Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 14 dicembre 2025

Giovanni della Croce e la fiamma dell'amore divino

Il 14 dicembe la Chiesa Cattolica e quella Anglicana celebrano la memoria di Giovanni della Croce.

La notte fra il 13 e il 14 dicembre del 1591 si spegne all'età di 49 anni Giovanni della Croce, primo carmelitano ad aver aderito alla riforma del Carmelo operata da Teresa d'Ávila. Juan de Yepes Alvarez era nato a Fontiveros, nella Vecchia Castiglia. Di origini molto povere, dopo un'infanzia assai difficile, per potersi pagare gli studi egli dovette lavorare a lungo come infermiere nell'ospedale degli appestati. Entrato dai Carmelitani a Medina del Campo, per le sue brillanti qualità intellettuali fu mandato a studiare alla celebre università di Salamanca. Uomo dedito a un'ascesi estrema, che gli pregiudicò ben presto l'integrità fisica, Giovanni era sul punto di abbandonare il Carmelo per farsi certosino, quando l'incontro con Teresa d'Avila lo convinse della possibilità di riformare l'Ordine. Egli diede allora vita a una piccola comunità estremamente povera, ma ben presto i suoi superiori gli affidarono responsabilità di rilievo nella formazione intellettuale e spirituale dei novizi. La sua vita divenne allora un pellegrinaggio da una comunità all'altra, durante il quale Giovanni fu spesso osteggiato, a volte oltraggiato e umiliato, e comunque raramente capito dai suoi compagni. In questo itinerario di umiliazione, nel quale egli afferma di aver sperimentato l'abbandono da parte di Dio stesso nella «notte oscura» dell'anima, Giovanni trasse la forza per invocare la «fiamma d'amore» dello Spirito e per scrivere poemi e cantici spirituali che narrano l'unione sponsale dell'anima con Dio, approdo sicuro, secondo la sua esperienza spirituale, per coloro che seguono con fiducia il cammino pasquale del Signore. Per i cattolici egli è dottore della chiesa, gli anglicani lo ricordano come poeta e maestro della fede.

Tracce di lettura

Dove ti sei nascosto,
Amato, lasciandomi a gemere?
Come il cervo corresti,
dopo avermi ferito:
ti uscii dietro gridando, e te n'eri andato.
Pastori, voi che andate
da un ovile all'altro su all'altura:
se per caso vedrete chi più di tutti amo,
ditegli che soffro, languo e muoio.
Cercando il mio amore,
andrò per questi monti e rive,
non coglierò mai fiori,
né temerò le fiere,
e passerò oltre ai forti e alle frontiere.
(Giovanni della Croce, Canzoni tra l'anima e lo Sposo)


- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Giovanni della Croce (1542-1591)

I tratti del buon ministro del vangelo

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore Gesù Cristo, che nella tua prima venuta hai mandato il tuo messaggero per preparare la via dinanzi a te; concedi che i ministri e dispensatori dei tuoi misteri possano allo stesso modo preparare e rendere pronta la via, convertendo i cuori disobbedienti alla saggezza e alla giustizia; affinché nella tua seconda venuta per giudicare il mondo possiamo essere trovati come popolo accettevole alla tua vista; tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

1 Cor 4,1-5; Mt 11,1-10

Commento

All'inizio del quarto capitolo della prima lettera ai Corinzi Paolo delinea la natura del ministro di Dio. Lungi dall'essere un alter Christus egli è un subordinato, un amministratore, che dispensa un tesoro non suo. Così anche nella seconda lettera ai Corinzi l'Apostolo afferma: "Or noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché l'eccellenza di questa potenza sia di Dio e non da noi" (2 Cor 4,7).

Dinanzi a Cristo, capo della Chiesa, la posizione dei pastori è quella di un'assoluta ed umile dipendenza. Dalla grazia di Dio essi ricevono i doni necessari di conoscenza, di parola, di compassione per gli uomini; da lui la vocazione interiore. La Chiesa non può che riconoscere questi doni e questa vocazione ed accogliere con riconoscenza coloro che il Signore le manda.

A Dio appartiene l'opera alla quale i ministri consacrano le forze. Da Dio procede la benedizione che rende efficace il lavoro degli operai. A Dio devono i ministri rendere conto del loro operato. Il pastore è per la chiesa, non la chiesa per il pastore. La funzione affidata ai ministri del vangelo è quella degli economi nelle grandi case. Essi dispensano i beni del loro padrone, hanno la sovrintendenza e la cura degli altri servi a cui devono distribuire il cibo.

Gli apostoli non devono tener conto né degli apprezzamenti né delle ostilità ricevuti, affidandosi unicamente al giudizio divino che verrà alla fine dei tempi, nel giorno del Signore. La nostra capacità di consapevolezza verso il peccato è offuscata secondo Paolo; per questo egli afferma "non giudico neppure me stesso. Non sono infatti consapevole di colpa alcuna; non per questo sono però giustificato" (1 Cor 4,3-4). Non conosciamo i moti più profondi del cuore umano: né quelli altrui, né i nostri. Per questo ci è richiesta una fede assoluta nella grazia di Dio e nel potere santificante del suo Spirito. 

Tuttavia ciò non ci esime dal coltivare un grande senso di responsabilità nel mettere in pratica l'insegnamento evangelico; e a questo sono chiamati tanto coloro che si consacrano in modo speciale al ministero pastorale, quanto coloro che essi ammaestrano.

Al capitolo undicesimo del Vangelo di Matteo Gesù applica a se stesso un passo del libro di Isaia (61,1) mandando a dire a Giovanni il Battista che l'evangelo è annunziato ai poveri (Mt 11,5); laddove dobbiamo intendere non solo coloro che dispongono di scarsi mezzi materiali, ma ogni uomo con un cuore umile e un orecchio capace di mettersi in ascolto, oltre le distrazioni, le seduzioni e le illusioni mondane.

I poveri erano anche coloro che fino a quel momento i farisei e i grandi dottori della Legge avevano trascurato nella propria predicazione. Il buon ministro del vangelo deve portare la Parola a ogni uomo, anche a coloro che la società non prende in considerazione e "Beato chi non si scandalizza di me" afferma Gesù  (Mt 11,6). Beato, cioè, chi non rigetta il suo messaggio, ma sa cogliererne la profonda ricchezza.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 13 dicembre 2025

Dizionario della Musica Anglicana. Harold Darke

Harold Edwin Darke (1888-1976) rappresenta una figura centrale nella musica sacra inglese del XX secolo, incarnando quella particolare tradizione anglicana che fonde devozione liturgica e raffinatezza compositiva.

Formatosi alla Royal College of Music sotto la guida di Charles Villiers Stanford, Darke trascorse gran parte della sua carriera come organista e direttore del coro della chiesa di St Michael, Cornhill a Londra, posizione che mantenne per oltre cinquant'anni (1916-1966). Questa lunga permanenza gli permise di sviluppare un linguaggio musicale profondamente radicato nelle esigenze pratiche della liturgia anglicana.

La sua produzione sacra comprende numerosi inni, anthems e composizioni organistiche, caratterizzate da un linguaggio armonicamente ricco ma mai eccessivamente sperimentale. Darke si muoveva con naturalezza nell'eredità tardoromantica, incorporando influenze di Johannes Brahms e Charles Villiers Stanford, ma con una sensibilità tutta britannica per la chiarezza testuale e l'eleganza formale.

Il suo brano più celebre rimane senza dubbio "In the Bleak Midwinter", un arrangiamento del testo di Christina Georgina Rossetti che è diventato uno dei canti natalizi più amati della tradizione anglicana. La melodia di Darke, composta nel 1909, si distingue per la sua semplicità commovente e per la capacità di esaltare il testo poetico senza sovrastarlo, qualità che riflette la sua filosofia compositiva: la musica ecclesiastica deve servire la parola e la preghiera, non sovrapporvisi.

Tra le sue opere più significative si annoverano anche i "Communion Services" e vari mottetti che dimostrano una padronanza della scrittura corale e un'intima comprensione delle possibilità acustiche degli spazi ecclesiastici. La sua musica riflette quella particolare atmosfera contemplativa delle cattedrali inglesi, dove la riverberazione e il silenzio sono parte integrante dell'esperienza musicale.

Darke rappresenta l'ultimo anello di una catena che collega la grande tradizione della musica anglicana - da William Byrd e Orlando Gibbons fino a Henry Purcell - con il XX secolo, dimostrando che la fedeltà alla tradizione non implica necessariamente conservatorismo sterile, ma può generare opere di autentica bellezza e profondità spirituale.



La musica liturgica nel rito bizantino

Introduzione

Il rito bizantino rappresenta la più diffusa famiglia liturgica cristiana orientale, caratterizzata da una ricchezza musicale che affonda le sue radici nelle antiche tradizioni di Gerusalemme, Antiochia e Cappadocia. La sua evoluzione, dal IV al XV secolo, ha prodotto un patrimonio sonoro unico che ancora oggi costituisce il cuore della spiritualità ortodossa e delle chiese cattoliche orientali.

Origini e contesto storico

Le origini del rito bizantino si intrecciano con la storia delle prime comunità cristiane in regioni culturalmente e linguisticamente diverse ma unite da una comune eredità ellenistica e semitica. A partire dal IV secolo, Costantinopoli, la Nuova Roma fondata dall'imperatore Costantino, divenne il crogiolo in cui confluirono e si fusero elementi liturgici provenienti da tradizioni siriane, palestinesi e cappadoci.

Tra il VI e il IX secolo, la maestosa Hagia Sophia, chiesa imperiale di Costantinopoli, fornì il contesto architettonico e acustico ideale per ulteriori sviluppi e codificazioni musicali. La sua straordinaria acustica, progettata per amplificare e arricchire il canto liturgico, trasformò la celebrazione in un'esperienza sensoriale totale, dove la luce filtrata attraverso le cupole e il riverbero delle voci creavano un'atmosfera di trascendenza.

La crisi iconoclasta (726-843) segnò un periodo di profonda trasformazione non solo teologica ma anche liturgica. Quando molti monaci siro-palestinesi migrarono al monastero di San Giovanni il Precursore per sfuggire alle persecuzioni, portarono con sé l'ordo della Laura Palestinese di San Saba, che venne gradualmente assimilato e intrecciato con l'antico rito costantinopolitano. Questo processo di "orientalizzazione" arricchì ulteriormente il patrimonio musicale bizantino, introducendo melodie e strutture poetiche di origine mediorientale.

Durante la Restaurazione Paleologa (1261-1453), i monasteri del Monte Athos divennero i custodi e codificatori della forma definitiva del rito, come testimoniato dalla Diataxis del Patriarca Filoteo Kokkinos, monaco athonita. In questo periodo, la tradizione musicale raggiunse una maturità espressiva che avrebbe influenzato secoli di pratica liturgica.

Caratteristiche della tradizione musicale bizantina

Fondamenti tecnici e teorici

La tradizione musicale fondamentale del rito bizantino è greca, sebbene altre lingue, in particolare il russo, il rumeno e lo slavo ecclesiastico, abbiano sviluppato i propri repertori musicali mantenendo i principi strutturali originari. Il canto bizantino si caratterizza per diverse peculiarità tecniche e estetiche che lo distinguono nettamente dalle altre tradizioni liturgiche cristiane.

La monodia sacra. A differenza della polifonia che si sviluppò in Occidente, il canto bizantino mantenne fermamente il carattere monofonico, dove una singola linea melodica viene eseguita all'unisono o all'ottava. Questa scelta non è meramente estetica ma teologica: la singola voce melodica rappresenta l'unità della Chiesa e la purezza della preghiera che sale verso Dio senza mediazioni armoniche.

Il sistema modale degli echi. La struttura melodica del canto bizantino si basa su otto modi musicali, chiamati echi (ἦχοι), paragonabili ma non identici ai modi gregoriani dell'Occidente. Ogni echos possiede caratteristiche melodiche distintive, specifiche formule cadenzali e un particolare ethos emotivo. I primi quattro echi sono detti "autentici" o kyrioi, mentre gli altri quattro sono detti "plagali". Questa organizzazione modale governa non solo l'aspetto melodico ma anche la struttura ciclica del calendario liturgico, con un ciclo di otto settimane che determina quale echos utilizzare per i canti della settimana.

L'a cappella come principio teologico. L'assenza totale di strumenti musicali nella tradizione ortodossa non è una limitazione ma una scelta deliberata che sottolinea l'importanza della voce umana come unico "strumento sacro" creato da Dio. Questa prassi, radicata nelle parole di San Paolo che esorta a cantare "con salmi, inni e cantici spirituali" (Efesini 5:19), conferisce al canto bizantino una purezza e un'immediatezza che coinvolgono l'intera assemblea dei fedeli.

I cantori e la trasmissione del sapere musicale

I psalti (ψάλται), cantori specializzati del rito bizantino, rappresentavano una categoria professionale di grande prestigio all'interno della Chiesa. La loro formazione, che poteva durare molti anni, si basava su una complessa trasmissione orale supportata dall'uso di notazioni musicali simboliche.

Il sistema neumatico bizantino, sviluppato intorno al IX secolo, utilizzava segni grafici chiamati neumi che non indicavano altezze assolute ma piuttosto direzioni melodiche, intervalli relativi e ornamentazioni. Questo sistema presupponeva che il cantore conoscesse già le melodie tradizionali a memoria; i neumi funzionavano quindi come promemoria sofisticati piuttosto che come partiture nel senso moderno del termine.

Dal XV secolo, con le riforme di maestri come Ioannis Koukouzeles e l'avvento della "notazione crisantina" (dal nome di Chrysanthos di Madytos, che la codificò definitivamente nel 1814), il canto bizantino iniziò a evolversi integrando principi teorici più avanzati. Questa nuova notazione, ancora in uso oggi, permise una codificazione più precisa delle melodie tradizionali, indicando altezze, durate e ornamentazioni con maggiore chiarezza, facilitando così la preservazione e la trasmissione del repertorio anche al di fuori del contesto della pura trasmissione orale.

Le forme musico-poetiche caratteristiche

Oltre alle varie forme di cantillazione sviluppate per la proclamazione dei passi scritturali e delle preghiere liturgiche, la musica del culto bizantino elaborò tre forme musico-poetiche caratteristiche che rappresentano i vertici creativi della tradizione.

Il Kontakion

Il kontakion entrò nell'uso liturgico bizantino all'inizio del VI secolo con le composizioni monumentali di Romano il Melode (circa 490-556), considerato il più grande innografo bizantino. Romano, di origine siriana, trasformò presumibilmente il sogitha della sua tradizione liturgica nativa in un elaborato sermone-parafrasi poetico greco, creando un genere completamente nuovo che univa teologia, retorica e arte musicale.

Un kontakion completo poteva consistere in un prologo (koukoulion) seguito da diciotto a ventiquattro strofe (oikoi), ciascuna delle quali terminava con lo stesso ritornello (ephymnion). Più di ottanta kontakia autentici di Romano sopravvivono nell'uso liturgico bizantino, sebbene nella pratica moderna siano spesso abbreviati.

L'esecuzione del kontakion richiedeva notevole virtuosismo tecnico ed espressivo. Un solista, generalmente il protopsaltes (primo cantore), intonava una melodia altamente melismatica per il prologo e due melodie altrettanto elaborate che si alternavano per le strofe principali. Queste melodie erano caratterizzate da lunghi vocalizzi su singole sillabe, permettendo al cantore di esprimere le sfumature teologiche ed emotive del testo. Il coro dell'assemblea concludeva ogni strofa con un ritornello dal carattere melodico meno complesso, permettendo la partecipazione attiva dei fedeli.

Il kontakion più celebre e venerato è l'Inno Akathistos (Ἀκάθιστος Ὕμνος, letteralmente "inno non seduto", poiché viene cantato rimanendo in piedi), un'opera monumentale composta da ventiquattro strofe precedute da un ampio prologo. Attribuito tradizionalmente a Romano il Melode, sebbene la sua paternità sia dibattuta, l'Akathistos celebra la Vergine Maria attraverso un'elaborata trama di metafore bibliche e teologiche. Viene cantato solennemente durante la festa dell'Annunciazione (25 marzo) e il sabato della Quinta Settimana di Quaresima, in una celebrazione che può durare diverse ore.

Il Kanon

Il kanon rappresenta una struttura poetica e musicale più complessa e articolata rispetto al kontakion. Si sviluppò principalmente nell'VIII secolo sotto l'iniziativa creativa di grandi innografi come Andrea di Creta (circa 660-740), Giovanni Damasceno (675-749) e, secondo alcune fonti, Germano I, patriarca di Costantinopoli dal 715 al 730.

Il kanon consiste in una serie di nove odi, ciascuna delle quali costituisce una parafrasi poetica di uno specifico cantico biblico: il Cantico di Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Esodo 15:1-19), il Cantico di Mosè nel Deuteronomio (32:1-43), la Preghiera di Anna (1 Samuele 2:1-10), la Preghiera di Abacuc (3:2-19), la Preghiera di Isaia (26:9-19), la Preghiera di Giona (2:2-9), la Preghiera di Azaria (Daniele 3:26-45), il Cantico dei Tre Giovani nella fornace (Daniele 3:52-88), e i cantici evangelici del Magnificat e del Benedictus (Luca 1:46-55 e 68-79).

Ogni ode è composta da un'irmos (strofa modello) seguita da tre a quattordici troparia (strofe aggiuntive) che utilizzano la stessa struttura metrica, ritmica e melodica dell'irmos. Questa tecnica compositiva, chiamata "omotonia", crea un'unità stilistica pur permettendo lo sviluppo di contenuti teologici complessi. Nella pratica liturgica, la seconda ode viene generalmente omessa tranne durante la Grande Quaresima, riducendo il kanon a otto odi.

Il kanon viene cantato dopo la recitazione del Salmo 50 (51 nella numerazione ebraica) durante l'Orthros (Mattutino), il servizio liturgico che precede l'alba. La struttura del kanon è arricchita da alcune aggiunte comuni che spezzano la sequenza delle odi: dopo la terza ode si inserisce un breve inno (kathisma) seguito da una colletta; dopo la sesta ode si canta un kontakion abbreviato (ridotto al solo prologo e alla prima strofa) e si legge un synaxarion, un breve testo agiografico sul santo commemorato quel giorno.

La composizione di kanones conobbe una straordinaria fioritura tra l'VIII e il XII secolo, con maestri come Cosma di Maiuma, Giuseppe l'Innografo e Teofane il Marcato che produssero centinaia di opere ancora oggi in uso. Il kanon divenne la forma dominante dell'innografia bizantina, sostituendo gradualmente i kontakia nelle celebrazioni ordinarie, sebbene questi ultimi continuassero a essere venerati come capolavori della tradizione.

Lo Sticheron

Lo sticheron (στιχηρόν, plurale stichera) rappresenta la forma innografica più semplice e flessibile del repertorio bizantino. Si tratta di un inno di una sola strofa, solitamente composta da versi di lunghezza irregolare, cantato durante la Divina Liturgia (Eucaristia) o durante le Ore liturgiche (servizi quotidiani di preghiera).

Gli stichera vengono generalmente cantati in alternanza con versetti dei Salmi, da cui deriva il loro nome (da stichos, verso). Esistono diverse categorie di stichera a seconda della loro collocazione liturgica: stichera idiomela (con melodia propria e unica), stichera prosomoia (modellati su melodie preesistenti), e stichera automela (che fungono da modello per altri stichera).

La funzione principale degli stichera è la venerazione di santi specifici o la commemorazione di feste liturgiche. Con la canonizzazione di nuovi santi, la Chiesa continua a creare nuovi stichera, sebbene oggi questi vengano spesso composti seguendo modelli poetici e melodici tradizionali piuttosto che creando melodie completamente originali. Questa prassi assicura la continuità stilistica con il patrimonio storico pur permettendo l'incorporazione di nuove figure nella memoria liturgica della Chiesa.

Espansione geografica e varietà linguistiche

L'opera missionaria dei Santi Cirillo e Metodio nel IX secolo segnò una svolta fondamentale nella diffusione del rito bizantino. Questi due fratelli di Tessalonica, inviati dall'imperatore Michele III e dal Patriarca Fozio per evangelizzare i popoli slavi della Moravia, non solo tradussero i testi liturgici in antico slavo ecclesiastico ma crearono anche l'alfabeto glagolitico (poi evoluto nel cirillico) specificamente per questo scopo.

Questa traduzione rappresentò molto più di un semplice adattamento linguistico: richiese l'elaborazione di nuovi schemi melodici adatti alla prosodia delle lingue slave, mantenendo però i principi strutturali del sistema degli echi e l'estetica monodica. Il rito slavo che ne risultò mantenne una profonda fedeltà alle radici bizantine pur sviluppando caratteristiche distintive, particolarmente evidenti nella tradizione musicale russa, che dal XVII secolo elaborò uno stile polifonico a cappella unico, il cosiddetto "canto znamenny".

Oltre alla tradizione slava, si svilupparono altre varianti locali significative:

La tradizione georgiana, una delle più antiche cristianità orientali, mantenne il rito bizantino sviluppando però uno stile polifonico a tre voci completamente unico, testimoniato da manoscritti che risalgono al X secolo.

La tradizione rumena, influenzata sia dalla Grecia che dalla Russia, creò un proprio repertorio che fuse elementi dell'originale greco con influssi musicali locali, particolarmente nelle melodie per i santi rumeni.

Le tradizioni arabe delle chiese melchite in Siria, Libano ed Egitto tradussero il rito in arabo a partire dal XVII secolo, adattando le melodie bizantine alla prosodia semitica e incorporando elementi della tradizione musicale araba.

Testi liturgici e libri musicali

Il repertorio del rito bizantino è contenuto in una complessa serie di libri liturgici specializzati, ciascuno dedicato a specifiche categorie di celebrazioni:

Il Menaion (Μηναῖον, "libro mensile") consiste in dodici volumi, uno per ogni mese, contenente i testi e le melodie per le feste fisse e le commemorazioni dei santi secondo il calendario liturgico.

Il Triodion (Τριῴδιον) contiene i testi per il periodo quaresimale, dalle domeniche preparatorie alla Settimana Santa.

Il Pentekostarion (Πεντηκοστάριον) raccoglie i testi dal giorno di Pasqua fino alla domenica di Tutti i Santi, la prima dopo Pentecoste.

L'Oktoechos (Ὀκτώηχος, "libro degli otto toni") organizza il repertorio secondo il sistema degli otto echi in un ciclo settimanale ripetuto per otto settimane.

Il Psalterion contiene i 150 Salmi con le notazioni musicali per la loro cantillazione.

L'Horologion (Ὡρολόγιον, "libro delle ore") include i testi per i servizi quotidiani delle Ore liturgiche.

Oltre a questi libri principali, esistono raccolte specializzate come l'Anthologion (antologia di inni selezionati) e l'Irmologion (raccolta degli irmoi dei kanones).

Il patrimonio innografico bizantino continua a crescere anche in epoca contemporanea. Nuovi inni vengono composti per santi recentemente canonizzati o per nuove commemorazioni liturgiche, generalmente seguendo i modelli poetici e melodici tradizionali. Questa pratica dimostra la vitalità continua della tradizione, che si percepisce non come un museo di forme cristallizzate ma come un organismo vivente capace di incorporare nuove espressioni rimanendo fedele ai propri principi estetici e teologici.

Il Monte Athos: custode vivente della tradizione

I monasteri del Monte Athos, la "Repubblica Monastica" sulla penisola calcidica in Grecia, rappresentano ancora oggi il centro spirituale e il laboratorio vivente della tradizione liturgica bizantina. I venti monasteri principali e le numerose skiti (eremitaggi) che punteggiano la montagna sacra conservano e praticano il rito bizantino nella sua forma più completa e rigorosa.

Al Monte Athos, la celebrazione liturgica occupa gran parte della giornata monastica. L'Orthros inizia tipicamente verso le tre o quattro del mattino, seguito dalla Divina Liturgia. Nel corso della giornata si alternano i servizi delle Ore, e la giornata si conclude con il Vespro e il Compieta la sera. Alcune celebrazioni particolarmente solenni, come le vigilie per le grandi feste, possono durare otto o più ore, mantenendo viva una prassi che altrove è stata spesso abbreviata.

La tradizione del canto bizantino prosegue qui con particolare rigore, trasmessa direttamente da maestro a discepolo secondo metodi che rimontano a secoli di pratica ininterrotta. Alcuni monasteri, come quello di Simonos Petras e Vatopedi, sono particolarmente rinomati per l'eccellenza del loro canto liturgico, e i loro cori hanno prodotto numerose registrazioni che hanno contribuito a diffondere la conoscenza della musica bizantina nel mondo contemporaneo.

Il Monte Athos rappresenta quindi un collegamento vivo e ininterrotto con il passato, un luogo dove la tradizione non è preservata in forma museale ma continua a evolversi organicamente secondo i propri principi interni, offrendo un modello di continuità liturgica e spirituale di inestimabile valore.

Influenza culturale e rilevanza contemporanea

L'eredità del rito bizantino trascende ampiamente la sfera religiosa, avendo influenzato profondamente lo sviluppo culturale, artistico e musicale di vaste regioni dell'Europa orientale e del Medio Oriente. La sua arte iconografica, con il suo linguaggio simbolico codificato ha ispirato movimenti artistici moderni. La sua architettura ha fornito modelli per chiese e cattedrali dal Caucaso ai Balcani fino alla Russia.

Dal punto di vista musicale, l'interesse accademico per il canto bizantino è cresciuto significativamente nel XX secolo, con la fondazione di centri di ricerca specializzati e la pubblicazione di edizioni critiche dei manoscritti musicali bizantini. Compositori contemporanei come Arvo Pärt, John Tavener e Sofia Gubaidulina hanno attinto dalla spiritualità e dall'estetica musicale bizantina per creare opere che dialogano con la tradizione pur utilizzando linguaggi musicali moderni.

Oggi, il rito bizantino continua a essere celebrato non solo nelle chiese ortodosse orientali (greca, russa, serba, bulgara, georgiana, rumena, e altre chiese nazionali), ma anche in diverse chiese cattoliche orientali che mantengono il rito bizantino pur essendo in comunione con Roma. Le principali tra queste sono la Chiesa Greco-Cattolica Ucraina, la più numerosa chiesa cattolica orientale con circa cinque milioni di fedeli, la Chiesa Greco-Cattolica Melchita, diffusa in Siria, Libano, Israele-Palestina e nella diaspora, e le chiese greco-cattoliche rumena, slovacca e rutena.

La diaspora ortodossa e greco-cattolica in Occidente ha portato il rito bizantino nelle Americhe, in Australia e nell'Europa occidentale, dove comunità vibranti mantengono viva la tradizione liturgica adattandola alle esigenze pastorali dei contesti multiculturali contemporanei. In questi contesti, la musica bizantina talvolta incorpora elementi delle culture musicali locali, creando sintesi innovative che testimoniano la capacità della tradizione di incarnarsi in nuovi contesti culturali senza perdere la propria identità essenziale.

Conclusione

La musica del rito bizantino rappresenta uno dei patrimoni spirituali e artistici più ricchi e complessi dell'umanità. Sviluppatasi attraverso più di quindici secoli di evoluzione organica, questa tradizione ha saputo integrare influenze diverse mantenendo una coerenza stilistica e una profondità teologica che continuano a nutrire la vita spirituale di milioni di credenti.

La sua sopravvivenza attraverso crisi iconoclaste, scismi ecclesiali, conquiste ottomane, persecuzioni comuniste e le sfide della secolarizzazione moderna testimonia una straordinaria vitalità e capacità di adattamento. Allo stesso tempo, il rigore con cui monasteri come quelli del Monte Athos hanno preservato le forme tradizionali offre un punto di riferimento stabile per coloro che cercano l'autenticità liturgica.

In un'epoca di globalizzazione culturale e di rapida trasformazione delle forme artistiche, il canto bizantino continua a offrire un modello di bellezza sacra che unisce complessità tecnica, profondità teologica ed efficacia spirituale. La sua influenza si estende ben oltre i confini delle comunità che lo praticano regolarmente, ispirando musicisti, studiosi e ricercatori spirituali di diverse provenienze. Il rito bizantino rimane quindi non un relitto del passato ma una tradizione vivente, capace di parlare alle generazioni contemporanee e future con una voce che risuona attraverso i secoli.

- Rev. Dr. Luca Vona

Lucia. Il dono totale di sé agli uomini e a Dio

Il 13 dicembre le chiese d'oriente e d'occidente ricordano il martirio di Lucia, vergine di Siracusa messa a morte al tempo delle persecuzioni di Diocleziano. Vissuta sul finire del III sec., secondo la tradizione Lucia era di nobile famiglia, ed era promessa sposa a un suo concittadino. Recatasi assieme alla madre gravemente ammalata in pellegrinaggio a Catania sulla tomba di sant'Agata, Lucia udì il brano del vangelo in cui si narra dell'emorroissa guarita dopo aver toccato il lembo del mantello di Gesù. Essa esortò allora la madre a fare altrettanto, toccando il sepolcro di Agata, e ne ottenne la guarigione. Tornata allora a Siracusa, Lucia decise di rinunciare al matrimonio e di dare tutti i suoi beni ai poveri. Ma il fidanzato, sentendosi raggirato, la accusò presso le autorità romane di essere cristiana e di opporsi al culto dell'imperatore. Condannata al martirio, Lucia venne prima condotta in una casa di prostituzione, e poi, visto che nessuno riusciva nemmeno ad avvicinarla, fu sottoposta a tormenti e infine uccisa di spada nell'anno 304. Siccome il suo nome in latino ha la stessa radice di «luce», e la sua memoria cade in dicembre, Lucia fu associata fin dall'antichità alla Luce vera venuta nel mondo per redimere ogni uomo: il Cristo, «luce per la rivelazione alle genti» e che le tenebre non possono sopraffare. Sempre per il suo nome, Lucia divenne la santa protettrice dei non vedenti. Le sue spoglie mortali sono custodite a Venezia.

Tracce di lettura

Quando il fidanzato seppe che i suoi beni erano stati tutti dati ai poveri, portò Lucia davanti al console Pascasio e l'accusò di essere cristiana e di non ubbidire alle leggi imperiali. Subito Pascasio le ordinò di sacrificare agli idoli. Lucia rispose: «Visitare i poveri e aiutarli nelle loro miserie è un sacrificio che piace a Dio: io non ho ormai più ricchezze da offrire ma soltanto me stessa che offro vittima al Dio vivente». (Jacopo da Varagine, Leggenda aurea)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

John Donne. Questa è la mezzanotte dell'anno

John Donne, “Notturno sopra il giorno di Santa Lucia, che è il più breve dell’anno”

Questa è la mezzanotte dell’anno e lo è del giorno
di Lucia, che per sole sette ore
solleva la sua maschera.
Il sole è esausto e ora le sue fiasche
spremono tenui sprazzi, nessun raggio costante.
Tutta la linfa del mondo è caduta.
L’universale balsamo bevve la terra idropica;
là, quasi a piè del letto, s’è ritratta la vita
morta e interrata. Eppure tutto ciò sembra ridere
appetto a me che sono il suo epitaffio.

Dunque studiatemi, voi che sarete amanti
in altro mondo, un’altra primavera:
sono ogni cosa morta onde operò l’amore
nuova alchimia. Perché una quintessenza
distillò la sua arte anche dal nulla,
da opache privazioni e da scarne vuotezze.
Mi distrusse. E ora mi rigenerano
assenza, buio, morte, le cose che non sono.

Tutti gli altri da tutte le cose
traggono tutto ciò che è buono: vita, anima,
spirito, forma e ne hanno esistenza.
Io, grazie all’alambicco dell’amore,
son la fossa di tutto ciò che è nulla.
Spesso noi due piangemmo
un diluvio e ne fu sommerso il mondo:
noi due. E tramutammo spesso
fino a due caos quando mostrammo cura
d’altri che noi, e talora l’assenza,
rubandoci le anime, fece di noi carcasse.

Ma, grazie alla sua morte (parola che l’offende),
dal primitivo nulla io son fatto elisir;
fossi uomo, dovrei sapere d’esserlo;
preferirei, se fossi bestia, un qualche
fine od un qualche mezzo, se persino le piante,
persin le pietre detestano od amano:
tutto, tutto s’investe di qualche proprietà;
fossi un nulla qualunque, come l’ombra,
dovrebb’esservi un corpo ed una luce. Ma
sono nulla. E non vuole rinnovarsi il mio sole.

Voi, amanti, pei quali il minor sole
a quest’ora è passato in Capricorno
per succhiarne voluttà nuova e donarla a voi,
o voi tutti, godetevi l’estate.
Poiché ella gode la sua lunga festa
notturna, lasciate ch’io m’accinga
verso di lei, lasciate che io chiami quest’ora
la sua Vigilia, la sua Veglia. Questa
è mezzanotte fonda, e dell’anno e del giorno.

John Donne, “Notturno sopra il giorno di Santa Lucia, che è il più breve dell’anno”, da “Poesie amorose, poesie teologiche”, Einaudi, 1971, traduzione di Cristina Campo



Versione in lingua originale

John Donne, A Nocturnal Upon St. Lucy’s Day, Being The Shortest Day

Tis the year’s midnight, and it is the day’s,
Lucy’s, who scarce seven hours herself unmasks;
The sun is spent, and now his flasks
Send forth light squibs, no constant rays;
The world’s whole sap is sunk;
The general balm th’ hydroptic earth hath drunk,
Whither, as to the bed’s feet, life is shrunk,
Dead and interr’d; yet all these seem to laugh,
Compar’d with me, who am their epitaph.

Study me then, you who shall lovers be
At the next world, that is, at the next spring;
For I am every dead thing,
In whom Love wrought new alchemy.
For his art did express
A quintessence even from nothingness,
From dull privations, and lean emptiness;
He ruin’d me, and I am re-begot
Of absence, darkness, death: things which are not.

All others, from all things, draw all that’s good,
Life, soul, form, spirit, whence they being have;
I, by Love’s limbec, am the grave
Of all that’s nothing. Oft a flood
Have we two wept, and so
Drown’d the whole world, us two; oft did we grow
To be two chaoses, when we did show
Care to aught else; and often absences
Withdrew our souls, and made us carcasses.

But I am by her death (which word wrongs her)
Of the first nothing the elixir grown;
Were I a man, that I were one
I needs must know; I should prefer,
If I were any beast,
Some ends, some means; yea plants, yea stones detest,
And love; all, all some properties invest;
If I an ordinary nothing were,
As shadow, a light and body must be here.

But I am none; nor will my sun renew.
You lovers, for whose sake the lesser sun
At this time to the Goat is run
To fetch new lust, and give it you,
Enjoy your summer all;
Since she enjoys her long night’s festival,
Let me prepare towards her, and let me call
This hour her vigil, and her eve, since this
Both the year’s, and the day’s deep midnight is.

venerdì 12 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il sapiente operare di Dio

Lettura

Matteo 11,16-19

16 Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: 17 Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. 18 È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. 19 È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere».

Commento

Gesù riprende con derisione i farisei, accusandoli di comportarsi in maniera infantile, scontenti sia se invitati a gioire del suo ministero - quando si siede a tavola con i peccatori per riconciliarli a Dio - sia se chiamati a fare penitenza per i propri peccati - con riferimento all'invito alla conversione e alla penitenza di Giovanni Battista.

Ogni credente rischia di cadere in questo atteggiamento, quando lamenta un eccessivo lassismo da parte dei fratelli o, al contrario, quando giustifica le proprie infedeltà ritenendo il vangelo troppo esigente.

Certi credenti vorrebbero seguire Cristo soltanto alle nozze di Cana; altri coltivano una fede prigioniera del rigore legalistico, ma più comunemente l'atteggiamento diffuso è di indolenza, come quella di bambini annoiati seduti in una piazza. 

Gesù ci chiama a conciliare la gioia dell'annuncio di salvezza e la necessità di seguirlo prendendo la nostra croce. Questo significa partecipare in pienezza al mistero pasquale, alla morte e risurrezione di Cristo, accogliendolo nella sua interezza. 

Non siamo noi a dover giudicare le vie con cui Dio agisce sugli uomini per favorirne lo sviluppo spirituale, perché sebbene lo stesso Dio operi in tutti (1 Cor 12,6), alcuni sono chiamati da una voce che grida nel deserto, altri con parole di consolazione e di gioia. Come ammonisce l'Ecclesiaste c'è "un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare" (Eccl 3,4). Dio sa come trattare ciascuno di noi, talvolta parlando dal tuono sul monte Sinai e talaltra esortandoci dolcemente dal monte Sion.

Perghiera

Dio di giustizia e di misericordia, concedici di vivere sempre più in profondità il mistero battesimale, per sovrabbondare della tua grazia, nella predicazione del tuo vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 10 dicembre 2025

Le sei perfezioni nel buddhismo. Introduzione alle pāramitā

Le pāramitā, sei insegnamenti fondamentali, sono descritte nella vastità della cultura classica del buddhismo come percorsi di profonda trasformazione interiore. Queste pratiche rappresentano le sei grandi vie per il raggiungimento di quella che viene definita la "riva opposta" (pāramitā deriva infatti dal sanscrito pāram, "oltre", e itā, "andato"). La riva opposta simboleggia lo stato di satori o illuminazione, ovvero la condizione più elevata del nostro stato di coscienza, libera dalle catene dell'illusione e della sofferenza. In questo senso, le pāramitā sono viste come il motore che muove la pratica spirituale e conduce l'essere umano verso tale realizzazione, fungendo da ponte tra la condizione ordinaria di esistenza e il risveglio completo.

La struttura delle pāramitā

Le sei pāramitā vengono elencate e distillate in un sistema coerente che riassume i comportamenti, le azioni, i pensieri, l'energia, la meditazione (concentrazione) e la saggezza che scaturisce e promuove tutto questo. Ciascuna di esse rappresenta non solo una virtù da coltivare, ma una vera e propria perfezione (pāramitā significa letteralmente "perfezione" o "trascendenza") da incarnare nella propria esistenza.

1. Dana (generosità)

Rappresenta la generosità, la disponibilità, il dare amore e protezione senza aspettativa di ritorno. Dana è la perfezione del dare con il cuore, un atto che trascende la semplice elemosina materiale per abbracciare il dono del tempo, dell'ascolto, della presenza e persino del dharma (l'insegnamento spirituale). La generosità autentica nasce quando il donatore, il ricevente e il dono stesso si dissolvono in un unico atto privo di ego, dove non c'è più chi dà e chi riceve, ma solo il fluire naturale della compassione.

2. Śīla (virtù/moralità)

È la virtù o la moralità che governa le nostre azioni. Śīla è la perfezione dell'etica, che si manifesta in una vita vissuta in accordo con la nostra vera natura non egoica. Non si tratta di seguire rigidamente precetti esterni, ma di permettere che la nostra condotta spontanea rifletta la purezza innata della mente risvegliata. Quando l'ego si dissolve, l'azione giusta emerge naturalmente, senza sforzo né calcolo.

3. Kṣānti (pazienza)

Include la pazienza, la tolleranza, l'accettazione, la sopportazione e l'imperturbabilità di fronte alle avversità. La capacità di dimorare pienamente nel momento presente e l'accettazione profonda di ciò che accade sono considerati il substrato fondamentale, insieme agli altri, per accedere alle nostre qualità migliori. Questa pāramitā è talvolta definita anche la perfezione della presenza radiosa, poiché nella pazienza autentica risplende una forza interiore incrollabile. Kṣānti non è passività rassegnata, ma attiva accoglienza della realtà così com'è, senza resistenza mentale.

4. Vīrya (energia)

È l'energia instancabile, la diligenza gioiosa, il vigore e lo sforzo perseverante nella pratica. Vīrya rappresenta l'entusiasmo che non conosce scoraggiamento, la determinazione che ci sostiene nei momenti di difficoltà. È quella forza vitale che ci permette di continuare a praticare anche quando i frutti della pratica non sono immediatamente visibili, mantenendo viva la fiamma del risveglio.

5. Dhyāna (concentrazione)

È la concentrazione profonda, la contemplazione e lo zen. Dhyāna riassume gli stati meditativi della nostra mente e non può essere tradotta semplicemente come meditazione (zazen), poiché indica l'intera gamma di assorbimenti contemplativi che vanno dalla concentrazione focalizzata alla presenza aperta e non duale. È in dhyāna che la mente si stabilizza, si purifica e diventa capace di penetrare la vera natura della realtà.

6. Prajñā (saggezza)

È la saggezza trascendente, che non è soltanto la somma delle cinque pāramitā precedenti, ma è essa stessa una pratica fondamentale per il loro sviluppo e realizzazione. Prajñā è la visione penetrante della vacuità (śūnyatā), la comprensione diretta dell'interdipendenza di tutti i fenomeni e della natura illusoria dell'ego. Senza prajñā, le altre perfezioni rimangono incomplete; con prajñā, ogni azione diventa espressione della natura di Buddha.

Le pāramitā sono profondamente interconnesse: ognuna aiuta a produrre lo stato mentale successivo, e a sua volta sostiene e rafforza lo stato mentale che l'ha prodotta. Formano così un cerchio virtuoso di crescita spirituale, dove ogni perfezione si alimenta reciprocamente con le altre.

Cambiamento, impermanenza e natura umana

Il punto nodale di tutta la vita e della pratica spirituale è il cambiamento e la difficoltà che incontriamo nell'accoglierlo pienamente. Il paradosso della nostra esistenza è che viviamo nell'impermanenza continua (anitya), eppure resistiamo ostinatamente a riconoscerla. La legge universale dell'impermanenza fa sì che non vi sia una sola cellula del corpo che non stia continuamente lavorando e modificandosi, non un singolo pensiero che permanga identico, non un'emozione che non fluisca e si trasformi. L'unica cosa che resta apparentemente immobile è il pensiero cristallizzato della nostra mente riguardo a chi e cosa siamo, quella narrazione dell'io che costruiamo e difendiamo con ogni mezzo.

Il desiderio di non attuare cambiamenti, specialmente negli stati di coscienza, va contro la natura stessa dell'esistenza. L'impermanenza è una delle tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza (trilakṣaṇa) su cui il Buddha ha maggiormente insistito nei suoi insegnamenti ed è un concetto essenziale per comprendere la realtà. Non è una minaccia o una malattia da cui proteggersi con l'attaccamento, ma è l'unica via per l'evoluzione e la crescita dell'essere umano. Il cambiamento è, in realtà, la nostra natura più profonda e autentica. Praticare una via spirituale significa mettersi consapevolmente di fronte al proprio cambiamento, accoglierlo, danzare con esso anziché resistergli.

Le pāramitā, in questo contesto, possono servire come strumenti di comunicazione e trasformazione più profondi di mille parole, offrendo una bussola pratica per un cambiamento di rotta nell'essere umano e nella società. Incarnare le perfezioni significa allinearsi al flusso naturale dell'impermanenza, trasformando la resistenza in apertura e la paura in fiducia.

Pratica esterna e pratica interna

Le sei pāramitā possono essere suddivise in due gruppi principali, anche se tutte concorrono armoniosamente alla pratica completa e nessuna può essere veramente separata dalle altre.

Le prime tre perfezioni: la dimensione relazionale

Le prime tre perfezioni—generosità (dana), etica (śīla) e pazienza (kṣānti)—sono di aiuto al nostro cambiamento soprattutto nell'interrelazione con gli altri. Esse riguardano maggiormente la relazione con l'ego e con il mondo esterno, con il tessuto sociale in cui siamo immersi. Il loro scopo è superare i confini rigidi del nostro io e del nostro ego per aprirsi alla dimensione dell'interconnessione e della compassione universale. La messa in pratica di queste pāramitā può essere simultaneamente pratica verso gli altri e realizzazione del proprio sé autentico, poiché nell'atto di dare, di agire eticamente e di essere pazienti, dissolviamo progressivamente le barriere illusorie tra sé e altro.

Queste tre perfezioni ci insegnano che la liberazione personale non può essere separata dal benessere degli altri, che il nostro risveglio si manifesta necessariamente nella qualità delle nostre relazioni e azioni nel mondo.

Le seconde tre perfezioni: la dimensione interiore

Il secondo gruppo di perfezioni—energia (vīrya), concentrazione (dhyāna) e saggezza (prajñā)—riguarda più specificatamente la pratica interiore e il nostro stato di coscienza. Ad esempio, vīrya è definita la perfezione dell'entusiasmo gioioso al cambiamento. Questo non significa essere gioiosi della sofferenza in quanto tale, ma essere entusiasti del cambiamento stesso, cioè della possibilità di trasformare la sofferenza attraverso la pratica. Si tratta di uno sforzo gioioso e vigoroso che ci permette di trovare la strada per uscire dalla sofferenza (duḥkha), mantenendo viva la motivazione anche nei momenti più bui.

Dhyāna ci offre lo spazio interiore di quiete e chiarezza in cui possiamo osservare la mente senza identificarci con i suoi contenuti, mentre prajñā illumina la vera natura di ciò che osserviamo, rivelando la vacuità dell'ego e l'interdipendenza di tutti i fenomeni.

Per realizzare queste qualità, è cruciale unire l'ascolto della mente concettuale a quello del cuore (shin in giapponese), inteso come la mente consapevole e realizzata, la mente-cuore indivisa. L'ascolto che viene dal cuore permette agli stati illuminati e illuminanti della mente di manifestarsi liberamente, non più impediti dalla mente oscurata dall'ego e dalle sue proiezioni distorte. Quando mente e cuore si unificano nella pratica, le pāramitā cessano di essere concetti astratti e diventano la nostra esperienza vissuta.

Realizzare la propria natura migliore

La pratica spirituale ha l'obiettivo fondamentale di rendere l'invisibile visibile, di rimuovere i veli che oscurano la nostra vera natura e permettere alla nostra essenza migliore di riapparire e splendere. Adottare i cambiamenti che portano verso le pāramitā non è andare contro qualcosa di estraneo o imposto dall'esterno, ma al contrario, riprendere la via naturale del cambiamento verso la nostra reale essenza, quella natura di Buddha (buddhata) che è sempre stata presente, solo temporaneamente velata dall'ignoranza e dall'illusione.

Quando si è seduti nella pratica formale dello zazen, l'assorbimento totale nella postura, nel respiro e nella presenza fa sì che non si stia più praticando qualcosa di separato da noi, ma si sia completamente quello che si pratica. Il praticante e la pratica si unificano in un'esperienza non duale. In modo analogo, la saggezza (prajñā) trascina corpo e mente risvegliati alla loro migliore natura di esseri umani, e questo stato risvegliato produce a sua volta saggezza in un ciclo virtuoso e autoalimentante.

Vivere le pāramitā è una pratica per vivere al meglio la nostra vita in relazione con gli altri, aiutandoli e alleviando la loro sofferenza, anziché isolarsi in uno stato di benessere privato e solitario. Il bodhisattva, l'essere illuminato che ritarda la propria liberazione finale per aiutare tutti gli esseri senzienti, incarna perfettamente questo ideale. Il cambiamento nobile e lodevole, che è parte integrante della nostra natura più profonda, porta inevitabilmente a una nobiltà di vita e di coscienza, a una dignità che nasce dall'allineamento con ciò che siamo veramente.

Le pāramitā offrono quindi una dinamica naturale di trasformazione, capace di riflettere su sé stessa in modo autoriflessivo e di interpretare e trasformare la società, manifestando la propria natura di Buddha—che non è un'entità lontana e irraggiungibile, un ideale astratto riservato a pochi eletti, ma è la nostra naturale essenza, la nostra eredità spirituale comune. Questa natura risvegliata è sempre stata qui, semplicemente in attesa che rimuovessimo le nuvole che ne oscuravano la luminosità.

Nel praticare le sei perfezioni, non stiamo costruendo qualcosa di nuovo o acquisendo qualità che ci mancano, ma stiamo semplicemente ricordando e risvegliando ciò che abbiamo sempre posseduto. Le pāramitā sono il sentiero di ritorno a casa, alla nostra vera natura, e ogni passo su questo sentiero è già, in sé, un atto di risveglio.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Una gioiosa partecipazione all'opera divina

Lettura

Matteo 11,28-30

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Commento

Dopo aver proclamato la beatitudine degli umili, ai quali vengono rivelati il Cristo e il suo Regno, Gesù esorta gli affaticati e gli oppressi ad andare a lui. Costoro, paradossalmente, troveranno ristoro ponendo su di sé il giogo del Signore. Ma come è possibile essere liberati dall'oppressione sottomettendosi e vincolandosi?

Questa, purtroppo, è l'impressione che al giorno d'oggi molti hanno della fede: semplicemente una religione, ovvero un insieme di norme da rispettare, spesso con fatica. Il rischio di un cristianesimo legalista è di replicare l'oppressione generata dal modo di spiegare la legge degli scribi e dei farisei, dei quali Gesù afferma: «Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). 

Gesù invita all'obbedienza alla sua parola, che dà ristoro perché dona la salvezza, mediante la giustificazione e la santificazione. La vita del credente è più che una religione: è un'esperienza di comunione con Dio. E poiché  Dio è il creatore di tutto e colui che governa tutto, essere "sottomessi a lui" significa regnare con lui, in lui. 

La vera religione è lontana tanto dall'arbitrio individualistico quanto dalla sterile precettistica; è un'esperienza di liberazione e di gioiosa partecipazione all'opera divina.

Gesù ci libera da tutto ciò che ci appesantisce lungo la via della salvezza; anche da quei pesi inutili che spesso noi stessi ci siamo caricati sulle spalle. Come ai suoi apostoli egli ci dice: «Venite... riposatevi un po'» (Mc 6,31).

Preghiera

Guidaci, Signore, verso la libertà dei figli di Dio; affinché attraverso la mitezza e l'umiltà possiamo regnare con te e trovare ristoro. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 9 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il cuore umano di Dio

Lettura

Matteo 18,12-14

12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita? 13 E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico che egli si rallegra più per questa che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che neppure uno di questi piccoli perisca.

Commento

Con la parabola della pecora smarrita Gesù restituisce un'immagine di Dio che richiama la compassione su cui si fondava già l'antica alleanza con il popolo di Israele, tante volte infedele, eppure sempre cercato e riconciliato con sé. Questa apprensione di Dio, per la salvezza del suo popolo, e che si estende, come già annunciato dai profeti dell'epoca post-esilica, a tutte le nazioni, trova compimento in Cristo. Nel buon pastore la misericordia di Dio trova un cuore umano in cui pulsare e discende nelle valli, spesso oscure, in cui risiede l'umanità smarrita.

Dio si rallegra per la salvezza del suo gregge non solo in quanto moltitudine, ma di ogni singola sua pecora. L'immagine di questo animale non deve indurci a considerare il credente come una creatura passiva nelle mani di Dio. La possibilità di allontanarci da lui segna in maniera chiara la cifra della nostra libertà personale. Ma al contempo il nostro bene si realizza all'interno di una relazione con Dio, il quale chiama ciascuno di noi per nome (Gv 10,3), riconoscendo dunque la nostra unicità. È lui che ci guida su pascoli erbosi (Sal 22,2). È lui che ci fa riposare al sicuro (Sal 4,9). L'atteggiamento del buon pastore è per i credenti un modello della sollecitudine che questi devono mostrare verso ogni uomo alla ricerca della via che conduce alla salvezza.

Preghiera

Signore, tu ci chiami per nome. Apri le nostre orecchie alla tua voce, affinché possiamo rallegrarci con te della nostra salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 7 dicembre 2025

Le mie parole non passeranno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore santo, che hai ispirato tutte le Scritture affinché fossero scritte per la nostra edificazione; concedici di ascoltarle, leggerle, memorizzarle, apprenderle e interiorizzarle, affinché mediante il conforto e la pazienza donati dalla tua santa parola, possiamo abbracciare e mantenere la beata speranza della vita eterna, che ci hai donato nel nostro Salvatore Gesù Cristo. Amen.

Letture

Rm 15,4-13; Lc 21,25-33

Commento

La mèta ultima della storia è la lode unanime del Padre, in comunione con il Figlio, nello Spirito Santo. Il vangelo, annunciato negli ultimi tempi, testimonia questa aspirazione affinché tutte le voci compongano un'armonia simile a quella di molti strumenti, ciascuno diverso nel suo timbro, ma tutti accordati nell'azione comune.

Questo ideale va realizzato non solo nella preghiera; Dio infatti, avendo accolto a sé i peccatori, senza distinzione di giudei e di pagani, di ricchi, e di poveri, d'ignoranti, e di dotti, deve essere glorificato da tutti, con la parola e con l'azione conforme al vangelo. Come Cristo ha accolto noi, per la gloria del Padre, noi dobbiamo accogliere ogni uomo, superando le offese, le antipatie, il divario di opinioni.

Nella chiesa militante convivono deboli e forti nella fede. È una realtà inevitabile giacché non si può pretendere lo stesso grado di conoscenza e di esperienza cristiana nei fanciulli e negli uomini fatti. Se tutti devono tendere all'unità nella fede, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef 4,13), a questo ideale non si giunge d'un tratto né per imposizione d'autorità, ma in forma graduale e progressiva. Intanto il bambino e il giovane hanno il loro posto legittimo nella famiglia, al pari dell'uomo maturo e dell'anziano.

Nella fede in Cristo ciascuno può trovare la pienezza della gioia e la capacità di coltivare relazioni interpersonali virtuose; come testimonia Paolo: "Il Dio della speranza vi riempia d'ogni allegrezza e pace nel vostro credere" (Rm 15,13). E l'Apostolo aggiunge: "mediante la potenza dello Spirito Santo": non il semplice sforzo umano, ma la potenza dello Spirito di Dio può alimentare nel cristiano la fiamma della speranza e della carità fraterna.

Cristo viene sulle nubi, la sua manifestazione vittoriosa si realizza per mezzo dello Spirito, consolidando il regno del vangelo sulla terra, e favorendo la sua propagazione fra tutti i popoli mediante l'opera dei suoi inviati.

Ma guai a quella chiesa in cui l'istituzione soffoca la potenza dello Spirito. La comunità può essere forte là dove le coscienze individuali si esprimono e respirano nella ricerca di una relazione personale con Dio, spinte da un senso profondo di responsabilità.

Nella predicazione di Gesù troviamo il richiamo ad affidarci alla parola di Dio, ad aggrapparci ad essa come àncora di salvezza nelle acque turbinose dell'esistenza umana. Questa la sua promessa, che alimenta la speranza del cristiano: "i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Lc 21,33).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 6 dicembre 2025

Dizionario della Musica Anglicana. Jean Coulthard

Jean Coulthard (1908-2000) rappresenta una figura pionieristica nella musica canadese del ventesimo secolo. Il suo vastissimo catalogo di oltre 350 opere comprende tutti i generi tradizionali, ma la sua produzione sacra e corale costituisce un aspetto particolarmente significativo della sua eredità artistica.

La formazione con Ralph Vaughan Williams al Royal College of Music di Londra (1928-1929) lasciò un'impronta indelebile sul suo approccio alla musica sacra. L'influenza del maestro inglese emerge nelle opere devozionali di Coulthard, dove il lirismo si combina con un linguaggio armonico contemporaneo accessibile ed emotivamente diretto.

"A Prayer for Elizabeth" per archi (1953), commissionata dalla CBC per l'incoronazione della Regina Elisabetta II, rappresenta un momento emblematico del suo stile maturo: forme tradizionali fuse con armonie politonali cromaticamente arricchite. Il pezzo riflette l'eredità di Vaughan Williams nella sua solennità contemplativa.

"Music to St. Cecilia" per organo e archi, nominata al Juno Award nel 1993, celebra la patrona della musica bilanciando serenità meditativa e gioiosa celebrazione. Dimostra la maestria nell'orchestrazione e la sensibilità nel trattamento dell'organo.

"Threnody", elegia per la madre scomparsa nel 1933, trasforma il dolore personale in espressione universale. Concepita per la Christ Church Cathedral di Vancouver, rivela la comprensione della funzione catartica della musica sacra.

La musica sacra di Coulthard si distingue per un lirismo contemporaneo unito a un'introspezione meditativa spesso associata alla geografia della Columbia Britannica. Le sue opere sono accessibili e profonde, radicate nella tradizione ma non anacronistiche.

Il suo approccio armonico privilegia una tonalità ampliata piuttosto che serialismo o atonalità. Questa scelta mantiene una capacità comunicativa diretta che favorisce l'uso liturgico e concertistico. Come docente presso l'Università della British Columbia per 26 anni, formò generazioni di compositori, contribuendo a creare una tradizione compositiva canadese.

La sua musica sacra rappresenta un contributo duraturo al repertorio canadese, offrendo opere che uniscono profondità spirituale e mestiere raffinato, mantenendo la fiducia nella capacità della musica di elevare lo spirito attraverso la bellezza.


La musica liturgica nella tarda epoca patristica (c. 313 - c. 750 d.C.)

Introduzione

La musica liturgica nella tarda epoca patristica rappresenta un periodo cruciale e trasformativo nella storia della Chiesa cristiana. Questo arco temporale, che si estende dall'Editto di Milano (313 d.C.) fino alla metà dell'VIII secolo, segna il passaggio dalla musica cristiana primitiva, caratterizzata da spontaneità e assenza di codificazioni formali, verso una progressiva strutturazione che avrebbe posto le fondamenta della grande tradizione musicale sacra medievale. In questo contesto storico complesso, segnato da profondi mutamenti politici, sociali e culturali, la musica liturgica si evolve da semplice pratica devozionale a elemento costitutivo dell'identità ecclesiale, strumento privilegiato di educazione religiosa e veicolo di diffusione e consolidamento della fede cristiana nell'Europa post-romana.

La musica liturgica e l'Editto di Milano (313 d.C.)

L'Editto di Milano del 313 d.C., promulgato dagli imperatori Costantino e Licinio, rappresenta una cesura epocale non solo per la storia del cristianesimo, ma anche per lo sviluppo della sua espressione musicale. La concessione della libertà di culto ai cristiani nell'Impero Romano trasforma radicalmente il contesto in cui la musica liturgica viene praticata: da fenomeno sotterraneo, praticato in ambienti domestici, catacombe e luoghi nascosti sotto la costante minaccia della persecuzione, essa emerge alla luce pubblica, divenendo oggetto di attenzione istituzionale e di regolamentazione ecclesiastica.

Con il riconoscimento legale del cristianesimo, la Chiesa inizia un processo di strutturazione organizzativa che coinvolge ogni aspetto della vita comunitaria, compresa la dimensione musicale del culto. La costruzione delle prime grandi basiliche cristiane, come quelle di San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano a Roma, crea nuovi spazi acustici che richiedono forme musicali adeguate. La musica non è più semplicemente un accompagnamento spontaneo ai riti, ma diventa parte integrante e codificata dell'atto liturgico, mezzo privilegiato per esprimere la fede collettiva e l'identità cristiana emergente. Questo passaggio dalla clandestinità alla pubblicità segna l'inizio di una riflessione sistematica sul ruolo, le forme e i limiti della musica nel culto cristiano.

La musica nella Chiesa primitiva e il passaggio al periodo patristico

Nella Chiesa delle origini, precedente all'Editto di Milano, la musica liturgica si caratterizzava per una semplicità strutturale che rifletteva le condizioni di precarietà in cui le comunità cristiane vivevano. Predominavano il canto responsoriale, in cui un solista alternava con l'assemblea, e il canto antifonale, con due cori che si rispondevano reciprocamente. Queste forme, ereditate dalla tradizione sinagogale ebraica, permettevano una partecipazione attiva dei fedeli anche in assenza di testi scritti o di una formazione musicale specialistica. I salmi davidici costituivano il nucleo centrale del repertorio, cantati secondo modalità che variavano da comunità a comunità.

Con l'avvento del periodo patristico, si assiste a una profonda riflessione teologica sulla natura e la funzione della musica nel culto cristiano. I Padri della Chiesa affrontano questioni fondamentali: quale rapporto deve sussistere tra la bellezza sensibile della musica e la contemplazione spirituale? In che misura l'arte musicale può essere veicolo di verità teologiche? Quali pericoli comporta un uso improprio o eccessivamente edonistico della musica sacra?

Agostino d'Ippona (354-430), nella sua autobiografia spirituale Confessiones, esprime con particolare acutezza questa tensione. Nel libro X, egli descrive il suo travaglio interiore di fronte al canto liturgico: riconosce che le melodie sacre possono elevare l'anima e facilitare la preghiera, ma teme al contempo che il piacere estetico possa distogliere l'attenzione dal contenuto dottrinale dei testi. Agostino sostiene che la musica è lecita e benvenuta quando serve a infiammare la devozione, ma diventa pericolosa quando è fine a se stessa. Questa visione equilibrata, che riconosce il valore della musica senza cedere a un'estetizzazione della liturgia, influenzerà profondamente la teologia musicale successiva.

Giovanni Crisostomo (c. 349-407), Patriarca di Costantinopoli, sviluppa una riflessione complementare nel contesto della Chiesa orientale. Nei suoi scritti, particolarmente nelle omelie, egli sottolinea come il canto liturgico sia un'eco del canto angelico che pervade la liturgia celeste. La partecipazione al canto comune, secondo Crisostomo, realizza l'unità della Chiesa, superando le divisioni sociali tra ricchi e poveri, colti e ignoranti. Il canto è quindi non solo preghiera verticale verso Dio, ma anche costruzione orizzontale della comunità ecclesiale.

L'evoluzione della musica liturgica nel V e VI secolo

I secoli V e VI rappresentano un periodo di cristallizzazione e codificazione delle forme musicali liturgiche. In questo contesto, emerge progressivamente quella che la tradizione successiva chiamerà "canto gregoriano", sebbene la sua definizione formale sia ancora lontana. Questa forma di canto sacro si caratterizza per alcuni tratti distintivi: la monodia (una sola linea melodica senza accompagnamento strumentale o armonico), la modalità (l'uso di scale musicali specifiche, diverse dal sistema tonale moderno), il ritmo libero strettamente legato all'accentuazione naturale del testo latino, e una stretta aderenza ai testi liturgici.

Il latino, lingua ufficiale della Chiesa d'Occidente, diventa il veicolo esclusivo dei canti liturgici, favorendo un processo di unificazione culturale e religiosa nell'Europa frammentata post-romana. Questa scelta linguistica, pur distanziando progressivamente la liturgia dalla comprensione immediata dei fedeli (che nelle diverse regioni parlavano lingue volgari in rapida evoluzione), garantisce uniformità e continuità nel tempo e nello spazio.

Durante questo periodo, la musica liturgica assume una marcata funzione pedagogica e catechetica. Con l'espansione della Chiesa tra popolazioni germaniche, celtiche e slave spesso ancora pagane o recentemente convertite, il canto diventa strumento primario di evangelizzazione e di formazione religiosa. La ripetizione dei canti liturgici favorisce la memorizzazione dei contenuti dottrinali fondamentali: i misteri della fede, le verità morali, le narrazioni bibliche. La musica, con la sua capacità di coinvolgere emotivamente e di rendersi memorabile, si rivela particolarmente efficace in società a prevalente tradizione orale, dove la scrittura era appannaggio di élite ristrette.

La figura di Papa Gregorio I (c. 540-604), noto come Gregorio Magno, domina questo periodo. Benché la tradizione posteriore gli abbia attribuito la composizione personale del repertorio gregoriano (un'attribuzione oggi considerata leggendaria dagli storici), il suo contributo alla riforma liturgica e musicale fu determinante. Gregorio promosse una standardizzazione dei canti liturgici, inviando missionari e cantori formati a Roma in diverse regioni europee per diffondere le pratiche liturgiche romane. Questa opera di unificazione mirava a creare una koiné musicale che esprimesse e rafforzasse l'unità della Chiesa cattolica di fronte alla frammentazione politica dell'Europa post-imperiale.

La tradizione attribuisce a Gregorio anche la riorganizzazione del repertorio dei canti in base al ciclo liturgico annuale e la codificazione dei modi ecclesiastici (modi autentici e plagali), sebbene queste attribuzioni vadano considerate con cautela critica. Ciò che è certo è che sotto il suo pontificato si assiste a un significativo impulso organizzativo che pone le basi per gli sviluppi successivi.

Il ruolo del clero e dei monaci

La conservazione, trasmissione e sviluppo della musica liturgica nella tarda epoca patristica sono strettamente legati all'attività del clero secolare e, ancor più, degli ordini monastici. I monasteri, che si moltiplicano in Europa a partire dal VI secolo seguendo la Regola benedettina (Regula Benedicti, c. 530), diventano centri nevralgici per la cultura musicale cristiana.

La vita monastica, strutturata attorno all'Opus Dei (l'Ufficio divino), prevedeva otto momenti di preghiera comune nell'arco della giornata, dalla Vigilia notturna alla Compieta serale. Questa preghiera continua era essenzialmente cantata: salmi, inni, antifone e responsori scandivano il ritmo quotidiano dei monaci. Tale pratica intensiva sviluppava una competenza musicale raffinata e favoriva l'elaborazione di repertori sempre più complessi.

I monasteri come Montecassino (fondato da San Benedetto nel 529), Bobbio (fondato da San Colombano nel 614), e successivamente Cluny e San Gallo, divennero veri e propri conservatori ante litteram. Qui si formavano i cantori, si copiavano e si conservavano i manoscritti musicali, si elaboravano nuove composizioni. La tradizione orale, inizialmente predominante, fu progressivamente affiancata e poi in parte sostituita da forme di notazione musicale sempre più sofisticate. I neumi, segni grafici che indicavano l'andamento melodico, comparvero nei manoscritti a partire dal IX secolo, rappresentando una rivoluzione nella trasmissione del patrimonio musicale.

La disciplina monastica favoriva anche la dimensione contemplativa del canto. Per i monaci, cantare i salmi non era semplicemente eseguire una partitura, ma entrare in un dialogo intimo con Dio, lasciando che la Parola rivelata plasmasse l'interiorità. Il canto diventava preghiera del corpo oltre che dell'anima, coinvolgendo l'intera persona in un atto di lode che anticipava la liturgia celeste.

Il clero secolare, dal canto suo, sviluppò scuole di canto presso le cattedrali delle principali sedi episcopali. Queste scholae cantorum formavano i chierici al canto liturgico, garantendo la qualità delle celebrazioni nelle chiese urbane. La più famosa di queste scuole fu quella romana, che divenne modello per l'intera cristianità occidentale.

La musica liturgica e la teologia patristica

Nel pensiero patristico, la musica liturgica non era considerata un mero ornamento della celebrazione, ma possedeva una dignità teologica propria. I Padri della Chiesa elaborarono una vera e propria "teologia della musica" che giustificava e orientava l'uso del canto nel culto cristiano.

Secondo questa visione, la musica è innanzitutto partecipazione alla lode cosmica che l'intera creazione innalza al Creatore. Quando la comunità ecclesiale canta, si unisce al coro degli angeli e dei santi nella liturgia celeste, anticipando sulla terra la beatitudine del Regno futuro. Questa concezione, presente sia in Oriente che in Occidente, conferisce al canto liturgico una dimensione escatologica: esso è segno e pregustazione della comunione eterna con Dio.

La musica, inoltre, è intesa come strumento di purificazione e di elevazione spirituale. Il canto dei salmi, in particolare, era considerato dai Padri un potente mezzo di lotta contro le tentazioni e di disciplina delle passioni. Atanasio di Alessandria, nella sua Lettera a Marcellino sui Salmi, sottolinea come i salmi cantati abbiano il potere di ordinare l'anima, portando equilibrio tra le diverse facoltà umane. La musica sacra, ben utilizzata, diventa così terapia dell'anima, medicina spirituale.

Un altro tema ricorrente nella teologia patristica è quello dell'armonia musicale come riflesso dell'ordine divino impresso nella creazione. Seguendo una tradizione che risale a Pitagora e Platone, i Padri vedevano nella musica ben ordinata un'immagine dell'armonia cosmica voluta da Dio. Questa visione cosmologica della musica legittimava l'uso del canto liturgico e ne esaltava la dignità, inserendolo in una prospettiva metafisica che trascendeva la semplice dimensione estetica.

Boezio (c. 480-524), benché non propriamente un Padre della Chiesa, contribuì significativamente a questa riflessione con il suo trattato De institutione musica, che trasmise al Medioevo cristiano la teoria musicale greco-romana rielaborata in chiave cristiana. Distinguendo tra musica mundana (l'armonia delle sfere celesti), musica humana (l'armonia del corpo e dell'anima) e musica instrumentalis (la musica effettivamente suonata), Boezio inseriva la pratica musicale in un quadro cosmologico e antropologico di ampio respiro.

Le diverse tradizioni liturgico-musicali

È importante notare che durante questo periodo non esisteva ancora una completa uniformità nella musica liturgica cristiana. Diverse tradizioni si svilupparono nelle varie regioni dell'ecumene cristiana, ciascuna con le proprie caratteristiche:

  • Il canto ambrosiano a Milano, associato a Sant'Ambrogio (c. 340-397), che introdusse l'innologia nella liturgia occidentale e sviluppò forme musicali distintive che sopravvivono ancora oggi nell'arcidiocesi milanese;
  • Il canto beneventano nell'Italia meridionale longobarda, con caratteristiche proprie che lo distinguevano dal repertorio romano;
  • Il canto gallicano nelle regioni franche, prima della sua progressiva sostituzione con il repertorio romano-franco durante l'epoca carolingia;
  • Il canto mozarabico o visigotico nella penisola iberica, particolarmente fiorente prima della conquista islamica del 711;
  • Il canto celtico nelle isole britanniche e in Irlanda, con una tradizione monastica particolarmente vivace.

Queste diverse tradizioni testimoniano la ricchezza e la varietà della creatività musicale cristiana nel periodo patristico, prima che i processi di unificazione carolingi e papali imponessero progressivamente il predominio del canto gregoriano romano.

L'eredità musicale della tarda epoca patristica

La tarda epoca patristica si configura come un periodo fondativo per la musica liturgica cristiana. Durante questi secoli cruciali, la Chiesa definisce le proprie pratiche musicali, stabilisce principi teologici che ne giustificano e orientano l'uso, e crea un patrimonio di canti che costituirà il nucleo centrale del repertorio medievale.

Il canto gregoriano, pur raggiungendo la sua piena maturità solo nei secoli successivi, trova in questo periodo le sue radici essenziali. Le riforme liturgiche e musicali promosse da Papa Gregorio I, l'attività incessante dei monasteri nella conservazione e trasmissione del repertorio, la riflessione teologica dei Padri della Chiesa sulla natura e la funzione della musica sacra: tutti questi elementi convergono nella creazione di una tradizione musicale che, pur evolvendo e arricchendosi nei secoli successivi, manterrà sempre un radicamento profondo nella spiritualità e nella teologia del cristianesimo delle origini.

Questa eredità è molteplice e duratura. Sul piano pratico, l'epoca patristica consegna al Medioevo un repertorio di canti, forme liturgiche codificate e tecniche di trasmissione (prima orale, poi anche scritta). Sul piano teorico, essa trasmette una teologia della musica che continuerà a informare la riflessione sulla musica sacra fino ai nostri giorni. Sul piano istituzionale, essa stabilisce il ruolo del clero e dei monaci come custodi e interpreti della tradizione musicale liturgica.

La musica liturgica, da elemento marginale e spontaneo dei primi secoli cristiani, si trasforma in uno degli strumenti fondamentali di trasmissione della fede, di educazione religiosa e di costruzione dell'identità ecclesiale. Quando l'Europa entra nell'epoca medievale, lo fa portando con sé una tradizione musicale liturgica solida, diffusa e teologicamente fondata, che diventerà uno dei pilastri della civiltà cristiana medievale e che, attraverso successive evoluzioni, continuerà a vivere fino all'epoca contemporanea.

Conclusione

Il periodo che va dall'Editto di Milano alla metà dell'VIII secolo rappresenta dunque una stagione di straordinaria creatività e di profonda riflessione nel campo della musica liturgica cristiana. In questi secoli, la Chiesa non si limita a praticare il canto come elemento devozionale, ma ne elabora una comprensione teologica, ne codifica le forme, ne organizza la trasmissione, ne riconosce la funzione educativa e identitaria. La musica liturgica della tarda epoca patristica non è solo preparazione alla grande fioritura medievale, ma possiede una dignità propria e un significato storico autonomo, rappresentando il momento in cui il cristianesimo, uscito dalle catacombe e divenuto religione dell'Impero, forgia gli strumenti culturali e spirituali che lo accompagneranno nei secoli a venire.

- Rev. Dr. Luca Vona

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