogallo, Giovanni Ciudad subì un primo grosso trauma quando, non ancora decenne, fu sottratto misteriosamente e per sempre alla sua famiglia, e fu condotto a fare il pastore in Spagna, a Oropesa. 
Arruolatosi in seguito nell'esercito spagnolo, egli percorse con scarsa fortuna e diverse disavventure la carriera militare, finché non decise di lasciare le armi per fare il venditore ambulante di libri a Granada. Secondo il suo biografo, qui avvenne l'incontro determinante con la predicazione di Giovanni di Avila: ne fu folgorato a tal punto che decise di diventare una sorta di folle per Cristo. 
Dopo un drammatico periodo trascorso in manicomio, egli ne uscì con una sola idea per la propria vita: assistere gli ammalati e i poveri abbandonati di Granada. Giovanni, che aggiunse a questo punto la qualifica «di Dio» al proprio nome, divenne il riferimento fondamentale per gli emarginati della città, e a lui cominciarono a unirsi altri uomini desiderosi di servire Cristo nei poveri e negli infermi, soprattutto nei più emarginati quali i malati mentali. 
Giovanni di Dio morì l'8 marzo del 1550 e dopo la sua morte, sebbene egli mai avesse cercato di fondare un ordine religioso, grazie al suo esempio nacquero i «Fatebenefratelli», così chiamati dal saluto con cui Giovanni e i suoi discepoli erano soliti mendicare aiuto per i loro malati nelle vie di Granada.

Tracce di lettura

Per vincere il mondo, il diavolo e la carne, è necessario non confidare in se stessi, perché si cadrà mille volte al giorno in peccato, ma confidare solo in Gesù Cristo e unicamente per il suo amore e per la sua bontà non peccare, né mormorare, né fare del male, né danno al prossimo, ma desiderare per il prossimo ciò che vorremmo facessero a noi; e desiderare che tutti si salvino; e amare e servire solo Gesù Cristo per quello che lui è, e non per timore dell'inferno. (Giovanni di Dio, Lettera alla duchessa di Sessa)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Giovanni di Dio salva dal fuoco scaturito nell'ospedale di Granada i suoi malati

L'ora della prova

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Colletta

O Dio, che per amor nostro hai digiunato quaranta giorni e quaranta notti; donaci la grazia di praticare l’astinenza per sottomettere il nostro corpo allo Spirito; affinché possiamo sempre essere docili alle tue buone ispirazioni di giustizia e santità, per tuo onore e gloria. Tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen

Letture

2 Cor 6,1-10; Mt 4,1-11

Commento

Gesù viene preparato al suo ministero con il battesimo al Giordano, dove riceve la testimonianza del Padre, e con le tentazioni nel deserto, dove viene sospinto dallo Spirito. È questa una tappa obbligata anche per noi; infatti quanto più grandi saranno le manifestazioni della grazia nel nostro cammino spirituale, tanto più forti saranno le prove che seguiranno per mantenerci nell'umiltà. Così ammonisce il libro del Siracide: "Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione" (Sir 2,1). 

Gesù ha accettato di essere tentato facendosi carico della nostra fragilità; ma se il tentatore aveva trionfato sul primo Adamo, è sconfitto da Cristo, il secondo Adamo, che ha liberato l'umanità schiava del peccato. Egli, infatti, "proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Eb 2,18) e "non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato" (Eb 4,15). 

Vi è un parallelo tra i quaranta giorni di Gesù nel deserto e i quarant'anni di peregrinazioni di Israele prima di entrare nella terra promessa; con il soggiorno di quaranta giorni di Mosè sul Monte Sinai e del profeta Elia - restauratore della Legge - sul Monte Oreb. Gesù è colui che ripara le infedeltà alla prima alleanza, ma anche il legislatore del nuovo patto, esteso all'intera umanità. 

Le tentazioni sono presentate nel Vangelo di Matteo nella forma di una disputa rabbinica; sia il diavolo che Gesù citano passi delle Scritture, il primo in maniera ingannevole, mentre Gesù ne svela il senso autentico. Possiamo difenderci dalle insidie del Maligno con la parola di Dio, ma solo se viene letta con fede, alla presenza di Cristo.

Con la prima tentazione Satana cerca di mettere a repentaglio la relazione dell'uomo con Dio, insinuando che questi non è Padre o non è un Padre che desidera il bene dei suoi figli. Non esorta Gesù a pregare il padre affinché trasformi le pietre in pane ma affinché le trasformi egli stesso. L'uomo è tentato in questo modo quando rompe la propria relazione con Dio e pensa di poter confidare unicamente in se stesso; ogni volta che cade in una sorta di "pensiero magico", pensando di poter modificare la realtà con l'ideologia, la scienza, la tecnica, gli idoli del suo tempo.

Con la seconda tentazione il diavolo pone Gesù in cima al Tempio di Gerusalemme, il luogo più santo della città santa e lo esorta a chiedere a Dio un prodigio che susciti ammirazione. Ma Gesù rifiuta, perché ha spogliato se stesso della propria potenza divina facendosi simile agli uomini, per insegnare la mansuetudine, l'umiltà, il servizio vicendevole.

Nella terza tentazione Satana offre a Gesù i regni di questo mondo, di cui egli è principe, ma un principe spodestato. Nel tempo che lo separa dal compimento della storia, l'uomo è tentato di disconoscere l'autorità di Dio, sottomettendosi al padre della menzogna. Ma il Maligno è stato vinto dall'incarnazione e dalla croce di Cristo, e il suo potere è limitato a ciò che la volontà di Dio gli concede di fare, fino al giorno in cui il Figlio tornerà sulla terra per prendere possesso del suo regno.

Luogo spaventoso per la sua desolazione, il deserto è luogo in cui ci si può avventurare solo se sospinti dallo Spirito, il quale ci chiama a questa esperienza per educarci alla lotta e metterci davanti alla nostra fragilità. Restando saldi nella fede che Cristo ha sconfitto il nemico e combatte con noi potremo trionfare sulla tentazione e gustare il pane del cielo amministrato dagli angeli.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 7 marzo 2025

Perpetua e Felicita, prime martiri cristiane e la concezione dell'aldilà nella chiesa antica

Le chiese cattolica, anglicana, luterana e veterocattolica celebrano oggi la memoria di Perpetua e Felicita, giovani martiri cristiane a Cartagine nell'anno 203.
Perpetua e Felicita facevano parte di un gruppo di catecumeni imprigionati a Cartagine durante la persecuzione di Settimio Severo. La loro Passio è uno dei testi più commoventi dell'antichità cristiana. Essa ci rivela la consapevolezza con cui i martiri si preparavano a ricevere la morte: secondo la loro stessa testimonianza, infatti, la fonte della loro forza e della loro fierezza non era altro che il Cristo che viveva e soffriva con loro e in loro.
Perpetua, giovane di famiglia patrizia, era madre di un bambino ancora in fasce quando fu arrestata. Felicita, invece, che era una schiava, era incinta. Tre giorni prima del martirio Felicita diede alla luce una bambina e mentre soffriva nel travaglio del parto, un carceriere le disse: «Se ora soffri così, cosa farai quando sarai gettata alle fiere?». Ma essa rispose: «Adesso sono io che soffro, ma là sarà un altro a soffrire per me dentro di me, perché anch'io ora soffro per lui».
Perpetua, a sua volta, quando ricevette il battesimo in carcere scrisse: «Lo Spirito di Dio mi ha ispirato di impetrare dall'acqua nient'altro che la saldezza della carne nelle sofferenze del martirio». Morirono martiri a Cartagine nel 203. La loro popolarità fu subito enorme, e i loro nomi aprono l'elenco dei martiri nominati nel Canone romano.

Il racconto della Passio di Perpetua e Felicita

La Passio che racconta del martirio è ritenuta dagli studiosi immediatamente successiva agli eventi. Un tempo attribuita a Tertulliano è, invece, oggi attribuita ad un cristiano anonimo della comunità di Cartagine.
Il racconto si compone di tre parti. La prima è una relazione fatta forse da un diacono o da un notaio della Chiesa di Cartagine sui compagni di prigionia e di martirio della santa; la seconda, che è quella scritta dalla stessa martire Perpetua, contiene il suo diario durante la prigionia; la terza espone il racconto del suo martirio, fatto da quello stesso che scrisse la prima parte. E questa ultima parte si chiude con la testimonianza preziosa che la seconda parte fu scritta di propria mano dalla stessa Perpetua. In questa descrizione viene narrato tutto ciò che accadde dal momento della cattura di lei e degli altri cristiani fino al giorno del martirio; e contiene il racconto delle visioni da lei avute durante la sua prigionia.

Nella prima di queste visioni, dopo la solita formula et ostensum est mihi hoc, Perpetua ci racconta di avere visto una scala lunga fino al cielo, attorniata da armi diverse e custodita da un dragone. Essa non aveva coraggio di salire, ma Satiro, suo compagno, le fece animo e subito salì e giunse in un bellissimo giardino, dove vide un vecchio venerando con capelli del tutto bianchi, che stava mungendo. Appena che la vide, le fece cenno di avvicinarsi, e poi che essa si fu avvicinata, il vecchio le diede un pezzetto di latte coagulato (sicit buccella) che essa ricevette a mani giunte sulle labbra, mentre tutti gli altri personaggi che si trovavano in quel giardino dicevano: Amen. Dopo di che Perpetua dice di essersi svegliata e di esserle rimasta in bocca una dolcezza che mai aveva provato. Queste ultime parole contengono una allusione evidente all'Eucaristia.

«Dopo alcuni giorni da questa visione, -prosegue essa a dire -, mentre stavamo tutti a pregare, sfuggì dalle mie labbra il nome di Dinocrate, nome di mio fratello minore morto da poco all'età di sette anni per un cancro sulla faccia. Io, prosegue, mi meravigliai come fino allora non mi fossi mai ricordata di lui e me ne pentii, e tutti insieme ci ponemmo a pregare per lui. Poco dopo ebbi un'altra visione: e vidi Dinocrate che usciva da un luogo tenebroso, tutto pallido in volto con sopra una terribile ferita che lo deformava. Egli era tutto mesto ed abbattuto, e andava qua e là vagando inquieto come chi soffre una gran pena. Fra me e lui v'era una profonda divisione, cosicché io non poteva aiutarlo in nessun modo. In quello stesso luogo dove egli stava vi era pure una fontana e pareva che Dinocrate avesse un'ardente sete poiché cercava di bere ma non poteva, perché l'orlo della vasca era molto alto ed egli invece piccolo di statura. Allora capii che egli si trovava in luogo di pena. E così mi svegliai e pensai subito al fratello che soffriva, ma confidai che le mie preghiere fossero a lui di sollievo; e subito ci ponemmo a pregare per lui sino a quando ci portarono all'anfiteatro in una nuova prigione per aspettare il giorno in cui si celebrava la festa di Geta figlio dell'imperatore». La terza visione avvenne dopo alcuni giorni dall'altra ed è la seguente: «Mi si presentò dinanzi il medesimo luogo dell'altra volta, però interamente trasformato, risplendente di luce e in ameno giardino; e Dinocrate allegro e contento che saltava qua e là vestito di candide vesti. La fontana di quel giardino aveva l'orlo molto abbassato e in essa Dinocrate continuamente si rinfrescava (et vidi Dinocratem refrigerantem), mentre sul margine della fontana stessa vi era una fiale d'oro ripiena di acqua. Allora, conclude Perpetua, mi ridestai e compresi che Dinocrate era stato tolto dalla pena e che godeva la beatitudine eterna».

Certamente in tutta l'antica letteratura cristiana non abbiamo un altro documento che parli più chiaramente della fede in uno stato ultraterreno di espiazione, delle preghiere per il suffragio delle anime dei defunti e della validità di queste preghiere.


Fermati 1 minuto. Non c'è digiuno senza condivisione

Lettura

Matteo 9,14-15

14 Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». 15 E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno.

Commento

Alcuni discepoli di Giovanni insieme ai farisei sono protagonisti di una discussione sul digiuno con Gesù. Poco prima si erano rivolti ai suoi discepoli chiedendogli perché il loro maestro stava prendendo il pasto con pubblicani e peccatori. Adesso si rivolgono a Gesù stesso per riprenderli. Prima avevano cercato di mettere i discepoli contro il maestro, adesso il maestro contro i discepoli. Un modo di agire che non può certo venire dallo Spirito, e che tradisce piuttosto la tendenza a dividere e seminare discordia.

Gesù risponde facendo propria la stessa similitudine che aveva utilizzato Giovanni Battista, il quale si era definito "amico dello sposo" (Gv 3,29). Il digiuno è un segno di lutto e in quel momento di gioia in cui Gesù sta proclamando il regno dei cieli sarebbe inopportuno, proprio come sarebbe fuori luogo in occasione di un pranzo di nozze. Il digiuno è riferito al tempo in cui Gesù non sarà più con i discepoli, che è il tempo della chiesa. 

Gesù ha spiegato il modo in cui si deve digiunare nel suo discorso sul monte (Mt 6,16-18): privatamente, profumandosi la testa e lavandosi il volto, affinché solo il Padre che vede nel segreto possa dare la sua ricompensa. Tale pratica viene così interiorizzata e perde la connotazione legalistica che aveva assunto presso i farisei. Ma quali sono le nozze di cui parla Gesù definendosi "lo sposo"? Sono quelle tra il Salvatore e i peccatori. Matteo, il pubblicano convertito, lo ha compreso in prima persona, organizzando un banchetto per Gesù. 

Il profeta Isaia ci dice qual è il digiuno che Dio valuta di più: "Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato?" (Is 58,7). Cristo è colui che sazia la nostra fame di Dio, il nostro più profondo desiderio di amore, che il mondo con i suoi "cibi" non può soddisfare. Se digiuniamo in certi momenti non è per guadagnare meriti e rispettare dei precetti in maniera farisaica, ma per condividere con Dio e con il prossimo i nostri beni, il nostro affetto, il nostro tempo. 

Dicendo qualche "no" a noi stessi, come l'apostolo Paolo, trattiamo un po' duramente il nostro corpo e il nostro spirito, esercitandoci non come chi corre senza mèta (1Cor 9,24-27), ma ben sapendo che lo scopo di ogni pratica ascetica è di fare spazio a Dio e ai fratelli nel nostro cuore.

Preghiera

La nostra anima ha fame e sete di te Signore. Guarda la nostra povertà e vieni a visitarci con la tua grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 6 marzo 2025

Fermati 1 minuto. Rinunciare a sé per trovare Dio

Lettura

Luca 9,22-25

22 «Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno».
23 Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
24 Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. 25 Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?

Commento

In quel "deve" (v. 22) con cui Gesù si riferisce alla sua passione è racchiuso il piano di salvezza di Dio per l'umanità che si attuerà con la sua morte e risurrezione. Gesù si rivolge "a tutti" (v. 23), con un invito universale a seguirlo, rinnegando se stessi, per trovare la propria vita in Dio. 

Il paradosso evangelico è proprio questo: nella misura in cui ci doniamo, la nostra esistenza si arricchisce di senso. Ogni giorno (v. 23) in cui moriamo a noi stessi per fare spazio allo Spirito che ci rinnova e ci rende strumenti della grazia è un giorno trascorso bene. 

Se non tutti siamo chiamati a testimoniare Cristo fino al martirio certamente nessuno può essere suo discepolo senza obbedire ai suoi comandamenti, mettersi al servizio del prossimo e testimoniare il suo nome al momento opportuno e inopportuno (2 Tim 4,2). Solo così potremo dire con Gesù "Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi" (Gv 10,17). 

Il mondo va in direzione completamente opposta: ci spinge a un desiderio bulimico di appropriazione e prevericazione che non sazia mai i nostri bisogni più profondi. Ma Gesù non ci mette in croce contro la nostra volontà, fa appello alla nostra libertà: "Se qualcuno vuol venire dietro a me..." (v. 23) 

La meta finale è la risurrezione; la croce diventa allora da strumento di supplizio via di accesso a un'umanità trasfigurata, che ha riconquistato l'immagine e somiglianza con Dio.

Preghiera

Donaci, Signore, il coraggio di metterci generosamente al servizio tuo e del nostro prossimo; affinché rinunciando a noi stessi possiamo trovare te, che sei l'autore di ogni bene. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 5 marzo 2025

Mercoledi delle ceneri. L'inizio di un cammino di conversione

L'origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell'antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Nel corso dei secoli si è avuta una triplice evoluzione della disciplina penitenziale: "da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, prima dell'assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all'assoluzione".

La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell'imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l'importanza di questo segno.

La teologia biblica rivela un duplice significato dell'uso delle ceneri.

1 - Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell'uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere..." (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: "Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere" (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell'uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).

2 - Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: "I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere" (Gio 3,5-9).

La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: "Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai" e "Convertitevi, e credete al Vangelo". 

Preghiera (dal Book of Common Prayer)

Dio onnipotente ed eterno, che non disprezzi nulla di quel che hai creato, e perdoni i peccati di tutti i penitenti; crea in noi un cuore contrito, affinché noi, riconoscendo i nostri peccati e la nostra miseria, possiamo ottenere da te, Dio di misericordia, la perfetta remissione e il perdono. Per Gesù Cristo nostro Signore.

Fermati 1 minuto. Un cuore libero per ricevere il centuplo

Lettura

Marco 10,28-31

28 Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29 Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31 E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Commento

Nel pensiero giudaico il benessere terreno è considerato una benedizione di Dio, un premio per i giusti. Lo stesso Giobbe, che viene privato di tutto ciò che gli è più caro (i propri figli, i propri possedimenti, la propria salute) vede benedetti i suoi ultimi anni da Dio (Gb 42,12) e arrivando a centoquarant'anni, "morì vecchio e sazio di giorni" (Gb 42,17).

Ma cosa giova a coloro che hanno seguito il consiglio dato da Gesù al giovane ricco, di lasciare tutto per seguirlo? «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19:27) chiede Pietro a Gesù con la sua ruvida franchezza.

Gesù promette di donare il centuplo fin da questa vita e la vita eterna nel tempo della "rigenerazione". Le sue parole non sono un invito ad abbandonare amici e parenti nelle loro necessità, ma a porre le esigenze del Regno al primo posto, per guadagnare ogni uomo alla fede e vivere il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Egli ci esorta a vivere con libertà il nostro rapporto con i beni terreni per godere dei frutti dello Spirito.

Le persecuzioni accompagneranno le benedizioni del Signore per i suoi fedeli (v. 30). Ma i problemi e le difficoltà incontrati nel mondo a causa del vangelo possono diventare essi stessi fonte di benedizione, aiuto a maturare nella fede; saremo come rami potati nella giusta stagione, per portare frutti più abbondanti.

Preghiera

Tutto quello che abbiamo, Signore, appartiene a te; ma tu ci chiedi di non presentarci alla tua presenza a mani vuote. Donaci un cuore libero per ricevere in abbondanza le tue benedizioni. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 3 marzo 2025

Fermati 1 minuto. Farsi piccoli per passare dalla cruna dell'ago

Lettura

Marco 10,17-27

17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». 18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
23 Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». 24 I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com'è difficile entrare nel regno di Dio! 25 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26 Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: «E chi mai si può salvare?». 27 Ma Gesù, guardandoli, disse: «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio».

Commento

Mentre Gesù sta per mettersi in viaggio verso Gerusalemme, dove si compirà il suo atto di consacrazione per l'umanità, viene raggiunto da un uomo che corre verso di lui e si mette in ginocchio pregando di poterlo seguire. Questi dettagli riportati da Marco fanno comprendere l'entusiasmo di quest'uomo, che Luca e Matteo ci dicono essere giovane (Mt 19,20) e "un notabile" (Lc 18,18), probabilmente un capo della sinagoga.

Gesù riserva il termine "buono" a Dio, fonte di ogni bontà (cfr. Mt 19,17). Egli non nega la propria bontà, ma chiede al giovane di interrogarsi sul perché lo riconosce come buono. Se riconosciamo la bontà di Gesù e quindi la sua piena partecipazione alla bontà del Padre, dobbiamo essere pronti a riconoscere anche l'autorità della sua parola e l'entità della sua chiamata.

Di fronte alla richiesta dell'uomo ricco su cosa fare per avere la vita eterna Gesù menziona i comandamenti della seconda tavola della legge, relativi al comportamento da tenere verso il prossimo. "Non frodare" è un'aggiunta al decalogo, presente solo nel Vangelo di Marco. Potrebbe essere un'allusione al comandamento "Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" (Es 20,17).

L'uomo ricco, che dichiara di aver osservato tutti i comandamenti, è un buon ebreo è può essere considerato simbolo dell'Israele fedele a Dio. Ma il messaggio del vangelo chiede di superare il semplice legalismo, per donarsi integralmente al Signore. La vita eterna che Gesù propone è qualcosa di più di quella che l'uomo ricco ricerca (v. 17). Non si tratta solo di un'illimitata estensione temporale, ma di una infinita differenza qualitativa, determinata dalla piena comunione con Dio.

Gesù lo fissa negli occhi (v. 21); Marco si sofferma spesso sul suo sguardo (cfr. 3,5.34; 5,32; 10,23; 11,11), che in questo caso esprime una grande compassione per questo giovane che sente come un'inquietudine, un bisogno di "andare oltre" l'osservanza dei comandamenti fino allora praticata.

Il giovane ricco rinuncia a seguire Gesù "perché aveva molti beni" (v. 22).Questa annotazione finale di Marco richiama la parabola del seminatore (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15) dove il seme caduto tra le spine non porta frutto per la seduzione della ricchezza.

L'Antico Testamento presenta un aspetto ambivalente della ricchezza e dei beni materiali: da un lato vengono visti come segno del favore divino (Gb 1,10; Sal 128,1-2; Is 3,10). Perciò le parole di Gesù provocano stupore tra i discepoli (v. 24), perché in apparente contraddizione con questo modo di considerare la benevolenza di Dio. Sempre nell'Antico Testamento, la ricchezza è presentata come tentazione idolatrica. Gesù, che richiede ai suoi discepoli la radicalità del dono di sé, predilige questa interpretazione. 

La ricchezza, il potere e il prestigio sono considerati un ostacolo per il Regno, poiché generando una falsa sicurezza invischiano il cuore nel possesso delle cose, mentre invece la propria fiducia va riposta interamente in Dio e la propria vita messa al servizio dei bisognosi.

Quanto sia difficile per il ricco rinunciare all'esclusività dei propri interessi e passare per la "porta stretta" della vita è ben sintetizzato dall'immagine iperbolica del cammello che non può passare per la più piccola delle aperture (la cruna di un ago). Il raggiungimento della salvezza, che va oltre le capacità umane, dipende dalla bontà di Dio che la concede.

Se vogliamo conoscere la volontà di Dio sulla nostra vita dobbiamo affrettarci a consultarlo mettendoci umilmente e con cuore aperto alla sua presenza, come il giovane che gli si inginocchiò innanzi; ma diversamente da questi, siamo pronti ad accogliere le esigenze del vangelo? Chi ama fino in fondo va oltre il quieto conformismo religioso e trova in ogni cosa un'occasione per crescere nell'amore.

Forse come il diligente protagonista di questa narrazione evangelica anche noi ci sentiamo già "a posto con Dio", a un passo dalla vita eterna. Scrupolosi nell'evitare grandi mancanze verso di lui e verso il prossimo, pensiamo che egli ci richieda solo più qualcosa di superfluo per giungere alla perfezione cristiana. Ma siamo come cammelli davanti alla cruna di un ago. Se vogliamo passare per la porta della vita dobbiamo "diminuire", farci umili per lasciare operare in noi la grazia di Dio.

Preghiera

Soccorrici con la tua grazia, Signore, e santificaci con il tuo Spirito; affinché possiamo crescere in generosità, riconoscendo che ogni ricchezza che ci hai donato appartiene ai poveri. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 2 marzo 2025

Condividere la natura di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI QUINQUAGESIMA
O DOMENICA PRIMA DELL'INIZIO DELLA QUARESIMA

Colletta

O Signore, che ci hai insegnato che tutte le cose, senza la carità non valgono nulla; manda il tuo Santo Spirito e infondi nei nostri cuori il dono eccellente dell'amore, vero vincolo di pace e fonte di ogni virtù, senza il quale, chiunque vive è considerato morto ai tuoi occhi. Concedici questo per la grazia del tuo unico Figlio Gesù Cristo. Amen.

Letture

1 Cor 13,1-13; Lc 18,31-42

Commento

Sul finire del periodo che separa l'Epifania dalla Quaresima la lettura del Vangelo di oggi ci conduce all'annuncio da parte di Gesù del suo destino terreno, che si compirà nella sua passione e morte. Per preparare i discepoli a questo evento traumatico ed evitare che ne restino scandalizzati il Signore gli rivela che le profezie degli antichi profeti dovranno adempiersi in lui e che, dunque, quella catastrofe imminente, rientra nel piano salvifico di Dio. 

Proprio perché nulla dovrà più restare nascosto Gesù compie il miracolo della guarigione del cieco Bartimeo, non impedendogli di testimoniare quanto accaduto. Nessuna cautela, infatti, è più necessaria, poiché l'odio dei nemici di Cristo è giunto ormai al suo culmine e, approssimandosi il suo sacrificio, egli deve farsi riconoscere da tutti come il Messia atteso da Israele. 

La ferma fede di Bartimeo e la sua preghiera insistente si elevano al di sopra del fragore della folla, giungendo fino alle orecchie del Salvatore. Bartimeo vede esaudita la propria preghiera per la sua fede incrollabile, che ignora coloro che gli intimano di tacere. È la stessa insistenza con cui Gesù ci invita a pregare nel Vangelo di Luca, nella parabola dell'amico importuno (Lc 11,5-8). 

Bartimeo è un esempio della gratitudine con cui siamo chiamati a rispondere alla misericordia di Dio: non appena guarito, egli getta via la sua veste e inizia a seguire Gesù. All'amore di Dio si risponde con la conversione e il discepolato. Ritrovare la vista e continuare a vestire i panni di un cieco, restando nel proprio giaciglio, non avrebbe alcun senso. 

Cristo, luce del mondo, apre i nostri occhi alle meraviglie della carità di Dio, della quale dobbiamo farci imitatori, come esorta l'apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi. Lungi dall'essere una mera forma di elemosina, magari un modo per alleggerirci la coscienza donando il superfluo, la carità è l'amore disinteressato, che dona senza chiedere nulla in cambio e senza ricercare secondi fini. 

Paolo presenta la carità come virtù superiore alla fede che opera miracoli e sposta i monti, superiore a ogni altro dono che possiamo possedere. Senza di essa non siamo nulla. Perché quando tutte le cose passeranno resterà solo ciò che siamo, non ciò che abbiamo. E agli occhi di Dio, che è amore, non siamo nulla se siamo privi di amore. 

Non ci inganni il giudizio degli uomini, che possono lodarci per quel che abbiamo: scienza, eloquenza, beni materiali. Dio guarda a ciò che siamo. Paolo considera la carità, insieme e al di sopra della fede e della speranza, come una virtù permanente, che oltrepassa la nostra vita terrena: «Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, speranza e amore; ma la più grande di esse è l'amore» (1 Cor 13,13). La carità è la virtù più grande perché ci rende partecipi della natura stessa di Dio.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 1 marzo 2025

Il diario di un eremita contemporaneo

Nel cuore della modernità, tra il frastuono della vita quotidiana e la ricerca incessante di connessioni digitali, esiste ancora chi sceglie la solitudine come via di conoscenza e di ascolto. Frédéric Vermorel, autore del libro Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo (Edizioni Terra Santa, 2021) e pubblicato per la prima volta nel 2021, racconta la sua esperienza di vita eremitica, sfatando il mito dell’isolamento assoluto e offrendo una prospettiva autentica su un’esistenza fatta di preghiera, riflessione e accoglienza.

Monaco eremita appartenente alla diocesi di Locri-Gerace, dopo anni trascorsi nell’eremo di Sant’Ilarione, nella Locride, attualmente vive nel territorio di Caulonia, comune della città metropolitana di Reggio Calabria.

Come può l’eremitaggio trovare una dimensione che consenta all’uomo di non cadere in una condizione di totale isolamento?

Dipende da diversi fattori. Innanzitutto, bisogna considerare che non esiste un’unica figura di eremita. Anzi, direi che la caratteristica principale della vita eremitica è proprio la sua estrema varietà. Per definizione, l’eremita è una persona sola, ma può comunque avere un legame: nel mio caso, ad esempio, sono un eremita diocesano e ho un legame con il mio vescovo e con la mia diocesi. Ci sono eremiti che appartengono a ordini religiosi e altri che non hanno alcun vincolo canonico, con ulteriori sfumature all’interno di queste categorie. Chiaramente, c’è una differenza tra chi vive in un isolamento quasi totale, con contatti ridottissimi – alcuni parlano solo con il proprio vescovo o padre spirituale – e chi, invece, come me, mantiene un legame costante con il mondo. Io, ad esempio, leggo quotidianamente i giornali in formato digitale, ricevo molta corrispondenza e pratico l’accoglienza. Alcuni eremiti la offrono, altri no. Non esiste una regola universale. Un aspetto importante da sottolineare è che, anche chi vive una condizione di reclusione quasi totale rispetto al mondo esterno, ha comunque una percezione di ciò che avviene nel mondo attraverso la preghiera e l’ascolto dello Spirito. È un aspetto molto difficile da definire perché oltrepassa quello che è strettamente razionale.

Nel suo libro racconta il percorso di discernimento che ha vissuto: un’esperienza illuminante, un diario ricco di riflessioni profonde. Potrebbe parlarcene?

Il discernimento avviene innanzitutto attraverso l’ascolto della Parola di Dio che si ‘concretizza’ attraverso l’imitazione di quella Parola che troviamo contenuta nella Bibbia, ma anche di un’altra Parola che troviamo nella storia, negli eventi e nelle esperienze vissute. È un aspetto che compare chiaramente nel mio libro. Non mi sono inventato eremita, né ho mai deciso consapevolmente di diventarlo. Mi sono semplicemente ritrovato a esserlo. Ho scoperto che in una determinata situazione mi sentivo a mio agio, che rispondeva a un anelito profondo del mio cuore di cui fino a poco tempo prima non ero consapevole. È stato un momento decisivo, un ascolto della vita e della Parola di Dio. Come dicevano i Padri della Chiesa: “Illuminare la vita con la Parola, illuminare la Parola con la vita”. È in questa dinamica di ascolto che ciascuno scopre il progetto di Dio per sé.

Ha detto che lo sguardo dell’eremita è unito a tutti proprio perché separato. Come si è sviluppata questa prospettiva nei confronti del mondo?

Sicuramente c’è un affinamento della sensibilità, che avviene attraverso le esperienze vissute prima della vita eremitica. Nel mio caso, l’esperienza con le persone con disabilità nella Comunità dell’Arca, i soggiorni in Brasile e altre esperienze hanno contribuito a sviluppare un’attenzione profonda alla sofferenza e alla gioia delle persone. L’eremo è un luogo particolare, fatto di silenzio e di una relativa solitudine. Relativa perché, almeno nel mio caso e in quello di molti altri eremiti, riceviamo visitatori, ospiti o anche semplici passanti che restano per cinque minuti, mezz’ora o un’ora, condividendo un caffè, un momento di preghiera, una confidenza. Mi viene in mente l’espressione della teologa, scrittrice ed eremita, Adriana Zarri: «L’eremo non è un guscio di lumaca, ma una conchiglia», una cassa di risonanza. Il silenzio e la solitudine fanno sì che le parole ascoltate in questo contesto risuonino più fortemente del frastuono di una metropolitana.

Ritiene che questa forma di vita possa essere ancora significativa per le vocazioni religiose?

Risponderei in due tempi. Anzitutto, non so se si possa davvero parlare di “scelta”. Si è scelti, ma non si sceglie in modo del tutto autonomo. Si accoglie una vocazione, la si riconosce e, una volta riconosciuta, la si fa propria. Quanto all’attualità della vita eremitica, ritengo che sia sempre stata e sempre sarà valida, finché esisterà la vita. Il bisogno di comprendere chi siamo, il mondo nel quale viviamo, il desiderio di solitudine e di ricongiungersi con la verità del nostro essere, con la nostra povertà, sono aspetti universali che abitano nel cuore dell’uomo e che prescindono da dove è nato e da quando è nato.

Per quanto tempo ha vissuto nell’eremo di Sant’Ilarione? E come trascorreva il suo tempo?

Sono arrivato a Sant’Ilarione, nella Locride, nell’aprile del 2003 e vi ho vissuto per quasi 22 anni. Da pochi mesi, però, non sono più lì perché sono in corso dei lavori che dureranno più di un anno. Attualmente vivo in una casetta nel territorio di Caulonia, senza vicini, perché le altre abitazioni sono abbandonate o vuote. La mia vita è molto semplice: preghiera, lavoro e accoglienza.

Potrebbe approfondire il concetto di «solitudine ospitale»?

La «solitudine ospitale» è l’identità ospitale di Gesù. Gesù è una persona ospitale, un concetto sviluppato dal teologo Christophe Theobald. Nel mio caso, ho ricevuto amore e accoglienza e, di conseguenza, sono chiamato a restituire ciò che ho ricevuto. Un dono trattenuto che non viene restituito o condiviso si corrompe, proprio come un’acqua che smette di scorrere diventa imbevibile. Dunque, la solitudine ospitale significa che chi vive una condizione di relativa solitudine o di ritiro dagli uomini ha comunque la porta sempre aperta, almeno idealmente. Naturalmente, come tutti gli esseri umani, ho i miei limiti, il mio carattere e le mie stanchezze, che talvolta rendono difficile essere ospitali come si vorrebbe. In fin dei conti, anche nel caso del recluso, che non è la mia condizione, la solitudine deve essere ospitale ossia deve saper accogliere quell’ospite per antonomasia che è Dio stesso e, in Lui, tutti gli esseri umani e addirittura l’intero creato.

Il silenzio è una dimensione centrale nella vita eremitica. Ha un consiglio da condividere a chi vorrebbe coltivarlo?

Molto concretamente, chi vive in città – come è stato il mio caso per diversi anni, a Parigi e Bruxelles – dovrebbe ritagliarsi tempi e spazi per il silenzio e il raccoglimento. È fondamentale per non disperdersi, per raccogliere i pezzi di sé e chiedersi: «Chi sono io?». Senza questi momenti, si rischia una dispersione totale. Anche chi, per mille motivi di vita professionali o familiari, è costretto a convivere nel frastuono, può apprendere l’arte dell’abitare questo fragore in modo potenzialmente silenzioso. In fin dei conti il silenzio non è assenza totale di voci, di suoni, ma capacità di ascolto. È una disponibilità all’incontro. Nessuno è un superuomo o una superdonna. È essenziale trovare gli strumenti necessari per fare esperienza di quest’incontro.

Utilizza strumenti digitali da molti anni. Qual è il suo rapporto con essi?

Li abito con sapienza e prudenza. Sono strumenti straordinari, con potenzialità immense. Utilizzo Facebook da alcuni anni, il che potrebbe sorprendere. Lo vedo come un luogo di evangelizzazione digitale: quasi ogni giorno pubblico una meditazione biblica. Tuttavia, interagisco poco con le persone che non conosco, perché questi strumenti restano filtrati e gli scambi possono essere fuorvianti: dietro uno schermo o una tastiera, il rischio di fraintendimenti è alto. Il digitale resta ad ogni modo un possibile luogo di evangelizzazione che mi permette di offrire un piccolo contributo di condivisione della Parola.

- Angela Servidio, Settimana News, 25 febbraio 2025


venerdì 28 febbraio 2025

Martin Bucer. Il riformatore di Strasburgo

Il 28 febbraio 1551 muore esule a Cambridge Martin Bucer, riformatore della chiesa di Strasburgo.
Era nato a Sélestat, in Alsazia, da una famiglia umile. Essendo un giovane con spiccate qualità intellettuali, l'unica via possibile nella sua povertà per poter studiare era entrare in convento, e così avvenne nel 1506, quando Martin fu accolto dai domenicani della sua città natale.
I suoi superiori lo mandarono dieci anni dopo ad affinare la sua conoscenza teologica presso i domenicani di Heidelberg; fu nell'università di quella città che Bucer conobbe Martin Lutero e fu conquistato alla causa riformatrice. Uscito dapprima dall'Ordine, ma rimasto prete secolare, Bucer fu tuttavia scomunicato quando si sposò con Elisabeth Silbereisen. Perseguitato per le sue idee luterane, egli si rifugiò nel 1523 a Strasburgo, dove divenne il principale protagonista della riforma nel capoluogo alsaziano. Nei venticinque anni dedicati alla riforma, Bucer fu un predicatore convinto del ritorno al vangelo in tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Egli organizzò il sinodo locale, grazie al quale tentò poi di creare una rete di piccole «comunità cristiane» confessanti, che dovevano costituire nei suoi intenti le unità evangeliche di base della chiesa, secondo il modello degli Atti degli Apostoli.
Ma Bucer fu anche un sincero uomo di pace. Egli si adoperò in tutti i modi per tenere unite le varie anime della Riforma, per reintegrare gli anabattisti e per giungere a un'intesa con i teologi romani.
La posizione di Bucer riguardo al sacramento dell'eucaristia era simile a quella di Zwingli ma, prevalendo il suo desiderio di mantenere l'unità con i luterani, si impegnò costantemente – specie dopo la morte di Zwingli – nella formulazione di una professione di fede che potesse essere accettata sia dai luterani sia dai riformatori svizzeri e della Germania meridionale. Questi tentativi di conciliazione - che si concretizzarono nella sua partecipazione a molti incontri, fra i quali quello di Basilea del 1536 da cui uscì la prima delle due Confessiones Helveticae - furono all'origine dell'accusa di oscurità che gli venne mossa. Esiliato nel 1549 su ordine di Carlo V, fu felice di accettare l'invito di Cranmer a stabilirsi in Inghilterra. Al suo arrivo, nel 1549, fu nominato regius professor of Divinity all'Università di Cambridge. Egli fu consultato quando si decise di rivedere il Book of Common Prayer (Libro delle preghiere comuni), testo base della comunione anglicana; fondamentale fu il suo contributo, insieme a quello di Pietro Martire Vermigli, per l'edizione del 1552. Bucer terminò la sua vita a Cambridge il 28 febbraio 1551 e fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa dell'Università. Nel 1557 i commissari della regina Maria esumarono e bruciarono il suo corpo e ne demolirono la tomba, che fu poi ripristinata dalla regina Elisabetta I.

Tracce di lettura

Fratelli, per quanto riguarda il primo punto della nostra riforma, cioè la predicazione della parola di Dio, dobbiamo ringraziare incessantemente l'onnipotente ed eterno Dio per la sua immensa grazia e misericordia, perché in questi ultimi tempi egli ha mediante la sua sovrabbondante grazia riacceso in noi a tal punto la luce del suo santo vangelo e ci ha salvati e liberati da errori e idolatrie orrendi e perniciosi. E così anche l'insegnamento è talmente radicato nella parola di Dio che non abbiamo coscienza di alcun errore in nessun articolo di fede, ma abbiamo predicato, sul fondamento della santa Scrittura, secondo le nostre capacità, in modo limpido e chiaro, il puro vangelo, dal momento in cui Dio ci ha portati a questa vera conoscenza.
La questione, tuttavia, non è solo che la parola sia predicata fedelmente, ma soprattutto che la gente orienti la propria vita conformemente ad essa, perché non sono gli uditori della parola, ma i facitori di essa che saranno beati. Cristo stesso dice per questo: «Insegnate loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate»; in altre parole la gente, attraverso una tale predicazione, sia indotta a cambiare vita, a convertirsi a Dio col cuore. (Martin Bucero, Le carenze e i difetti delle chiese 2,1)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose e Enciclopedia Treccani


Fermati 1 minuto. Un'alleanza benedetta da Dio

Lettura

Marco 10,1-12

1 Partito di là, si recò nel territorio della Giudea e oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava, come era solito fare. 2 E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». 3 Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4 Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». 5 Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6 Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; 7 per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. 8 Sicché non sono più due, ma una sola carne. 9 L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». 10 Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: 11 «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; 12 se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

Commento

In tutti e tre i Vangeli sinottici questo è il primo contatto di Gesù con la "folla" della Giudea. La folla gli va incontro spontaneamente come in Galilea (Mc 4,1; 5,24).

Il dibattito tra Gesù e i farisei sull'abolizione del divorzio, indica la volontà di questi ultimi di screditarlo pubblicamente e sarà un motivo di controversia tra giudei e cristiani nel primo secolo. La legge mosaica consentiva il ripudio della moglie nel caso fosse intervenuto "qualcosa di vergognoso" (Dt 24,1), ma doveva avvenire tramite il rilascio di un attestato scritto, per salvaguardare la donna dall'accusa di adulterio. 

Gesù dichiara che la legge mosaica permette il divorzio solo "per la durezza del vostro cuore" (v. 5), indicata con il termine greco sklerokardia, che indica nel Nuovo testamento l'incapacità dell'essere umano di comprendere e attuare il piano di Dio (cfr. Mt 19,8; Mc 16,14). 

Nel Vangelo di Matteo Gesù fa un'eccezione al divieto assoluto di divorzio, indicata con il termine greco pornéia; questo è stato intepretato da alcuni come "concubinato", che indica i rapporti illegittimi tra consanguinei; altri intepretano il termine con il significato di "adulterio".

Citando il libro della Genesi (1,27; 2,24) Gesù proclama che fin dall'inizio il matrimonio è stabilito come patto eterno (vv. 6-8) e continua in questo senso con l'ammonizione "l'uomo non separi ciò che Dio ha congiunto" (v. 9). L'uomo e la donna diventano "una carne sola" agli occhi di Dio. Il matrimonio non è presentato come un'invenzione umana, ma come un'istituzione divina.

Il Signore è paziente e misericordioso nei confronti delle nostre fragilità e nel custodire il patto con il suo popolo. La sua clemenza deve essere presa a modello dell'alleanza tra l'uomo e la donna, benedetta da Dio. Siamo chiamati a superare una visione consumistica delle relazioni, coltivando la libertà nella responsabilità. La fede e la piena adesione a Cristo ci otterrano la fedeltà, dono di Dio.

Preghiera

Santifica e vivifica con il tuo Spirito, Signore, le nostre relazioni; affinché possiamo imparare da te, che sei mite e umile di cuore, a essere fedeli al piano che hai stabilito dai tempi antichi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 26 febbraio 2025

Fermati 1 minuto. Uniti e operosi sotto lo stesso nome

Lettura

Marco 9,38-40

38 Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri». 39 Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. 40 Chi non è contro di noi è per noi.

Commento

Presi dalla discussione su chi sia il più grande (Mc 9,33-37) i discepoli, che poco prima si sono mostrati incapaci di esorcizzare l'epilettico indemoniato (Mc 9,14-29), per bocca di Giovanni pongono a Gesù una domanda che manifesta un atteggiamento escludente nei confronti di un uomo che scaccia efficacemente i demoni nel nome di Gesù, pur non essendo "dei loro" (v. 38).

L'episodio riportato da Marco è probabilmente anche un'eco delle questioni che si pongono i primi cristiani in circostanze simili, in relazione al riconoscimento della vera identità degli inviati di Dio.

Gesù esorta i discepoli a non ostacolare chi opera nel suo nome. Se un albero si riconosce dai frutti (Mt 7,16-20) il vero discepolo accoglie l'amore ovunque esso fiorisca. Anche le chiese particolari sono chiamate a superare gli atteggiamenti settari, coltivando piuttosto il senso di comunione tra coloro che operano nel nome di Gesù. 

L'unica chiesa di Cristo supera i confini visibili stabiliti dalle reciproche scomuniche. L'apostolo Paolo saprà cogliere questo mistero: "Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene" (Fil 1,18).

La risposta data da Gesù a Giovanni si completa con l'affermazione speculare riportata dal Vangelo di Matteo: "Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde" (Mt 12,30). Non c'è spazio per posizioni di neutralità nei confronti di Gesù.

Soltanto non illudiamoci di poter costringere nei rivoli angusti di una religiosità elitaria l'infinita grandezza e libertà dello Spirito di Cristo.

Preghiera

Dona alla tua chiesa, Signore, lo spirito di unità e concordia; affinché possiamo essere radunati nel tuo nome e portare frutti di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 25 febbraio 2025

Roberto d'Arbissel e i fratelli e le sorelle di Fontevraud

Nel 1116, in Francia, muore Roberto d'Arbrissel, eremita, predicatore itinerante e fondatore dell'Ordine di Fontevraud.
Nato ad Arbrissel, nella diocesi bretone di Rennes, verso la metà dell'XI secolo, Roberto era pienamente partecipe delle contraddizioni al vangelo che caratterizzavano la chiesa del suo tempo. 
Recatosi a Parigi per compiere gli studi, egli fu toccato dall'esigenza di riforma che si andava profilando nella chiesa, e iniziò un autentico cammino di conversione. Fece ritorno in diocesi, ma il suo cambiamento non fu gradito, e fu costretto a ritirarsi in solitudine. Teologo erudito, dotato di un'eloquenza straordinaria, egli visse un tempo di deserto, durante il quale si radunarono attorno a lui numerosi discepoli. Fra essi vi furono soprattutto gli emarginati dalla società e dalla chiesa, come i lebbrosi o le mogli dei parroci abbandonate agli inizi della riforma gregoriana. Roberto diede quindi inizio al suo ministero di predicatore itinerante, trascinando al proprio seguito una folla di uomini e donne di ogni condizione, che accettarono di farsi poveri per Cristo.
Nel 1101 Roberto, ritenuto folle dai vescovi e dai potenti del suo tempo, stimò opportuno dare ai suoi discepoli una dimora permanente, che stabilì nella foresta di Fontevraud, dove suddivise la nuova comunità in quattro nuclei: le donne, i monaci, i penitenti e i lebbrosi. L'Ordine misto che ne scaturì fu un ordine prevalentemente femminile: gli uomini avevano il compito di proteggere le donne, ma la direzione delle comunità era affidata a queste ultime.
Roberto trascorse gli ultimi anni della sua vita continuando a predicare e difendendo ovunque quanti erano vittime di sfruttamento e di sopraffazione.

Tracce di lettura

Roberto fece chiamare l'arcivescovo di Bourges e gli disse: «Signore, tu sei il mio caro padre, il mio arcivescovo. Sai come sempre ti ho amato e ti ho obbedito. Sai anche come, per amor tuo, io sia venuto a stabilirmi in questa regione. Desidero manifestarti la volontà del mio cuore. Non desidero essere sepolto né a Betlemme, né a Gerusalemme, né a Cluny. Non desidero altro luogo che il cimitero di Fontevraud. Ma non ti chiedo affatto di essere sepolto in monastero o nei chiostri, ma in mezzo ai miei fratelli poveri, nel cimitero. Là sono sepolti, infatti, i miei buoni presbiteri e chierici, i miei amati laici e le mie sante vergini. Là riposano i miei poveri lebbrosi, là i compagni del mio pellegrinaggio terreno, coloro che mi hanno seguito per amore di Dio, quanti hanno portato assieme a me stenti e fatiche, miserie e calamità, disfacendosi di ogni loro bene all'udire la mia predicazione. Se sarò sepolto in tale luogo, i viventi lo ameranno di più e su di esso verranno a invocare la misericordia del Signore. (Vita di Roberto d'Arbrissel )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Robert d'Arbrissel, miniatura del Graduale di Fontevraud, XIII sec.

Fermati 1 minuto. Abbassarsi per ascendere

Lettura

Marco 9,30-37

30 Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31 Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà». 32 Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
33 Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». 34 Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. 35 Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti». 36 E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro:
37 «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Commento

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, un itinerario non solo geografico ma spirituale come dichiara il secondo annuncio della passione. Le sue parole attestano che è Dio stesso che lo consegna nelle mani di coloro che lo uccideranno. Perciò tutto ciò che accadrà al "Figlio dell'uomo" (la morte e la risurrezione) rientra nel piano provvidenziale stabilito da Dio per il bene di tutti.

I discepoli continuano a non capire la dimensione di sofferenza cui è destinato il Cristo (v. 32) e non osano fare domande, forse per il precedente rimprovero rivolto da Gesù a Pietro che cercava di dissuaderlo dalla sua missione redentrice (Mc 8,33). Marco, dopo ognuno dei tre annunci della passione fa rilevare questa incapacità a comprendere (cfr. Mc 8,31-33; 10,32-34.35-44).

Proprio mentre Gesù parla del suo apparente fallimento i discepoli iniziano a fare progetti di grandezza, discutendo su chi fosse il più grande tra loro (v. 34). Questa è la logica del mondo, che fin dall'infanzia ci insegna a sgomitare per essere migliori, anche prevaricando sugli altri.

I bambini - grandi nell'affidamento, nella gioia, nella spontaneità - sono il simbolo di cui Gesù si serve per sottolineare che i discepoli sono chiamati a svolgere con umiltà la loro missione (v. 35), sull'esempio di Gesù che non è venuto per essere servito ma per servire (Mc 10,45). La volontà di mettersi al servizio del prossimo determina la posizione assunta nel regno di Dio. La nostra ascesa verso il cielo avviene nella misura in cui ci abbassiamo nell'esercizio della carità.

La consacrazione di Gesù nel suo abbassamento fino alla morte di croce dimostra l'amore assoluto di Dio, che si fa prossimo a ogni uomo, anche nelle pagine più buie dell'esistenza, per accompagnarlo verso la gloria della risurrezione.

Preghiera

Donaci lo spirito di umiltà, Signore, affinché possiamo fare spazio al nostro prossimo e renderci simili a te nel dono gratuito di noi stessi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 24 febbraio 2025

Il re Etelberto e la diffusione del cristianesimo tra gli Angli orientali

Gregorio Magno e Agostino di Canterbury vengono ricordati come gli apostoli degli Angli. Al loro fianco bisogna ricordare anche re Etelberto.
Nato verso il 552, Etelberto ancora in giovane età divenne il più potente sovrano anglo dell’epoca. Verso il 588 sposò Berta, la figlia cattolica del re franco Cariberto. Dando prova di tolleranza, permise alla sua sposa di continuare a professare la sua fede. Ancora più magnanimo egli si mostrò nel 597 quando accolse la delegazione di monaci inviata da papa Gregorio e guidata da Agostino. Egli ascoltò i missionari e concesse loro di stabilirsi presso Canterbury con facoltà di predicare e convertire. Lo stesso Etelberto ricevette il battesimo nel giorno di Pentecoste del 597. Saggio e prudente, non costrinse i sudditi a seguire la sua scelta, ma certo favorì quanti si facevano battezzare. La svolta favorevole al cristianesimo venne consolidata dalla costruzione, non lontano da Canterbury, di un monastero dedicato ai santi Pietro e Paolo. Inoltre il re concesse ad Agostino dei terreni per edificare la sede episcopale di Canterbury e lo sostenne nell’organizzazione di un sinodo cui parteciparono vescovi e dottori dalla vicina regione dei Britanni. 
Nel 601 arrivò in Inghilterra una nuova spedizione di monaci. Tra di loro vi erano Paolino, Mellito e Giusto. Con l’aiuto di Etelberto, diverranno vescovi rispettivamente di York, Londra e Rochester.  Favorevole al cristianesimo, Etelberto rimase un sovrano saggio ed equilibrato che procurò benefici a tutta la sua nazione. Morì il 24 febbraio del 616 dopo un regno di più di 50 anni e venne sepolto accanto alla moglie Berta, anch’ella venerata come santa.


Re Etelberto (560-6161)

Fermati 1 minuto. Come attraverso l'acqua e il fuoco

Lettura

Marco 9,14-29

14 E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro. 15 Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16 Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». 17 Gli rispose uno della folla: «Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. 18 Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». 19 Egli allora in risposta, disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». 20 E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. 21 Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall'infanzia; 22 anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». 23 Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». 24 Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: «Credo, aiutami nella mia incredulità». 25 Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: «Spirito muto e sordo, io te l'ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 26 E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». 27 Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi.
28 Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: «Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». 29 Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».

Commento

Il racconto della guarigione dell'epilettico indemoniato segue immediatamente quello della trasfigurazine di Gesù, avvenuta davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Anche se abita nella gloria, Cristo non trascura di abbassarsi umilmente per prendersi cura delle necessità del suo popolo.

Il verbo greco ekthambeomai, con cui Marco descrive i sentimenti della folla alla vista di Gesù, è associato a paura e stupore. Sembra richiamare il timore del popolo di fronte al volto splendente di Mosè dopo la sua discesa dal Monte Sinai, dove aveva ricevuto da Dio le tavole della legge (Es 34,30).

Gesù trova gli altri nove discepoli che discutono con gli scribi, perché non sono riusciti a liberare un giovane che uno spirito maligno ha reso incapace di parlare. Egli è sorpreso dall'incapacità dei discepoli, avendo conferito loro ogni potere, ma anche dall'incredulità degli scribi e del popolo, che riflette la scarsa accoglienza ricevuta dal suo ministero in Galilea.

L'episodio riportato da Marco attesta che ricevere un mandato missionario da parte di Gesù non assicura il successo se una grande fede a la preghiera fervente non alimentano il ministero apostolico.

Il padre del giovane indemoniato descrive perfettamente l'attitudine anticonservativa instillata dal maligno in esso. Il diavolo odia l'uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, e lo spinge verso la morte, innanzitutto tentandolo al peccato, e in casi straordinari attentando alla sua integrità fisica e psichica. A volte Dio permette che lo incontriamo solo dopo essere passati "attraverso l'acqua e il fuoco".

Sebbene alcune volte Gesù guarisca a prescindere dalla fede della persona (Mt 17,20; Lc 17,6), in questo caso sceglie di mostrare il potere della fede, alla quale "tutto è possibile" (v. 23).

L'ammissione dell'imperfezione della propria fede da parte del padre del ragazzo testimonia forse i dubbi generati dai giudizi contrastanti sulla figura di Gesù, ma è soprattuto un atto di umiltà, diverso dall'atteggiamento del popolo e degli scribi che chiedono segni e prodigi come condizione per credere in Gesù. La fede, che è un dono di Dio, può essere accresciuta solo da Dio, ma chiede un cuore aperto per accoglierla. Il padre del giovane indemoniato acquista fiducia in Gesù volgendosi a lui e lasciando in secondo piano le voci confuse della folla.

Il verbo indicativo "io te l'ordino" (v. 25) utilizzato da Gesù rivela l'autorità assoluta che ha ricevuto dal Padre, che si esprime sull'ordine naturale attraverso le guarigioni e sull'ordine soprannaturale mediante gli esorcismi.

L'ultimo attacco sferrato dal maligno al ragazzo sembra letale, dando così al gesto di Gesù il valore di una risurrezione, alla quale alludono anche i verbi greci egeiro anistemi, termini tecnici usati nel Nuovo Testamento per indicare la risurrezione. È proprio quando incontriamo Cristo che il male viene alla luce in tutta la sua sconvolgente realtà. Di fronte alla gloria di Dio ci sentiamo atterriti. Morire a noi stessi significa prendere consapevolezza del nostro stato di totale impotenza senza la grazia dalla quale proviene ogni bene.

La preghiera, non come formula magica, ma come atto di fiducioso abbandono nelle mani del Signore, ci restituisce la libertà dei figli di Dio.

Preghiera

Vieni a visitarci Signore, e sciogli ogni legame che ci tiene avvinti al male; affinché possiamo testimoniare la potenza del tuo nome in cielo, sulla terra e sotto terra. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 23 febbraio 2025

Perseverare lungo l'inverno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI SESSAGESIMA 
O SECONDA DOMENICA PRIMA DELLA QUARESIMA

Colletta

Signore Dio, che vedi che non poniamo alcuna fiducia nelle nostre opere, concedici misericordioso che per la tua potenza possiamo essere difesi in ogni avversità. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

2 Cor 11,19-31; Lc 8,4-15

Commento

Il seme delle Scritture resta infruttuoso se non viene seminato nel nostro cuore, e questi rimane sterile se non riceve il Verbo che dà la vita. Dio parla rivolgendosi all'uomo, e l'esistenza umana trova pienezza di senso nell'ascolto fruttuoso della parola di Dio. 

La parabola del seminatore ci insegna che il successo della semina dipende dalla natura e dalla consistenza del suolo. Se non crediamo, il nostro ascolto rimane a livello puramente auricolare. Il seme della Parola non genera salvezza se non incontra la nostra fede. Come il seme che cade lungo la strada viene calpestato, chi ascolta distrattamente la parola di Dio la disprezza. Come il seme che cade sulla pietra e dopo essere germogliato dissecca, così coloro la cui fede è debole soccombono di fronte alle seduzioni e alla disaprovazione del mondo. 

Mentre nella versione della parabola riportata da Matteo e Marco il seme produce messi più o meno abbondanti, qui rende "cento volte tanto" in virtù della perseveranza. Questo termine (gr. hypomonè) non compare mai negli altri Vangeli, mentre è frequente nelle lettere di Paolo e indica la capacità di resistere, il coraggio e la pazienza, soprattutto nelle prove. 

Il Signore non si accontenta di una messe abbondante, vuole che diamo il massimo; e ciò è possibile solo se noi rimaniamo in Cristo e lui in noi (Gv 15,4). Non dobbiamo temere se non vediamo frutti immediati nel nostro percorso di crescita spirituale. Un seme che germoglia anzitempo non è stato seminato in un terreno buono e viene abbattuto dalle intemperie dell'inverno. Ma la Parola che penetra nelle profondità del nostro essere - quelle profondità che restano oscure alla nostra stessa coscienza - fecondandole e venendo assimilata lentamente, porta frutto nella stagione giusta, nella primavera della grazia. 

"Poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui" (1 Ts 5,9-10). Cosa dobbiamo fare, dunque, affinché la Parola seminata in noi renda il centuplo? Ascoltare con un cuore umile, come terra morbida e ben dissodata. Ascoltare e custodire, come Maria che "serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (Lc 2,19). 

Nei lunghi giorni di pioggia, vento, freddo, che separano la semina dal raccolto, non perdiamo la speranza, consapevoli che "né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1 Cor 3,7).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 22 febbraio 2025

Margherita da Cortona e la ricerca del volto di Cristo

Il 22 febbraio del 1297 conclude i suoi giorni terreni Margherita da Cortona, terziaria francescana. Nata nel 1247 a Laviano, sul lago Trasimeno, Margherita rimase presto orfana di madre. A disagio con la propria matrigna, essa fuggì, appena sedicenne, nel castello del conte Arsenio di Montepulciano, con il quale visse per dieci anni. Quando l'uomo che amava incontrò precocemente la morte durante una partita di caccia, Margherita fu respinta sia dalla propria famiglia sia da quella di Arsenio. Abbandonata da tutti e con un figlio da allevare, nato dalla relazione con il nobile toscano, la giovane fu accolta da due nobildonne di Cortona, che la indirizzarono ai frati minori, presso i quali trascorrerà gran parte della sua vita. Aiutata dai francescani, Margherita segnò a sua volta profondamente la loro spiritualità con una vita di grande austerità e di totale dedizione agli ultimi. Donna di grande carità e mistica della passione di Cristo, da cui attingeva la forza per amare, Margherita fu all'origine di innumerevoli iniziative a favore di poveri e ammalati, nei quali non si stancò mai di cercare il volto del suo Signore. Essa si spense all'età di cinquant'anni in una piccola cella nella rocca sovrastante Cortona, delusa dalle decisioni dei capitoli francescani che ormai si allontanavano dal rigore degli inizi, ma ritenuta da tutti un modello di vita evangelica.

Tracce di lettura

Il Signore le disse in visione: «Cosa domandi di me, Margherita, martire mia?». «Signore mio, perché mi chiami martire, quando io non ho patito per amor tuo nulla di aspro?». Il Signore le rispose: «Il tuo martirio è il timore che hai di perdermi e di offendere me, tuo Creatore; ma io ti dico che sei la nuova luce data a questo mondo e illuminata da me». A queste parole l'umile Margherita esclamò: «Signore, scenda su di me la tua misericordia, perché non sia tenebra in questo mondo, ma fa' che io risplenda della tua luce, tu che sei la mia luce». E il Signore a lei: «Non è forse vero, figlia mia, che tu per amor mio ti sei privata di ogni gioia della terra? E che per amore mio sei pronta ad affrontare ogni sofferenza? Non racchiudi forse nel tuo cuore, per amore mio, tutti i poveri del mondo?». (fra' Giunta Bevignati, Leggenda di Margherita da Cortona 10,16)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Margherita da Cortona (1247-1297)