Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 12 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il sapiente operare di Dio

Lettura

Matteo 11,16-19

16 Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: 17 Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. 18 È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. 19 È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere».

Commento

Gesù riprende con derisione i farisei, accusandoli di comportarsi in maniera infantile, scontenti sia se invitati a gioire del suo ministero - quando si siede a tavola con i peccatori per riconciliarli a Dio - sia se chiamati a fare penitenza per i propri peccati - con riferimento all'invito alla conversione e alla penitenza di Giovanni Battista.

Ogni credente rischia di cadere in questo atteggiamento, quando lamenta un eccessivo lassismo da parte dei fratelli o, al contrario, quando giustifica le proprie infedeltà ritenendo il vangelo troppo esigente.

Certi credenti vorrebbero seguire Cristo soltanto alle nozze di Cana; altri coltivano una fede prigioniera del rigore legalistico, ma più comunemente l'atteggiamento diffuso è di indolenza, come quella di bambini annoiati seduti in una piazza. 

Gesù ci chiama a conciliare la gioia dell'annuncio di salvezza e la necessità di seguirlo prendendo la nostra croce. Questo significa partecipare in pienezza al mistero pasquale, alla morte e risurrezione di Cristo, accogliendolo nella sua interezza. 

Non siamo noi a dover giudicare le vie con cui Dio agisce sugli uomini per favorirne lo sviluppo spirituale, perché sebbene lo stesso Dio operi in tutti (1 Cor 12,6), alcuni sono chiamati da una voce che grida nel deserto, altri con parole di consolazione e di gioia. Come ammonisce l'Ecclesiaste c'è "un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare" (Eccl 3,4). Dio sa come trattare ciascuno di noi, talvolta parlando dal tuono sul monte Sinai e talaltra esortandoci dolcemente dal monte Sion.

Perghiera

Dio di giustizia e di misericordia, concedici di vivere sempre più in profondità il mistero battesimale, per sovrabbondare della tua grazia, nella predicazione del tuo vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 10 dicembre 2025

Le sei perfezioni nel buddhismo. Introduzione alle pāramitā

Le pāramitā, sei insegnamenti fondamentali, sono descritte nella vastità della cultura classica del buddhismo come percorsi di profonda trasformazione interiore. Queste pratiche rappresentano le sei grandi vie per il raggiungimento di quella che viene definita la "riva opposta" (pāramitā deriva infatti dal sanscrito pāram, "oltre", e itā, "andato"). La riva opposta simboleggia lo stato di satori o illuminazione, ovvero la condizione più elevata del nostro stato di coscienza, libera dalle catene dell'illusione e della sofferenza. In questo senso, le pāramitā sono viste come il motore che muove la pratica spirituale e conduce l'essere umano verso tale realizzazione, fungendo da ponte tra la condizione ordinaria di esistenza e il risveglio completo.

La struttura delle pāramitā

Le sei pāramitā vengono elencate e distillate in un sistema coerente che riassume i comportamenti, le azioni, i pensieri, l'energia, la meditazione (concentrazione) e la saggezza che scaturisce e promuove tutto questo. Ciascuna di esse rappresenta non solo una virtù da coltivare, ma una vera e propria perfezione (pāramitā significa letteralmente "perfezione" o "trascendenza") da incarnare nella propria esistenza.

1. Dana (generosità)

Rappresenta la generosità, la disponibilità, il dare amore e protezione senza aspettativa di ritorno. Dana è la perfezione del dare con il cuore, un atto che trascende la semplice elemosina materiale per abbracciare il dono del tempo, dell'ascolto, della presenza e persino del dharma (l'insegnamento spirituale). La generosità autentica nasce quando il donatore, il ricevente e il dono stesso si dissolvono in un unico atto privo di ego, dove non c'è più chi dà e chi riceve, ma solo il fluire naturale della compassione.

2. Śīla (virtù/moralità)

È la virtù o la moralità che governa le nostre azioni. Śīla è la perfezione dell'etica, che si manifesta in una vita vissuta in accordo con la nostra vera natura non egoica. Non si tratta di seguire rigidamente precetti esterni, ma di permettere che la nostra condotta spontanea rifletta la purezza innata della mente risvegliata. Quando l'ego si dissolve, l'azione giusta emerge naturalmente, senza sforzo né calcolo.

3. Kṣānti (pazienza)

Include la pazienza, la tolleranza, l'accettazione, la sopportazione e l'imperturbabilità di fronte alle avversità. La capacità di dimorare pienamente nel momento presente e l'accettazione profonda di ciò che accade sono considerati il substrato fondamentale, insieme agli altri, per accedere alle nostre qualità migliori. Questa pāramitā è talvolta definita anche la perfezione della presenza radiosa, poiché nella pazienza autentica risplende una forza interiore incrollabile. Kṣānti non è passività rassegnata, ma attiva accoglienza della realtà così com'è, senza resistenza mentale.

4. Vīrya (energia)

È l'energia instancabile, la diligenza gioiosa, il vigore e lo sforzo perseverante nella pratica. Vīrya rappresenta l'entusiasmo che non conosce scoraggiamento, la determinazione che ci sostiene nei momenti di difficoltà. È quella forza vitale che ci permette di continuare a praticare anche quando i frutti della pratica non sono immediatamente visibili, mantenendo viva la fiamma del risveglio.

5. Dhyāna (concentrazione)

È la concentrazione profonda, la contemplazione e lo zen. Dhyāna riassume gli stati meditativi della nostra mente e non può essere tradotta semplicemente come meditazione (zazen), poiché indica l'intera gamma di assorbimenti contemplativi che vanno dalla concentrazione focalizzata alla presenza aperta e non duale. È in dhyāna che la mente si stabilizza, si purifica e diventa capace di penetrare la vera natura della realtà.

6. Prajñā (saggezza)

È la saggezza trascendente, che non è soltanto la somma delle cinque pāramitā precedenti, ma è essa stessa una pratica fondamentale per il loro sviluppo e realizzazione. Prajñā è la visione penetrante della vacuità (śūnyatā), la comprensione diretta dell'interdipendenza di tutti i fenomeni e della natura illusoria dell'ego. Senza prajñā, le altre perfezioni rimangono incomplete; con prajñā, ogni azione diventa espressione della natura di Buddha.

Le pāramitā sono profondamente interconnesse: ognuna aiuta a produrre lo stato mentale successivo, e a sua volta sostiene e rafforza lo stato mentale che l'ha prodotta. Formano così un cerchio virtuoso di crescita spirituale, dove ogni perfezione si alimenta reciprocamente con le altre.

Cambiamento, impermanenza e natura umana

Il punto nodale di tutta la vita e della pratica spirituale è il cambiamento e la difficoltà che incontriamo nell'accoglierlo pienamente. Il paradosso della nostra esistenza è che viviamo nell'impermanenza continua (anitya), eppure resistiamo ostinatamente a riconoscerla. La legge universale dell'impermanenza fa sì che non vi sia una sola cellula del corpo che non stia continuamente lavorando e modificandosi, non un singolo pensiero che permanga identico, non un'emozione che non fluisca e si trasformi. L'unica cosa che resta apparentemente immobile è il pensiero cristallizzato della nostra mente riguardo a chi e cosa siamo, quella narrazione dell'io che costruiamo e difendiamo con ogni mezzo.

Il desiderio di non attuare cambiamenti, specialmente negli stati di coscienza, va contro la natura stessa dell'esistenza. L'impermanenza è una delle tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza (trilakṣaṇa) su cui il Buddha ha maggiormente insistito nei suoi insegnamenti ed è un concetto essenziale per comprendere la realtà. Non è una minaccia o una malattia da cui proteggersi con l'attaccamento, ma è l'unica via per l'evoluzione e la crescita dell'essere umano. Il cambiamento è, in realtà, la nostra natura più profonda e autentica. Praticare una via spirituale significa mettersi consapevolmente di fronte al proprio cambiamento, accoglierlo, danzare con esso anziché resistergli.

Le pāramitā, in questo contesto, possono servire come strumenti di comunicazione e trasformazione più profondi di mille parole, offrendo una bussola pratica per un cambiamento di rotta nell'essere umano e nella società. Incarnare le perfezioni significa allinearsi al flusso naturale dell'impermanenza, trasformando la resistenza in apertura e la paura in fiducia.

Pratica esterna e pratica interna

Le sei pāramitā possono essere suddivise in due gruppi principali, anche se tutte concorrono armoniosamente alla pratica completa e nessuna può essere veramente separata dalle altre.

Le prime tre perfezioni: la dimensione relazionale

Le prime tre perfezioni—generosità (dana), etica (śīla) e pazienza (kṣānti)—sono di aiuto al nostro cambiamento soprattutto nell'interrelazione con gli altri. Esse riguardano maggiormente la relazione con l'ego e con il mondo esterno, con il tessuto sociale in cui siamo immersi. Il loro scopo è superare i confini rigidi del nostro io e del nostro ego per aprirsi alla dimensione dell'interconnessione e della compassione universale. La messa in pratica di queste pāramitā può essere simultaneamente pratica verso gli altri e realizzazione del proprio sé autentico, poiché nell'atto di dare, di agire eticamente e di essere pazienti, dissolviamo progressivamente le barriere illusorie tra sé e altro.

Queste tre perfezioni ci insegnano che la liberazione personale non può essere separata dal benessere degli altri, che il nostro risveglio si manifesta necessariamente nella qualità delle nostre relazioni e azioni nel mondo.

Le seconde tre perfezioni: la dimensione interiore

Il secondo gruppo di perfezioni—energia (vīrya), concentrazione (dhyāna) e saggezza (prajñā)—riguarda più specificatamente la pratica interiore e il nostro stato di coscienza. Ad esempio, vīrya è definita la perfezione dell'entusiasmo gioioso al cambiamento. Questo non significa essere gioiosi della sofferenza in quanto tale, ma essere entusiasti del cambiamento stesso, cioè della possibilità di trasformare la sofferenza attraverso la pratica. Si tratta di uno sforzo gioioso e vigoroso che ci permette di trovare la strada per uscire dalla sofferenza (duḥkha), mantenendo viva la motivazione anche nei momenti più bui.

Dhyāna ci offre lo spazio interiore di quiete e chiarezza in cui possiamo osservare la mente senza identificarci con i suoi contenuti, mentre prajñā illumina la vera natura di ciò che osserviamo, rivelando la vacuità dell'ego e l'interdipendenza di tutti i fenomeni.

Per realizzare queste qualità, è cruciale unire l'ascolto della mente concettuale a quello del cuore (shin in giapponese), inteso come la mente consapevole e realizzata, la mente-cuore indivisa. L'ascolto che viene dal cuore permette agli stati illuminati e illuminanti della mente di manifestarsi liberamente, non più impediti dalla mente oscurata dall'ego e dalle sue proiezioni distorte. Quando mente e cuore si unificano nella pratica, le pāramitā cessano di essere concetti astratti e diventano la nostra esperienza vissuta.

Realizzare la propria natura migliore

La pratica spirituale ha l'obiettivo fondamentale di rendere l'invisibile visibile, di rimuovere i veli che oscurano la nostra vera natura e permettere alla nostra essenza migliore di riapparire e splendere. Adottare i cambiamenti che portano verso le pāramitā non è andare contro qualcosa di estraneo o imposto dall'esterno, ma al contrario, riprendere la via naturale del cambiamento verso la nostra reale essenza, quella natura di Buddha (buddhata) che è sempre stata presente, solo temporaneamente velata dall'ignoranza e dall'illusione.

Quando si è seduti nella pratica formale dello zazen, l'assorbimento totale nella postura, nel respiro e nella presenza fa sì che non si stia più praticando qualcosa di separato da noi, ma si sia completamente quello che si pratica. Il praticante e la pratica si unificano in un'esperienza non duale. In modo analogo, la saggezza (prajñā) trascina corpo e mente risvegliati alla loro migliore natura di esseri umani, e questo stato risvegliato produce a sua volta saggezza in un ciclo virtuoso e autoalimentante.

Vivere le pāramitā è una pratica per vivere al meglio la nostra vita in relazione con gli altri, aiutandoli e alleviando la loro sofferenza, anziché isolarsi in uno stato di benessere privato e solitario. Il bodhisattva, l'essere illuminato che ritarda la propria liberazione finale per aiutare tutti gli esseri senzienti, incarna perfettamente questo ideale. Il cambiamento nobile e lodevole, che è parte integrante della nostra natura più profonda, porta inevitabilmente a una nobiltà di vita e di coscienza, a una dignità che nasce dall'allineamento con ciò che siamo veramente.

Le pāramitā offrono quindi una dinamica naturale di trasformazione, capace di riflettere su sé stessa in modo autoriflessivo e di interpretare e trasformare la società, manifestando la propria natura di Buddha—che non è un'entità lontana e irraggiungibile, un ideale astratto riservato a pochi eletti, ma è la nostra naturale essenza, la nostra eredità spirituale comune. Questa natura risvegliata è sempre stata qui, semplicemente in attesa che rimuovessimo le nuvole che ne oscuravano la luminosità.

Nel praticare le sei perfezioni, non stiamo costruendo qualcosa di nuovo o acquisendo qualità che ci mancano, ma stiamo semplicemente ricordando e risvegliando ciò che abbiamo sempre posseduto. Le pāramitā sono il sentiero di ritorno a casa, alla nostra vera natura, e ogni passo su questo sentiero è già, in sé, un atto di risveglio.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Una gioiosa partecipazione all'opera divina

Lettura

Matteo 11,28-30

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Commento

Dopo aver proclamato la beatitudine degli umili, ai quali vengono rivelati il Cristo e il suo Regno, Gesù esorta gli affaticati e gli oppressi ad andare a lui. Costoro, paradossalmente, troveranno ristoro ponendo su di sé il giogo del Signore. Ma come è possibile essere liberati dall'oppressione sottomettendosi e vincolandosi?

Questa, purtroppo, è l'impressione che al giorno d'oggi molti hanno della fede: semplicemente una religione, ovvero un insieme di norme da rispettare, spesso con fatica. Il rischio di un cristianesimo legalista è di replicare l'oppressione generata dal modo di spiegare la legge degli scribi e dei farisei, dei quali Gesù afferma: «Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). 

Gesù invita all'obbedienza alla sua parola, che dà ristoro perché dona la salvezza, mediante la giustificazione e la santificazione. La vita del credente è più che una religione: è un'esperienza di comunione con Dio. E poiché  Dio è il creatore di tutto e colui che governa tutto, essere "sottomessi a lui" significa regnare con lui, in lui. 

La vera religione è lontana tanto dall'arbitrio individualistico quanto dalla sterile precettistica; è un'esperienza di liberazione e di gioiosa partecipazione all'opera divina.

Gesù ci libera da tutto ciò che ci appesantisce lungo la via della salvezza; anche da quei pesi inutili che spesso noi stessi ci siamo caricati sulle spalle. Come ai suoi apostoli egli ci dice: «Venite... riposatevi un po'» (Mc 6,31).

Preghiera

Guidaci, Signore, verso la libertà dei figli di Dio; affinché attraverso la mitezza e l'umiltà possiamo regnare con te e trovare ristoro. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 9 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. Il cuore umano di Dio

Lettura

Matteo 18,12-14

12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita? 13 E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico che egli si rallegra più per questa che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che neppure uno di questi piccoli perisca.

Commento

Con la parabola della pecora smarrita Gesù restituisce un'immagine di Dio che richiama la compassione su cui si fondava già l'antica alleanza con il popolo di Israele, tante volte infedele, eppure sempre cercato e riconciliato con sé. Questa apprensione di Dio, per la salvezza del suo popolo, e che si estende, come già annunciato dai profeti dell'epoca post-esilica, a tutte le nazioni, trova compimento in Cristo. Nel buon pastore la misericordia di Dio trova un cuore umano in cui pulsare e discende nelle valli, spesso oscure, in cui risiede l'umanità smarrita.

Dio si rallegra per la salvezza del suo gregge non solo in quanto moltitudine, ma di ogni singola sua pecora. L'immagine di questo animale non deve indurci a considerare il credente come una creatura passiva nelle mani di Dio. La possibilità di allontanarci da lui segna in maniera chiara la cifra della nostra libertà personale. Ma al contempo il nostro bene si realizza all'interno di una relazione con Dio, il quale chiama ciascuno di noi per nome (Gv 10,3), riconoscendo dunque la nostra unicità. È lui che ci guida su pascoli erbosi (Sal 22,2). È lui che ci fa riposare al sicuro (Sal 4,9). L'atteggiamento del buon pastore è per i credenti un modello della sollecitudine che questi devono mostrare verso ogni uomo alla ricerca della via che conduce alla salvezza.

Preghiera

Signore, tu ci chiami per nome. Apri le nostre orecchie alla tua voce, affinché possiamo rallegrarci con te della nostra salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 7 dicembre 2025

Le mie parole non passeranno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen

Signore santo, che hai ispirato tutte le Scritture affinché fossero scritte per la nostra edificazione; concedici di ascoltarle, leggerle, memorizzarle, apprenderle e interiorizzarle, affinché mediante il conforto e la pazienza donati dalla tua santa parola, possiamo abbracciare e mantenere la beata speranza della vita eterna, che ci hai donato nel nostro Salvatore Gesù Cristo. Amen.

Letture

Rm 15,4-13; Lc 21,25-33

Commento

La mèta ultima della storia è la lode unanime del Padre, in comunione con il Figlio, nello Spirito Santo. Il vangelo, annunciato negli ultimi tempi, testimonia questa aspirazione affinché tutte le voci compongano un'armonia simile a quella di molti strumenti, ciascuno diverso nel suo timbro, ma tutti accordati nell'azione comune.

Questo ideale va realizzato non solo nella preghiera; Dio infatti, avendo accolto a sé i peccatori, senza distinzione di giudei e di pagani, di ricchi, e di poveri, d'ignoranti, e di dotti, deve essere glorificato da tutti, con la parola e con l'azione conforme al vangelo. Come Cristo ha accolto noi, per la gloria del Padre, noi dobbiamo accogliere ogni uomo, superando le offese, le antipatie, il divario di opinioni.

Nella chiesa militante convivono deboli e forti nella fede. È una realtà inevitabile giacché non si può pretendere lo stesso grado di conoscenza e di esperienza cristiana nei fanciulli e negli uomini fatti. Se tutti devono tendere all'unità nella fede, all'altezza della statura perfetta di Cristo (Ef 4,13), a questo ideale non si giunge d'un tratto né per imposizione d'autorità, ma in forma graduale e progressiva. Intanto il bambino e il giovane hanno il loro posto legittimo nella famiglia, al pari dell'uomo maturo e dell'anziano.

Nella fede in Cristo ciascuno può trovare la pienezza della gioia e la capacità di coltivare relazioni interpersonali virtuose; come testimonia Paolo: "Il Dio della speranza vi riempia d'ogni allegrezza e pace nel vostro credere" (Rm 15,13). E l'Apostolo aggiunge: "mediante la potenza dello Spirito Santo": non il semplice sforzo umano, ma la potenza dello Spirito di Dio può alimentare nel cristiano la fiamma della speranza e della carità fraterna.

Cristo viene sulle nubi, la sua manifestazione vittoriosa si realizza per mezzo dello Spirito, consolidando il regno del vangelo sulla terra, e favorendo la sua propagazione fra tutti i popoli mediante l'opera dei suoi inviati.

Ma guai a quella chiesa in cui l'istituzione soffoca la potenza dello Spirito. La comunità può essere forte là dove le coscienze individuali si esprimono e respirano nella ricerca di una relazione personale con Dio, spinte da un senso profondo di responsabilità.

Nella predicazione di Gesù troviamo il richiamo ad affidarci alla parola di Dio, ad aggrapparci ad essa come àncora di salvezza nelle acque turbinose dell'esistenza umana. Questa la sua promessa, che alimenta la speranza del cristiano: "i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Lc 21,33).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 6 dicembre 2025

Dizionario della Musica Anglicana. Jean Coulthard

Jean Coulthard (1908-2000) rappresenta una figura pionieristica nella musica canadese del ventesimo secolo. Il suo vastissimo catalogo di oltre 350 opere comprende tutti i generi tradizionali, ma la sua produzione sacra e corale costituisce un aspetto particolarmente significativo della sua eredità artistica.

La formazione con Ralph Vaughan Williams al Royal College of Music di Londra (1928-1929) lasciò un'impronta indelebile sul suo approccio alla musica sacra. L'influenza del maestro inglese emerge nelle opere devozionali di Coulthard, dove il lirismo si combina con un linguaggio armonico contemporaneo accessibile ed emotivamente diretto.

"A Prayer for Elizabeth" per archi (1953), commissionata dalla CBC per l'incoronazione della Regina Elisabetta II, rappresenta un momento emblematico del suo stile maturo: forme tradizionali fuse con armonie politonali cromaticamente arricchite. Il pezzo riflette l'eredità di Vaughan Williams nella sua solennità contemplativa.

"Music to St. Cecilia" per organo e archi, nominata al Juno Award nel 1993, celebra la patrona della musica bilanciando serenità meditativa e gioiosa celebrazione. Dimostra la maestria nell'orchestrazione e la sensibilità nel trattamento dell'organo.

"Threnody", elegia per la madre scomparsa nel 1933, trasforma il dolore personale in espressione universale. Concepita per la Christ Church Cathedral di Vancouver, rivela la comprensione della funzione catartica della musica sacra.

La musica sacra di Coulthard si distingue per un lirismo contemporaneo unito a un'introspezione meditativa spesso associata alla geografia della Columbia Britannica. Le sue opere sono accessibili e profonde, radicate nella tradizione ma non anacronistiche.

Il suo approccio armonico privilegia una tonalità ampliata piuttosto che serialismo o atonalità. Questa scelta mantiene una capacità comunicativa diretta che favorisce l'uso liturgico e concertistico. Come docente presso l'Università della British Columbia per 26 anni, formò generazioni di compositori, contribuendo a creare una tradizione compositiva canadese.

La sua musica sacra rappresenta un contributo duraturo al repertorio canadese, offrendo opere che uniscono profondità spirituale e mestiere raffinato, mantenendo la fiducia nella capacità della musica di elevare lo spirito attraverso la bellezza.


La musica liturgica nella tarda epoca patristica (c. 313 - c. 750 d.C.)

Introduzione

La musica liturgica nella tarda epoca patristica rappresenta un periodo cruciale e trasformativo nella storia della Chiesa cristiana. Questo arco temporale, che si estende dall'Editto di Milano (313 d.C.) fino alla metà dell'VIII secolo, segna il passaggio dalla musica cristiana primitiva, caratterizzata da spontaneità e assenza di codificazioni formali, verso una progressiva strutturazione che avrebbe posto le fondamenta della grande tradizione musicale sacra medievale. In questo contesto storico complesso, segnato da profondi mutamenti politici, sociali e culturali, la musica liturgica si evolve da semplice pratica devozionale a elemento costitutivo dell'identità ecclesiale, strumento privilegiato di educazione religiosa e veicolo di diffusione e consolidamento della fede cristiana nell'Europa post-romana.

La musica liturgica e l'Editto di Milano (313 d.C.)

L'Editto di Milano del 313 d.C., promulgato dagli imperatori Costantino e Licinio, rappresenta una cesura epocale non solo per la storia del cristianesimo, ma anche per lo sviluppo della sua espressione musicale. La concessione della libertà di culto ai cristiani nell'Impero Romano trasforma radicalmente il contesto in cui la musica liturgica viene praticata: da fenomeno sotterraneo, praticato in ambienti domestici, catacombe e luoghi nascosti sotto la costante minaccia della persecuzione, essa emerge alla luce pubblica, divenendo oggetto di attenzione istituzionale e di regolamentazione ecclesiastica.

Con il riconoscimento legale del cristianesimo, la Chiesa inizia un processo di strutturazione organizzativa che coinvolge ogni aspetto della vita comunitaria, compresa la dimensione musicale del culto. La costruzione delle prime grandi basiliche cristiane, come quelle di San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano a Roma, crea nuovi spazi acustici che richiedono forme musicali adeguate. La musica non è più semplicemente un accompagnamento spontaneo ai riti, ma diventa parte integrante e codificata dell'atto liturgico, mezzo privilegiato per esprimere la fede collettiva e l'identità cristiana emergente. Questo passaggio dalla clandestinità alla pubblicità segna l'inizio di una riflessione sistematica sul ruolo, le forme e i limiti della musica nel culto cristiano.

La musica nella Chiesa primitiva e il passaggio al periodo patristico

Nella Chiesa delle origini, precedente all'Editto di Milano, la musica liturgica si caratterizzava per una semplicità strutturale che rifletteva le condizioni di precarietà in cui le comunità cristiane vivevano. Predominavano il canto responsoriale, in cui un solista alternava con l'assemblea, e il canto antifonale, con due cori che si rispondevano reciprocamente. Queste forme, ereditate dalla tradizione sinagogale ebraica, permettevano una partecipazione attiva dei fedeli anche in assenza di testi scritti o di una formazione musicale specialistica. I salmi davidici costituivano il nucleo centrale del repertorio, cantati secondo modalità che variavano da comunità a comunità.

Con l'avvento del periodo patristico, si assiste a una profonda riflessione teologica sulla natura e la funzione della musica nel culto cristiano. I Padri della Chiesa affrontano questioni fondamentali: quale rapporto deve sussistere tra la bellezza sensibile della musica e la contemplazione spirituale? In che misura l'arte musicale può essere veicolo di verità teologiche? Quali pericoli comporta un uso improprio o eccessivamente edonistico della musica sacra?

Agostino d'Ippona (354-430), nella sua autobiografia spirituale Confessiones, esprime con particolare acutezza questa tensione. Nel libro X, egli descrive il suo travaglio interiore di fronte al canto liturgico: riconosce che le melodie sacre possono elevare l'anima e facilitare la preghiera, ma teme al contempo che il piacere estetico possa distogliere l'attenzione dal contenuto dottrinale dei testi. Agostino sostiene che la musica è lecita e benvenuta quando serve a infiammare la devozione, ma diventa pericolosa quando è fine a se stessa. Questa visione equilibrata, che riconosce il valore della musica senza cedere a un'estetizzazione della liturgia, influenzerà profondamente la teologia musicale successiva.

Giovanni Crisostomo (c. 349-407), Patriarca di Costantinopoli, sviluppa una riflessione complementare nel contesto della Chiesa orientale. Nei suoi scritti, particolarmente nelle omelie, egli sottolinea come il canto liturgico sia un'eco del canto angelico che pervade la liturgia celeste. La partecipazione al canto comune, secondo Crisostomo, realizza l'unità della Chiesa, superando le divisioni sociali tra ricchi e poveri, colti e ignoranti. Il canto è quindi non solo preghiera verticale verso Dio, ma anche costruzione orizzontale della comunità ecclesiale.

L'evoluzione della musica liturgica nel V e VI secolo

I secoli V e VI rappresentano un periodo di cristallizzazione e codificazione delle forme musicali liturgiche. In questo contesto, emerge progressivamente quella che la tradizione successiva chiamerà "canto gregoriano", sebbene la sua definizione formale sia ancora lontana. Questa forma di canto sacro si caratterizza per alcuni tratti distintivi: la monodia (una sola linea melodica senza accompagnamento strumentale o armonico), la modalità (l'uso di scale musicali specifiche, diverse dal sistema tonale moderno), il ritmo libero strettamente legato all'accentuazione naturale del testo latino, e una stretta aderenza ai testi liturgici.

Il latino, lingua ufficiale della Chiesa d'Occidente, diventa il veicolo esclusivo dei canti liturgici, favorendo un processo di unificazione culturale e religiosa nell'Europa frammentata post-romana. Questa scelta linguistica, pur distanziando progressivamente la liturgia dalla comprensione immediata dei fedeli (che nelle diverse regioni parlavano lingue volgari in rapida evoluzione), garantisce uniformità e continuità nel tempo e nello spazio.

Durante questo periodo, la musica liturgica assume una marcata funzione pedagogica e catechetica. Con l'espansione della Chiesa tra popolazioni germaniche, celtiche e slave spesso ancora pagane o recentemente convertite, il canto diventa strumento primario di evangelizzazione e di formazione religiosa. La ripetizione dei canti liturgici favorisce la memorizzazione dei contenuti dottrinali fondamentali: i misteri della fede, le verità morali, le narrazioni bibliche. La musica, con la sua capacità di coinvolgere emotivamente e di rendersi memorabile, si rivela particolarmente efficace in società a prevalente tradizione orale, dove la scrittura era appannaggio di élite ristrette.

La figura di Papa Gregorio I (c. 540-604), noto come Gregorio Magno, domina questo periodo. Benché la tradizione posteriore gli abbia attribuito la composizione personale del repertorio gregoriano (un'attribuzione oggi considerata leggendaria dagli storici), il suo contributo alla riforma liturgica e musicale fu determinante. Gregorio promosse una standardizzazione dei canti liturgici, inviando missionari e cantori formati a Roma in diverse regioni europee per diffondere le pratiche liturgiche romane. Questa opera di unificazione mirava a creare una koiné musicale che esprimesse e rafforzasse l'unità della Chiesa cattolica di fronte alla frammentazione politica dell'Europa post-imperiale.

La tradizione attribuisce a Gregorio anche la riorganizzazione del repertorio dei canti in base al ciclo liturgico annuale e la codificazione dei modi ecclesiastici (modi autentici e plagali), sebbene queste attribuzioni vadano considerate con cautela critica. Ciò che è certo è che sotto il suo pontificato si assiste a un significativo impulso organizzativo che pone le basi per gli sviluppi successivi.

Il ruolo del clero e dei monaci

La conservazione, trasmissione e sviluppo della musica liturgica nella tarda epoca patristica sono strettamente legati all'attività del clero secolare e, ancor più, degli ordini monastici. I monasteri, che si moltiplicano in Europa a partire dal VI secolo seguendo la Regola benedettina (Regula Benedicti, c. 530), diventano centri nevralgici per la cultura musicale cristiana.

La vita monastica, strutturata attorno all'Opus Dei (l'Ufficio divino), prevedeva otto momenti di preghiera comune nell'arco della giornata, dalla Vigilia notturna alla Compieta serale. Questa preghiera continua era essenzialmente cantata: salmi, inni, antifone e responsori scandivano il ritmo quotidiano dei monaci. Tale pratica intensiva sviluppava una competenza musicale raffinata e favoriva l'elaborazione di repertori sempre più complessi.

I monasteri come Montecassino (fondato da San Benedetto nel 529), Bobbio (fondato da San Colombano nel 614), e successivamente Cluny e San Gallo, divennero veri e propri conservatori ante litteram. Qui si formavano i cantori, si copiavano e si conservavano i manoscritti musicali, si elaboravano nuove composizioni. La tradizione orale, inizialmente predominante, fu progressivamente affiancata e poi in parte sostituita da forme di notazione musicale sempre più sofisticate. I neumi, segni grafici che indicavano l'andamento melodico, comparvero nei manoscritti a partire dal IX secolo, rappresentando una rivoluzione nella trasmissione del patrimonio musicale.

La disciplina monastica favoriva anche la dimensione contemplativa del canto. Per i monaci, cantare i salmi non era semplicemente eseguire una partitura, ma entrare in un dialogo intimo con Dio, lasciando che la Parola rivelata plasmasse l'interiorità. Il canto diventava preghiera del corpo oltre che dell'anima, coinvolgendo l'intera persona in un atto di lode che anticipava la liturgia celeste.

Il clero secolare, dal canto suo, sviluppò scuole di canto presso le cattedrali delle principali sedi episcopali. Queste scholae cantorum formavano i chierici al canto liturgico, garantendo la qualità delle celebrazioni nelle chiese urbane. La più famosa di queste scuole fu quella romana, che divenne modello per l'intera cristianità occidentale.

La musica liturgica e la teologia patristica

Nel pensiero patristico, la musica liturgica non era considerata un mero ornamento della celebrazione, ma possedeva una dignità teologica propria. I Padri della Chiesa elaborarono una vera e propria "teologia della musica" che giustificava e orientava l'uso del canto nel culto cristiano.

Secondo questa visione, la musica è innanzitutto partecipazione alla lode cosmica che l'intera creazione innalza al Creatore. Quando la comunità ecclesiale canta, si unisce al coro degli angeli e dei santi nella liturgia celeste, anticipando sulla terra la beatitudine del Regno futuro. Questa concezione, presente sia in Oriente che in Occidente, conferisce al canto liturgico una dimensione escatologica: esso è segno e pregustazione della comunione eterna con Dio.

La musica, inoltre, è intesa come strumento di purificazione e di elevazione spirituale. Il canto dei salmi, in particolare, era considerato dai Padri un potente mezzo di lotta contro le tentazioni e di disciplina delle passioni. Atanasio di Alessandria, nella sua Lettera a Marcellino sui Salmi, sottolinea come i salmi cantati abbiano il potere di ordinare l'anima, portando equilibrio tra le diverse facoltà umane. La musica sacra, ben utilizzata, diventa così terapia dell'anima, medicina spirituale.

Un altro tema ricorrente nella teologia patristica è quello dell'armonia musicale come riflesso dell'ordine divino impresso nella creazione. Seguendo una tradizione che risale a Pitagora e Platone, i Padri vedevano nella musica ben ordinata un'immagine dell'armonia cosmica voluta da Dio. Questa visione cosmologica della musica legittimava l'uso del canto liturgico e ne esaltava la dignità, inserendolo in una prospettiva metafisica che trascendeva la semplice dimensione estetica.

Boezio (c. 480-524), benché non propriamente un Padre della Chiesa, contribuì significativamente a questa riflessione con il suo trattato De institutione musica, che trasmise al Medioevo cristiano la teoria musicale greco-romana rielaborata in chiave cristiana. Distinguendo tra musica mundana (l'armonia delle sfere celesti), musica humana (l'armonia del corpo e dell'anima) e musica instrumentalis (la musica effettivamente suonata), Boezio inseriva la pratica musicale in un quadro cosmologico e antropologico di ampio respiro.

Le diverse tradizioni liturgico-musicali

È importante notare che durante questo periodo non esisteva ancora una completa uniformità nella musica liturgica cristiana. Diverse tradizioni si svilupparono nelle varie regioni dell'ecumene cristiana, ciascuna con le proprie caratteristiche:

  • Il canto ambrosiano a Milano, associato a Sant'Ambrogio (c. 340-397), che introdusse l'innologia nella liturgia occidentale e sviluppò forme musicali distintive che sopravvivono ancora oggi nell'arcidiocesi milanese;
  • Il canto beneventano nell'Italia meridionale longobarda, con caratteristiche proprie che lo distinguevano dal repertorio romano;
  • Il canto gallicano nelle regioni franche, prima della sua progressiva sostituzione con il repertorio romano-franco durante l'epoca carolingia;
  • Il canto mozarabico o visigotico nella penisola iberica, particolarmente fiorente prima della conquista islamica del 711;
  • Il canto celtico nelle isole britanniche e in Irlanda, con una tradizione monastica particolarmente vivace.

Queste diverse tradizioni testimoniano la ricchezza e la varietà della creatività musicale cristiana nel periodo patristico, prima che i processi di unificazione carolingi e papali imponessero progressivamente il predominio del canto gregoriano romano.

L'eredità musicale della tarda epoca patristica

La tarda epoca patristica si configura come un periodo fondativo per la musica liturgica cristiana. Durante questi secoli cruciali, la Chiesa definisce le proprie pratiche musicali, stabilisce principi teologici che ne giustificano e orientano l'uso, e crea un patrimonio di canti che costituirà il nucleo centrale del repertorio medievale.

Il canto gregoriano, pur raggiungendo la sua piena maturità solo nei secoli successivi, trova in questo periodo le sue radici essenziali. Le riforme liturgiche e musicali promosse da Papa Gregorio I, l'attività incessante dei monasteri nella conservazione e trasmissione del repertorio, la riflessione teologica dei Padri della Chiesa sulla natura e la funzione della musica sacra: tutti questi elementi convergono nella creazione di una tradizione musicale che, pur evolvendo e arricchendosi nei secoli successivi, manterrà sempre un radicamento profondo nella spiritualità e nella teologia del cristianesimo delle origini.

Questa eredità è molteplice e duratura. Sul piano pratico, l'epoca patristica consegna al Medioevo un repertorio di canti, forme liturgiche codificate e tecniche di trasmissione (prima orale, poi anche scritta). Sul piano teorico, essa trasmette una teologia della musica che continuerà a informare la riflessione sulla musica sacra fino ai nostri giorni. Sul piano istituzionale, essa stabilisce il ruolo del clero e dei monaci come custodi e interpreti della tradizione musicale liturgica.

La musica liturgica, da elemento marginale e spontaneo dei primi secoli cristiani, si trasforma in uno degli strumenti fondamentali di trasmissione della fede, di educazione religiosa e di costruzione dell'identità ecclesiale. Quando l'Europa entra nell'epoca medievale, lo fa portando con sé una tradizione musicale liturgica solida, diffusa e teologicamente fondata, che diventerà uno dei pilastri della civiltà cristiana medievale e che, attraverso successive evoluzioni, continuerà a vivere fino all'epoca contemporanea.

Conclusione

Il periodo che va dall'Editto di Milano alla metà dell'VIII secolo rappresenta dunque una stagione di straordinaria creatività e di profonda riflessione nel campo della musica liturgica cristiana. In questi secoli, la Chiesa non si limita a praticare il canto come elemento devozionale, ma ne elabora una comprensione teologica, ne codifica le forme, ne organizza la trasmissione, ne riconosce la funzione educativa e identitaria. La musica liturgica della tarda epoca patristica non è solo preparazione alla grande fioritura medievale, ma possiede una dignità propria e un significato storico autonomo, rappresentando il momento in cui il cristianesimo, uscito dalle catacombe e divenuto religione dell'Impero, forgia gli strumenti culturali e spirituali che lo accompagneranno nei secoli a venire.

- Rev. Dr. Luca Vona

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Ambrosius Blarer e i riformatori di Costanza

La Chiesa luterana celebra oggi la memoria di Ambrosius Blarer.

Ambrosius Blarer (1492-1564) fu un riformatore protestante di grande rilievo nella Germania meridionale e nella Svizzera nord-orientale. Nato a Costanza in una famiglia benestante, studiò teologia a Tubinga, dove conobbe Filippo Melantone, suo amico e corrispondente per tutta la vita. Inizialmente monaco benedettino, Blarer venne influenzato dagli insegnamenti di Lutero, che lo portarono a lasciare il convento nel 1522 per rifugiarsi nella sua città natale, già orientata verso la Riforma.
A Costanza, dal 1525, Blarer iniziò a predicare e divenne una figura centrale nella Riforma locale, collaborando con il cugino Johannes Zwick e altri riformatori. Il suo approccio combinava il rispetto per le strutture ecclesiastiche con una reinterpretazione protestante, cercando di riformare i monasteri piuttosto che chiuderli. Basandosi sul principio del Sola Scriptura e sul sacerdozio universale dei credenti, Blarer promuoveva la centralità di Cristo nella fede e la nomina di pastori da parte della comunità.
Fortemente influenzato sia da Lutero che da Zwingli, Blarer cercò di mediare tra le diverse correnti della Riforma protestante. Si distinse per il suo impegno sociale: contribuì alla riforma dell'istruzione, alla cura dei poveri e dei malati, e all'introduzione di ordinamenti comunali. Inoltre, valorizzò la musica religiosa, componendo inni liturgici ancora presenti nell'innario svizzero evangelico.
La caduta della Riforma a Costanza nel 1548, dopo il fallimento della Lega Smalcaldica, costrinse Blarer all'esilio. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in Svizzera, predicando e sostenendo altri riformatori. Morì a Winterthur il 6 dicembre 1564. Figura complessa e conciliatrice, Blarer incarnò un ideale di mediazione in un'epoca di crescenti divisioni confessionali.

Fermati 1 minuto. La missione che origina dall'ascolto

Lettura

Matteo 9,35-38; 10,1-8

9,35 Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. 36 Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. 37 Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! 38 Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!».

10,1 Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità. 2 I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, 3 Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, 4 Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì. 5 Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6 rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele. 7 E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. 8 Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.

Commento

Nell'esercizio del suo ministero itinerante Gesù predica e guarisce, ma poco prima di questo passo del Vangelo di Matteo assistiamo all'interpretazione malevola del suo operato da parte dei farisei («Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni»; Mt 9,34). I farisei, maestri, "stanziali" poiché insegnavano nelle sinagoghe, non sono in grado di avvicinare il popolo al mistero liberatore del regno di Dio.

Così le folle si mostrano come pecore senza pastore e Gesù ne prova grande compassione. Una condizione in cui si trovano molti cristiani disorientati dalla Babele di chiese e confessioni di fede spesso in contrapposizione tra loro, oppure da un soffocante legalismo, che avviluppa, con precetti di uomini (Is 29,13; Mt 15,9), la libertà dei figli di Dio, guidati dallo Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8).

Gesù ci invita a condividere la compassione provata dalla sua natura pienamente umana, e a pregare affinché il Padre mandi operai che sappiano prendersi cura della sua messe (Mt 9,38). Il suo regno, infatti, ha bisogno di molto lavoro e di braccia rese forti dalla potenza di Dio.

Il mandato di Gesù a scacciare i demoni, guarire da ogni malattia e annunciare che il Regno di Dio è vicino (Mt 10,8) è conferito non a un singolo ma a ciascun membro di un collegio di apostoli. È conferito attraverso una specifica chiamata. Nessuno può considerarsi inviato da Gesù in missione senza avere avuto un incontro personale con lui, senza essere stato chiamato per nome. 

Nell'antichità e nel pensiero biblico, fin dal racconto della Genesi, in cui Adamo è chiamato a dare un nome a ogni creatura, "possedere" il nome di una cosa o di una persona significava entrare in contatto con l'essenza intima di quella realtà. Così Gesù ci chiama conoscendo le profondità del nostro cuore, comprese le sue debolezze, le sue ferite, i suoi limiti. 

Per questo tra i suoi discepoli non troviamo uomini dotti e potenti ma pescatori e peccatori. Egli li invia "dopo averli istruiti" (Mt 10,5). È dall'ascolto della sua Parola che prende le mosse la missione. Chi non incontra Gesù nella preghiera, chi non ascolta la sua parola nelle Scritture, non può considerarsi suo discepolo.

In questa prima fase della missione il Signore invita i suoi discepoli ad andare due a due - il testo del brano evangelico ci presenta sei coppie di nomi - ad annunciare la sua parola ai figli di Israele: «rivolgetevi alle pecore perdute della casa d'Israele»; ma man mano che crescerà l'ostilità alla sua missione e ancor più dopo la sua resurrezione, il mesaggio evangelico verrà esteso a tutto il mondo e "a ogni creatura" (Mt 16,15). 

Siamo chiamati a testimoniare il Cristo a chi ci è vicino, nel nostro ambiente quotidiano, lì dove Dio ci ha chiamati; senza dimenticare che non ci spettano privilegi in quanto destinatari e annunciatori del vangelo, all'infuori del privilegio della grazia.

Preghiera

Accendi in noi, Signore, la compassione verso l'umanità dispersa alla ricerca di verità e giustizia; possa trovare nel tuo volto la luce della salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 4 dicembre 2025

Giovanni Damasceno. La creazione proclama la grandezza di Dio

La Chiesa Cattolica, la Chiesa Anglicana e alcune Chiese Ortodosse e Greco-Cattoliche celebrano oggi la memoria di Giovanni Damasceno (ca 657-749), padre della Chiesa e monaco.

Le chiese d'oriente e d'occidente fanno oggi memoria di Giovanni Damasceno, padre della chiesa e monaco. Egli nacque a Damasco nella seconda metà del VII secolo, in una famiglia di arabi cristiani, e ricevette alla nascita il nome di Mansur. Entrato, al seguito del padre, al servizio del califfo Omayyade di Damasco, nuova capitale dell'impero arabo, Mansur ricoprì a lungo l'incarico di amministratore califfale per la popolazione di religione cristiana. Attorno al 700, a causa dell'inasprirsi della politica musulmana verso i cristiani, egli fu costretto a lasciare il suo lavoro. Ma Mansur seppe fare delle improvvise avversità l'occasione per un'obbedienza radicale alla propria vocazione. Distribuiti tutti i suoi beni ai poveri, egli entrò nella laura di San Saba, nei pressi di Gerusalemme, assumendo il nome di Giovanni. Cominciava così per lui un'intensa vita di studio e di preghiera. Su richiesta del patriarca di Gerusalemme, Giovanni divenne predicatore presso il Santo Sepolcro e fu uno dei principali difensori del culto delle immagini al tempo della polemica iconoclasta. Le affermazioni fondamentali del secondo concilio di Nicea (787), che chiusero l'epoca iconoclasta fondando la liceità del culto delle immagini sull'incarnazione del Verbo di Dio, sono ispirate in larga misura agli insegnamenti del Damasceno. Nella sua trilogia intitolata La fonte della conoscenza, Giovanni ha lasciato inoltre la prima sistematizzazione della teologia patristica di tradizione greca. Egli morì nel 749 e il suo corpo fu sepolto a San Saba.

Tracce di lettura

Il divino è ineffabile e incomprensibile. «Infatti nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre». E anche lo Spirito santo conosce ciò che è di Dio, così come lo spirito dell'uomo conosce ciò che è nell'uomo. Nessuno ha mai conosciuto Dio, se non colui al quale egli stesso lo ha rivelato. Tuttavia Dio non ci ha abbandonato in un'ignoranza completa. Infatti la conoscenza di Dio è stata seminata da lui naturalmente in tutti. La stessa creazione, la sua conservazione e il governo di essa proclamano la grandezza della natura divina. E inoltre, dapprima per mezzo della Legge e dei Profeti, e poi per mezzo del suo Figlio unigenito, del Signore Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, Dio ha rivelato la conoscenza di se stesso per quanto ci è accessibile. Perciò noi accogliamo, riconosciamo e veneriamo ciò che ci è stato tramandato per mezzo della Legge, dei Profeti, degli Apostoli e degli Evangelisti, non ricercando nulla al di là di queste cose.
(Giovanni Damasceno, La fede ortodossa 1,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Giovanni Damasceno (657-749)

Nicholas Ferrar e la comunità di Little Gidding: fede e disciplina nell'Inghilterra del Seicento

Dopo gli intrighi di corte e il tumulto degli affari della Virginia Company, Nicholas Ferrar (1592-1637) cercò un diverso tipo di impero: quello spirituale. Deluso dalla corruzione del mondo secolare, nel 1625 si ritirò nella remota tenuta di Little Gidding nell'Huntingdonshire. Non intendeva fondare un monastero tradizionale, ma una famiglia religiosa allargata, un esperimento di devozione anglicana in un'Inghilterra sempre più polarizzata.

Il cuore di Little Gidding era la sua disciplina, non meno rigorosa di quella di qualsiasi ordine monastico. La giornata era scandita da una devozione che copriva l'intero arco delle ventiquattro ore. Ferrar, sebbene fosse solo un diacono, guidava la comunità in una routine in cui l'intero Salterio veniva recitato ogni giorno, distribuito tra i servizi liturgici e una veglia notturna in cui i membri si alternavano nella preghiera. La chiesa, meticolosamente restaurata secondo gli ideali della "chiesa alta" anglicana, fungeva da centro di questa vita di preghiera incessante.

Eppure la loro pietà non era rivolta solo al cielo. Little Gidding era un laboratorio di disciplina e carità dove la famiglia, comprese le numerose nipoti e nipoti di Ferrar, seguiva un programma che univa l'apprendimento delle Scritture al lavoro manuale. Il lavoro più celebre era la creazione delle armonizzazioni dei Vangeli: ritagliavano e incollavano meticolosamente passaggi e incisioni da diverse Bibbie per assemblare un unico racconto cronologico della vita di Cristo, un'opera di precisione che serviva sia come meditazione sia come arte.

Little Gidding era una vera scuola di santità, dove l'assistenza ai poveri del villaggio era prioritaria quanto il digiuno settimanale. Era un esempio di vita cristiana coerente, un'immagine vivente di come la Chiesa anglicana potesse incarnare la pietà cattolica senza il celibato o i voti monastici. Questa peculiarità, però, attirò l'ostilità dei puritani, che vedevano nella sua organizzazione e nei suoi ornamenti liturgici un pericoloso ritorno al "papismo".

Quando Nicholas Ferrar morì nel 1637, lasciò un'eredità di dedizione e fede. Sebbene la tenuta sia stata saccheggiata dalle forze parlamentari durante la guerra civile, Little Gidding rimase un potente simbolo: un luogo dove la preghiera era costante e la vita vissuta con uno scopo sacro.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Dare solidità alla parola

Lettura

Matteo 7,21-27

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. 24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

Commento

La parabola dell'uomo stolto e dell'uomo saggio, conclude il "Discorso della montagna", nel quale è racchiusa l'essenza del vangelo. Gesù spiega come riconoscere il vero credente. La fede che non porta frutto è incredulità. 

Ma i frutti della fede non consistono nel compiere opere soprannaturali, miracoli e profezie, che presi di per sé non hanno alcun valore. Neanche la lode e la supplica - "Signore! Signore!" (v. 21) - contano qualcosa senza la conversione. Il vero frutto della fede consiste nel compiere la volontà di Dio, mossi dalla carità. 

Come afferma l'apostolo Paolo "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna" (1 Cor 13,1). Quando riconosciamo Cristo solo a parole non siamo tanto diversi da coloro che lo dileggiavano esclamando sotto la croce "Salve! Re dei giudei!" (Gv 19,3). 

La grazia e la carità conducono gli uomini alla salvezza senza che compiano miracoli, mentre il compiere miracoli non ha mai salvato nessuno senza la grazia e la carità. Solo chi costruisce sulla salda roccia che è Cristo e non chi confida in se stesso può resistere alle prove della fede, che saranno tante in questa vita: "Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16,33).

Non è abbastanza ascoltare le parole del Vangelo, comprenderle, ricordarle, ripeterle e disputare su di esse. Dobbiamo essere capaci di "dare solidità" alla parola, facendoci costruttori della chiesa di Cristo e affidando le sue fondamenta non alla sabbia della nostra umana povertà ma alla roccia della sua grazia.

Preghiera

Signore, donaci la beatitudine di essere tra coloro che ascoltano la tua parola e la osservano, per essere pietre vive nell'edificio della tua chiesa. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 3 dicembre 2025

Francesco Saverio, evangelizzatore dell'Oriente

Oggi la chiesa cattolica e le chiese della comunione anglicana ricordano Francesco Saverio, presbitero e missionario in Estremo Oriente. Nato nel 1506 nel castello di Xavier in Navarra, membro di una famiglia nobile, Francisco de Jassu y Xavier lasciò la Navarra per proseguire gli studi a Parigi, dove avvenne la svolta della sua vita, quando si trovò a condividere l'alloggio con Ignazio di Loyola. Dopo aver resistito lungamente all'enorme attrattiva esercitata su di lui dal compagno di studi, Francesco fu uno dei primi Gesuiti che emisero i voti a Montmartre. Ordinato presbitero a 31 anni, egli si mise totalmente a disposizione della chiesa, e presto fu inviato in missione nelle Indie orientali. Senza esitare, Francesco sbarcò prima in Mozambico, poi a Goa, sulla costa occidentale dell'India, nel 1542. Egli portò quindi il vangelo nello Sri Lanka, a Malacca e nelle Molucche. Sentendosi chiamato a portare sempre più lontano il lieto annuncio di Cristo, Francesco raggiunse nel 1548 il sud del Giappone, dove fondò le prime comunità cristiane. Dal Giappone egli partì alla volta della Cina, ma fu il suo ultimo viaggio; preso da forti febbri, Francesco fu condotto sull'isola di Sanchnan, dove morì la notte fra il 2 e il 3 dicembre del 1552. Per la sua enorme attività missionaria, Francesco Saverio fu proclamato nel 1927 dalla chiesa cattolica patrono delle missioni assieme a Teresa di Lisieux.

Tracce di lettura

Dio nostro Signore concederà la grazia, a coloro che verranno in questi luoghi, di trovarsi in pericolo di morte, e questo non si può evitare se non a costo di pervertire l'ordine della carità; mentre invece, adempiendola, dovranno sopportare ogni pericolo, rammentando che sono nati per morire per il loro Redentore e Signore, e che per questa causa e motivo devono possedere le forze spirituali. E poiché io stesso ne sono privo e vado in luoghi dove ne ho molto bisogno, per amore e servizio di Dio nostro Signore vi prego di avere un particolare ricordo di me, raccomandandomi a tutti i membri della Compagnia. (Francesco Saverio, Lettere a Ignazio di Loyola)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


Fermati 1 minuto. Le mani di Gesù e le mani dei suoi discepoli

Lettura

Matteo 15,29-37

29 Allontanatosi di là, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là. 30 Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì. 31 E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele. 32 Allora Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: «Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada». 33 E i discepoli gli dissero: «Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?». 34 Ma Gesù domandò: «Quanti pani avete?». Risposero: «Sette, e pochi pesciolini». 35 Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, 36 Gesù prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava ai discepoli, e i discepoli li distribuivano alla folla. 37 Tutti mangiarono e furono saziati. Dei pezzi avanzati portarono via sette sporte piene.

Commento

Gesù giunge nella "Galilea delle genti" (Mt 4,15; Is 8,23), terra dei pagani, e qui si ferma su un monte. Questo monte diviene il luogo in cui la folla che lo ha seguito viene raccolta, curata e nutrita. 

L'intero contesto è collegato con l'adempimento escatologico delle promesse fatte a Israele, quando il suo Dio sarà glorificato da uomini di ogni popolo e nazione (Ap 5,9). Gesù non siede su un trono o in un tribunale ma su una montagna, affinché tutti possano vederlo e chiunque possa accedere a lui; la sua salvezza è ora alla portata di tutti. 

Vengono accompagnati a Gesù molti malati, che egli risana, dando valore all'azione di intercessione di chi glieli ha condotti. Un canto nuovo viene innalzato a Dio quando i ciechi vedono, i muti parlano e gli zoppi camminano. Ciò che era una malattia, un limite, un deficit, diviene nell'incontro con la grazia di Cristo un'occasione di lode. 

Il Signore conosce la nostra fatica nel seguirlo e si prende cura delle nostre necessità, si preoccupa affinché non veniamo meno durante il viaggio. Rende i suoi discepoli compartecipi di questa preoccupazione e chiede di sfamare la folla, facendo passare per la sua benedizione il poco che hanno.

Se la grazia a volte non raggiunge chi ne ha bisogno, dovremmo esaminare noi stessi e interrogarci se siamo quelle mani che Dio si aspetta di trovare per elargirla.

Preghiera

Signore, noi ci affidiamo alle tue cure e ci sediamo alla tua presenza, nell'attesa di ricevere il nutrimento per le nostre anime secondo le vie della tua misericordia. Amen.

domenica 30 novembre 2025

Il corpo di Dio: La rivoluzione panenteistica di Ramānuja e il non-dualismo qualificato

Il problema della relazione tra l'Assoluto e il relativo, tra l'Uno e i molti, costituisce il nucleo pulsante della riflessione filosofica universale. Questa tensione concettuale si acuisce drammaticamente quando si tenta di conciliare l'immutabilità perfetta dell'Essere supremo con il divenire incessante del mondo fenomenico. In India, tale questione trovò espressione paradigmatica nel dibattito tra le diverse scuole del Vedanta, ciascuna delle quali offriva una soluzione radicalmente diversa al medesimo enigma metafisico.

La scuola Advaita Vedanta, sistematizzata magistralmente da Ādi Śaṅkara (788-820 d.C. circa), propose una soluzione monista assoluta: Brahman, l'Assoluto indifferenziato e privo di attributi (Nirguṇa Brahman), rappresenta l'unica realtà autentica, mentre il mondo empirico (jagat) e la molteplicità delle anime individuali (jīvātman) sono prodotti dell'ignoranza metafisica (avidyā) operante attraverso la potenza illusoria di Māyā. Questa dottrina, pur sublime nella sua coerenza logica e profondità contemplativa, creò una frattura apparentemente insanabile tra l'esperienza religiosa devozionale e la realizzazione metafisica ultima: se tutto è illusione eccetto il Brahman impersonale, come può sussistere un autentico rapporto d'amore tra il devoto e Dio?

Fu precisamente questa aporia esistenziale e teologica che Ramānuja (tradizionalmente 1017-1137 d.C., secondo alcune fonti 1077-1157 d.C.) si propose di risolvere all'alba del secondo millennio. Brahmano tamil appartenente alla tradizione Śrī Vaiṣṇava del Sud dell'India, Ramānuja non fu semplicemente un commentatore delle scritture vedantiche, ma un riformatore religioso, un pensatore sistematico e un rivoluzionario sociale. La sua sintesi filosofica, il Viśiṣṭādvaita Vedānta (Vedanta del non-dualismo qualificato), rappresenta un tentativo ambizioso di preservare simultaneamente l'unità metafisica dell'Essere, la realtà ontologica del mondo e la legittimità della devozione personale verso Dio.

Il contesto storico-religioso e le opere di Ramānuja

Per comprendere appieno la portata rivoluzionaria del pensiero di Ramānuja, occorre situarlo nel suo contesto storico. L'India meridionale dell'XI-XII secolo era teatro di un fervente movimento devozionale (bhakti), guidato dai poeti-santi Āḻvār (VI-IX secolo), i cui inni appassionati a Viṣṇu nella lingua tamil vernacolare avevano già preparato il terreno per una teologia dell'amore divino. Ramānuja si propose di fornire a questa corrente devozionale popolare una fondazione filosofica rigorosa, radicata nell'interpretazione ortodossa dei testi vedantici in sanscrito.

Le opere principali di Ramānuja includono tre commentari alla Prasthānatrayī (il triplice fondamento del Vedanta): lo Śrī Bhāṣya (il grande commentario ai Brahma Sūtra di Bādarāyaṇa), il Gītā Bhāṣya (commentario alla Bhagavad Gītā) e commentari minori alle Upaniṣad principali. Compose inoltre trattati teologici indipendenti come il Vedānta Dīpa (la lampada del Vedanta) e il Vedānta Sāra (l'essenza del Vedanta), oltre a opere devozionali come il Śaraṇāgati Gadya (prosa sulla resa) e il Vaikuṇṭha Gadya (prosa sul paradiso di Viṣṇu).

La concezione del Brahman Saguṇa: Dio come persona suprema

La rivoluzione concettuale di Ramānuja inizia con una radicale reinterpretazione della natura di Brahman. Contrariamente a Śaṅkara, che distingueva tra un Brahman superiore (para), privo di attributi, e uno inferiore (apara), dotato di qualità solo dal punto di vista dell'ignoranza, Ramānuja sostiene che Brahman è intrinsecamente e realmente qualificato da infiniti attributi di perfezione (kalyāṇa guṇa).

Brahman, identificato con Viṣṇu-Nārāyaṇa, è definito come Parabrahman, l'essere supremo personale (Puruṣottama), caratterizzato da cinque attributi essenziali (pañca guṇa):

  1. Satya (realtà/verità): Brahman è l'essere pienamente reale, autosufficiente, la cui esistenza non dipende da null'altro.
  2. Jñāna (conoscenza): possiede conoscenza infinita, onnisciente, che abbraccia simultaneamente tutti gli oggetti passati, presenti e futuri.
  3. Ānanda (beatitudine): gode di felicità intrinseca, non derivata da fonti esterne, completamente immune dalla sofferenza.
  4. Ananta (infinità): è illimitato nel tempo, nello spazio e nella potenza.
  5. Amala (purezza): è completamente privo di imperfezioni, macchie karmiche o limitazioni morali.

A questi attributi essenziali si aggiungono innumerevoli qualità (guṇa) che manifestano la natura personale di Dio: compassione (kṛpā), amore (sneha), misericordia (dayā), giustizia, accessibilità (saulabhya) e bellezza. Ramānuja insiste particolarmente sulla vātsalya (tenerezza paterna) e sulla audārya (generosità magnifica) di Dio verso i suoi devoti.

Per illustrare come Brahman possa conoscere senza subire modificazione, Ramānuja ricorre all'analogia della lampada: così come una lampada è simultaneamente auto-luminosa e illumina gli oggetti circostanti senza alterarsi, la coscienza divina è eternamente auto-cosciente e conosce tutte le cose senza trasformarsi. La conoscenza divina (jñāna) non è un processo discorsivo o temporale, ma un'intuizione eterna e immutabile della totalità del reale.

Le cinque forme di manifestazione (Pañca-rūpa)

Per rendere accessibile ai devoti la trascendenza di Brahman, Ramānuja elabora la dottrina delle cinque forme di manifestazione divine:

  1. Para (la forma suprema): Brahman nella sua essenza assoluta, risiedente nel regno trascendente di Vaikuṇṭha, accompagnato dalla sua consorte Śrī (Lakṣmī), mediatrice della grazia divina.
  2. Vyūha (emanazioni): quattro forme che presiedono a specifiche funzioni cosmiche:
    • Vāsudeva: coscienza e creazione
    • Saṅkarṣaṇa: anime individuali e dissoluzione
    • Pradyumna: mente e sostentamento
    • Aniruddha: ego individuale e protezione
  3. Vibhava (incarnazioni): gli avatāra discendono per ristabilire il dharma, come Rāma, Kṛṣṇa, Nṛsiṃha, manifestando la līlā (gioco divino) nella storia.
  4. Antaryāmin (controllore interno): Brahman come anima dell'anima (ātmanaḥ ātmā), presente intimamente in ogni essere come testimone (sākṣin) e guida interiore.
  5. Arcā (forma iconografica): la presenza reale di Dio nelle immagini sacre (mūrti) consacrate nei templi, rendendo il divino direttamente accessibile alla devozione sensibile.

Il monismo qualificato: l'architettura metafisica del Viśiṣṭādvaita

Il termine Viśiṣṭādvaita combina viśiṣṭa (qualificato, specificato) e advaita (non-dualismo): la realtà è non-duale, ma questa unità è internamente differenziata da qualificazioni reali. Ramānuja afferma l'esistenza di tre realtà eterne (tattva-traya), tutte ontologicamente autentiche e coessenziali a Brahman:

  1. Īśvara (Brahman): il Sé supremo, l'anima universale (śarīrin).
  2. Cit (Jīva): le anime individuali, entità coscienti infinite in numero.
  3. Acit (Prakṛti): la materia, l'entità non-cosciente che costituisce il mondo fisico.

La relazione Śarīra-Śarīrin: il corpo e l'anima

Il cuore del Viśiṣṭādvaita risiede nella concezione della relazione tra Brahman e il mondo attraverso l'analogia organica del corpo e dell'anima (śarīra-śarīrin-bhāva). Ramānuja definisce rigorosamente il concetto di "corpo" (śarīra):

"Un corpo è una sostanza che un'entità cosciente può completamente controllare e sostenere per i propri scopi, e la cui natura essenziale (svarūpa) consiste esclusivamente nell'essere modo (prakāra) di quell'entità cosciente."

Da questa definizione derivano tre caratteristiche essenziali del rapporto corpo-anima:

  1. Ādhāra-Ādheya (sostegno-sostenuto): il corpo dipende ontologicamente dall'anima per la sua esistenza; analogamente, cit e acit dipendono completamente da Brahman.
  2. Niyantṛ-Niyamya (controllore-controllato): l'anima controlla e dirige il corpo dall'interno; Brahman è l'antaryāmin, il regolatore interno di ogni entità.
  3. Śeṣa-Śeṣin (accessorio-principale): il corpo esiste per servire i fini dell'anima; tutte le entità esistono per glorificare e servire Brahman.

Questa relazione non implica identità assoluta né separazione dualistica, ma inseparabilità ontologica con distinzione reale: cit e acit sono attributi (viśeṣaṇa) o modi (prakāra) di Brahman, il sostantivo qualificato (viśeṣya). Come gli attributi di un oggetto (il colore di un fiore) sono distinti dall'oggetto ma inseparabili da esso, così il mondo è realmente distinto da Dio ma non può esistere indipendentemente da Lui.

Causalità divina e realtà del mondo: la critica alla Māyā

Ramānuja abbraccia la teoria del satkāryavāda: l'effetto preesiste potenzialmente nella sua causa in forma sottile o non-manifesta (sūkṣma, avyakta), e si manifesta in forma grossolana (sthūla, vyakta) attraverso la trasformazione reale (pariṇāma). Brahman è simultaneamente:

  • Causa materiale (upādāna-kāraṇa): la sostanza da cui il mondo è fatto, precisamente attraverso la trasformazione di cit e acit, che costituiscono il suo corpo.
  • Causa efficiente (nimitta-kāraṇa): l'agente intelligente che progetta, crea e governa il cosmo con uno scopo (prayojana).

Durante la dissoluzione cosmica (pralaya), cit e acit esistono in stato sottile e indifferenziato nel corpo di Brahman; durante la creazione (sṛṣṭi), si espandono (vyūha) in forme distinte e individuate. Crucialmente, questa trasformazione avviene nel corpo di Brahman, non nella sua essenza (svarūpa), che rimane immutabile, proprio come l'anima umana rimane identica nonostante i cambiamenti del corpo.

Il rifiuto della Māyā illusionistica

Ramānuja dedica sezioni estese del suo Śrī Bhāṣya a confutare sistematicamente la teoria śaṅkariana della Māyā. I suoi argomenti principali includono:

  1. L'aporia ontologica: Māyā non può essere né reale (altrimenti contraddirebbe il monismo assoluto) né irreale (perché produce effetti apparenti). La categoria di anirvacānīya (indescrivibile come reale o irreale) è logicamente incoerente.
  2. Il problema del locus: dove risiede avidyā (l'ignoranza)? Non può risiedere in Brahman, che è pura conoscenza; né nei jīva individuali, che sono essi stessi prodotti dell'ignoranza.
  3. La contraddizione epistemologica: se tutta la conoscenza empirica è illusoria, come possiamo fidarci delle Scritture, che sono anch'esse oggetti di percezione e cognizione?
  4. L'assurdità della liberazione: se il jīva è identico a Brahman, non può esserci liberazione reale, poiché il liberato e il vincolato sarebbero la stessa entità.

Per Ramānuja, Māyā non è illusione oscurante, ma la potenza creativa reale (śakti) di Īśvara, attraverso cui Egli manifesta il mondo come līlā (gioco divino), un'espressione spontanea della sua pienezza e beatitudine, non motivata da necessità o mancanza. Il mondo è reale quanto è reale Brahman, perché è il corpo vivente di Dio.

Epistemologia e interpretazione scritturale

Ramānuja accetta tre pramāṇa (fonti valide di conoscenza):

  1. Pratyakṣa (percezione diretta): la conoscenza immediata attraverso i sensi, considerata veridica nella sua sfera appropriata. Contrariamente a Śaṅkara, per Ramānuja la percezione sensoriale rivela autenticamente la differenziazione reale.
  2. Anumāna (inferenza): il ragionamento deduttivo basato su connessioni invariabili (vyāpti) tra eventi o proprietà.
  3. Śabda (testimonianza autorevole): particolarmente le scritture vediche, considerate apauruṣeya (non di origine umana) e quindi infallibili. Ramānuja accorda priorità epistemica alle Śruti (testi rivelati) rispetto alla logica quando sembrano contraddirsi.

Ermeneutica vedantica: il conflitto con Śaṅkara

Il disaccordo fondamentale con Śaṅkara concerne l'interpretazione delle Upaniṣad. Dove Śaṅkara distingue tra:

  • Jñāna-kāṇḍa (sezioni sulla conoscenza): che insegnano la verità ultima del Brahman nirguna
  • Karma-kāṇḍa (sezioni sui rituali): valide solo per il piano empirico dell'ignoranza

Ramānuja rifiuta questa distinzione gerarchica. Per lui, le Upaniṣad parlano coerentemente di un Brahman qualificato (saguṇa), e le affermazioni apparentemente contraddittorie possono essere armonizzate attraverso un'interpretazione letterale (abhidhā) piuttosto che figurativa (lakṣaṇā).

Considerando la celebre formula upaniṣadica "Tat tvam asi" ("Tu sei Quello"), Śaṅkara la interpreta come identità assoluta tra ātman e Brahman, mentre Ramānuja la legge come identità qualificata: il jīva è parte (aṃśa) di Brahman come il corpo è parte del sé completo, condividendo la stessa natura essenziale (coscienza) ma distinguendosi per finitezza e dipendenza.

Le anime individuali (Jīva): natura e condizione

Le anime individuali occupano una posizione intermedia nell'ontologia di Ramānuja. Ciascun jīva possiede caratteristiche essenziali:

  1. Coscienza (jñāna-svarūpa): l'anima è per essenza cosciente, capace di conoscenza e autoconsapevolezza.
  2. Infinità numerica: esistono innumerevoli jīva, ciascuno eternamente distinto dagli altri.
  3. Atomicità (aṇutva): ogni anima è infinitesimale in dimensione, sebbene onnipervadente nei suoi effetti attraverso l'attributo della conoscenza.
  4. Eternità (nitya): le anime non sono create né distrutte, ma eternamente esistenti.
  5. Dipendenza (paratantra): ontologicamente dipendenti da Brahman per esistenza, conoscenza e azione.

Le anime si trovano in tre stati:

  • Nitya: anime eternamente liberate che non sono mai state vincolate (saṃsāra), risiedenti permanentemente in Vaikuṇṭha.
  • Mukta: anime liberate che hanno raggiunto la mokṣa dopo essere state legate.
  • Baddha: anime attualmente vincolate nel ciclo delle nascite e morti, oscurate dal karma e dall'ignoranza (ajñāna).

Libertà e responsabilità morale

Un problema critico è: se Brahman è l'antaryāmin che controlla internamente ogni anima, come possono i jīva essere liberi e moralmente responsabili? Ramānuja risponde con una teoria del consenso divino: Brahman permette (anumati) alle anime di agire secondo i loro desideri e inclinazioni karmiche, senza determinare coercitivamente le loro scelte. Dio fornisce la capacità di agire, ma la direzione dell'azione dipende dalla volontà del jīva. Questa sovranità limitata è sufficiente per la responsabilità etica, poiché l'anima rimane autrice (kartṛ) delle proprie azioni (karma).

Il sentiero della liberazione: Bhakti e Prapatti

Per Ramānuja, la mokṣa (liberazione) consiste nel raggiungere Vaikuṇṭha, il regno divino, dove l'anima gode della visione beatifica (aparokṣa-anubhava) di Brahman e partecipa eternamente alla sua natura divina pur mantenendo la propria individualità. La liberazione non è fusione annichilante nell'impersonale, ma realizzazione perfetta della relazione d'amore (prema) con Dio.

Bhakti yoga: la via della devozione amorosa

Il percorso principale verso la liberazione è il Bhakti yoga, definito da Ramānuja come "dhyānasya atiśayaḥ" (meditazione intensa e continuata) su Dio, che culmina in un amore (sneha) così profondo che l'anima non può esistere senza la contemplazione dell'amato divino. Questo bhakti include:

  1. Jñāna: conoscenza corretta della natura di Brahman, dei jīva e della loro relazione.
  2. Upāsanā: pratica devozionale continuata, inclusi rituali, recitazione dei nomi divini (nāma-saṅkīrtana), ascolto delle scritture.
  3. Karma-yoga: azioni compiute come offerta a Dio (īśvara-arpaṇa), senza attaccamento ai frutti.
  4. Vairāgya: distacco da oggetti mondani e auto-centratura.

Il culmine del bhakti è la para-bhakti (devozione suprema), uno stato di assorbimento costante in Dio che precede immediatamente la mokṣa.

Prapatti: la via della resa totale

Riconoscendo che il difficile sentiero del bhakti-yoga richiede sforzo prolungato, disciplina e capacità intellettuali, Ramānuja offre un'alternativa accessibile a tutti: Prapatti o Śaraṇāgati (resa, abbandono). Questa via consiste nella completa auto-consegna (ātma-nikṣepa) ai piedi del Signore, affidandosi interamente alla sua grazia (kṛpā) per la salvezza.

Prapatti comprende sei componenti:

  1. Ānukūlya-saṅkalpa: risoluzione di fare ciò che piace a Dio.
  2. Prātikūlya-varjana: evitare ciò che dispiace a Dio.
  3. Mahā-viśvāsa: fede suprema che Dio proteggerà.
  4. Goptṛtva-varaṇa: scelta di Dio come unico protettore.
  5. Kārpaṇya: riconoscimento umile della propria impotenza.
  6. Ātma-nikṣepa: atto finale di auto-consegna.

Significativamente, prapatti può essere compiuta in un singolo momento di sincerità assoluta, rendendola accessibile persino a chi si trova in punto di morte. Ramānuja enfatizza che prapatti non è un percorso "inferiore", ma semplicemente più diretto, poiché riconosce esplicitamente la verità che la mokṣa dipende interamente dalla grazia divina, non dagli sforzi umani.

Il ruolo della grazia (Kṛpā) e di Śrī-Lakṣmī

Nell'economia della salvezza, la grazia divina gioca un ruolo indispensabile. Sebbene il karma buono e la devozione sincera siano necessari, essi non "causano" meccanicamente la liberazione. Piuttosto, dispongono il devoto a ricevere la grazia (prasāda) di Dio, che è l'agente effettivo della mokṣa.

Crucialmente, Ramānuja introduce Śrī-Lakṣmī, la consorte eterna di Viṣṇu, come puruṣa-kāra (mediatrice). Śrī incarna la compassione materna (karuṇā) di Dio e intercede presso Viṣṇu per conto dei peccatori, addolcendo la giustizia con la misericordia.

Riforma sociale e eredità storica

La filosofia di Ramānuja non rimase confinata alle aule accademiche o ai circoli intellettuali, ma si tradusse in un programma radicale di riforma sociale che sfidò le strutture più radicate della società indiana medievale.

La battaglia contro il sistema delle caste

Nel contesto dell'ortodossia brahmanica dell'India medievale, dove la rigidità del varṇa-āśrama-dharma (sistema delle caste) era considerata sacra e inviolabile, Ramānuja proclamò un messaggio rivoluzionario: la possibilità di salvezza è universale, non limitata dalla nascita ma determinata dalla devozione sincera (bhakti). Egli fondò questa convinzione su argomenti sia teologici che scritturali:

  1. Brahman risiede come antaryāmin in ogni essere, indipendentemente dalla casta; di conseguenza, tutti gli esseri umani partecipano della dignità divina.
  2. Le scritture Vaiṣṇava, specialmente la Bhagavad Gītā (9.32), dichiarano esplicitamente che anche donne e śūdra possono raggiungere la liberazione suprema.
  3. Diversi Āḻvār, i poeti-santi venerati nella tradizione Śrī Vaiṣṇava, provenivano da caste non-brahmaniche, dimostrando che la grazia divina trascende le barriere sociali.

Le azioni concrete di Ramānuja furono audaci:

  • Accettò come discepolo e venerò Kañcīpūrṇa (Tirukkacchi Nambi), un devoto di bassa casta, riconoscendone la superiorità spirituale.
  • Istituì pratiche rivoluzionarie nei templi sotto la sua autorità, inclusa l'apertura delle porte a tutte le caste in giorni specifici.
  • Coniò il termine Tirukulattār ("membri della famiglia divina") per coloro che l'ortodossia definiva "intoccabili", restituendo loro dignità teologica.
  • Promosse persone basandosi sul merito spirituale e sulla devozione piuttosto che sulla nascita.

L'episodio del mantra universale

Un episodio celebre nella tradizione agiografica illustra il radicalismo spirituale di Ramānuja. Il suo maestro, Tirukkōṭṭiyūr Nambi, inizialmente rifiutò di rivelargli il sacro aṣṭākṣara-mantra ("Oṃ Namo Nārāyaṇāya"), richiedendo diciotto viaggi da Srirangam a Tirukkōṭṭiyūr (circa 200 km). Quando finalmente lo ricevette, con l'avvertimento che divulgarlo ad altri lo avrebbe condannato all'inferno, Ramānuja salì immediatamente sul tetto del tempio e proclamò il mantra a tutta la folla, dichiarando:

"Se la mia dannazione eterna può liberare innumerevoli anime, accetto volentieri questo destino."

Questo gesto simbolizza il mahā-karuṇā (grande compassione) che pervade la teologia di Ramānuja: la salvezza universale vale qualsiasi sacrificio personale.

Persecuzione e esilio

Le riforme di Ramānuja suscitarono l'opposizione feroce dei brahmani ortodossi e del potere politico. Il re Chola Kulottunga I (che regnò 1070-1122), devoto di Śiva, perseguitò i Vaiṣṇava e tentò di costringere Ramānuja a firmare una professione di fede śaivita. Ramānuja rifiutò e fu costretto all'esilio per quasi vent'anni (tradizionalmente 1096-1116) in Karnataka, alla corte Hoysala di Mysore, dove continuò la sua opera di predicazione e riforma.

Durante l'esilio, uno dei suoi discepoli principali, Kūrattāḻvāṉ (Kuresa), fu accecato per ordine reale per aver rifiutato di rinnegare Viṣṇu. Questa persecuzione, lungi dal soffocare il movimento, ne rafforzò la coesione e la determinazione.

Eredità e influenza

Ramānuja morì a Srirangam all'età venerabile di 120 anni (secondo la tradizione), lasciando dietro di sé una comunità trasformata. La sua influenza fu immensa e multiforme:

  1. Filosofica: il Viśiṣṭādvaita divenne uno dei tre pilastri del Vedanta, insieme all'Advaita di Śaṅkara e al Dvaita (dualismo) di Madhva. Influenzò pensatori successivi come Veṅkaṭanātha (Vedānta Deśika) e Pillai Lokācārya, che fondarono sub-scuole distinte.
  2. Religiosa: Ramānuja fornì una fondazione teologica sofisticata al movimento bhakti, che si diffuse poi in tutta l'India settentrionale attraverso figure come Rāmānanda, Kabīr, Mīrābāī, e culminò nei movimenti bhakti bengalesi guidati da Caitanya Mahāprabhu.
  3. Sociale: le sue riforme prepararono il terreno per successivi riformatori come Basava, Ramananda e, in epoca moderna, figure come Narayana Guru e B.R. Ambedkar nella loro lotta contro l'intoccabilità.
  4. Liturgica: stabilì la ubhaya-vedānta (doppio Vedanta), legittimando gli inni tamil degli Āḻvār accanto alle scritture sanscrite nel culto templare, un'innovazione radicale che elevò la letteratura vernacolare devozionale allo status di rivelazione.

La rilevanza contemporanea del Viśiṣṭādvaita

Nel panorama filosofico moderno, il pensiero di Ramānuja offre risorse preziose per diverse questioni:

  1. Filosofia della religione: il Viśiṣṭādvaita offre un modello sofisticato di teismo panenteistico, dove Dio trascende il mondo pur includendolo nella sua natura. Questo anticipa concezioni moderne come la teologia del processo.
  2. Etica ambientale: se il mondo è realmente il corpo di Dio, esso merita rispetto intrinseco, fondando un'etica ecologica su basi metafisiche.
  3. Pluralismo religioso: l'enfasi di Ramānuja sull'accessibilità universale della grazia e sulla molteplicità delle forme divine può supportare approcci inclusivi al dialogo interreligioso.
  4. Filosofia della mente: il modello śarīra-śarīrin offre un'alternativa interessante al dualismo cartesiano e al materialismo riduzionista, proponendo un'emergentismo teistico dove la coscienza pervade la realtà a livelli differenti.
  5. Giustizia sociale: la critica di Ramānuja alle gerarchie ingiuste e la sua enfasi sulla dignità universale rimangono profeticamente rilevanti nelle lotte contemporanee contro discriminazione e oppressione.

Conclusione: la metafora dell'oceano divino

Se la metafisica di Śaṅkara può essere paragonata a un cristallo perfetto, trasparente e indifferenziato, dove ogni apparente molteplicità è solo rifrazione della luce unica, il Viśiṣṭādvaita di Ramānuja assomiglia a un oceano vivente.

Questo oceano è una realtà singola e indivisibile—non esistono "due oceani"—eppure pulsa di vita differenziata: onde che si sollevano e ricadono, correnti che si intrecciano, creature marine che nuotano nelle sue profondità, gocce di pioggia che lo arricchiscono. Ogni onda è realmente distinta dalle altre nella forma e nel movimento, ogni goccia possiede una sua identità transitoria, eppure tutte sono inseparabilmente acqua, tutte condividono la medesima natura salina, tutte dipendono per l'esistenza dal corpo oceanico totale che le contiene e le sostiene.

L'oceano non è diminuito dal movimento delle onde né accresciuto dalle gocce di pioggia; rimane se stesso, maestoso e immutabile nella sua essenza, anche mentre danza eternamente nelle sue manifestazioni. Le onde non sono illusioni proiettate sull'acqua ferma, ma espressioni autentiche della natura dinamica dell'oceano stesso. Quando un'onda ritorna all'oceano, non scompare nel nulla, ma realizza pienamente la sua natura oceanica pur conservando un punto di prospettiva unico da cui contemplare la magnificenza del tutto.

Così, per Ramānuja, Brahman è l'oceano divino infinito, i jīva sono le gocce coscienti che lo abitano, e il mondo materiale è il letto e la superficie attraverso cui l'oceano si manifesta. La liberazione non è l'evaporazione dell'individualità, ma il ritorno gioioso alla piena coscienza della propria natura oceanica—un ritorno che è insieme realizzazione e relazione, conoscenza e amore, unità e comunione.

In questo senso, il Viśiṣṭādvaita di Ramānuja offre una visione della realtà che onora simultaneamente l'aspirazione mistica all'unione con l'Assoluto e l'esperienza esistenziale della relazione personale con il divino, costruendo un ponte filosofico tra il trascendente e l'immanente, tra l'eternità e il tempo, tra la verità e l'amore.

- Rev. Dr. Luca Vona