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Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto
Ministro della Christian Universalist Association
Ministro della Christian Universalist Association
martedì 9 settembre 2025
Assidui e concordi nella preghiera. Commento al Salterio - Salmo 34
Fermati 1 minuti. Li chiamò apostoli
Lettura
Lc 6,12-19
12 In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. 13 Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: 14 Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15 Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, 16 Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore. 17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18 che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. 19 Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.
Commento
Gesù scelse come apostoli chi volle, ma non scelse arbitrariamente, né superficialmente. Scelse dopo aver a lungo pregato, tutta la notte. L'evangelista Luca presenta spesso Gesù in preghiera prima dei momenti importanti della sua vita.
La Chiesa nasce dopo quella notte di preghiera di Gesù e mediante la nostra preghiera può crescere e prosperare. I Dodici ricevono una missione nella missione; non uno status di privilegiati, ma una speciale chiamata a servire con maggiore sollecitudine. Questo sarà il senso di un'altra chiamata da parte di Gesù, poco prima della sua passione: "Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti»" (Mc 10,42-43).
Gesù sceglie i suoi chiamandoli per nome. L'evangelista non aggiunge alcuna loro descrizione; ma il chiamare per nome è certamente testimonianza del fatto che egli si rivolse alla persona nelle sue qualità distintive, i suoi pregi e le sue debolezze, così come nelle differenze, spesso enormi, che incorrevano tra i chiamati.
Diversi, ma tutti tenuti insieme, ad eccezione di Giuda "il traditore", dall'amore di Cristo. Il chiamare per nome, fin dalla Genesi - quando Dio invita Adamo a dare un nome a ogni creatura - indica l'autorità su di essi e un'intima relazione spirituale. Gesù li chiamò "apostoli", ovvero "inviati", perché erano destinati non a creare delle scuole rabbiniche o filosofiche ma a predicare il vangelo a tutte le nazioni.
Dopo essere salito al monte per attirare a sé gli apostoli Gesù discende subito "in un luogo pianeggiante" (v. 17) e in questo abbassamento si fa loro maestro, non temendo di toccare e di farsi toccare dalle moltitudini bisognose di salvezza e di guarigione.
Eppure questo loro compito non inizierà prima di avere accompagnato Gesù nella sua missione terrena ed essere stati confermati dal Risorto. Allora diventeranno capaci di portare l'annuncio della grazia fino agli estremi confini della terra.
Preghiera
Signore Gesù Cristo, tu ci chiami per nome per salvarci e farci annunciatori della salvezza. Concedici di ricercare sempre la volontà del Padre nella preghiera fervente e prolungata. Amen.
- Rev. Dr. Luca Vona
Poemen e la conoscenza della propria fragilità
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Poemen (ca 350-450) |
lunedì 8 settembre 2025
Fermati 1 minuto. Dio agisce nella storia
Maria, terra del cielo
Guglielmo di Saint-Thierry. Volere ciò che Dio vuole, per essere simili a lui
sabato 6 settembre 2025
Il Signore tocca con mano la nostra infermità
Pitri Paksha: il periodo sacro degli antenati nella tradizione induista
Introduzione
Pitri Paksha rappresenta uno dei periodi più significativi e spiritualmente intensi del calendario induista, dedicato interamente alla venerazione e al ricordo degli antenati defunti. Questo ciclo di quindici giorni, che cade durante la quindicina scura (krishna paksha) del mese di bhadrapada o ashwin (tra settembre e ottobre), costituisce un momento di profonda riflessione sulla continuità della vita, sui legami familiari che trascendono la morte e sull'importanza del ricordo nella cultura indiana.
Il termine stesso Pitri Paksha deriva dal sanscrito, dove pitri significa antenati o padri e paksha indica una quindicina lunare. Durante questo periodo, si crede che le anime degli antenati visitino la Terra per ricevere le offerte e le preghiere dei loro discendenti viventi, creando un ponte temporaneo ma significativo tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Le radici storiche e scritturali
Le origini di Pitri Paksha affondano nelle più antiche tradizioni vediche, trovando menzione nei testi sacri come i Purana, il Mahabharata e i Grihya Sutra. Secondo la mitologia induista, questa pratica fu istituita da Karna, l'eroe del Mahabharata, che dopo la sua morte scoprì di non aver mai onorato i suoi antenati durante la vita terrena. Gli fu concesso di tornare sulla Terra per quindici giorni per compiere questi rituali, stabilendo così il precedente per le generazioni future.
I testi antichi descrivono dettagliatamente l'importanza di questi rituali non solo per il benessere spirituale degli antenati nell'aldilà, ma anche per la prosperità e l'armonia delle famiglie viventi. La tradizione sostiene che gli antenati non onorati possano causare difficoltà e ostacoli nella vita dei discendenti, mentre quelli adeguatamente venerati conferiscono benedizioni e protezione.
I rituali e le cerimonie
Il cuore di Pitri Paksha risiede nei rituali chiamati shraddha o pinda daan, cerimonie elaborate che coinvolgono offerte di cibo, acqua e preghiere. I rituali più importanti includono la preparazione di pinda, piccole sfere di riso e farina mista ad acqua e semi di sesamo, che rappresentano simbolicamente il corpo dell'antenato defunto.
Le cerimonie tradizionali richiedono la presenza di un brahmano che funga da intermediario spirituale, ricevendo le offerte a nome degli antenati. Tuttavia, nelle pratiche moderne, molte famiglie conducono versioni semplificate di questi rituali nelle proprie case, mantenendo comunque l'essenza spirituale della tradizione.
Durante questi giorni, le famiglie preparano anche kheer (budino di riso dolce), puri (pane fritto) e altri piatti tradizionali che vengono offerti agli antenati prima di essere consumati dalla famiglia. L'acqua viene offerta insieme al til (semi di sesamo) e ai fiori, mentre si recitano mantra specifici e si pronunciano i nomi degli antenati defunti.
Il significato spirituale e filosofico
Pitri Paksha rappresenta molto più di una semplice commemorazione dei morti; incarna una filosofia profonda sulla continuità dell'esistenza e sull'interconnessione tra le generazioni. Secondo la filosofia induista, l'anima attraversa diversi piani di esistenza dopo la morte, e i rituali di Pitri Paksha aiutano le anime degli antenati nel loro viaggio spirituale verso la liberazione finale (moksha).
Questo periodo insegna anche l'importanza della gratitudine verso coloro che ci hanno preceduto, riconoscendo che la nostra esistenza attuale è il risultato dei sacrifici e degli sforzi delle generazioni passate. È un momento per riflettere sui valori tramandati, sulle tradizioni ereditate e sul debito spirituale che abbiamo verso i nostri antenati.
La pratica enfatizza inoltre il concetto di pitri rina, il debito verso gli antenati, che secondo la tradizione induista è uno dei tre debiti fondamentali che ogni individuo deve saldare durante la propria vita, insieme al debito verso gli dei (deva rina) e verso i saggi (rishi rina).
Le pratiche regionali e le variazioni
Mentre i principi fondamentali di Pitri Paksha rimangono coerenti in tutta l'India, esistono significative variazioni regionali nelle modalità di osservanza. Nel Bengala, per esempio, il periodo è noto come Pitri Paksha o Mahalaya, e inizia con la recitazione del Chandipath, un testo sacro dedicato alla dea Durga.
In alcune regioni del sud dell'India, le famiglie si recano in pellegrinaggio a luoghi sacri come Gaya nel Bihar o Rameshwaram nel Tamil Nadu, ritenuti particolarmente efficaci per i rituali ancestrali. In Gujarat e Maharashtra, molte famiglie osservano digiuni parziali e si astengono dal consumare certi alimenti durante questi giorni.
Le comunità moderne hanno anche adattato alcune pratiche, con alcune famiglie che organizzano riunioni familiari per condividere storie e ricordi degli antenati, combinando la tradizione spirituale con il rafforzamento dei legami familiari contemporanei.
L'impatto nella società contemporanea
Nell'India moderna, Pitri Paksha continua a svolgere un ruolo importante nella vita di milioni di persone, anche se la sua osservanza ha subito alcune trasformazioni. Nelle aree urbane, molte famiglie hanno semplificato i rituali per adattarli agli stili di vita contemporanei, mantenendo però l'essenza spirituale della tradizione.
La globalizzazione e la diaspora indiana hanno portato queste pratiche in tutto il mondo, dove le comunità indiane all'estero continuano a osservare Pitri Paksha, spesso adattando i rituali alle circostanze locali. Questo ha contribuito a preservare e diffondere la tradizione, dimostrando la sua rilevanza duratura.
Inoltre, Pitri Paksha ha assunto nuovi significati nel contesto contemporaneo, servendo come momento di riflessione sulla storia familiare, sulla genealogia e sull'importanza di mantenere vive le tradizioni culturali in un mondo in rapida trasformazione.
Riflessioni filosofiche e significato universale
Pitri Paksha trascende i confini specifici della religione induista per toccare temi universali dell'esperienza umana: il ricordo, la gratitudine, la continuità generazionale e la ricerca di significato di fronte alla mortalità. In un'epoca caratterizzata da rapidi cambiamenti sociali e dalla perdita di molte tradizioni, questo periodo offre un'opportunità preziosa per riconnettersi con le proprie radici e riflettere sui valori fondamentali.
La tradizione insegna che onorare gli antenati non significa semplicemente guardare al passato, ma utilizzare la saggezza e l'esperienza delle generazioni precedenti come guida per il presente e il futuro. È un richiamo alla responsabilità intergenerazionale e all'importanza di costruire ponti tra il passato, il presente e il futuro.
Conclusione
Pitri Paksha rimane una delle tradizioni più significative e durature della cultura induista, offrendo un modello unico di come una società possa mantenere vivo il legame con le proprie radici ancestrali. Questo periodo sacro non solo onora la memoria dei defunti, ma rafforza anche i legami familiari, promuove la riflessione spirituale e perpetua valori culturali fondamentali.
In un mondo sempre più globalizzato e secolarizzato, Pitri Paksha offre lezioni preziose sull'importanza della memoria, della gratitudine e della continuità culturale. La sua capacità di adattarsi ai tempi moderni mantenendo intatta la sua essenza spirituale dimostra la vitalità e la rilevanza duratura di questa antica tradizione.
- Rev. Dr. Luca Vona
venerdì 5 settembre 2025
Fermati 1 minuto. Un abito completamente nuovo
Sorella Maria, fondatrice dell'Eremo di Campello
Il Buddha che sei sempre stato: la rivoluzione spirituale di Hui-neng
Introduzione: la figura rivoluzionaria del sesto patriarca
Il pensiero di Hui-neng (慧能, 638-713), il venerato Sesto Patriarca del Buddhismo Chan cinese, rappresenta una delle figure più rivoluzionarie nella storia del pensiero buddhista. La sua vita, quella di un taglialegna analfabeta proveniente dal sud della Cina che superò monaci colti per diventare successore del Quinto Patriarca Hongren, incarna perfettamente il paradosso centrale dei suoi insegnamenti.
La sua eredità è immortalata nel Sutra della Piattaforma del Sesto Patriarca (六祖壇經, Liuzu Tanjing), l'unico testo attribuito a un maestro cinese a essere classificato come "sutra" nel canone buddhista, sebbene la sua autenticità testuale sia talvolta discussa dagli studiosi, che suggeriscono una composizione da parte di discepoli posteriori per legittimare la Scuola del Sud. Il pensiero di Hui-neng ha rivoluzionato il Buddhismo Chan introducendo concetti che sfidavano le pratiche tradizionali, plasmando le tradizioni Zen giapponesi e le correnti spirituali di tutta l'Asia orientale.
La natura di buddha come patrimonio universale e l'illuminazione immediata
Il principio fondamentale degli insegnamenti di Hui-neng è la profonda convinzione che la saggezza dell'illuminazione sia intrinseca a ogni essere senziente. Questa concezione, radicata nella dottrina della Buddha-natura (Buddhata o buddha-dhātu), afferma che non esiste alcuna distinzione ontologica tra una persona illuminata e una non illuminata. L'illuminazione, secondo Hui-neng, non è qualcosa da acquisire ma da riconoscere, un "ritorno" alla propria natura originaria. Egli proclamava che "le persone più umili possono possedere la saggezza più alta, mentre quelle di alto rango possono esserne prive", democratizzando così il percorso spirituale e rendendolo accessibile indipendentemente dall'istruzione, dallo status sociale o dall'appartenenza monastica.
Il confronto con la scuola settentrionale: gradualismo versus illuminazione immediata
Questa prospettiva si contrapponeva drasticamente all'approccio gradualista della Scuola Settentrionale di Shenxiu. Mentre Shenxiu proponeva una pratica continua di "pulizia" della mente, come uno specchio da spolverare, Hui-neng rispondeva con la sua celebre poesia:
- Versi di Shenxiu: "Il vero albero della Bodhi è il corpo, la mente è il suo specchio lucente. Lascialo sempre perfettamente chiaro, che non vi sia un solo granello di polvere".
- Risposta di Hui-neng: "Non vi fu mai l'albero della Bodhi, e neppure il suo specchio lucente. Tutto è fin dall'inizio immacolato, dove cadrà la polvere?".
Questa risposta evidenzia la sua dottrina dell'illuminazione immediata (dunwu), che non richiede una purificazione graduale, ma può avvenire in qualsiasi momento e luogo.
La visione non-dualistica e il ruolo della mente
La rivoluzione filosofica di Hui-neng risiede nella sua comprensione radicalmente non-dualistica della realtà. Per lui, tutte le distinzioni che normalmente facciamo - bene e male, purezza e impurità, illuminazione e ignoranza - sono costruzioni mentali che non riflettono la vera natura delle cose. Questa prospettiva sfida alla radice il modo comune di pensare, che opera sempre attraverso opposizioni e categorie separate.
Il punto cruciale è che perfino l'idea spirituale di "purificare" la mente crea una falsa dualità: presuppone l'esistenza di qualcuno che pulisce (il praticante) e qualcosa che deve essere pulito (la mente impura). Ma se la natura di Buddha è già presente e perfetta, cosa c'è da purificare? Hui-neng demolisce questa logica mostrando che meditazione e saggezza non sono due cose diverse - una che conduce all'altra - ma due aspetti della stessa realtà: "la meditazione è il corpo della saggezza, e la saggezza è la funzione della meditazione... Sono una cosa sola, non due".
L'episodio della bandiera e del vento rappresenta un insegnamento magistrale sulla natura della percezione. Due monaci stavano discutendo se fosse la bandiera o il vento a muoversi, quando Hui-neng intervenne: "Non è il vento a muoversi, non è la bandiera a muoversi; è la vostra mente che si muove". Questa affermazione non nega la realtà fisica del movimento, ma rivela che ciò che sperimentiamo come "realtà" è sempre mediato dalla nostra mente. La distinzione tra soggetto percepente e oggetto percepito è essa stessa una costruzione mentale.
Quando Hui-neng afferma che "tutte le cose o fenomeni sono produzione della nostra stessa mente", non sta proponendo un idealismo filosofico che nega l'esistenza del mondo esterno. Piuttosto, sta indicando che il modo in cui categorizziamo, interpretiamo e reagiamo all'esperienza è ciò che crea il nostro mondo vissuto. La mente non è un contenitore passivo che riceve impressioni dall'esterno, ma la facoltà attiva che determina la qualità e il significato della nostra esperienza. Riconoscere questo significa rendersi conto che la sofferenza e la liberazione non dipendono dalle circostanze esterne, ma dal modo in cui la mente si relaziona ad esse.
La Maha Prajna Paramita e la vacuità
Il termine sanscrito "Maha Prajna Paramita" rappresenta uno dei concetti centrali del Buddhismo Mahāyāna, che Hui-neng reinterpreta attraverso la sua lente non-dualistica. Per comprendere la sua rivoluzione concettuale, è necessario analizzare ciascun elemento:
- Maha (grande) non indica una vastità quantitativa, ma la capacità illimitata della mente di abbracciare tutti i fenomeni senza esserne condizionata. La mente è "grande come lo spazio cosmico: infinita, priva di caratteristiche fisse, senza forma, dimensione o colore determinati".
Prajna (saggezza) non è conoscenza intellettuale o erudizione libresca, ma la capacità di vedere direttamente la vera natura delle cose, oltre le apparenze e le costruzioni concettuali. È quella saggezza intuitiva che riconosce immediatamente l'illusorietà delle distinzioni che normalmente facciamo. Per Hui-neng, prajna è la facoltà innata di ogni essere senziente - la stessa natura di Buddha che permette di "vedere" senza essere condizionati da ciò che si vede.
Paramita (perfezione o "andare oltre") indica il superamento completo delle limitazioni ordinarie. Non si tratta di perfezionare qualità che già possediamo, ma di trascendere la stessa idea di qualcosa da perfezionare. È il "paradosso della perfezione": raggiungere lo stato in cui non c'è più nessuno che raggiunge e nulla da raggiungere.
Il concetto di vuoto (śūnyatā) riceve forse la reinterpretazione più sottile. Hui-neng parla di "vuoto della non-vacuità", un'espressione apparentemente paradossale che indica uno stato privo di essenza fissa ma ricco di infinite potenzialità. Il vuoto non è assenza o negazione, ma la condizione che rende possibile ogni manifestazione. Hui-neng ammoniva energicamente contro l'interpretazione nichilista del vuoto come uno stato indifferente, stagnante o di mera negazione.
La vacuità nel Buddhismo Mahāyāna, come intesa da Hui-neng, rivela che tutti i fenomeni sono privi di una natura intrinseca e indipendente. Questo principio, noto come codipendenza originaria o coproduzione condizionata (pratityasamutpada), significa che tutto esiste solo in relazione ad altro, senza un'essenza separata e autonoma. Pertanto, tutte le cose sono "vuote" di esistenza indipendente.
Ma questa "vacuità" è paradossalmente pienezza di inter-essere: essere "vuoto" di un sé separato significa essere "pieno di ogni cosa". Come una goccia d'acqua nell'oceano, che perde la sua identità separata ma guadagna la vastità dell'intero oceano, così la realizzazione della vacuità non impoverisce ma arricchisce infinitamente l'esperienza. È la scoperta che la nostra vera natura non è l'ego limitato, ma la stessa consapevolezza aperta che pervade tutto l'universo.
La libertà dal pensiero e la vera meditazione
Hui-neng ridefinisce radicalmente la pratica meditativa tradizionale. Per lui:
- "Sedere" (zuò) significa ottenere libertà assoluta e rimanere mentalmente imperturbabili in tutte le circostanze esterne.
- "Meditare" (chán) significa realizzare interiormente l'imperturbabilità dell'essenza della mente.
Questa comprensione trascende la mera meditazione formale seduta, enfatizzando uno stato di presenza consapevole continua. La vera pratica è "meditazione nell'azione", mantenendo la consapevolezza in ogni attività quotidiana. L'illuminazione si manifesta nel tagliare legna, pestare riso, o in qualunque attività ordinaria, come la sua stessa vita testimonia.
Il concetto di libertà dal pensiero (wúniàn)
Il contributo forse più sottile di Hui-neng è il concetto di libertà dal pensiero (wúniàn). Egli chiarisce che non si tratta di sopprimere tutti i pensieri, il che sarebbe una forma di schiavitù. La vera libertà dal pensiero significa "vedere e conoscere tutti i fenomeni con una mente libera da attaccamento". Una mente così liberata pervade ovunque senza limitazioni, non si attacca a nulla e rimane pura in ogni circostanza, "come lo spazio", capace di contenere tutto senza identificarsi con nulla.
Illuminazione e impegno nel mondo
Contrariamente a interpretazioni che vedono l'illuminazione come fuga dal mondo, Hui-neng insegna che "vedere la propria natura è diventare un Buddha; ma un Buddha non cerca di sfuggire al mondo—agisce per il bene di tutti gli esseri". Il non-attaccamento non porta all'apatia, ma a un impegno compassionevole più autentico e libero da egoismi. L'illuminazione non è un ritiro dalla realtà, ma una partecipazione più genuina alla vita.
L'insegnamento culminante afferma che "conoscere Buddha non significa altro che conoscere gli esseri senzienti", poiché questi ignorano di essere Buddha in potenza. All'interno della nostra mente c'è un Buddha, e questo Buddha interiore è il vero Buddha. Questo principio stabilisce una responsabilità universale: riconoscere la natura di Buddha in se stessi significa simultaneamente riconoscerla in tutti gli esseri e agire per il loro risveglio.
Eredità e impatto storico
Il pensiero di Hui-neng ha operato una vera e propria rivoluzione nel Buddhismo Chan. La sua "vittoria poetico-filosofica" su Shenxiu consolidò la Scuola del Sud (illuminazione immediata) come ortodossa, marginalizzando l'approccio gradualista. Tuttavia, la fama e la legittimazione del suo lignaggio sono state in gran parte opera di Shénhuì (神會, 668-760), un suo discepolo, che promosse vigorosamente la superiorità della scuola meridionale dell'illuminazione repentina sulla scuola settentrionale "gradualista" di Shenxiu.
Gli insegnamenti di Hui-neng hanno influenzato tutte le scuole Zen successive, inclusi il Rinzai e il Sōtō in Giappone, sottolineando l'importanza dei koan e della trasmissione "da mente a mente". La sua enfasi sull'illuminazione accessibile a tutti ha reso il Buddhismo più inclusivo, ponendo le basi per la sua diffusione popolare e democratica.
Convergenze con la mistica cristiana
Gli insegnamenti di Hui-neng presentano convergenze straordinarie con la tradizione mistica cristiana, rivelando archetipi universali dell'esperienza spirituale che trascendono i confini culturali e dottrinali. Queste similitudini non sono mere coincidenze, ma testimoniano percorsi comuni verso la realizzazione della dimensione più profonda dell'essere umano.
La presenza divina interiore rappresenta forse la convergenza più sorprendente. Quando Hui-neng proclama che "all'interno della nostra mente c'è un Buddha, e questo Buddha interiore è il vero Buddha", echeggia direttamente l'insegnamento di Meister Eckhart: "Dio è più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso". Entrambi i maestri indicano che ciò che cerchiamo è già presente nel cuore dell'essere umano. Sant'Agostino nelle Confessioni arriva alla stessa intuizione: "Tu eri dentro di me, più intimo del mio intimo", mentre Giovanni della Croce parla del "centro dell'anima" dove Dio dimora stabilmente.
Il distacco dalle identificazioni mentali trova paralleli profondi tra il concetto di "libertà dal pensiero" (wúniàn) di Hui-neng e il "distacco" (gelassenheit) della mistica renana. Eckhart insegna il "lasciare essere" che permette alla realtà divina di manifestarsi spontaneamente, proprio come Hui-neng descrive una mente che "non si attacca a nulla e rimane pura in ogni circostanza". La "notte oscura dell'anima" di San Giovanni della Croce descrive un processo di purificazione attraverso il distacco da ogni sostegno mentale ed emotivo, conducendo a uno stato di "nudità spirituale" che risuona con il "vuoto della non-vacuità" di Hui-neng.
L'illuminazione istantanea trova eco nella tradizione delle conversioni fulminee cristiane. L'esperienza di Paolo sulla via di Damasco, la "fiamma viva d'amore" che può accendersi improvvisamente nell'anima secondo San Giovanni della Croce, o i momenti di "unione mistica" descritti da Santa Teresa d'Avila richiamano l'illuminazione immediata (dunwu) insegnata da Hui-neng. Entrambe le tradizioni riconoscono che la grazia o la realizzazione possono manifestarsi istantaneamente, al di là di ogni preparazione graduale.
La povertà spirituale rappresenta un'altra convergenza notevole. La "povertà di spirito" delle beatitudini evangeliche e la "povertà spirituale" di Eckhart - che afferma "Beato l'uomo che non possiede nulla, non sa nulla, non vuole nulla" - risuonano profondamente con l'insegnamento di Hui-neng secondo cui la vera ricchezza spirituale emerge dal riconoscere di non aver mai avuto bisogno di acquisire nulla.
Le differenze ontologiche fondamentali tuttavia rimangono decisive. Mentre il cristianesimo mantiene la distinzione tra Creatore e creato - anche nell'unione mistica più profonda l'anima conserva la sua identità creaturale - Hui-neng dissolve completamente ogni dualità ontologica. Per lui non esiste distinzione reale tra Buddha e essere senziente, mentre per i mistici cristiani permane sempre il rapporto Io-Tu con il divino. Inoltre, dove il cristianesimo vede l'unione con Dio come grazia divina che trascende le capacità umane, Hui-neng insegna che la natura di Buddha è l'essenza stessa dell'essere umano.
Il paradosso dell'azione nel mondo trova espressioni diverse ma parallele. Come Hui-neng insegna che "un Buddha non cerca di sfuggire al mondo ma agisce per il bene di tutti gli esseri", così la mistica cristiana parla di "contemplazione nell'azione". Santa Teresa d'Avila descrive le anime più elevate come quelle che uniscono perfettamente contemplazione e servizio, mentre Eckhart insegna che "se un uomo fosse in estasi come San Paolo e sapesse di un malato che ha bisogno di una minestra, farebbe meglio a uscire dall'estasi e servire il malato per amore".
Queste convergenze suggeriscono che, al di là delle differenze dottrinali, esiste un territorio comune dell'esperienza spirituale dove le distinzioni confessionali si assottigliano, rivelando l'universalità della ricerca umana verso la propria natura più profonda e autentica.
La rilevanza contemporanea e l'invito finale
La rilevanza del messaggio di Hui-neng rimane profonda nell'era contemporanea: la sua chiamata a "vedere la propria mente" offre un percorso di liberazione senza bisogno di dogmi o pratiche complicate in un mondo di distrazioni. La sua enfasi sulla non-dualità ricorda che la pace non si trova fuggendo dal mondo, ma abbracciandolo con una mente libera da attaccamenti. La sua domanda finale risuona ancora oggi come un potente richiamo alla libertà interiore: "Quando non ci sono pensieri di bene o male, in questo stesso istante, qual è il tuo volto originale?".
Sintesi conclusiva
In sintesi, l'insegnamento di Hui-neng rappresenta una sintesi unica di rivoluzione spirituale e saggezza pratica. La sua eredità non risiede solo nell'aver democratizzato l'accesso all'illuminazione, ma nell'aver mostrato che la realizzazione spirituale più profonda è compatibile con la vita ordinaria più semplice. La chiave dei suoi insegnamenti è la comprensione che l'illuminazione non è qualcosa da raggiungere, ma qualcosa da riconoscere; non uno stato da acquisire attraverso pratiche complesse, ma la propria natura autentica da realizzare nella semplicità del momento presente. Come egli stesso affermava, "La natura buddhica non dipende da parole o lettere. I sutra sono solo mappe, non la destinazione". L'invito di Hui-neng è a riconoscere, qui e ora, il Buddha che siamo sempre stati.
Bibliografia
Fonti primarie e traduzioni
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Filosofia buddhista e vacuità
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- Harvey, P., Il Buddhismo, Einaudi, Torino 1998
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Contesto storico e culturale
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- Robinet, I., Storia del taoismo, Ubaldini, Roma 1993
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- Wright, A.F., Buddhism in Chinese History, Stanford University Press, Stanford 1959
- Zürcher, E., The Buddhist Conquest of China, Brill, Leiden 1972
giovedì 4 settembre 2025
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Luca 5,1-11