Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

mercoledì 19 novembre 2025

La Bhagavad Gītā: il canto eterno della liberazione

Introduzione: una celebrazione universale della saggezza

Ogni anno, nel mese lunare di Mārgaśīrṣa (corrispondente a novembre-dicembre), l'India e la diaspora induista celebrano il Gītā-Jayantī Mahotsava, l'anniversario della rivelazione della Bhagavad Gītā. Secondo la tradizione, fu in questo giorno propizio, nell'undicesimo giorno (Ekādaśī) della quindicina luminosa, che Krishna trasmise i suoi insegnamenti eterni ad Arjuna sul campo di battaglia di Kurukṣetra, oltre cinquemila anni fa. La celebrazione della Gītā-Jayantī non è semplicemente la commemorazione di un evento mitico del passato, ma il riconoscimento vivente della perenne attualità di questo testo sacro. In questo giorno, templi e comunità organizzano letture continue (Gītā pāṭha), discorsi, canti devozionali e cerimonie rituali (pūjā), ribadendo come la Gītā non sia un reperto archeologico della spiritualità, ma una fonte viva di ispirazione e trasformazione per milioni di persone nel mondo contemporaneo.

La Bhagavad Gītā (il "Canto del Glorioso Signore") è riconosciuta come uno dei testi fondamentali e più importanti dell'intera tradizione religiosa e filosofica indiana. La sua rilevanza è tale che, per la grande metafisica indiana del Vedānta, essa costituisce uno dei tre punti di partenza essenziali (Prasthāna Traya) per l'indagine filosofica e teologica, affiancando le Upaniṣad vediche e i Brahma Sūtra. Per millenni, la Gītā è stata il fondamento della vita religiosa, della speculazione filosofica e dell'insegnamento in India, guadagnandosi in epoca moderna l'appellativo di "Vangelo dell'India" per la sua importanza e ispirazione paragonabile ai testi evangelici. Presso la tradizione indiana, il testo gode di tale venerazione da essere considerato una rivelazione, assimilabile a una sorta di "quinto Veda", sebbene tecnicamente appartenga alla letteratura smṛti (tramandata) piuttosto che śruti (rivelata).

Contesto epico e rivelazione divina

Il Mahābhārata: l'oceano della narrazione

La Bhagavad Gītā è parte integrante della grande epopea del Mahābhārata, l'epica più estesa della storia dell'umanità, che consta di circa centomila versi distribuiti in diciotto libri (Parvan). Questo monumentale poema nazionale indiano (il cui nome ufficiale è Bharat) è di dimensioni inusitate, otto o nove volte più grande dell'Iliade e dell'Odissea messe assieme. Il Mahābhārata non è semplicemente un'epica guerriera, ma una straordinaria enciclopedia della civiltà indiana, contenente insegnamenti etici, genealogie divine, trattati sul dharma, racconti mitologici e riflessioni filosofiche. La tradizione stessa lo definisce "itihāsa" (letteralmente "così è stato"), sottolineandone il valore storico-mitico e normativo per la cultura indiana.

La Gītā stessa è un testo relativamente breve, composto da 700 versi (śloka), organizzati in 18 capitoli (Adhyāya), che risiedono nel cuore dell'epica, precisamente nel sesto Parvan, il Bhīṣma Parvan. Il testo è un'altissima opera di poesia e si articola come un dialogo filosofico-teologico, il cui scenario è la piana sacra di Kurukṣetra, situata nell'attuale stato di Haryana, a nord di Delhi, ancora oggi luogo di pellegrinaggio.

Il dramma di Kurukṣetra: metafora universale del conflitto

La scena si apre immediatamente prima dell'inizio di una catastrofica guerra fratricida tra cugini: i cinque fratelli Pāṇḍava, guidati da Yudhiṣṭhira, il re giusto per eccellenza, che incarnano il bene e il Dharma (l'ordine cosmico e morale), e i cento fratelli Kaurava, capeggiati dall'ambizioso e cieco (moralmente e materialmente, attraverso suo padre Dhṛtarāṣṭra) Duryodhana, che tipizzano il male e l'Adharma. Questo conflitto non è una semplice disputa dinastica per la successione al trono di Hastināpura, ma assume dimensioni cosmiche: è la lotta archetipica tra le forze della luce e dell'oscurità, tra ordine e chaos.

Il dialogo avviene tra l'eroe Pāṇḍava Arjuna, il più grande arciere del suo tempo, che rappresenta l'umanità nella sua dimensione più elevata ma anche nelle sue fragilità, e Krishna, suo cugino, amico e auriga. Krishna, tuttavia, non è un semplice conducente di carri: egli è una manifestazione (avatāra) del dio supremo Viṣṇu, il preservatore dell'universo nella trimurti induista. La scelta di Krishna di servire come auriga piuttosto che come guerriero è profondamente simbolica: egli guida metaforicamente l'anima umana attraverso il difficile percorso dell'esistenza.

La crisi esistenziale di Arjuna: il punto di partenza della ricerca spirituale

L'insegnamento ha inizio quando Arjuna, colto da una profonda disperazione e angoscia esistenziale (viṣāda) vedendo schierati contro di sé non nemici anonimi ma parenti carissimi, amici d'infanzia, venerati maestri come Bhīṣma (il grande patriarca della dinastia) e Droṇa (il suo maestro d'armi), getta l'arco Gāṇḍīva e si abbandona completamente a Krishna, riconoscendolo come il suo maestro divino (guru) e rifugio spirituale. Questo momento di crisi è fondamentale: Arjuna non è semplicemente codardo o confuso, ma sta vivendo un autentico dilemma morale e spirituale. Come può uccidere coloro che ama? Che senso ha una vittoria costruita sul sangue dei propri cari? Non sarebbe meglio rinunciare, lasciare il regno, ritirarsi in una vita ascetica?

Il primo capitolo, intitolato "Arjuna-viṣāda-yoga" (lo yoga della disperazione di Arjuna), è dunque introduttivo ma essenziale: stabilisce la condizione di crisi che apre alla ricerca spirituale autentica. La vera dottrina inizia dal secondo capitolo, quando si configura esplicitamente il rapporto maestro-discepolo (guru-śiṣya), fondamento dell'educazione tradizionale indiana.

Il Dharma come fondamento cosmico e sociale

Il dialogo affronta immediatamente il tema centrale del Dharma, termine sanscrito di complessità straordinaria che indica ciò che è conforme alla rettitudine, alla giustizia, alla legge cosmica e morale, alla funzione naturale di ogni essere, contrapposto all'Adharma. Il Dharma non è semplicemente una legge esterna, ma l'ordine stesso che mantiene la coesione dell'universo. Quando il Dharma decade, il cosmo stesso vacilla.

La battaglia di Kurukṣetra diventa così una potente metafora stratificata: è certamente uno scontro storico-mitico, ma è anche e soprattutto il simbolo del conflitto interiore ed esteriore tra bene e male che ogni essere umano sperimenta quotidianamente. I Pāṇḍava, pur essendo guerrieri (Kṣatriya), appartenenti alla seconda varṇa (casta) del sistema sociale vedico il cui dharma è proteggere la società, avevano cercato in ogni modo di evitare lo scontro, accettando persino l'esilio e offerte umilianti di pace. Questo rende la loro guerra una "guerra giusta" (Dharma-yuddha), l'ultimo ricorso necessario per ristabilire l'ordine quando tutte le alternative sono esaurite.

La dottrina della sintesi: Karma, Bhakti e Jñāna

Un capolavoro di integrazione spirituale

La Bhagavad Gītā deve la sua straordinaria fortuna storica e la sua capacità di parlare a pubblici diversissimi alla sua natura di testo di sintesi magistrale, capace di fondere insieme e conciliare le tre grandi vie (mārga) classiche di liberazione (Mokṣa) del pensiero indiano. Questa integrazione armonica è il tratto distintivo della Gītā rispetto ad altri testi che tendono a privilegiare una singola via. Krishna afferma che queste vie, lungi dall'essere in conflitto, sono accessibili a tutti indipendentemente dalla casta, dal genere o dalla condizione sociale, e si trovano sullo stesso piano di dignità spirituale, conducendo tutte al medesimo obiettivo ultimo:

  1. Karma Mārga (o Karma Yoga): La via dell'azione rituale e mondana, dell'impegno nel mondo.
  2. Bhakti Mārga (o Bhakti Yoga): La via della devozione appassionata e dell'amore per Dio personale.
  3. Jñāna Mārga (o Jñāna Yoga): La via della conoscenza metafisica, della discriminazione (viveka) e della saggezza liberatrice.

La Gītā integra armonicamente queste prospettive apparentemente disparate, offrendo un insegnamento altissimo in forma poetica accessibile, evitando sia l'aridità del puro intellettualismo sia gli eccessi dell'emotivismo devozionale incontrollato.

Il Niṣkāma Karma: l'azione disinteressata come via di liberazione

La metafisica dell'eternità dell'Atman

Di fronte allo sconforto paralizzante di Arjuna, Krishna interviene con una premessa metafisica fondamentale che rivoluziona l'intera prospettiva del problema: lo spirito individuale (Ātman) è eterno (nitya), senza inizio né fine, indistruttibile, immutabile. Come una persona abbandona vestiti logori per indossarne di nuovi, così l'Ātman abbandona corpi usurati per assumerne altri. Pertanto, uccidendo i suoi nemici sul campo di battaglia, Arjuna colpisce solo una forma transitoria (śarīra) destinata comunque a morire, non l'essenza spirituale immortale. Questa visione, radicata nelle Upaniṣad, relativizza drammaticamente l'importanza della morte fisica.

Inoltre, Krishna ricorda ad Arjuna che il combattimento (yuddha) è il dovere (svadharma) specifico della sua classe sociale, quella del guerriero (Kṣatriya). Rifiutare di combattere non sarebbe saggezza spirituale ma tradimento del proprio dharma, con conseguenze karmiche negative. Nella visione induista, ogni individuo ha un svadharma (dovere personale) determinato dalla sua natura (svabhāva) e dalla sua posizione sociale: meglio adempiere imperfettamente al proprio dharma che perfettamente a quello di un altro.

La rivoluzione etica del distacco

Tuttavia, ciò che rende l'etica della Gītā profondamente rivoluzionaria e universalmente significativa non è semplicemente questa giustificazione del dovere sociale, ma l'insegnamento radicale sul Niṣkāma Karma (azione senza desiderio dei frutti): l'azione deve essere attuata con pieno impegno ma spassionatamente, senza attaccamento (āsakti) ai frutti (phala) o ai risultati dell'azione stessa. Il famoso verso recita: "karmaṇy evādhikāras te mā phaleṣu kadācana" (hai diritto all'azione, mai ai suoi frutti). Il dovere deve essere compiuto per fedeltà al dharma, per pura obbedienza alla propria natura e funzione, non per interessi personali, aspettative di ricompensa, motivazioni psicologiche o passionali.

Questo insegnamento è straordinariamente "laico" e universale, rivolto a tutti gli esseri umani in ogni condizione di vita, non solo ad asceti, monaci o a chi ha intrapreso una vita di rinuncia formale (sannyāsa). La Gītā respinge esplicitamente l'idea che la liberazione richieda l'abbandono della società e del mondo: la liberazione può e deve essere conseguita nel pieno dell'attività mondana.

L'inevitabilità dell'azione e il paradosso della liberazione

Krishna spiega con chiarezza che l'uomo non può letteralmente non agire: anche stare fermi, trattenere il respiro, pensare sono forme di azione. L'azione (Karma) riguarda simultaneamente tre dimensioni: il corpo (kāya), il linguaggio (vāc) e la mente (manas), ed è quindi ontologicamente ineliminabile dalla condizione umana finché si è incarnati. Persino la semplice sopravvivenza biologica richiede azione.

Nella visione indiana, sviluppata soprattutto nelle Upaniṣad, il Karma ha una doppia valenza: da un lato è azione, dall'altro è la legge di causa-effetto morale che vincola l'uomo al ciclo delle rinascite (Saṃsāra) e quindi inevitabilmente al dolore (duḥkha), dato che ogni esistenza condizionata comporta sofferenza. Ogni azione produce residui karmici (saṃskāra) che determinano le rinascite future. La domanda cruciale, che angoscia generazioni di ricercatori spirituali, è quindi: come liberarsi dal Karma senza cadere nell'inazione, che è impossibile?

La risposta di Krishna è paradossale e geniale: è possibile trascendere la dimensione karmica vincolante attraverso il Karma stesso, trasformato però nella sua qualità. Non serve fuggire dall'azione, ma cambiare il rapporto con essa. L'azione deve essere svolta con dedizione totale, impegno completo, eccellenza (śraddhā) – non c'è spazio per l'approssimazione o la negligenza. Tuttavia, la chiave alchemica che trasforma l'azione vincolante in azione liberante risiede nell'intenzione (bhāva), nell'attitudine mentale che muove l'agire.

Se l'intenzione è pura, scevra da attaccamento egoistico (nirahaṃkāra), se l'azione è offerta come sacrificio (yajña) al divino piuttosto che perseguita per gratificazione personale, essa non produce contaminazione karmica, diventando "come uno scrivere sull'acqua che non lascia traccia". L'azione non genera residui se compiuta come puro dovere o come offerta devozionale. Se l'uomo agisce in questo modo, libero dall'identificazione con l'ego agente (kartṛ) e dall'attaccamento ai risultati, il Karma perde ogni potere vincolante su di lui e l'azione stessa diventa paradossalmente strumento di liberazione anziché di ulteriore schiavitù. Questo è lo Yoga dell'azione, il Karma Yoga.

La via regale della Bhakti: la devozione amorosa

L'integrazione di azione e sentimento

Sebbene l'azione disinteressata costituisca un pilastro fondamentale, la Gītā non si ferma a un'etica austera del dovere, ma la integra organicamente con la dimensione del sentimento e della dedizione emozionale. La via regale (rāja-mārga), la via suprema per la liberazione (Mokṣa), è proclamata essere la Bhakti, la devozione amorosa verso Dio personale.

Krishna spiega che la passione e il sentimento, che devono essere disciplinati e trascesi quando diretti verso i frutti delle azioni e i fini egoistici (kāma, desiderio egoistico), devono invece essere intensamente coltivati e rivolti interamente a Dio (Bhagavān). Non si tratta di reprimere le emozioni ma di riorientarle verso l'oggetto appropriato. La Bhakti non è fredda accettazione intellettuale ma partecipazione appassionata, intima, personale.

La circolarità dell'amore divino

La Bhakti è descritta come un movimento circolare di amore: è la partecipazione spontanea dell'anima umana a Dio, l'aspirazione del finito verso l'infinito, ma è anche e fondamentalmente l'amore precedente di Dio verso l'essere umano. Dio non è distante o indifferente, ma prema (amore divino) che si effonde. Krishna stesso dichiara: "Coloro che mi adorano con devozione, essi sono in me e io in loro."

Crucialmente, Krishna si manifesta nel mondo (come Avatāra) proprio per amore verso gli esseri senzienti, per proteggerli e guidarli. L'incarnazione divina non è motivata da necessità cosmiche impersonali ma da compassione (karuṇā) e grazia (anugraha).

La dottrina dell'Avatāra

Il concetto di Avatāra (letteralmente "discesa", dal sanscrito ava, giù, e tṛ, attraversare, oltrepassare) ha il suo locus classicus, il suo fondamento testuale per eccellenza, proprio nella Gītā. L'Avatāra è la manifestazione volontaria, periodica e compassionevole della divinità suprema (Viṣṇu/Nārāyaṇa) nel mondo fenomenico, che avviene ciclicamente quando il Dharma è gravemente in pericolo e l'Adharma (il chaos, il male, l'ingiustizia) rischia di travolgere completamente l'ordine cosmico e sociale.

Nel celeberrimo verso del quarto capitolo, Krishna proclama: "yadā yadā hi dharmasya glānir bhavati bhārata, abhyutthānam adharmasya tadātmānaṁ sṛjāmy aham" (Ogniqualvolta il dharma declina e l'adharma si solleva, O Arjuna, allora Io manifesto me stesso). L'Avatāra non è un'unica incarnazione irripetibile ma un evento ricorrente nella ciclicità cosmica induista. Krishna afferma di manifestare sé stesso "di era in era" (yuge yuge) per ristabilire l'ordine, proteggere i virtuosi, distruggere i malvagi e ristabilire il dharma.

Krishna è considerato dalla tradizione vaiṣṇava un pūrṇa-avatāra (avatāra completo, plenario), la manifestazione piena e totale della divinità suprema, a differenza di altri avatāra che sono manifestazioni parziali (aṃśa-avatāra). La tradizione enumera classicamente dieci avatāra principali di Viṣṇu (Daśāvatāra), tra cui Rāma, Buddha, e il futuro Kalki.

La supremazia della Bhakti

La Gītā proclama ripetutamente che la Bhakti è la via suprema, superiore anche alla conoscenza e all'ascetismo. Nell'undicesimo capitolo, dopo che Krishna ha rivelato ad Arjuna la sua forma cosmica terrificante (viśvarūpa), mostrando l'universo intero nel suo corpo, egli afferma che solo attraverso la devozione incondizionata (ananya-bhakti) può essere veramente conosciuto, visto e raggiunto.

L'amore puro per il divino è un amore non strumentale, non motivato dall'interesse personale o dalla ricerca di ricompense. Il vero devoto (bhakta) ama Dio non per ottenere liberazione, paradiso o poteri, ma per sua stessa natura intrinseca: l'amore non può essere ridotto a mero mezzo per un fine, ma è esso stesso il fine sommo (puruṣārtha). Questo rapporto d'amore è una comunione sublime (sāyujya) tra l'Amato divino (Īśvara) e l'amante umano, configurandosi come una chiamata divina, una grazia (prasāda) che precede e rende possibile la risposta umana.

L'unico vero scopo (prayojana) della vita umana, in questa prospettiva, è "tornare a casa" (svarga, vaikuṇṭha), ovvero entrare in una perfetta comunione eterna con la divinità, superando definitivamente il ciclo delle rinascite. Questa comunione non implica necessariamente la fusione indistinta ma può mantenere una dualità-nell'unità, permettendo la perpetuazione della relazione d'amore.

Yoga e Samatva: la via della conoscenza e dell'equanimità

Lo Yoga come equilibrio perfetto

Il terzo grande argomento della Gītā, intimamente legato alla conoscenza (Jñāna) e alla disciplina spirituale (sādhana), riguarda lo Yoga inteso nel suo significato più profondo. Krishna offre diverse definizioni memorabili dello Yoga. Una delle più celebri è che lo Yoga è la perfetta equanimità (samatva): "samatvaṁ yoga ucyate" (l'equilibrio è chiamato yoga).

L'equanimità (samatva o samatvam) consiste nel rimanere interiormente uguali, stabili, imperturbabili (sthita-prajña) di fronte a tutte le coppie di opposti (dvandva) che caratterizzano l'esistenza fenomenica: onore e disonore, caldo e freddo, piacere e dolore, vittoria e sconfitta, guadagno e perdita, lode e biasimo. Questo non significa indifferenza apatica o insensibilità, ma una centratura profonda che non viene scossa dalle vicissitudini esterne.

Un'altra definizione illuminante è che lo Yoga è "duḥkha-saṁyoga-viyoga" (lo scioglimento dell'unione con la sofferenza), ovvero la separazione definitiva dall'identificazione con il dolore e la sofferenza che caratterizzano l'esistenza condizionata.

Il sentiero dello Yogi: disciplina e autocontrollo

Per raggiungere la vetta vertiginosa dello Yoga, per realizzare questo stato di perfetta equanimità e liberazione, l'essere umano deve intraprendere un rigoroso cammino di auto-trasformazione. L'uomo deve innanzitutto soggiogare sé stesso (ātmanā ātmānaṁ uddharet: sollevi sé stesso attraverso sé stesso), diventando amico piuttosto che nemico di sé stesso. Questo richiede un distacco ascetico (vairāgya) unito a pratica costante, assidua e disciplinata (abhyāsa).

Il nemico principale e più insidioso in questo percorso interiore è l'ego nella sua forma di attaccamento (rāga), avidità (lobha) e interesse personale egoistico (ahaṃkāra, letteralmente "io-faccio", il senso dell'ego agente). Nella visione della Gītā, questo ego non è la vera identità dell'essere umano ma una sovrapposizione illusoria sull'Ātman puro. La vita spirituale autentica richiede di lasciar cadere progressivamente, minimizzare e infine trascendere completamente questo "io" egoico falso.

Il praticante dello Yoga (Yogi) deve inoltre coltivare moderazione in tutte le attività vitali: deve essere misurato (yukta) nel cibo e nel digiuno, nel sonno e nella veglia, nel lavoro e nel riposo. La Gītā propone chiaramente una "via mediana" (madhyama-mārga), respingendo sia il materialismo edonistico sia l'ascetismo autolesionista. Krishna afferma esplicitamente che lo Yoga non è per chi mangia troppo né per chi digiuna eccessivamente, non per chi dorme troppo né per chi resta sempre sveglio.

Il Samādhi: l'esperienza del Sé trascendente

L'esperienza culminante del percorso yogico è la comunione estatica con il Sé (Ātman), uno stato chiamato Samādhi (letteralmente "mettere insieme", perfetta concentrazione). In questo stato di assorbimento totale, le ordinarie funzioni mentali discorsive (vṛtti) si arrestano (nirodha), i sensi si ritirano dagli oggetti esterni come una tartaruga ritrae le membra (pratyāhāra), e il praticante attinge una felicità infinita (ānanda), una beatitudine che trascende completamente i limitati piaceri sensoriali (viṣaya-sukha).

Questo stato non è semplicemente psicologico ma ontologico: è la realizzazione diretta, non concettuale, dell'identità tra l'Ātman individuale e il Brahman universale, secondo l'interpretazione non-dualistica, o della perfetta comunione con il divino personale, secondo l'interpretazione devozionale.

La visione unitaria: Sé in tutti, tutti nel Sé

In questo stato di perfetta equanimità e realizzazione spirituale, lo Yogi consegue una trasformazione radicale della percezione: vede la stessa realtà essenziale ovunque (sarva-bhūta-hite rataḥ), riconoscendo il proprio Sé (Ātman) dimorare in tutti gli esseri senzienti e, reciprocamente, tutti gli esseri nel proprio Sé. La separazione illusoria tra sé e altro, tra soggetto e oggetto, viene definitivamente trascesa.

Lo Yogi perfetto (siddha-yogi) è descritto come colui che "giudica il piacere e la sofferenza che si manifestano in tutti gli esseri con lo stesso metro (ātmavat) che userebbe per sé stesso", realizzando così un senso di piena unità ontologica e compassione universale (mahā-karuṇā), in cui non sussiste più distinzione dualistica artificiale (dvaita). Questa non è semplice empatia psicologica ma realizzazione metafisica dell'interconnessione profonda di tutto ciò che esiste. Il vero Yogi vede con uguale sguardo un brahmano erudito, una mucca, un elefante, un cane e un mangiatore di cani – non perché sia cieco alle differenze esteriori, ma perché percepisce l'unica essenza spirituale che pervade tutte le forme.

Eredità, trasmissione e interpretazione

Datazione e contesto storico

La Bhagavad Gītā, come composizione autonoma inserita nel Mahābhārata, è stata datata dagli studiosi moderni in modo variabile, con un consenso generale che la colloca presumibilmente tra il primo secolo avanti Cristo e il primo secolo dopo Cristo, sebbene alcuni elementi possano essere più antichi. Questo la rende posteriore alle principali Upaniṣad ma anteriore ai grandi sistemi del Vedānta classico. Nasce quindi in un periodo di sintesi e fermento, quando diverse correnti spirituali (vedica, upaniṣadica, devozionale, ascetica) stavano cercando forme di integrazione.

Śaṅkara e il testo standard

Il testo è stato tramandato oralmente per secoli secondo la tradizione dei brāhmaṇa specializzati nella memorizzazione, e successivamente fissato in forma scritta grazie ai commenti esegetici (bhāṣya) di grandi maestri spirituali e filosofi. In particolare, il testo standard che leggiamo oggi (la cosiddetta vulgata) deriva direttamente dal commento (Śaṅkara-bhāṣya) di Ādi Śaṅkara (Shankara, circa 788-820 d.C.), uno dei più grandi filosofi e mistici dell'India, considerato dalla tradizione vaiṣṇava un Avatāra di Śiva stesso, venuto per ristabilire l'ortodossia vedica contro il Buddhismo.

Śaṅkara fu il principale esponente e sistematizzatore della scuola Vedānta non-dualistica radicale (Advaita Vedānta), che sostiene l'identità assoluta e non qualificata tra l'Ātman individuale e il Brahman universale, e considera il mondo fenomenico e la molteplicità come māyā (illusione o apparenza). Nella sua interpretazione, la liberazione (mokṣa) consiste nel riconoscimento intellettuale diretto (jñāna) di questa identità già esistente, dissolvendo l'ignoranza (avidyā) che crea l'illusione della separazione.

La tensione teistica: interpretazioni alternative

Tuttavia, l'intensa dimensione devozionale (Bhakti) e la ricca teologia teistica del testo della Gītā, con la sua enfasi su Krishna come Dio personale supremo (Bhagavān), su cui riversare amore e devozione, si concilia difficilmente con il non-dualismo radicale e impersonalista di Śaṅkara. Come può esistere devozione autentica se il devoto e l'oggetto della devozione sono ultimamente identici e il dualismo è illusorio? Come può Dio manifestarsi come avatāra se la realtà ultima è priva di attributi (nirguṇa)?

Questa tensione ermeneutica ha portato altri grandi maestri del Vedānta a sviluppare interpretazioni alternative e commentari sistematici che cercassero di preservare più fedelmente la dimensione teistica e devozionale del testo. Rāmānuja (1017-1137 d.C.), fondatore del Viśiṣṭādvaita Vedānta (Vedānta non-dualistico qualificato), e Madhva (1238-1317 d.C.), fondatore del Dvaita Vedānta (Vedānta dualistico), svilupparono interpretazioni che mantenevano una distinzione ontologica reale e permanente tra l'anima individuale (jīvātman) e Dio supremo (Paramātman), pur affermando una relazione intima di dipendenza.

Per Rāmānuja, Brahman è qualificato dagli attributi e dalle anime individuali, che sono reali anche dopo la liberazione, permettendo una relazione eterna di amore. Per Madhva, la distinzione tra anime, mondo e Dio è assoluta ed eterna. Entrambi ritenevano teologicamente e concettualmente più appropriato sposare il teismo devozionale con una metafisica che riconoscesse la realtà della pluralità, piuttosto che interpretare allegoricamente i passaggi devozionali come faceva Śaṅkara.

L'autorità del commento di Śaṅkara

Nonostante queste alternative interpretative di grande valore filosofico e teologico, il commento di Śaṅkara è rimasto storicamente il più autorevole e influente, ed è il suo lavoro esegetico che ha effettivamente "congelato" il testo nella forma manoscritta e nella struttura che conosciamo oggi. La sua autorità era tale che tutti i commentatori successivi dovevano necessariamente confrontarsi con la sua interpretazione, anche se per confutarla. Śaṅkara aveva organizzato monasteri (maṭha) in tutta l'India e creato una tradizione interpretativa vivente che assicurò la trasmissione del suo approccio.

L'influenza moderna: Gandhi e il rinascimento della Gītā

In epoca moderna, la Gītā ha vissuto un autentico rinascimento, diventando simbolo dell'identità spirituale indiana. Figure come Swami Vivekananda (1863-1902), Sri Aurobindo (1872-1950) e soprattutto Mahatma Gandhi (1869-1948) hanno riscoperto e reinterpretato la Gītā in chiave universalistica e come fonte di ispirazione per l'azione sociale e politica.

Gandhi, in particolare, vedeva nella Gītā non un testo che giustificava la violenza bellica letterale, ma un'allegoria della lotta interiore, e trovava nel Niṣkāma Karma il fondamento filosofico del suo Satyāgraha (aderenza alla verità) e della non-violenza attiva (ahiṃsā). Per Gandhi, agire senza attaccamento ai risultati significava lottare per la giustizia con massima determinazione ma senza odio e senza attaccamento alla vittoria personale. La sua interpretazione, pur controversa filologicamente, ha mostrato la vitalità ermeneutica del testo e la sua capacità di parlare alle sfide contemporanee.

Il messaggio eterno: agire nel mondo, trascendere il mondo

La battaglia di Kurukṣetra come teatro universale dell'esistenza

In conclusione, la Bhagavad Gītā offre una sintesi vertiginosa e profondamente stratificata della spiritualità indiana, incastonando magistralmente l'etica guerriera del Dharma nell'alta filosofia della liberazione metafisica. Krishna insegna che l'essere umano, pur dovendo impegnarsi totalmente e completamente nell'azione mondana, con eccellenza e responsabilità, deve simultaneamente farlo mantenendo una "zona" di distacco interiore, di non-identificazione, come uno spettatore consapevole (il "kṣetra-jña", il conoscitore del campo) che osserva il "campo" (kṣetra) – il corpo con i suoi bisogni, le passioni con le loro tempeste, il campo di battaglia della vita con i suoi drammi – senza esserne travolto o posseduto.

La battaglia di Kurukṣetra, dunque, non è solamente una guerra storica o mitica fra parenti rivali per la conquista di un trono terreno, ma è un'immensa e potentissima metafora del grande teatro della vita umana. È il simbolo del dramma cosmico ed esistenziale in cui ogni essere umano si trova inevitabilmente inserito. In questo teatro, l'essere umano è simultaneamente attore e testimone: è chiamato a vivere pienamente nel mondo, ad agire con coraggio e determinazione secondo il proprio dharma, ma allo stesso tempo è invitato a trascendere l'attaccamento egoico, a superare l'identificazione con i ruoli transitori e le maschere temporanee, per realizzare l'unità ultima con il divino e conseguire la liberazione definitiva (mokṣa) dal ciclo doloroso delle rinascite.

Il paradosso della vita spirituale

Questo è il paradosso luminoso al cuore della Gītā: non si raggiunge la trascendenza fuggendo il mondo, ma abitandolo pienamente con la giusta attitudine. Non si consegue la pace interiore evitando l'azione, ma agendo senza egoismo. Non si realizza l'unità con Dio allontanandosi dalle creature, ma vedendo Dio in ogni creatura. La liberazione non richiede l'abbandono delle responsabilità mondane, ma la loro santificazione attraverso il distacco e la dedizione.

Il messaggio della Gītā è quindi rivoluzionario nella sua sintesi: invita a una spiritualità incarnata, non disincarnata; a un'azione contemplativa, non frenetica; a un impegno distaccato, non indifferente. Propone una via mediana che evita sia il materialismo edonistico sia l'ascetismo mortificante, offrendo invece una strada regale (rāja-mārga) accessibile a ogni essere umano, indipendentemente dalla sua condizione sociale, dal suo genere o dalle sue capacità intellettuali.

Rilevanza contemporanea

In un'epoca moderna caratterizzata da iperattività compulsiva, ansia da prestazione, attaccamento ossessivo ai risultati e crisi di significato esistenziale, il messaggio della Gītā risulta straordinariamente attuale e terapeutico. Insegna a impegnarsi completamente nelle proprie responsabilità professionali, familiari e sociali, ma senza permettere che il successo o il fallimento definiscano la propria identità o distruggano la propria pace interiore. Invita a lavorare con eccellenza ma senza identificarsi con le proprie prestazioni. Propone un'etica della responsabilità unita a una spiritualità della libertà interiore.

La Gītā ricorda che ciascuno di noi combatte quotidianamente la propria battaglia di Kurukṣetra: nel luogo di lavoro, nelle relazioni familiari, nelle scelte morali, nei conflitti interiori tra dovere e desiderio, tra aspirazioni spirituali e necessità materiali. E in ogni momento, Krishna – che simboleggia la coscienza divina, la voce interiore della saggezza – è disponibile come auriga, come guida, se solo sappiamo rivolgerci a lui con sincerità e apertura.


Metafora conclusiva: l'orchestra sinfonica della vita

Immaginate un'orchestra sinfonica: l'obiettivo supremo non è che ogni musicista smetta di suonare o rimanga in silenzio, ma che ogni strumento – il violino, l'oboe, il timpano, ciascuno rappresentando il Karma, l'azione dovuta secondo la propria natura e posizione – si impegni al massimo delle sue potenzialità, suoni la sua parte con eccellenza tecnica ed espressiva, non per ottenere successo personale, riconoscimento individuale o maggiore compenso (i frutti dell'azione), ma per contribuire alla bellezza e all'armonia dell'opera sinfonica nella sua interezza, per servire la musica stessa (che rappresenta il servizio a Dio e al Dharma universale).

La Bhakti è il direttore d'orchestra che coordina ogni strumento con amore, ispirazione e visione unitaria, trasformando suoni potenzialmente caotici in sublime armonia. La Samatva (l'equanimità) è il perfetto equilibrio dinamico del suono complessivo, che rimane centrato e armonioso sia che il pubblico applauda entusiasticamente o critichi severamente, sia nella sezione fortissimo che in quella pianissimo. La Jñāna (la conoscenza) è la comprensione profonda della partitura musicale, della struttura compositiva, del significato dell'opera.

Solo quando ogni musicista suona così – con impegno totale ma senza attaccamento egoistico, con eccellenza tecnica ma in ascolto degli altri, contribuendo al tutto piuttosto che affermando sé stesso – l'orchestra (che simboleggia la vita umana individuale e collettiva) può raggiungere quella perfezione sonora che è simultaneamente bellezza artistica e liberazione spirituale, creazione culturale e realizzazione metafisica.

Questo è l'insegnamento eterno della Bhagavad Gītā: suonare la propria parte nell'orchestra cosmica con maestria, passione e dedizione, ma sempre al servizio di un'armonia che ci trascende e, proprio in questo trascendimento, ci completa e ci libera.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Un Dio che dà fiducia

Lettura

Luca 19,11-28

11 Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro. 12 Disse dunque: «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14 Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. 19 Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città. 20 Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21 avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23 perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi. 24 Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci 25 Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! 26 Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 27 E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me». 28 Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.

Commento

Gesù sta per intraprendere la lunga salita che da Gerico lo condurrà a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua. Le aspettative dei suoi discepoli sono grandi. Pensano infatti che il suo regno debba manifestarsi "da un momento all'altro" (v. 11). Non immaginano il sacrificio che sta per compiersi. 

Ma Gesù narra una parabola che per immagini ci svela quanto sta per affidare a ogni suo discepolo. Un uomo nobile parte per "un paese lontano" (v. 12) per essere fatto re. Gesù sta per morire e ascenderà al Padre dopo la sua risurrezione. Il suo regno non si manifesterà immediatamente, ma vi sarà un "tempo di mezzo", qui rappresentato dall'affidamento di dieci mine (una moneta dell'antica grecia), da parte del nobile uomo a dieci suoi servitori, una per ciascuno. In questo tempo si manifesterà la ribellione di molti, nel rifiuto di essere governati dal nuovo re. 

Gesù prende spunto probabilmente da un fatto storico: dopo la morte di Erode il Grande il figlio Archelao si recò a Roma per ricevere il titolo di re. Ma una ambasciata di giudei si presentò a Cesare Augusto per opporsi alla richiesta. Divenne comunque governatore della Gudea, per quanto non gli fu conferito il titolo di re. 

Il protagonista della parabola ottiene il titolo di re e al suo ritorno chiede conto ai suoi servitori di come hanno impiegato le mine affidate. Viene portato l'esempio di tre diversi tipi di condotta. Un primo servo ha ricavato dalla sua mina altre dieci mine; il secondo altre cinque; mentre il terzo, anziché fare fruttare la mina affidatagli l'ha nascosta in un fazzoletto, rendendola improduttiva. 

La ricompensa per i servi operosi è incomparabile con quanto loro affidato: una mina corrispondeva a circa tre mesi di lavoro e per ciascuna mina fatta fruttare il re affida ai suoi servi una intera città. Il terzo servo considera il suo padrone come una sorta di avido tiranno e sarà proprio questa sua idea distorta a condannarlo. 

Il padrone è certo severo ma ha affidato a ogni servo la stessa somma di denaro. Cristo non fa differenze nel dare fiducia. Spetta a noi agire con gratitudine e responsabilmente, non restando oziosi in attesa del suo ritorno, né lasciandoci paralizzare dalla paura del suo giudizio. La fedeltà al Signore ci renderà operosi nell'annunciare il suo vangelo e nel moltiplicare la sua stessa grazia.

Preghiera

Signore, concedici di accogliere responsabilmente la fiducia che ci hai accordato, agendo come buoni amministratori della tua grazia, nell'attesa del tuo ritorno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 17 novembre 2025

Ugo di Lincoln. Certosino e maestro di carità

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Ugo di Lincoln spentosi il 16 novembre del 1200 all'età di sessant'anni

Nativo dei dintorni di Grenoble Ugo era stato educato presso i canonici agostiniani di Villarbenoît, dove aveva emesso i voti religiosi. Desideroso di una vita più ritirata, a 25 anni egli ottenne di entrare nella Grande Chartreuse, dalla quale sarà presto inviato a presiedere la Certosa inglese di Witham, che versava in cattive condizioni. Eletto nel 1186 vescovo di Lincoln, allora la più grande diocesi inglese, Ugo accettò unicamente per obbedienza al suo priore, e si dedicò con tutto se stesso all'incarico pastorale ricevuto. Egli fece rifiorire a Lincoln la locale scuola teologica, e sovrintendette al restauro della cattedrale partecipando talvolta di persona ai lavori più pesanti. Uomo di grande compassione ed equilibrio, Ugo fu spesso chiamato a giudicare le cause più difficili. Per amore della giustizia non esitò a contrapporsi con franchezza ai re e ai confratelli nell'episcopato, senza mai serbare rancore o inimicizia verso nessuno. Si racconta che giunse a rischiare la propria incolumità personale per salvare dalla morte alcuni ebrei, ingiustamente accusati a seguito di un tumulto popolare. Ugo intervenne personalmente per curare i lebbrosi, e si batté perché anche i più poveri potessero avere una sepoltura dignitosa. Egli nutriva inoltre un profondo amore per la natura, ed è spesso raffigurato in compagnia del suo cigno addomesticato, che visse con lui nell'episcopio di Lincoln. Alla sua morte era conosciuto in tutta l'Inghilterra, e da nessuno era posta in discussione la sua santità.

Tracce di lettura

Con l'aiuto di molti uomini di valore che si scelse quali suoi consiglieri, il nuovo vescovo di Lincoln trasformò immediatamente la sua diocesi. Egli predicava la parola di Dio con vigore, obbedendo premurosamente ai comandi contenuti in essa e seguendo un celebre adagio della Scrittura: «Dov'è lo Spirito del Signore, là c'è libertà». Egli riprendeva con fermezza i peccatori, senza curarsi dell'importanza delle persone a cui si rivolgeva.
È poi impossibile ricordare adeguatamente la sua grande compassione e tenerezza verso gli ammalati, specie verso quanti soffrivano di lebbra. Egli li accudiva di persona, lavandone e asciugandone i piedi e baciandoli con affetto. E dopo averli ristorati, li colmava di doni, senza badare alla misura. In alcune residenze episcopali aveva fatto costruire ospedali, nei quali trovavano ricovero uomini e donne afflitti da simili mali.
Quando visitava i lebbrosi, era solito sedersi in mezzo a loro in una piccola stanza per confortare le loro anime con le sue parole delicate, e così alleviava le loro sofferenze con la sua tenerezza materna.
(Adamo di Eynsham, Vita di sant'Ugo di Lincoln)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Il Signore passa

Lettura

Luca 18,35-43

35 Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. 36 Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 37 Gli risposero: «Passa Gesù il Nazareno!». 38 Allora incominciò a gridare: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». 39 Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 40 Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: 41 «Che vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io riabbia la vista». 42 E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». 43 Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio.

Commento

La guarigione del cieco segue immediatamente il terzo annuncio della passione da parte di Gesù  e forse è posta in relazione simbolica con l'incapacità dei discepoli di comprendere il suo destino terreno fino al momento della risurrezione, quando saranno in grado di vedere ciò che prima non vedevano. 

La menomazione fisica del cieco lo costringe a una vita di stenti e a mendicare lungo la strada, proprio come la cecità spirituale tiene lontano l'uomo dalle ricchezze del regno di Dio.

Ma lungo la strada in cui giace il cieco si trova a passare Gesù. Impossibilitato a vedere, l'uomo fa propri gli occhi della folla e l'annuncio dell'arrivo di Gesù gli giunge attraverso l'udito. Proclama così con la lingua la sua professione di fede: "Figlio di Davide!". Egli riconosce in Gesù il Messia promesso e a nulla valgono i tentativi di dissuasione per farlo tacere, da parte di "quelli che camminavano avanti" (v. 39). 

Gesù stesso lo chiama a sé. Così da "ultimo" diviene primo, destinatario della misericordia del Signore. La sua guarigione lo trasforma in testimone e annunciatore della gloria di Dio, e egli inizia a seguire Gesù.

Tutti noi abbiamo delle debolezze, difettiamo di qualcosa, ma vi è in noi anche la capacità di arrivare a Cristo "per altre strade", oltrepassando gli ostacoli con uno slancio di fede. Egli non solo si lascia raggiungere, ma ci raggiunge in prima persona, ascoltando il grido della nostra preghiera. Il Signore passa. Siamo in grado di riconoscerlo?

Preghiera

Concedici di trovarti, Signore, oltre il buio della nostra umana fragilità. La luce della tua risurrezione ci guidi alla piena comprensione del tuo mistero di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 16 novembre 2025

Il perdono come frutto di giustizia

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTITREESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Signore, ti supplichiamo di mantenere la tua casa, la Chiesa, nella tua bontà; affinché mediante la tua protezione possa essere libera da ogni avversità e servirti con devozione in ogni buona opera, per la gloria del tuo Nome. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Fil 1,3-11; Mt 18,21-35

Commento

Vi è un profondo legame tra i "frutti di giustizia" (Fil 1,11) con cui si chiude l'odierna pericope paolina dalla lettera ai Filippesi e la natura del perdono cristiano.

La giustizia, ovvero la nostra giustificazione e santificazione, ma anche la nostra capacità di agire con rettitudine, matura da un cuore che ha saputo aprirsi al dono della misericordia di Dio, che ci condona ogni colpa. I frutti di giustizia, infatti, "si hanno per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria e lode di Dio" (Fil 1,11), dipendono, cioè non dai nostri sforzi, ma dalla misura in cui aderiamo a Cristo, nella comunione che si realizza attraverso la fede. E a loro volta, questi frutti, hanno il fine di manifestare la gloria di Dio, cioè la sua bontà, e di suscitare nell'uomo quella lode che scaturisce dalla gratitudine.

Ciò non viene compreso dal protagonista della parabola del creditore spietato. L'occasione di questo racconto è suscitata da una domanda posta da Pietro a Gesù. Pietro aveva compreso che il Signore era molto esigente in materia di perdono e, infatti, gli chiede se si debba perdonare sette volte, andando ben oltre le tre volte menzionate dal Talmud, il grande testo di esegesi delle Scritture ebraiche. Gesù si mostra ancora più esigente del previsto, affermando che occorre perdonare il nostro nemico fino a settanta volte sette (quattrocentonovanta volte); ovvero un numero di volte pressoché illimitato.

L'immagine del re che vuole fare i conti è di tipo escatologico, richiama cioè il giudizio alla fine dei tempi e quello individuale alla fine della vita. È un rendiconto cui nessuno può sottrarsi.

Il debito del servitore - forse un ministro di stato - è enorme: diecimila talenti. Di fronte a una insolvenza di questa grandezza poteva essere venduto lui con tutti i suoi beni e tutta la sua famiglia. L'enormità del debito da saldare rende temeraria la promessa del servitore di restituire tutto il dovuto (Mt 18,26). Ma oltre ogni aspettativa, il suo padrone gli offre un condono completo.

Nella scena immediatamente successiva, il debitore incontra uno dei suoi creditori, ma ha già rimosso il ricordo dell'azione di misericordia di cui è stato destinatario, non è riuscito a coglierne il senso profondo. Si mostra privo di compassione con il suo creditore, facendolo gettare in prigione. Che il creditore spietato non avesse mai sentito né pentimento profondo né gratitudine vera è anche posto in evidenza dalla somma esigua del debito che gli deve il suo creditore: appena cento denari.

È evidente che la sola paura della punizione non può suscitare vera conversione. Il debitore perdonato non perdona perché passato il momento in cui l'anima sua è scossa dal terrore del giudizio, sospeso il castigo, il suo timore svanisce rapidamente. Probabilmente egli avrebbe tremato se avesse potuto udire le preghiere dei conservi che giungevano alle orecchie del suo padrone, a favore del perseguitato. Ma a quel punto è troppo tardi: "il suo signore lo chiamò a sé". 

Il creditore incapace di rimettere i debiti viene dunque consegnato agli aguzzini, letteralmente "tormentatori". Sia nell'antica Roma che nell'Oriente antico era prassi comune torturare i debitori affinché rivelassero dove avevano nascosto i propri beni o per muovere a pietà parenti e amici, affinché questi pagassero al posto loro. 

La parabola del debitore spietato insegna che il condono dei nostri grandi debiti da parte di Dio deve suscitare il perdono dei piccoli debiti che gli uomini hanno nei nostri confronti. Quando ci poniamo sotto la potenza dell'amore di Cristo che ci perdona, siamo spinti a perdonarci gli uni gli altri.

Preghiamo anche noi, come Paolo, "perché il nostro amore abbondi sempre più in conoscenza e discernimento" (Fil 1,9), soprattutto nella conoscenza della misericordia di Dio, e affinché possiamo "essere puri e senza macchia per il giorno di Cristo" (Fil 1,10). Puri di quella purezza e di quella santità che egli stesso ci comunica.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 14 novembre 2025

Gregorio Palamas e la preghiera incessante del Nome di Gesù

Nel 1359 muore nella sua sede episcopale di Tessalonica Gregorio Palamas (1296-1359), monaco e pastore tra i più amati nel mondo bizantino. Di famiglia costantinopolitana, Gregorio era stato coinvolto nel movimento di rinascita esicasta, che aveva fatto del monte Athos un grande polo di attrazione in un'epoca di forte declino dell'impero bizantino. Uomo molto colto, formatosi nelle migliori scuole della capitale, egli unì nella sua esperienza monastica una profondissima vita interiore, animata dalla pratica della preghiera di Gesù, a una notevole verve da polemista. Quando infatti Barlaam il Calabro accusò di eresia tutti quei monaci che fondavano la loro vita spirituale sulla ripetizione del Nome del Signore, Gregorio si gettò in prima persona nella difesa dei «santi esicasti», dando vita a una teologia al tempo stesso fedele alla tradizione patristica e tuttavia profondamente originale. Importante fu la sua distinzione fra l'essenza e le energie di Dio, che ebbe il merito di rendere ragione sia della radicale alterità di Dio rispetto all'uomo, sia del suo libero donarsi a coloro che vivono nella preghiera un'autentica esperienza spirituale. Coinvolto nelle controversie del tempo, Gregorio conobbe la scomunica e la prigionia inflittegli dal patriarca di Costantinopoli Giovanni Caleca, ma dal successore di quest'ultimo, Isidoro, fu poi riammesso alla comunione ecclesiale, fino a diventare arcivescovo di Tessalonica.
Cantore di un Dio che è «fuoco d'amore divorante», Palamas ha lasciato ai posteri una delle più alte e complete dottrine sulla divinizzazione dell'uomo, vero fine dell'economia divina secondo la tradizione orientale.

Tracce di lettura

Il Figlio di Dio, nel suo incomparabile amore per gli uomini, non si è limitato a unire la sua divina Ipostasi alla nostra natura, ricoprendosi di un corpo animato e di un'anima dotata d'intelligenza, per apparire sulla terra e vivere con gli uomini; ma poiché si unì - miracolo incomparabilmente sovrabbondante - alle ipostasi umane stesse, confondendosi con ogni fedele per la comunione al suo santo corpo - egli infatti diventa un sol corpo con noi e fa di noi un tempio della Divinità tutta, visto che nel corpo stesso di Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità -, come non illuminerebbe egli coloro che comunicano degnamente al raggio divino del suo Corpo che è in noi, portando luce nella loro anima, come egli illumina gli stessi corpi dei discepoli sul Tabor? Allora questo corpo, fonte della luce della grazia, non era ancora unito ai nostri corpi; esso illuminava dal di fuori coloro che gli si accostavano e inviava l'illuminazione all'anima con la mediazione degli occhi sensibili; ma oggi, poiché è mescolato con noi ed esiste in noi, egli illumina l'anima proprio dal di dentro.
(Gregorio Palamas, Triadi  I,3,38)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Non importa dove. Non importa quando

Lettura

Luca 17,26-37

26 Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell'uomo: 27 mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. 28 Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29 ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. 30 Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si rivelerà. 31 In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32 Ricordatevi della moglie di Lot. 33 Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà. 34 Vi dico: in quella notte due si troveranno in un letto: l'uno verrà preso e l'altro lasciato; 35 due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l'una verrà presa e l'altra lasciata». [36 Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l'altro lasciato.]  37 Allora i discepoli gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi».

Commento

Diversamente da Matteo e Marco che riferiscono questi detti in riferimento alla distruzione di Gerusalemme, Luca li adatta ai suoi lettori, prevalentemente pagani, sottolineando la necessità del distacco dai beni terreni in vista della salvezza eterna.

Niente di ciò che Gesù cita riguardo ai giorni di Noè e di Lot è intrinsecamente peccaminoso. Ma le persone risultano così assorbite dalle cose di questo mondo che sono trovate totalmente impreparate quando viene il momento del giudizio.

L'attaccamento della moglie di Lot a Sodoma è così grande che viene travolta dal giudizio di Dio, proprio quando è a un passo dalla salvezza.

Gesù non indica una scadenza temporale né un luogo in cui avverrà il giudizio. Ma esorta a tenersi sempre pronti, facendo della propria vita un dono. Questo il significato del verbo greco zoogoneo, che indica il "conservare in vita" (v. 33), "far vivere"; una vita che non solo si fruisce e detiene per sé ma che può essere donata agli altri; il detto di Gesù va dunque interpretato nell'ottica di sacrificare la propria vita se la si vuole conservare. 

Una prospettiva esistenziale del tutto diversa da quella di chi si preoccupa solo dei propri affari. Questo è il tratto distintivo del cristiano. Quel "marchio" che consentirà all'occhio di Dio di distinguere chiaramente i suo figli, chiamati alla vita eterna. Non importa dove. Non importa quando. Con Paolo possiamo esclamare: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (2 Cor 6,2).

Preghiera

Il tuo ritorno, Signore, ci trovi all'opera nella tua vigna. Insegnaci a comprendere le giuste priorità della nostra vita e a fare di essa un dono per la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 13 novembre 2025

Giovanni Crisostomo, predicatore ardente e coraggioso

Nel 407 muore in esilio Giovanni Crisostomo, padre della chiesa e pastore. Giovanni nacque ad Antiochia attorno al 347. Ricevuto il battesimo in età adulta, entrò presto a far parte del clero antiocheno come lettore. Intrapresa la vita cenobitica, dopo soli quattro anni egli abbandonò il monastero per praticare una vita più appartata. Ma la sua salute non gli permise di perseverare in tale proposito; egli accettò dunque l'invito del vescovo che lo richiamava in città per farne un suo stretto collaboratore. Per dodici anni, allora, Giovanni, soprannominato per la sua eloquenza Crisostomo cioè «bocca d'oro», predicò a tempo e fuori tempo; nelle sue omelie egli denunciò gli abusi e le colpe del clero, e assunse la difesa dei poveri condannando le ingiustizie sociali. Nel 397 fu eletto patriarca di Costantinopoli, e si preoccupò subito di rinvigorire la vita spirituale della diocesi, riformando il clero e le comunità monastiche. Al tempo stesso istituì ospedali e si adoperò per alleviare i disagi delle fasce più povere della popolazione. Poiché non risparmiava nella sua ardente predicazione né i ricchi né i potenti, Giovanni fu deposto dalla carica episcopale ed esiliato. Richiamato dopo breve tempo, poté riprendere la sua attività pastorale, ma soltanto per due mesi. Arrestato mentre celebrava la Pasqua a Costantinopoli, fu nuovamente esiliato.
Stremato ormai dalle faticose tappe del suo esilio, Crisostomo morì il 14 settembre del 407, lontano dal gregge che aveva tanto amato.

Tracce di lettura

Che cosa fanno i prìncipi e i re della terra con tutti i loro tesori? Costruiscono superbi palazzi, mura difensive per le città, piazzeforti, usano anche catenacci, solide porte, guardie per proteggere i loro tesori. Gesù Cristo agisce in modo opposto. Il tesoro che egli affida è semplicemente racchiuso in un vaso di argilla, come dice san Paolo. Ma se questo tesoro è prezioso, perché il vaso che lo contiene ha la fragilità dell'argilla? È di proposito, affinché il tesoro, lungi dal dovere la sua preservazione al vaso, lo preservi lui da ogni rottura.
(Giovanni Crisostomo, Omelie)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Tempera all’uovo su tavola (particolare dell’icona dei Pastori d’oriente e d’occidente, cm 40x40)
Giovanni Crisostomo (ca 347-407)

Fermati 1 minuto. Attraverso le buie strade della storia

Lettura

Luca 17,20-25

20 Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: 21 «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». 22 Disse ancora ai discepoli: «Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell'uomo, ma non lo vedrete. 23 Vi diranno: Eccolo là, o: eccolo qua; non andateci, non seguiteli. 24 Perché come il lampo, guizzando, brilla da un capo all'altro del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno. 25 Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione.

Commento

I farisei credono che il trionfo del Messia sarà immediato. Essi lo attendono come colui che capolvolgerà l'impero dei dominatori romani, per stabilire il suo regno millenario. Anche i primi cristiani attendevano il ritorno di Cristo e rimasero turbati dal suo ritardo, mentre infuriavano le persecuzioni da parte dei romani e dei giudei. 

Ma il programma di Cristo è completamente differente. Egli inaugura un'era in cui Dio governerà sui cuori mediante la fede. Tale regno non sarà confinato a una particolare area geografica, né visibile direttamente agli occhi umani. Verrà silenziosamente, invisibilmente, attraverso le strade buie e tormentate della storia, senza la grandiosità associata all'instaurazione di un re terreno.

«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), afferma Gesù. Il suo potere è sulle coscienze e  provoca una rivoluzione nei cuori, prima ancora che nella società civile.

Il regno di Dio è dentro e tra di noi. Non dobbiamo guardare a tempi lontani o luoghi remoti: è adesso, in mezzo a noi; è un regno spirituale, un principio interiore. 

Il regno di Dio si manifesta nella totale resa dell'uomo alla volontà del Padre, con la "nuda fede" nella sua azione salvifica, che squarcia con la sua luce le tenebre del peccato. A volte anche noi possiamo essere scoraggiati perché non vediamo segni di progresso "eclatanti" nella nostra vita spirituale. Ma nella croce di Cristo, che egli richiama in questo discorso, sappiamo che egli ha lavato i nostri peccati nel suo sangue e ha vinto per sempre il principe di questo mondo. 

Possiamo a ragione innalzare un inno di lode: "hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra»" (Ap 5,9-10).

Preghiera

Signore, noi ti offriamo i nostri cuori affinché tu possa renderci partecipi della crescita silenziosa del tuo regno in mezzo a noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 11 novembre 2025

Martino di Tours. "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo"

La Chiesa cattolica d'occidente, gli anglicani, i luterani, e diverse chiese orientali celebrano oggi la memoria di Martino di Tours, monaco e pastore.

Martino nacque nel 317 in Pannonia, l'odierna Ungheria, ed era figlio di un soldato romano. Tutto ciò che si conosce di lui è dovuto al suo biografo, Sulpicio Severo, che lo fece amare in tutto l'Occidente. Costretto dal padre ad arruolarsi nell'esercito imperiale, nei venticinque anni di servizio prestato all'imperatore, Martino ebbe modo di incontrare e di accogliere la fede cristiana. La leggenda vuole che la svolta decisiva della sua vita avvenisse alle porte di Amiens, quando il giovane soldato, ancora catecumeno, donò a un povero la metà del proprio mantello, dopo averlo tagliato in due con la spada. La notte successiva, Martino vide in sogno che il Cristo stesso era rivestito del mantello che egli aveva offerto a quel mendicante. Lasciato l'esercito, Martino si diede alla vita monastica, fondando a Ligugé, assieme a Ilario, il primo monastero della Gallia. Eletto vescovo di Tours, egli restò fedele alla sua vocazione monastica, e fondò a Marmoutiers un cenobio che rimase fino alla fine la sua dimora. Per questo suo genere di vita, fondato sulla comunione fraterna, la condivisione dei beni, la preghiera comune e la predicazione, Sulpicio lo definì «Uomo veramente simile agli apostoli». Martino si prodigò fino all'ultimo dei suoi giorni per annunciare il vangelo nelle campagne, creando le prime parrocchie rurali. Morì a Candes, nei pressi di Tours, l'8 novembre del 397, e fu il primo santo che non aveva subito il martirio a essere ricordato nella chiesa indivisa.

Tracce di lettura

Un giorno il diavolo, dopo essersi fatto precedere da una luce abbagliante, avvolto in essa per trarre più facilmente in inganno Martino grazie alla luminosità dello splendore che aveva assunto, vestito con abiti regali, coronato di un diadema di gemme e d'oro, con calzari ricamati in oro, il volto disteso e l'espressione lieta, si presentò a Martino che pregava nella sua cella. Non appena lo vide, Martino rimase di sasso: tutti e due osservarono a lungo un silenzio assoluto. Poi il diavolo per primo disse: «Riconosci, Martino, colui che vedi. Io sono il Cristo. In procinto di ritornare sulla terra, ho deciso di manifestarmi dapprima a te». Martino rispose: «Per quanto mi riguarda, io non crederò che Cristo sia venuto se non in quella veste e con quell'aspetto in cui subì la passione, se non porterà i segni della croce».
(Sulpicio Severo, Vita di Martino 24,4-7)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità Monastica di Bose

Tempera all’uovo su tavola (particolare dell’icona dei Pastori d’oriente e d’occidente
Martino di Tours (317-397)

Teodoro Studita. Dispensare la parola, giorno dopo giorno

Le Chiese ortodosse e Greco-cattoliche celebrano oggi la memoria di Teodoro Studita, Monaco.

In questo stesso giorno, nell'826, conclude la sua radiosa parabola terrena Teodoro Studita, confessore della fede e riformatore della vita monastica in Oriente. Nato nel 759 da una nobile famiglia della capitale bizantina, Teodoro entrò in un monastero dell'Asia Minore a 22 anni, assieme al padre e ai fratelli. Convinto testimone della fede apostolica, egli conobbe in vita esili e persecuzioni. In un tempo di lotte iconoclastiche difese infatti l'uso delle immagini nella liturgia, e contestò i comportamenti antievangelici degli imperatori, attirandosi ogni sorta di ostilità. Costretto dalle incursioni arabe a rientrare a Costantinopoli, Teodoro fu eletto igumeno del monastero di Studio. Mosso dal profondo desiderio di rinnovare la vita monastica in senso cenobitico, egli fece di Studio un centro monastico il cui irradiamento si estenderà nelle epoche successive. Il Typikón (la regola) di Studio ispirerà infatti numerosissimi ordinamenti comunitari dell'oriente bizantino. La testimonianza di fede di Teodoro è giunta a noi attraverso la collezione delle sue Catechesi, in cui ogni giorno l'igumeno di Studio spezzava il pane della Parola per i suoi fratelli, fortificandoli nella fede e invitandoli a una sequela radicale di Cristo. Il messaggio dei suoi scritti, profondamente umano e cristiano prima ancora che monastico ha nutrito spiritualmente intere generazioni di cristiani orientali.

Tracce di lettura

Fratelli, se anche noi desideriamo camminare sulle tracce dei santi, non limitiamoci ad osservare ciò che può giovare a noi stessi, ma preghiamo per il mondo intero, avendo compassione di quanti vivono una vita deviata, di coloro che si ostinano nell'eresia, di quanti sono trascinati alla perversione, di coloro che vivono nelle tenebre; in poche parole, per tutti gli uomini, secondo la raccomandazione dell'Apostolo, facciamo preghiere e suppliche. In questo modo, prima ancora di rendere servzio agli altri, gioveremo a noi stessi, poiché saremo penetrati e purificati dal dolore che sorge di fronte alla scoperta che anche in noi abitano le passioni malvagie; purificati e liberati dalla passione, ci sia concesso di ottenere la vita eterna in Cristo nostro Signore, al quale appartengono la gloria e la potenza con il Padre e lo Spirito santo, per tutti i secoli dei secoli.
(Teodoro Studita, Piccola catechesi 52)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità di Bose

Fermati 1 minuto. Dio non ha alcun debito

Lettura

Luca 17,7-10

7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

Commento

Il messaggio di questo brano evangelico è che nessuno deve avanzare pretese di sorta, perché il servizio reso a Dio è un dovere da assolvere per se stesso, non in vista di un premio finale, che comunque non mancherà. 

Per quanto bene possiamo fare, Dio non sarà mai nostro debitore, perché quel che egli ci dona è gratuito e infinitamente superiore al bene compiuto: "Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba" (Sal 48,8-10). 

Men che meno esistono opere "supererogatorie", meriti da noi ottenuti oltre ciò che ci era richiesto, meriti in eccesso da applicare a chi desideriamo. Gesù è chiaro: siamo servi inutili (v. 10). Tutto è grazia, che proviene dalle mani di Dio. 

Se Dio non ha alcun debito con noi egli si sente però in debito con il suo stesso onore nel mantenere la sua promessa di salvezza. Ci salviamo non perché noi siamo fedeli, ma perché Dio è fedele. E se le nostre buone opere non sono profittevoli davanti a Dio lo sono senz'altro davanti agli uomini, a coloro che attendono il nostro soccorso, il nostro conforto, la nostra compassione: "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).

Preghiera

Liberaci Signore, dall'amore mercenario e dalla presunzione di essere tuoi creditori. Insegnaci a rispondere con l'amore alla gratuità del tuo amore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 10 novembre 2025

Leone Magno. In piedi sulle rovine dell'impero

Il 10 novembre, i cattolici d'occidente, gli anglicani e i luterani celebrano la memoria di Leone Magno.

Nell'anno 461 muore a Roma papa Leone I, chiamato dai posteri «Magno» per l'ampio respiro della sua azione pastorale e dei suoi pronunciamenti teologici. Originario di Roma, o forse dell'Etruria, Leone visse in un periodo di gravi conflitti e di forti instabilità politiche in Oriente come in Occidente. Eletto diacono della chiesa di Roma, egli fu spesso chiamato a ricomporre contese e divisioni di ogni sorta, e la sua opera di pace gli valse l'elezione a papa nel 440 da parte del clero e del popolo della città. Predicatore sapiente ed esigente, Leone seppe intervenire nelle controversie teologiche cercando sempre vie di riconciliazione e riconducendo al vangelo le fazioni contrapposte. Fu coinvolto negli animati dibattiti cristologici del V secolo, seguiti alla condanna degli insegnamenti di Nestorio, e i suoi pronunciamenti, scritti sotto forma di lettera al patriarca di Costantinopoli Flaviano, divennero la base della fede proclamata dai padri riuniti in concilio a Calcedonia nel 451. In essi Leone parlò con semplicità e franchezza evangeliche dell'umiltà di Gesù, vero Dio fattosi vero uomo a motivo della sua compassione per le sue creature. Negli scritti di Leone Magno emerge un costante annuncio gioioso della salvezza cristiana attraverso la partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Nessun uomo, afferma Leone, deve sentirsi escluso dalla vocazione a entrare nella nuova umanità escatologica di cui Cristo è la primizia. Negli ultimi anni del suo pontificato egli difese Roma dagli Unni, trattando personalmente con il re Attila, e ottenne dai Vandali, entrati ormai nell'Urbe, che non incendiassero la città e non uccidessero i suoi abitanti.

Tracce di lettura

Ringraziamo, o amatissimi, Dio Padre mediante il suo Figlio nello Spirito santo, lui che, «per la grande carità con cui ci ha amati, ha avuto compassione di noi, e mentre eravamo morti a causa del peccato, ci ha fatti rinascere in Cristo», per essere in lui una nuova creatura e da lui nuovamente plasmati. «Spogliamoci perciò dell'uomo vecchio con le sue azioni», e una volta divenuti partecipi della nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne.
Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, divenuto partecipe della natura divina, non voler ricadere nell'antica abiezione con una vita indegna. Ricordati del tuo capo e di quale corpo tu sei membro. Rammentati che tu, strappato dal potere delle tenebre, sei stato inserito nella luce e nel regno di Dio. Mediante il sacramento del battesimo sei divenuto tempio dello Spirito santo: non cacciar via da te con azioni perverse un ospite tanto grande. (Leone Magno, Sermone I sul Natale del Signore 3,1-3)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Responsabili e pronti al perdono

Lettura

Luca 17,1-6

1 Disse ancora ai suoi discepoli: «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. 2 È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. 3 State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. 4 E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai». 5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.

Commento

La possibilità di recare scandalo, ovvero di turbare la fede degli altri credenti, è insita nella fragilità della nostra stessa fede. Prima ancora che aver paura di essere noi scadalizzati Gesù ci ammonisce di fare attenzione di non essere scandalo per gli altri: "State attenti a voi stessi!" (v. 3). Le nostre azioni, buone o malvagie, non riguardano semplicemente il nostro rapporto personale con Dio, ma hanno una ricaduta sulla comunità.

A questa ammonizione e al «guai» che la accompagna, Gesù fa seguire subito una raccomandazione sulla pronta disponibilità al perdono, che deve essere illimitata: questo il significato simbolico del numero sette. Gesù invita a rimproverare il fratello e la sorella che sbagliano (Mt 18,15-17), ma chiede di essere sempre pronti al perdono: «se ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai» (vv. 3-4). La correzione e il perdono sono collocati nel discorso della montagna nella prospettiva di un amore preveniente: «amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44).

L'alto standard richiesto da Gesù per i suoi discepoli li porta a chiedere un accrescimento della loro fede (v. 6). Il perdono, sebbene debba essere frutto di una gratuità istruita dalla stessa grazia di Dio, implica un nostro intimo anelito alla conversione. Gesù ci esorta a aver fede, perché solo la fede, per quanto piccola, può consentirci di superare le tendenze contrarie al vangelo radicate saldamente nel terreno della nostra coscienza.

Preghiera

Signore, accresci la nostra fede; affinché possiamo essere come piante rigogliose piantate presso corsi d'acqua, orientate verso la tua luce, nutrite dal tuo Spirito. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona