Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 14 luglio 2025

Nicodemo Aghiorita. L'ascesi, tra preghiera contemplativa e riscoperta dei Padri

Nel 1809 muore Nicodemo Aghiorita, monaco ed editore delle più importanti collezioni di spiritualità patristica dell'oriente cristiano.
Nicola Kalliboutzes, questo il suo nome di battesimo, era nato nel 1749 sull'isola di Naxos. A ventisei anni si recò al monte Athos per farsi monaco presso il monastero di Dionysiou. Iniziava così il suo itinerario monastico, che saprà compaginare in armonia la tradizione esicasta (un metodo di preghiera contemplativa del periodo bizantino) con lo studio e la divulgazione delle opere dei padri.
Uomo di grande preghiera, dotato per di più di una memoria eccezionale e di una grande apertura alla sapienza cristiana sia d'oriente che d'occidente, Nicodemo riuscì a dare all'esicasmo, incentrato sulla pratica della preghiera di Gesù, un solido radicamento biblico e patristico; nel contempo, seppe trasmettere in modo vitale il messaggio dei padri in opere che rimangono ancor oggi il riferimento fondamentale per la vita spirituale di ogni cristiano ortodosso, come la celebre Filocalia redatta su invito di Macario di Corinto. Ciò gli fu possibile per la sua personale esperienza di Dio nella solitudine e nella preghiera, e per l'appassionata ricerca nelle tradizioni del passato, comprese quelle d'occidente come gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Nicodemo seppe fare di tali tradizioni un messaggio vivo e autentico da trasmettere all'intera comunità ecclesiale per vivificarla.
L'Aghiorita visse gran parte della sua vita in piccoli kellia della Santa Montagna, che costituivano l'ambiente ideale per la sua duplice attività di studio e di preghiera.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Nicodemo Aghiorita (1749-1809)

Fermati 1 minuto. Sono venuto a portare la spada

Lettura

Matteo 10,34-11,1

10,34 Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. 35 Sono venuto infatti a separare
il figlio dal padre, la figlia dalla madre,
la nuora dalla suocera:
36 e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa.
37 Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; 38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.
40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
11,1 Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.

Commento

Il tempo di Gesù e della sua Chiesa non è ancora l'era messianica di pace (1 Cor 4,8-13), il risultato immediato dell'annuncio evangelico è il conflitto. 

Il vangelo è di una tale radicalità da scuotere le fondamenta della vita quotidiana e delle relazioni familiari; è come una spada che discrimina chi lo accoglie da chi non lo accoglie, relativizzando i legami di sangue e di parentela, perché "i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa" (Mt 10,36).

Gesù, Figlio di Dio, chiede un primato assoluto nell'amore, proprio come il Dio di Israele aveva chiesto un primato assoluto nell'alleanza con il suo popolo. Tale primato implica la disponibilità, da parte del credente, di donare non qualcosa, ma tutta la propria vita al Signore. 

La fedeltà a Cristo si esprime innanzitutto nell'accoglienza, fin dai gesti più piccoli: chi avrà dato un solo bicchiere d'acqua a un discepolo non perderà la sua ricompensa. Offrire un bicchiere d'acqua ai viandanti faceva parte delle regole fondamentali dell'ospitalità orientale e non implicava alcun compenso. L'esempio utilizzato da Gesù sta a significare che la grazia di Dio va oltre i meriti degli uomini.

Prendendosi cura dei missionari itineranti, anche chi non è chiamato direttamente alla missione può condividere la ricompensa di chi è in prima linea. Infatti, i discepoli sono inviati nel nome di Gesù come suo ambasciatori e il trattamento riservato loro è come se fosse riservato a colui che li ha mandati.

Se la gloria della risurrezione è la mèta finale di chi annuncia e di chi accoglie Gesù, il percorso è faticoso e chiede un'amore capace di "perdersi" nel dono totale di sé. Preannunciando le ostilità che incontreranno i suoi discepoli, Gesù proclama che chi non porterà la sua croce non sarà degno di lui. Fatta questa premessa, solo allora, invia i suoi discepoli a predicare il vangelo.

Preghiera

Aiutaci, Signore, a testimoniarti con genorsità e coraggio, per superare ogni difficoltà e affrettare l'avvento del tuo regno di pace. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 13 luglio 2025

Tutto il mondo creato è in travaglio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, protezione di tutti coloro che confidano in te, senza il quale non c’è nulla di forte, nulla di santo; accresci e moltiplica su di noi la tua misericordia; affinché con te come guida e governatore, possiamo passare attraverso le cose temporali senza perdere le cose eterne. Concedici questo, o Padre celeste, per l’amore di Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Rm 8,18-23; Lc 6,36-42

Commento

Gesù ci comanda di essere misericordiosi come il Padre (Lc 6,36) e di perdonare il nostro prossimo, perché noi per primi siamo stati perdonati. Nessuno di noi può pensare di non avere avuto bisogno e di non avere continuamente bisogno del perdono di Dio.

Come afferma San Paolo nella Lettera ai Romani, citando i Salmi (Sal 14,3 e 53,1-3): “non c’è alcun giusto, neppure uno” (Rm 3,10). Per questo nella preghiera che ci ha insegnato Gesù chiediamo al Padre di rimetere i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Il comandamento della misericordia scandalizza, perché ci è più facile pensare a una giustizia di Dio strettamente retributiva, che punisce i peccatori e premia i giusti. È più facile pensare di esserci meritati un premio da parte di Dio, piuttosto che pensare alla gratuità della salvezza. Una gratuità che lungi dall’istigarci all’irresponsabilità ci esorta alla riconoscenza e dunque alla rettitudine come risposta al bene che Dio ci ha mostrato per primo e come imitazione del suo agire nel mondo.

Fu proprio nel predicare la misericordia di Dio che Gesù incontrò le maggiori contestazioni e ostilità. Anche perché la sua predicazione non si fermava alle parole, ma si concretizzava in gesti che determinavano una rottura con le pratiche legalistiche del tempo: egli guarisce di sabato, tocca i lebbrosi mosso da compassione, mangia con le prostitute e i pubblici peccatori.

Siamo tutti feriti dal peccato; e anche il nostro occhio è ferito dal peccato, per questo spesso non sappiamo vedere le cose come le vede Dio. Nella misura in cui saremo in grado di comprendere quanto siamo noi per primi bisognosi del perdono del Padre saremo capaci di donare perdono e misericordia al nostro prossimo e mostrarci compassionevoli verso l’intera creazione, che geme attendendo la manifestazione dei figli di Dio (Rm 8,19). 

La perfezione non è solo qualcosa da cui siamo decaduti e che ricordiamo con nostalgia, ma una mèta cui la coscienza tende come in una visione profetica, animata dalla speranza e guidata dallo Spirito.

Il messaggio evangelico ci dona la buona notizia che il Signore fa nuove tutte le cose, restaurando in noi la sua immagine e chiamandoci a curare le ferite di ogni uomo.

Cristo ci chiede di operare attivamente per riportare nel mondo pace e riconciliazione, tra l'uomo e Dio, tra uomo e uomo e tra l'uomo e l'intera realtà creata.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 11 luglio 2025

Fermati 1 minuto. Che cosa ne otterremo?

Lettura

Matteo 19,27-29

27 Allora Pietro prendendo la parola disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». 28 E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele. 29 Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.

Commento

Di fronte al rifiuto del giovane ricco di lasciare tutto per seguire Gesù (Mt 19,21) Pietro evidenzia la generosità sua e degli apostoli e con una domanda diretta chiede quale ricompensa spetterà loro. Gesù non lo riprende per questo, ma fa una promessa che attesta la generosità ancor più grande da parte di Dio.

La "nuova creazione" (v. 28) è letteralmente la "nuova generazione" (gr. palingenesia), termine che ricorre soltanto in questo passo del Vangelo di Matteo - a significare la rigenerazione nel regno di Dio - e nella lettera di Tito (Tt 3,5), ad indicare la rinascita spirituale attraverso il battesimo. La nuova creazione potrebbe riferirsi al periodo successivo alla risurrezione, quando i dodici governeranno l'intero Israele, cioè la chiesa di Gesù. Il regno di Dio infatti non è soltanto l'evento escatologico e cosmico atteso dagli ebrei nel giorno del giudizio, ma anche la sovranità regale di Dio che si fa presente al mondo in Gesù; egli infatti avvia la sua predicazione annunciando che "il regno dei cieli è vicino" (Mt 4,17).

Giudicare (gr. krino) può essere inteso anche nel senso di governare (cfr. Gdc 15,20; 16,31; Sal 2,10). Tuttavia, poiché in questo caso è collegato al tempo in cui "il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria" è più probabile che ciò che viene promesso ai dodici è che si uniranno a Gesù nel giudicare il popolo d'Israele.

Secondo altri passi del Nuovo Testamento tutti i credenti saranno chiamati a partecipare al giudizio di Cristo sul mondo (Mt 25,21; Rm 16,20; 1 Cor 6,2; Ap 2,26-27; 3,21).

Poiché Dio non è debitore di alcuno, chi avrà lasciato casa, o parenti, o proprietà, per mettersi al servizio delle esigenze del regno troverà l'affetto dei fratelli e delle sorelle nella fede e ricchezze superiori ai beni che si possono vedere.

Solo chi ha trovato la sapienza in Cristo può giudicare ogni cosa con retto discernimento. Per gustare la vita vera, dobbiamo saper riconoscere ciò che è destinato alla sterilità e alla morte, per ricercare in Dio, nascosto dietro ogni apparenza, colui che solo può acquietare il nostro cuore.

Preghiera

Apri i nostri occhi, Signore, affinché possiamo cercarti e trovarti in ogni cosa e lodare la generosità della tua provvidenza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Benedetto da Norcia. Padre del monachesimo occidentale

Oggi ricorre nel calendario monastico la festa di Benedetto, padre del monachesimo d'occidente.
«Vi fu un uomo di vita venerabile, Benedetto per grazia e per nome»: così inizia il secondo libro dei Dialoghi, in cui Gregorio Magno narra la vita del più famoso monaco latino, nato a Norcia intorno al 480. Inviato a Roma per compiere gli studi, Benedetto abbandonò la città, «sapientemente ignorante e saggiamente incolto, desideroso di piacere a Dio solo». Conobbe le diverse forme di vita monastica del suo tempo: il semianacoretismo ad Affile, l'eremitismo in una grotta vicino a Subiaco, infine il cenobitismo indisciplinato e decadente di quell'epoca. Dopo un tentativo fallito di riformare un monastero già esistente, Benedetto tornò nella solitudine, raggiunto ben presto da molti, che desideravano mettersi sotto la sua paternità spirituale. Egli organizzò per i suoi discepoli delle piccole comunità, assegnando loro degli abati e istruendoli nella conoscenza delle Scritture, nella vita fraterna e nella preghiera.
Nel 529 Benedetto si trasferì con alcuni monaci a Montecassino, per dar vita a un nuovo tipo di monastero. Per questo cenobio, unico e con un solo abate, egli scrisse la sua Regola, che testimonia il suo grande discernimento e la sua misura, e che sarebbe diventata il riferimento essenziale per tutto il monachesimo d'occidente. Benedetto organizzò le giornate della comunità contemperando tempi di preghiera e di lavoro, da lui ritenuti ugualmente imprescindibili per la vita del monaco.
Secondo un'antica tradizione, il padre dei monaci latini morì il 21 marzo del 547.

Tracce di lettura

Dice il Signore: «Chi è l'uomo che vuole la vita e che desidera vedere giorni felici?». Ecco, il Signore nel suo grande affetto ci mostra la via della vita: percorriamo sotto la guida dell'Evangelo le sue vie, per giungere a vedere colui che ci ha chiamati al suo regno.
È perciò necessario che istituiamo una scuola del servizio divino, all'interno della quale speriamo di non stabilire nulla di aspro o di gravoso; ma se anche, in ragione di un necessario equilibrio, ne risultasse qualcosa di un poco appena più ristretto, in vista della correzione dei vizi e del mantenimento della carità, non tornare indietro, atterrito per lo spavento, dalla via della salvezza. Man mano infatti che si avanza nella vita di conversione e di fede, si corre sulla via dei comandamenti con il cuore dilatato nell'inesprimibile dolcezza dell'amore.
(Benedetto, Prologo della Regola).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Benedetto (ca 480-547)

mercoledì 9 luglio 2025

Fermati 1 minuto. Chiamati per nome

Lettura


Matteo 10,1-7

1 Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità.
2 I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, 3 Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, 4 Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì.
5 Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti:
«Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6 rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele. 7 E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino.

Commento

Il mandato di Gesù a scacciare i demòni, guarire da ogni malattia e annunciare che il Regno di Dio è vicino è conferito non a un singolo ma a ciascun membro di un collegio di apostoli. È conferito attraverso una specifica chiamata. Nessuno può considerarsi inviato da Gesù in missione senza avere avuto un incontro personale con lui, senza essere stato chiamato per nome. 

Nell'antichità e nel pensiero biblico, fin dal racconto della Genesi, in cui Adamo è chiamato a dare un nome a ogni creatura, prendendosi cura di essa, "possedere" il nome di una cosa o di una persona significava entrare in contatto con l'essenza intima di quella realtà. Così Gesù ci chiama conoscendo le profondità del nostro cuore, comprese le sue debolezze, le sue ferite, i suoi limiti. 

Per questo tra i suoi discepoli non troviamo uomini dotti e potenti ma pescatori e peccatori. Egli li invia "dopo averli istruiti" (v. 5). È dall'ascolto della sua Parola che prende le mosse la missione. Chi non incontra Gesù nella preghiera, chi non ascolta la sua parola nelle Scritture, non può considerarsi suo discepolo.

In questa prima fase della missione il Signore invita i suoi discepoli ad andare due a due - il testo del brano evangelico ci presenta sei coppie di nomi - ad annunciare la sua parola ai figli di Israele: «rivolgetevi alle pecore perdute della casa d'Israele»; ma man mano che crescerà l'ostilità alla sua missione e ancor più dopo la sua risurrezione, il mesaggio evangelico verrà esteso a tutto il mondo e "a ogni creatura" (Mt 16,15). 

Siamo chiamati a testimoniare il Cristo cominciando da chi ci è vicino, nel nostro ambiente quotidiano, lì dove Dio ci ha chiamati.

Preghiera

Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio. Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode si estende ai confini della terra.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 8 luglio 2025

Mael-Ruain, riformatore del monachesimo irlandese

La sera del 7 luglio 792 muore Mael-Ruain, abate del monastero irlandese di Tallaght.
L'impatto esercitato sulla chiesa irlandese dalla riforma monastica di cui egli fu il maggior esponente risulterà decisivo nei secoli successivi. Mael-Ruain faceva parte di quel movimento di asceti, sorto nella seconda metà dell'VIII secolo, che si facevano chiamare Céli dé (compagni di Dio) e si proponevano di restituire la purezza evangelica delle origini al monachesimo irlandese.
Dopo aver fondato nel 774 la comunità di Tallaght, Mael-Ruain diventò l'ispiratore di un movimento spirituale che si diffuse per tutta l'Irlanda facendo riscoprire gli elementi fondamentali della vita monastica: celibato, paternità spirituale, preghiera, lavoro e studio; inoltre, in un tempo in cui l'antico costume celtico delle peregrinationes pro Christo era ormai degenerato, Mael-Ruain si adoperò con insistenza per insegnare ai suoi monaci l'importanza della perseveranza e della stabilità nella comunità in cui ci si è impegnati a vivere.
Egli dedicò gli ultimi diciotto anni della propria vita alla guida spirituale dei numerosissimi discepoli e alla redazione di regole e istruzioni ispirate al monachesimo orientale.

Tracce di lettura

Se sei un monaco, e vivi secondo una disciplina, abbandona ogni male e adeguati agli ordinamenti della chiesa senza lasciarti andare, senza venire meno ai tuoi obblighi. Non vi sia trascuratezza nel tuo modo di vivere, né dissenso, né odio per alcuno, ma solo la perseveranza nel bene. Non avere proprietà private, né cattive abitudini; non mormorare, non insultare nessuno, non essere geloso. Non cercare contese, né di fare la tua volontà. Non disperare mai, non ingannare il prossimo, non parlare molto, non cercare la presenza degli uomini solo per sfuggire alla solitudine. Sii paziente, sincero e gentile con tutti, rivolgendo suppliche a Cristo in ogni occasione. Accettiamo con gioia le tribolazioni, sopportandole con pazienza, avendo in mente la compagnia dei santi in cielo, e perdoniamo a tutti quelli che ci hanno fatto torto, perché tale è la volontà del re dei cieli: che amiamo coloro che ci odiano e che rendiamo loro il bene per il male.
(Regola di Carthage).

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Pecore senza pastore

Lettura

Matteo 9,32-38

32 Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33 Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». 34 Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni».
35 Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. 36 Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. 37 Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! 38 Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!».

Commento

A volte il male attanaglia la lingua dell'uomo, il quale diviene incapace di professare la gloria di Dio. Questa forma di mutismo può presentarsi in diversi modi: il sentimento di inadeguatezza davanti a Dio; la paura di affrontare la radicalità del vangelo; l'indifferenza verso problemi che oltrepassano il perimetro del nostro ego.

Anche le guide spirituali, in questo episodio evangelico i farisei, spesso "ci mettono del loro" e non sono di aiuto a comprendere e avvicinare il mistero del regno di Dio, la sua portata liberatrice. Addirittura la confondono con l'azione del demonio, come pastori ciechi, dietro i quali il gregge si smarrisce.

Così le folle si mostrano come pecore senza pastore e Gesù ne prova grande compassione. Una condizione in cui si trovano molti cristiani disorientati dalla Babele di chiese e confessioni di fede spesso in contrapposizione tra loro, oppure da un soffocante legalismo, che avviluppa, con precetti di uomini (Is 29,13; Mt 15,9), la libertà dei figli di Dio guidati dallo Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8).

Gesù ci invita a condividere la compassione provata dalla sua natura non solo divina, ma pienamente umana, e a pregare affinché il Padre mandi operai che sappiano prendersi cura della sua messe. Il suo regno, infatti, ha bisogno di molto lavoro e di braccia rese forti dalla potenza di Dio.

Preghiera

O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall’oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

lunedì 7 luglio 2025

Atenagora I e il desiderio dell'unità

Il 7 luglio 1972 muore a Istanbul Athenagoras, arcivescovo della chiesa di Costantinopoli e patriarca ecumenico.
Aristokles Spyrou era nato il 25 marzo 1886 in un paesino dell'Epiro ai confini con l'Albania. Monaco a vent'anni, egli cominciò subito la sua missione pastorale come diacono a Monastir, quindi come vescovo a Corfù, e infine quale arcivescovo dei greco-ortodossi d'America. Ovunque fu un instancabile servitore della causa dell'unità tra le chiese cristiane, e tutta la sua opera fu un costante ministero di riconciliazione, attraverso il riconoscimento della miseria e della grandezza di ogni uomo.
La sua elezione a patriarca ecumenico di Costantinopoli nel 1948, che non mutò il suo cuore semplice di monaco, contribuì in modo determinante all'avvicinamento fra le confessioni cristiane. L'adesione degli ortodossi al Consiglio ecumenico delle chiese, la partecipazione di osservatori bizantini al concilio Vaticano II, la preparazione di un sinodo panortodosso, la cancellazione delle reciproche scomuniche fra Roma e Costantinopoli, gli storici incontri con papa Paolo VI, furono solo l'esplicitazione di un ardente desiderio interiore di unità che animava Athenagoras.
Giunto ormai vicino alla morte, egli volle prepararsi da solo all'incontro con Dio, avvenuto nell'ottava della festa, comune a cattolici e ortodossi, dei santi Pietro e Paolo, apostoli della chiesa indivisa.

Tracce di lettura

Ricordatevi: Gesù è invitato da un fariseo. Entra una cortigiana portando un vaso di alabastro colmo di unguento. Si getta ai piedi di Gesù, li bagna di lacrime, poi li asciuga coi suoi capelli, li abbraccia e li unge di nardo. Il fariseo pensa che se Gesù fosse davvero un profeta saprebbe che quella donna è una peccatrice. E Gesù gli racconta la storia dei due debitori: l'uno doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Il creditore rimette a entrambi i loro debiti. «Quale dei due», domanda Gesù, «lo amerà di più?». E il fariseo non può che rispondere: «Quello a cui più è stato condonato». Allora Gesù gli enumera tutte le prove d'amore che quella donna gli ha dato. E conclude: «Perciò ti dico che le sono rimessi molti peccati, perché molto ha amato».
Perché lei ha molto amato. Perché Lui ha molto amato. Tutto il cristianesimo è qui.
(Athenagoras, Dialoghi con Olivier Clément ).

 - Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

ATHENAGORAS I e PAOLO VI
Athenagoras I e Paolo VI

Fermati 1 minuto. La vita che fluisce attraverso la fede

Lettura

Matteo 9,18-26

18 Mentre diceva loro queste cose, giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». 19 Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli.
20 Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. 21 Pensava infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». 22 Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell'istante la donna guarì.
23 Arrivato poi Gesù nella casa del capo e veduti i flautisti e la gente in agitazione, disse: 24 «Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme». Quelli si misero a deriderlo. 25 Ma dopo che fu cacciata via la gente egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. 26 E se ne sparse la fama in tutta quella regione.

Commento

Nei due miracoli che ci racconta Matteo in questa pagina del suo Vangelo Gesù è presentato come il Signore della vita. Nel sangue, infatti, è la vita (Lv 17,14) e l'emorragia dell'anonima donna guarita da Gesù la privava non solo della propria forza vitale ma anche della vitalità delle relazioni sociali.

La sua malattia non solo è grave fisicamente ma la rende permanentemente impura dal punto di vista religioso (cfr. Lv 15,19-25; Ez 36,17). Ciò implicava l'emarginazione non solo dal culto cerimoniale della sinagoga e del tempio, ma anche da parte della sua stessa famiglia.

L'estremità del lembo del mantello di Gesù che viene toccata dalla donna consiste probabilmente nei filatteri della veste che avevano il compito di ricordare a chi la indossava il dovere di osservare i comandamenti di Dio.

La donna non tocca direttamente Gesù per il timore dettato dalla propria condizione di impurità. Ciò che ottiene è non solo la guarigione (v. 22) ma la salvezza per fede, la traduzione letterale delle parole di Gesù è infatti «la tua fede ti ha salvata» (v 22).

Gesù trova in casa della fanciulla defunta i flautisti e la folla in "agitazione", cioè che esegue i lamenti abituali in queste occasioni. Era consuetudine pagare delle persone per svolgere questa funzione.

Nell'affermare che la fanciulla sta dormendo Gesù non intede dire che la sua morte è apparente, ma profetizza che tornerà in vita. Pronuncerà un commento simile in occasione della morte di Lazzaro (Gv 11,11). Il sonno per indicare la morte è una metafora consueta nel Nuovo Testamento (1 Cor 11,30; 15,51; 1 Tess 5,10).

Il lamento per la morte della fanciulla si muta in derisione verso Gesù di fronte alle sue affermazioni. Vi è un contrasto tra i lamenti "a pagamento" della folla nella casa di Giàiro e la sincera compassione di Gesù, in virtù della quale egli ridona la vita alla fanciulla.

Matteo interpola il racconto della guarigione dell'emorroissa e della risurrezione della figlia di Giàiro dimostrando il suo potere divino nel realizzare ciò che è ritenuto impossibile: la guarigione di una malattia che dura da dodici anni e il ritorno dalla morte di una giovane donna.

In entrambi i miracoli la potenza della fede è decisiva, come attestano le parole di Giàiro «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà»; v. 18) e quelle dell'emorroissa («Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita»; v. 21).

Di fronte a una fede fervente e mossa da umiltà Gesù "si sente costretto" a venire in nostro aiuto, a far fluire la vita attraverso i nostri corpi e le nostre anime. Partecipiamo così alla beatitudine che fu della madre di Dio: «beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore!» (Lc 1,45).

Preghiera

Rafforza la nostra fede, Signore, affinché nella salute e nella malattia possiamo gustare la tua salvezza; tu che sei fonte di vita eterna. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 5 luglio 2025

Il buon pastore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Signore, ti supplichiamo di ascoltarci nella tua misericordia; tu che ci hai donato un ardente desiderio di pregare, concedici che attraverso il tuo aiuto, possiamo essere difesi e confortati in ogni pericolo e avversità; per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 5,5-11; Lc 15,1-10

Commento

L’iconografia del buon pastore o, più precisamente del “bel” pastore (il termine greco è, infatti, kalòs), apparteneva al mondo greco e romano prima dell’avvento del cristianesimo ed era considerata di buon auspicio per i defunti.

Ma l’immagine di Dio come pastore di Israele, che mostra il proprio amore per la pecora perduta è ben presente nella religiosità ebraica, e in particolare nella letteratura profetica. Così in Ezechiele leggiamo: "Dice il Signore, Dio: 'Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre'" (Ez 34,11-12). E poi vi è il ben noto salmo 23, utilizzato tradizionalmente anche nell’ambito del rito delle esequie: "Il Signore è il mio pastore" (Sal 23,1).

Il protagonista della parabola del buon pastore si comporta in modo paradossale, sfidando la comune logica umana: chi lascerebbe novantanove pecore per andare a cercarne una sola che si è smarrita, senza la certezza di ritrovarla, e con il rischio di perdere l’intero gregge?

Dio non ragiona con mentalità di profitto, semplicemente in termini di costi e benefici. Il suo amore per noi è amore non solo dell’umanità nel suo insieme, ma per la nostra individualità. Per questo si fa carico di venirci a cercare, se anche fossimo gli unici dispersi del suo gregge.

Egli non ci abbandona e non sta neanche nell’ovile ad aspettare il nostro ritorno, ma ci viene incontro, si affatica nella ricerca e quando ci ha trovati aggiunge fatica a fatica portandoci sulle sue spalle. Troviamo così in quest'immagine la passione del Dio incarnato per l'umanità. 

Dio ci chiede la stessa sollecitudine verso il fratello più debole, nella consapevolezza che tutti siamo preziosi ai suoi occhi e che egli è venuto perché nulla vada disperso.

Umiliamoci, dunque, sotto la potente mano di Dio, come ci ammonisce l’apostolo Pietro (1 Pt 5,6); perché se ci lasciamo trovare, la sua mano ci raggiunge, non per castigarci, ma come mano tesa, che ci offre il suo soccorso e il suo conforto, in ogni pericolo e avversità.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 3 luglio 2025

Tommaso apostolo. Toccare con mano il Risorto

Di Tommaso, detto Didimo, parla soprattutto il Vangelo di Giovanni, nel quale egli appare spesso in connessione con i grandi misteri della glorificazione di Cristo.
Uomo capace di grande slancio nella sua adesione al Signore, come quando nell'ora della morte di Lazzaro esorta gli altri discepoli ad andare tutti insieme a morire con Gesù, Tommaso è rappresentato altresì come tipo dell'incredulità del credente, il cui cammino verso la pienezza della fede può compiersi soltanto ascoltando e aderendo assiduamente alla testimonianza della comunità.
La sua domanda: «Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?» dà occasione a Gesù di formulare una delle più alte rivelazioni cristologiche del Nuovo Testamento: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); ma nonostante la grandezza della rivelazione ricevuta, dopo la resurrezione Tommaso non crede alla testimonianza degli altri discepoli, ed esige di vedere ciò che i suoi orecchi hanno udito. Solo mediante un nuovo intervento del Signore, che accondiscende alla sua debolezza e gli mostra il permanere dei segni della passione nel proprio corpo risorto, Tommaso giungerà alla confessione di fede: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). A tale confessione, Gesù risponde proclamando la vera beatitudine dei credenti, che è quella di coloro che «pur non avendo visto, crederanno» (Gv 20,29).
Secondo Eusebio di Cesarea, Tommaso evangelizzò la Persia, mentre un'antichissima tradizione lo vuole apostolo delle coste occidentali dell'India; i cristiani del Malabar lo considerano per questo motivo il fondatore della loro chiesa. Sempre secondo la tradizione, morì martire in India, per mano di un re locale.

Tracce di lettura

O paradossale prodigio,
la paglia ha toccato il fuoco ed è stata salvata,
Tommaso ha messo la mano nel fianco ardente di Gesù Cristo
e non è stato consumato dal contatto:
esso ha mutato l'incredulità della sua anima in una fede piena;
con fervore è sorto un grido dal profondo del suo cuore:
Mio Signore e mio Dio,
o Risorto dai morti, gloria a te!
(Liturgia bizantina, Quarto ichos dei Grandi vespri per la domenica di Tommaso).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Tommaso tocca il costato di Gesù, icona di Bose

Fermati 1 minuto. Beati loro!

Lettura

Giovanni 20,24-29

24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 27 Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». 28 Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29 Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».

Commento

Tommaso vuole "toccare con mano" per credere alla risurrezione di Gesù. La sua incredulità viene sanata proprio dalle piaghe di Cristo; quelle piaghe dalle quali, come afferma Pietro "siamo stati guariti" (1Pt 2,25). 

Il Signore entra a porte chiuse là dove gli apostoli si sono riuniti - manifestandosi nel segreto di quella stanza nella quale aveva invitato a compiere la preghiera intima al Padre («quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto»; Mt 6,6) - forse anche impauriti dalle possibili persecuzioni da parte dei capi della sinagoga. Gesù viene a portare la pace, in queste ore di tribolazione per gli apostoli.

«Beati loro!» affermiamo spesso; ma riguardo a chi? Quante volte lo diciamo a sproposito, per chi ha ereditato una bella casa, ha avuto una raccomandazione per un posto di lavoro o ha tratto simili vantaggi dalle cose di questo mondo? 

Gesù, che aveva proclamato otto beatitudini sul Monte, riguardo i miti, i poveri, gli afflitti, (Mt 5,1-11) qui ne proclama una nuova: «beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Beati perché, come aveva affermato il Signore nella sua predicazione: «chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre» (Gv 14,12). Compiere le opere di Gesù significa acquisire la capacità di amare donandosi senza riserve, come attestano i segni della sua passione, che egli ha voluto impressi per sempre sul suo corpo risorto.

Preghiera

Concedici, Signore, di contemplare il tuo mistero di salvezza, per vivere in pienezza la nostra vita, secondo lo spirito delle beatitudini che hai proclamato. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

mercoledì 2 luglio 2025

Fermati 1 minuto. La differenza tra riconoscere e amare

Lettura

Matteo 8,28-34

28 Giunto all'altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli vennero incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada. 29 Cominciarono a gridare: «Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?».
30 A qualche distanza da loro c'era una numerosa mandria di porci a pascolare; 31 e i demòni presero a scongiurarlo dicendo: «Se ci scacci, mandaci in quella mandria». 32 Egli disse loro: «Andate!». Ed essi, usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci: ed ecco tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti. 33 I mandriani allora fuggirono ed entrati in città raccontarono ogni cosa e il fatto degli indemoniati. 34 Tutta la città allora uscì incontro a Gesù e, vistolo, lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio.

Commento

L'episodio dei due indemoniati gadareni mostra che anche gli spiriti maligni conoscono Gesù come Figlio di Dio. Così è anche tra gli uomini: vi è chi riconosce la vera identità di Cristo, ma non si decide a stare dalla sua parte. Una cosa è conoscere la verità, altra cosa amarla.

I demòni "rimproverano" a Gesù di essere venuto a tormentarli "prima del tempo" (v.29). Era credenza diffusa tra i giudei che gli spiriti maligni avrebbero avuto potere sull'umanità fino all'instaurazione del regno di Dio; qui abbiamo la dimostrazione che esso ha già cominciato a farsi strada nel mondo.

L'allevamento dei maiali, considerati impuri dalla legge giudaica, sta a indicare che ci troviamo in un ambiente di non ebrei. Ai demòni non è concesso di uccidere l'uomo, ma possono, con il permesso di Dio, attaccare i suoi beni, privarlo della libertà, escluderlo dal consesso sociale (come testimonia il libro di Giobbe). Così è nel caso della richiesta dei demòni che tormentano i due uomini di Gadara, che chiedono a Gesù di poter entrare nel gregge di maiali (v. 31) e ottengono il suo consenso.

I Gadareni chiedono a Gesù di allontanarsi dal loro territorio (v. 34), perché la preoccupazione della perdita economica subìta è maggiore del riconoscimento della sua potenza e della gratitudine per la liberazione dei due uomini indemoniati. Abbiamo qui la rappresentazione del prevalere degli interessi personali sul riconoscimento di Cristo come salvatore e sul senso di solidarietà umana con i sofferenti. 

Gesù ha il potere di liberare l'uomo dal male, ma all'uomo è lasciata la capacità di accoglierlo o di respingerlo. Dio non si impone ma rispetta la nostra libertà. Lasciamolo entrare nel territorio delle nostre vite.

Preghiera

Signore del Cielo e della terra, liberaci dai lacci del maligno; affinché possiamo accoglierti come nostro personale salvatore e lodare la potenza del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 1 luglio 2025

Fermati 1 minuto. Il sonno di Dio

Lettura

Matteo 8,23-27

23 Gesù salì sulla barca e i suoi discepoli lo seguirono. 24 Ed ecco si sollevò in mare una così gran burrasca, che la barca era coperta dalle onde; ma Gesù dormiva. 25 E i suoi discepoli, avvicinatisi, lo svegliarono dicendo: «Signore, salvaci, siamo perduti!» 26 Ed egli disse loro: «Perché avete paura, o gente di poca fede?» Allora, alzatosi, sgridò i venti e il mare, e si fece gran bonaccia. 27 E quegli uomini si meravigliarono e dicevano: «Che uomo è mai questo che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?»

Commento

Prima di una potente manifestazione della divinità di Cristo i discepoli assistono a una toccante espressione della sua umanità, mentre Gesù, affaticato dal suo ministero, giace addormentato.

Nel passo parallelo del Vangelo di Marco l'iniziativa di salire sulla barca è presa dai discepoli (Mc 4,36) qui invece è Gesù che sale per primo e i discepoli lo seguono. Il vero discepolo è chiamato a seguire Cristo nei pericoli e nelle difficoltà.

Il vento improvviso è una caratteristica del lago di Tiberiade, che giace a 208 metri sotto il livello del mare. Essendo la fossa giordanica uno dei luoghi più caldi della Palestina, talvolta masse d’aria vi si precipitano sconvolgendo il lago in pochi istanti.

Gesù avrebbe potuto impedire lo scatenarsi della tempesta, ma l'evento rappresenta un'occasione per manifestare la sua gloria e per confermare i discepoli nella fede. 

L'episodio della tempesta sedata può essere letto anche sotto l'aspetto ecclesiale: la comunità dei discepoli è in difficoltà nelle tempeste della storia se la fede è poca e debole (gr. oligopistoi, "uomini di poca fede"; v. 26). Solo con la fiducia in Cristo, Signore dell'universo, si può ottenere la salvezza. La risposta di Gesù all'appello dei discepoli attesta che chi invoca il nome del Signore sarà salvato (cfr. Gl 2,32; At 2,21; Rm 10,13).

L'atto di Gesù che calma la tempesta richiama alla mente Dio che controlla l'impeto delle acque (Sal 65,8; 89,10; 93,3-4; 107,29). C'è un parallelismo tra l'episodio della tempesta sedata e quello dell'attraversamento del Mar Rosso narrato nel libro dell'Esodo (Es 14) durante il quale gli ebrei innalzano il loro grido di aiuto a Dio e una volta liberati hanno fede in Mosè. Nell'episodio evangelico però Gesù agisce come Signore e non come mediatore.

Mentre le acque obbedirono a Mosè mediante il suo bastone, a Giosuè mediante l'Arca dell'alleanza e a Eliseo mediante il suo mantello, Gesù comanda loro soltanto con la sua parola. Nulla può ottenerci la salvezza in modo più efficace della parola di Dio, che calma le tempeste del dubbio e della paura.

Il silenzio, il "sonno" di Dio che spesso costatiamo nelle avversità che colpiscono il mondo, la Chiesa e le singole persone è spesso motivo di scandalo, che porta taluni a dubitare dell'esistenza di Dio, altri del suo amore per noi. Eppure è spesso proprio l'uomo a scatenare le burrasche, a portare il male nel mondo, per poi condannare quel Dio che volutamente ignora. L'oscuramento della nostra anima diviene così la causa che scatena le tempeste della violenza e che suscita la paura in coloro che subiscono la sopraffazione. Il Signore ci invita a non avere paura di quelli che uccidono il corpo ma non hanno potere di uccidere l'anima (Mt 10,28).

Noi non conosciamo le vie del vento (Gv 3,8) e non possiamo controllarlo; ma colui che sprigiona il vento dai suoi depositi (Sal 135,7) e lo raccoglie nel suo pugno (Pr 30,4) può darci fiducia e conforto nei giorni più tempestosi. Resteremo ammirati dalla capacità della parola di Dio di portare pace nei nostri cuori.

Preghiera

Dèstati, Signore, e salvaci dai pericoli che ci minacciano; affinché confermati nella fede possiamo innalzare la nostra lode alla tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Mosè l'Etiope. La conversione che matura nel deserto

Nel martirologio romano e nei sinassari bizantini si fa oggi memoria di Mosè l'Etiope, monaco nel deserto di Scete.
Nato in Etiopia verso il 332, ci informa Palladio, Mosè era un uomo di colore, alto, molto robusto, che arrivò alla vita monastica dopo svariate peripezie personali.
Di indole violenta, si macchiò di diversi crimini prima di giungere, forse per sfuggire alla giustizia umana, nel deserto di Scete, ma seppe operare una radicale conversione alla carità evangelica attraverso la vita anacoretica, vissuta con sempre maggiore convinzione sotto la guida dei padri del deserto, soprattutto di Macario il Grande e di Isidoro il Presbitero, e resa ancor più dura dalla sua condizione di straniero dalla pelle nera.
Rendendosi conto di aver ricevuto grande misericordia dal Signore, Mosè divenne per tutti i monaci di Wādī al-Naṭrūn un mirabile esempio di umiltà e di mitezza, come testimoniano i Detti dei padri che narrano di lui. Per Cassiano egli è «il più grande fra tutti i santi», e con lui, secondo Poemen, «a Scete si raggiunse il culmine della santità».
Mosè morì all'età di settantacinque anni, dopo essere stato ordinato presbitero su richiesta dei suoi fratelli. Secondo il sinassario alessandrino, che lo ricorda il 24 di ba'ūnah, corrispondente al nostro 1 luglio, Mosè subì il martirio per mano dei barbari, assieme a sette discepoli, verosimilmente nell'anno 407.
È considerato il primo monaco originario dell'Etiopia.

Tracce di lettura

Un giorno peccò un fratello a Scete; i padri, radunatisi, mandarono a chiamare abba Mosè. Ma, poiché egli non voleva venire, il presbitero gli mandò a dire: «Vieni, la gente ti aspetta!». Egli allora si mosse e venne, portando sulle spalle una cesta forata piena di sabbia. Gli andarono incontro alcuni fratelli e gli chiesero: «Padre, cosa è mai questo?». Disse loro l'anziano: «Sono i miei peccati che scorrono via dietro di me senza che io li veda. E oggi sono venuto qui, per giudicare i peccati degli altri». A queste parole non dissero nulla al fratello che aveva peccato, e gli perdonarono.
(Mosè 2, Detti dei padri del deserto)

Un fratello si recò a Scete dal padre Mosè per chiedergli una parola. L'anziano gli disse: «Va', rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa»:
(Mosè 6, Ibid.)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 30 giugno 2025

Raimondo Lullo, precursore del dialogo interreligioso

Nel 1315 termina la sua lunga e feconda parabola terrena l'erudito catalano Raimondo Lullo.
Nato in una famiglia nobile dell'isola di Maiorca, terra di incontri ma anche di scontri frequenti nel XIII secolo fra ebrei, cristiani e musulmani, Raimondo Lullo trascorse tutta la sua vita cercando di conoscere e comprendere in profondità l'alterità della cultura musulmana per portare ad essa il messaggio vitale del vangelo.
In un'epoca di contrapposizioni cruente, di espulsioni e di massacri, egli seppe cercare sempre la via del dialogo, studiando da solo le lingue orientali e la tradizione filosofica araba, e compiendo ripetuti viaggi sulle coste dell'Africa settentrionale, armato soltanto della propria fede e della propria intelligenza.
Divenuto teologo e filosofo di fama internazionale, egli ricevette sul finire della vita una parziale ricompensa alle umiliazioni patite ad opera dei saraceni, ma anche dei correligionari cristiani, che poco lo avevano compreso, quando gli fu permesso di esporre il suo originale metodo teologico nelle grandi università dell'epoca.
Lullo morì in circostanze imprecisate, di ritorno dall'ennesimo viaggio in terra saracena, dopo aver lasciato una vastissima produzione letteraria (circa 300 opere), alla quale attingeranno uomini di grande levatura come Nicolò di Cusa, Pico della Mirandola e Giordano Bruno.
Secondo alcune tradizioni, negli ultimi anni della sua vita sarebbe stato accolto dall'Ordine francescano e sarebbe morto martire. La data odierna è quella in cui lo ricordano i francescani.

Tracce di lettura

All'uscita da una certa città s'incontrarono tre Savi: l'uno era ebreo, l'altro cristiano e l'altro saraceno. Appena si scorsero, essi si salutarono, s'abbracciarono l'un l'altro gioiosamente, decidendo di comune accordo di tenersi per un poco compagnia. Ciascuno s'informò delle condizioni, della salute e dei desideri altrui; quindi convennero di camminare insieme, per riposare i loro spiriti affaticati dagli studi ... Quand'ebbero terminato di conversare, presero congedo l'uno dall'altro assai amabilmente: ciascuno domandò agli altri di volerlo perdonare nel caso egli avesse detto alcunché di irriguardoso nei confronti della loro legge; e ciascuno perdonò. Sul punto ormai di separarsi, uno di loro disse: «Signori, quale profitto trarremo dall'avventura che ci è capitato di vivere? Non potremo forse discutere un po', ogni giorno, rispettando sempre le norme che ci ha illustrato madonna Intelligenza? E non potremo forse impegnarci a renderci ogni onore e servizio, al fine di giungere ancor prima ad un accordo? Sono infatti proprio la guerra, la sofferenza, la malevolenza e il continuo infliggersi l'un l'altro onte e danni che impediscono agli uomini d'unirsi in una stessa fede».
(Raimondo Lullo, Il libro del Gentile e dei tre Savi)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Raimondo Lullo (1232-1316)

Fermati 1 minuto. Siamo veramente liberi?

Lettura

Matteo 8,18-22

18 Vedendo Gesù una gran folla intorno a sé, ordinò di passare all'altra riva. 19 Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai». 20 Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo».
21 E un altro dei discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». 22 Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti».

Commento

Gesù sta per passare all'altra riva del lago di Gennesaret e dalla folla emergono due personaggi che vogliono seguirlo nel suo ministero itinerante. Egli coglie l'occasione per delineare la qualità del vero discepolo: il distacco da una vita "comoda" e dai beni materiali.

Uno scriba riconosce in Gesù un maestro (v. 19) più grande dei suoi compagni, dottori della legge. Di fronte al suo desiderio di seguirlo, Gesù gli presenta le sofferenze e il rigore cui va incontro chi diventa suo discepolo.

Il termine "Figlio dell'uomo" (v. 20) è il titolo che più frequentemente Gesù utilizza per se stesso. Compare 83 volte nei Vangeli e ha un chiaro riferimento all'umanità e umiltà di Cristo. Nel libro di Daniele (Dn 7,13-14) è un titolo che si riferisce al Messia, del quale sono profetizzati il potere universale e l'eternità del suo regno.

La radicalità espressa dall'esortazione di Gesù a lasciare i morti seppellire i loro morti sta nel fatto che chi vuole seguirlo deve lasciar passare in secondo piano tutto il resto, anche il dovere della sepoltura - molto importante nel mondo ebraico ed ellenistico -, persino quando si tratti della sepoltura del padre. Il termine greco nekros non si riferisce solo ai defunti veri e propri ma anche a coloro che rifiutano di seguire Gesù sulla strada verso la vita eterna.

L'espressione "permettimi di andar prima a seppellire mio padre" (v. 21), infatti, non indica necessariamente che il padre del discepolo fosse morto, ma era comunemente utilizzata per indicare il desiderio di attendere di ricevere la propria eredità. In tal senso, attesta l'anteporre i beni terreni alle esigenze del regno dei cieli.

Gesù è esigente con i suoi discepoli, ma egli è la verità che ci fa liberi (Gv 8,32), e la libertà non ha prezzo. Siamo pronti a passare con lui all'altra riva?

Preghiera

Donaci, Signore, la libertà dei figli di Dio; affinché non anteponendo nulla al tuo amore, possiamo ordinare la nostra vita alle esigenze del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 29 giugno 2025

Giustificazione e santificazione

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

O Dio, che hai preparato per coloro che ti amano, delle cose così buone che oltrepassano l'umana comprensione; effondi nei nostri cuori un tale amore per te, che amandoti al di sopra di ogni altra cosa, possiamo ottenere ciò che ci hai promesso, che oltrepassa ciò che possiamo desiderare. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Rm 6,3-11; Mt 5,20-26

Commento

Nella chiesa primitiva si svilupparono due etimologie della Pasqua cristiana: la prima considerava la Pasqua un “passaggio”, rievocazione del passaggio del Mar Rosso da parte degli ebrei che fuggivano dall’Egitto; la seconda idea era invece collegata al termine passio, ovvero alla passione di Cristo, e si richiamava direttamente al brano della lettera di San Paolo che ci propone la liturgia di oggi.

L’Apostolo spiega che il battesimo ci ha unito alla morte di Cristo, facendoci morire al peccato. A questo evento fu applicata l'idea del “passaggio”, prefigurata dagli evevnti dell'Antico Testamento, nello specifico del passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia. 

La giustificazione, però, non è la tappa finale, vi è infatti una chiamata del cristiano alla santificazione; proprio come l’epilogo del Vangelo non è rappresentato dalla morte di Cristo, ma dalla risurrezione: "poiché se siamo stati uniti a Cristo in una morte simile alla sua, saremo anche partecipi della sua risurrezione" (Rm 6,5). 

Paolo impiega un verbo al passato per il battesimo e, dunque, per la giustificazione, ma al futuro per la risurrezione. La santificazione è la mèta, ma in certo qual modo anche la via che siamo chiamati a percorrere. Infatti, poco prima, afferma: "Noi dunque siamo stati sepolti con lui... affinché, come Cristo è resuscitato dai morti per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita” (Rm 6,4).

Il cristianesimo non è una semplice appartenenza a un popolo o a una istituzione religiosa. È un "camminare", un percorrere "la Via", come viene definito nel libro degli Atti degli Apostoli. È insita in esso la possibilità di una crescita, in Dio e nella sua grazia.

La risurrezione inizia ora, come esperienza di rinnovamento e santificazione. È il frutto che la grazia fa germinare dal nostro morire al peccato in Cristo. È un esodo, un cammino di liberazione dalla schiavitù: "il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui, perché il corpo del peccato possa essere annullato, affinché noi non serviamo più al peccato" (Rm 6,6). L’idea del cammino evoca la progressione che caratterizza la nostra liberazione dal peccato e dalla morte e la nostra crescita in quella libertà che è la santità.

Il punto di partenza è la giustificazione, perché uniti alla morte di Cristo ci vengono rimessi i peccati. Ma la libertà rappresentata dalla santificazione è un approdo, una conquista, che richiede una certa disciplina: la giustificazione ci è stata data a caro prezzo, Gesù ha pagato con la propria morte, e poiché nessun discepolo è più grande del proprio maestro, solo nella misura in cui prenderemo sul serio il nostro discepolato condivideremo con lui anche l'esperienza della glorificazione.

Il battesimo non è semplicemente una esperienza circoscritta in un dato momento della nostra vita, ma è l'inserimento in un cammino di crescita in santità e giustizia. Gesù lo dice chiaramente: "se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Mt 5,20). 

Se non vogliamo cadere nella mediocrità occorre una apertura alla grazia e una risposta alla sua azione, che diventa disciplina attenta nel nostro agire. Il Signore ci guida, affinché portiamo a compimento l'opera che ha iniziato in noi.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 27 giugno 2025

Fermati 1 minuto. Dio non si dà pace

Lettura

Luca 15,1-10

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». 3 Allora egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5 Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. 7 Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. 8 O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. 10 Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Commento

In questo episodio, come in diversi altri dei Vangeli, Gesù dimostra di non temere di essere considerato un amico dei peccatori. Il mormorare degli scribi e dei farisei è occasione per esprimere il cuore del suo annuncio: la misericordia di Dio, che "non si dà pace" finché non ritrova ciò che è perduto.

La prima parabola presenta un pastore che ha smarrito una sua pecora attraversando un luogo deserto. I pastori in medio oriente erano responsabili verso il loro padrone per ogni pecora del gregge.

La pecora ha perso il suo padrone, ha perso la comunione con il suo gregge e ha perso se stessa "nel deserto", in una terra ostile, che la espone al pericolo dei predatori.

I rabbini non negavano la possibilità per il peccatore di essere perdonato da Dio a seguito di un sincero ravvedimento, ma queste due parabole rimandano a una immagine di Dio che cerca egli per primo, con sollecitudine, l'uomo smarrito.

Dio non solo non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva, come afferma il profeta Ezechiele (Ez 33,11); egli lo cerca per primo.

Mentre i farisei e gli scribi mormorano sulla terra, Dio e gli angeli si rallegrano nei cieli per il peccatore ritrovato.

Dio si rallegra non solo quando si convertono le moltitudini ma anche quando si converte un singolo peccatore. Si rallegra più per un peccatore che si converte che per una intera chiesa di "giusti" o persone che si presumono tali.

Così Gesù offre l'esempio della dramma perduta. Quella moneta, il cui valore è pari a una giornata di lavoro, è simbolo della nostra anima, su di essa è impressa l'immagine di Dio, cui apparteniamo. Si è perduta tra la polvere e la sporcizia, ma la donna accende la lucerna e spazza con attenzione la casa, finché la trova e la ripone tra i propri beni. Cos'è una moneta nel tesoro immenso di Dio? Eppure egli non ha pace finché non l'ha ritrovata.

Il Signore ci guida con il suo vangelo per farsi trovare; spazza la casa, ripulendoci da ogni peccato e facendoci venire alla luce della grazia.

Preghiera

Signore, che non vuoi che alcuno si perda, concedici di essere trovati dalla tua misericordia, così da poter gioire con te nella gloria senza fine. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 26 giugno 2025

Mari, disseminatore di comunità cristiane in oriente

Il secondo venerdì d'estate, la chiesa caldea e quella assira ricordano mar Mari, apostolo della Siria, della Mesopotamia e della Persia.
Le fonti che narrano la vita di Mari, discepolo di Addai, che sarebbe stato il primo dei settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, sono tardive e contraddittorie. Con esse ciò che si vuole tuttavia ricordare e affermare è l'origine antichissima delle chiese siro-orientali.
Secondo la tradizione, Mari fu scelto da Addai per continuare la sua missione evangelizzatrice nell'oriente, risalente all'apostolo Tommaso. Ricevuto tale mandato, egli percorse la Mesopotamia orientale, spingendosi a predicare sino ai contrafforti dell'altopiano dell'Iran e fondando oltre 300 comunità cristiane.
A lui si deve la fondazione delle sedi episcopali di Nisibi, di Kaškar e l'evangelizzazione della regione di Seleucia-Ctesifonte.
Ad Addai e Mari è attribuita una delle più antiche anafore eucaristiche, tuttora in uso nelle liturgie siro-orientali.
I due apostoli sono ricordati insieme in varie regioni orientali, in date che variano da una zona all'altra; la festa più importante è forse quella che si celebra in Iraq e in Kurdistan il 5 di agosto, con una ricca liturgia propria.

L'Anafora di Addai e Mari

L'anafora di Addai e Mari è un'antica preghiera eucaristica cristiana, caratteristica della Chiesa d'Oriente.

Attribuita dalla tradizione a Taddeo di Edessa e Mari, discepoli di san Tommaso apostolo e santi del I secolo, risale al III secolo secondo la maggioranza degli studiosi.

Ha la peculiarità di non contenere in modo coerente e ad litteram le parole dell'istituzione dell'eucaristia da parte di Gesù Cristo ("Questo è il mio corpo", "questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza..."). Sono presenti invece "in modo eucologico disseminato, ossia integrate nelle preghiere di rendimento di grazie, di lode e di intercessione". Si riportano tre passaggi interessanti: "[...] abbiamo ricevuto per tradizione l'esempio che viene da te, rallegrandoci, glorificando, esaltando, facendo memoria e celebrando questo mistero grande e terribile [...] nella memoria del corpo e del sangue del tuo Cristo, che noi offriamo a te sull'altare puro e santo, come tu ci hai insegnato, [...] sacramento vivificante e divino che io posso amministrare al tuo popolo, il gregge del tuo pascolo".

Nel 2001 la Chiesa cattolica ha riconosciuto la validità dell'anafora di Addai e Mari - sostenuta da una tradizione ininterrotta risalente all'epoca post-apostolica - nel contesto della possibilità di intercomunione, in caso di necessità pastorale, tra i fedeli della Chiesa assira d'Oriente e la Chiesa cattolica caldea.

Monastero di Bose - Preghiera - Page #176
Addai e Mari (I-II sec.)

Fermati 1 minuto. Dare solidità alla parola

Lettura

Matteo 7,21-27

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. 24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

Commento

La parabola dell'uomo stolto e dell'uomo saggio, conclude il "Discorso della montagna", nel quale è racchiusa l'essenza del vangelo. Gesù spiega come riconoscere il vero credente. La fede che non porta frutto è incredulità. 

Ma i frutti della fede non consistono nel compiere opere soprannaturali, miracoli e profezie, che presi di per sé non hanno alcun valore. Neanche la lode e la supplica - "Signore! Signore!" (v. 21) - contano qualcosa senza la conversione. Il vero frutto della fede consiste nel compiere la volontà di Dio, mossi dalla carità. 

Come afferma l'apostolo Paolo "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna" (1 Cor 13,1). Quando riconosciamo Cristo solo a parole non siamo tanto diversi da coloro che lo dileggiavano esclamando sotto la croce "Salve! Re dei giudei!" (Gv 19,3). 

La grazia e la carità conducono gli uomini alla salvezza senza che compiano miracoli, mentre il compiere miracoli non ha mai salvato nessuno senza la grazia e la carità. Solo chi costruisce sulla salda roccia che è Cristo e non chi confida in se stesso può resistere alle prove della fede, che saranno tante in questa vita: "Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16,33).

Non è abbastanza ascoltare le parole del Vangelo, comprenderle, ricordarle, ripeterle e disputare su di esse. Dobbiamo essere capaci di "dare solidità" alla parola, facendoci costruttori della chiesa di Cristo e affidando le sue fondamenta non alla sabbia della nostra umana povertà ma alla roccia della sua grazia.

Preghiera

Signore, donaci la beatitudine di essere tra coloro che ascoltano la tua parola e la osservano, per essere pietre vive nell'edificio della tua chiesa. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 25 giugno 2025

Fermati 1 minuto. I frutti buoni della fede

Lettura

Matteo 7,15-20

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. 16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

Commento

I discepoli di Gesù che dichiaravano di parlare in nome di Dio erano chiamati profeti (cfr. Mt 10,4; 23,34). Come nell'Antico Testamento, accanto ai profeti veri, ci sono però quelli falsi: la differenza sta nella qualità dei loro "frutti" (v. 16), cioè nella bontà o nella malvagità delle loro azioni.

I falsi profeti sono coloro che propongono la via larga, che conduce a perdizione (Mt 7,13-14). Gesù insegna che non tutti coloro che dichiarano di far parte della comunità dei credenti sono tali. Alcuni sono come lupi tra le pecore, case che appaiono simili ma hanno differenti fondamenta (Mt 7,21-27), zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24), vergini stolte tra le sagge (Mt 25,1-13), servi malvagi tra i buoni (Mt 25,14-30).

Il punto di riferimento per giudicare i profeti e i loro frutti sono le Scritture. Nessuna forma di gerarchia, nella Chiesa, può porsi al di sopra della loro autorità.

I frutti buoni sono la testimonianza di una fede viva ed efficace. Come ammonisce l'apostolo Giacomo "Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede" (Gc 2,18).

Ma se le buone opere sono espressione della fede, questa richiede di essere pazientemente coltivata, proprio come un albero "che darà frutto a suo tempo" (Sal 1,3). Non temiamo, dunque, la prova dell'inverno, la necessaria potatura per migliorare la crescita; attendiamo con speranza, davanti ai rami ancora spogli, l'apparire dei primi germogli; gustiamo e condividiamo, finalmente, i frutti, quando questi saranno giunti a piena maturazione.

Preghiera

Signore, vieni e visita la tua Chiesa, albero che la tua destra ha piantato; vivificalo con la tua grazia e insegnaci a prendercene cura. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 24 giugno 2025

Nascita di Giovanni il battista, frutto della promessa

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la natività di Giovanni il Battista, profeta e precursore del Signore.

Figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta la sterile, Giovanni è frutto della promessa di Dio e annuncia i tempi messianici in cui la sterile diventa madre gioiosa di figli e la lingua dei muti si scioglie nella lode profetica. Con lui rivive la profezia e si fa più urgente il richiamo alla conversione rivolto da Dio al suo popolo.

Secondo la parola dell'angelo, Giovanni venne con lo spirito e la forza di Elia per preparare al Signore un popolo ben disposto. Egli visse nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele e lì, nella solitudine e nel silenzio, nell'ascesi e nella preghiera, si preparò alla sua missione.
Insieme a Gesù, il Battista è l'unico personaggio di cui il Nuovo Testamento narri la nascita, ed è l'unico santo celebrato dalla chiesa antica con più feste durante l'anno.

Quando nel IV secolo la nascita di Gesù venne fissata nel solstizio d'inverno, quella di Giovanni venne posta nel solstizio d'estate per rispettare la lettera del racconto evangelico. La coincidenza con il solstizio d'estate e l'inizio dell'accorciarsi delle giornate è stata vista dai padri come una conferma delle parole di Giovanni e della sua testimonianza al Cristo: «Egli deve crescere e io invece diminuire».
Asceta vissuto nel deserto, Giovanni è diventato ben presto il modello del monachesimo nascente ed è sempre stato venerato con particolare amore dai monaci, che nell'ascesi, nel silenzio, nella preghiera e nell'assiduità alle Scritture cercano di predisporre ogni cosa per poter accogliere Dio nelle loro vite.

Tracce di lettura

Annunciazione, concepimento, santificazione e nascita di Giovanni ci sono presentate in parallelo ad annunciazione, nascita, consacrazione di Gesù, e con questi dittici dei capitoli 1 e 2 del suo vangelo, con questi eventi della preistoria di Giovanni e di Gesù, Luca ci mostra che anche nell'infanzia Giovanni è stato il precursore del Messia ... Poi il silenzio del vangelo su Giovanni come su Gesù: Giovanni vivrà nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele, Gesù vivrà soggetto a Maria e Giuseppe a Nazaret. Per entrambi è il nascondimento, la crescita, la preparazione alla missione, al dies ostensionis ad Israel.
(E. Bianchi, Amici del Signore).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose