Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

giovedì 9 ottobre 2025

Il Koan: paradosso, tensione e liberazione nella tradizione Zen

Introduzione: Il dilemma del linguaggio e della verità

Al cuore di ogni tradizione spirituale autentica si annida un paradosso fondamentale: come può il linguaggio, strumento di definizione e fissazione, veicolare una verità che per sua natura sfugge a ogni categorizzazione? Come possono le parole, che delimitano e circoscrivono, indicare ciò che è illimitato e incondizionato? La tradizione Zen affronta questo problema con una radicalità e una creatività uniche, sviluppando quello che potremmo definire un "uso paradossale del linguaggio" che culmina nell'ermeneutica dei koan.

L'ideale dello Zen è la trasmissione diretta "da cuore-mente a cuore-mente" (i shin den shin), una comunicazione silenziosa che trascende la parola e si realizza attraverso l'intuizione immediata. Tuttavia, l'uomo è essenzialmente comunicazione, non silenzio, e le parole costituiscono il nostro essere. Questa tensione irrisolvibile tra l'ineffabilità della verità ultima e la necessità umana di comunicare genera la sofisticata pratica del koan, particolarmente sviluppata nella scuola Rinzai.

Le radici antiche: Dal brahmodya al koan

Per comprendere pienamente la natura e la funzione del koan, è necessario risalire alle sue radici ancestrali. Il documento ci ricorda che già nei Veda (1800 a.C.) esisteva una pratica rituale chiamata brahmodya, letteralmente "lotta rituale di enigmi". Questa non era una semplice competizione intellettuale, ma un vero e proprio "gioco regolato" la cui posta era altissima: la sconfitta poteva comportare l'uccisione o l'esilio.

Il brahmodya era strutturato su tre livelli progressivi: linguistico, logico e, infine, di pura sapienza, con formulazioni considerate inaccessibili all'intelligenza comune. La caratteristica cruciale di questo rituale era la tensione estrema tra la complessità della domanda e l'immediatezza richiesta della risposta. Non c'era tempo per l'elaborazione razionale; la risposta doveva sgorgare da una comprensione più profonda, immediata e intuitiva.

Questa struttura si è trasmessa nel Buddhismo, dove ha subito una trasformazione significativa. Il tradizionale mondō (dialogo) vedeva l'abate spiegare la verità in modo articolato e complesso al novizio, caricando lo sforzo conoscitivo principalmente sul maestro. Il koan ribalta completamente questo schema pedagogico: diventa una provocazione mirata dove lo sforzo di comprensione è interamente caricato sull'allievo, che deve riuscire "a farcela da solo".

La natura e la funzione del koan

Il termine koan (in cinese kung-an) significa letteralmente "caso pubblico" o "legge immutabile", indicando già nella sua etimologia una dimensione di verità oggettiva e universale. Contrariamente all'interpretazione occidentale che spesso lo riduce a un'espressione di "follia mistica", il koan è il risultato di una profonda speculazione filosofica e di una raffinata strategia pedagogica.

Il koan non è casuale né arbitrario: è mirato e meditato, costruito con precisione per creare una specifica tensione nella mente dell'allievo. La sua funzione primaria è condurre il praticante a un punto di impasse cognitivo, dove gli schemi della sapienza ordinaria si rivelano inadeguati. Questo processo è descritto nel documento come un "dissodamento", un'azione deliberata per "spezzare e aprire la mente", liberandola dalle sue strutture abituali e creando nuove possibilità di comprensione.

È fondamentale comprendere che il koan, pur puntando a superare la ragione, non intende distruggere o negare l'intelletto. La sua funzione non è anti-razionale, ma trans-razionale: indica semplicemente che la Realtà Ultima (śūnyatā, il vuoto) non può essere catturata da un concetto o da una definizione precisa. Il linguaggio, attraverso il paradosso del koan, diventa strumento per la propria trascendenza.

Esempi classici e raccolte canoniche

Gli esempi di koan qui di seguito riportati illustrano perfettamente questa dinamica paradossale:

  • "Qual è il suono di una mano sola?" – un'impossibilità fisica che costringe la mente a cercare oltre il letterale
  • L'imperatore chiede a Bodhidharma il significato delle Quattro Nobili Verità, ricevendo come risposta che sono "vuote e non sono nemmeno Nobili" – una negazione apparente che in realtà indica la non-dualità della verità
  • "Hai già mangiato il tuo riso bollito? Allora va' a lavare la ciotola" – una risposta apparentemente banale che indica l'illuminazione nell'ordinario

Le due maggiori raccolte di koan sono la Raccolta della roccia blu (Bìyán Lù o Hekiganroku), compilato da Yuanwu Keqin nel 1125 con 100 koan selezionati e commentati, e La Porta senza Porta (Wumen kuan o Mumonkan), raccolta di 48 koan compilata da Wumen Huikai intorno al 1228. Questi testi non sono semplici antologie, ma veri e propri manuali di allenamento spirituale, dove ogni koan è stato testato attraverso generazioni di praticanti.

Rinzai e Sōtō: due approcci alla realizzazione

L'utilizzo dei koan differisce significativamente tra le due principali scuole Zen giapponesi, riflettendo differenti comprensioni del percorso spirituale.

La scuola Rinzai: Lo shock dell'illuminazione improvvisa

La scuola Rinzai, derivata dalla tradizione cinese Chán di Línjì Yìxuán (IX secolo), fa del koan il cuore della sua pratica. Durante il sanzen (incontro personale con il maestro), il koan viene proposto come uno "shock intellettuale" finalizzato al satori (illuminazione improvvisa).

Il metodo Rinzai, storicamente adottato dalla casta dei samurai per la sua natura incisiva e diretta, prevede che l'allievo debba riflettere intensamente sul koan finché non comprende, in un lampo di intuizione, che non esiste una soluzione razionale. Questo porta al momento cruciale di "lasciar andare la presa", un'accettazione profonda che la vita stessa non può essere "posseduta" o controllata attraverso i costrutti mentali. L'obiettivo finale è la liberazione dagli opposti, la dissoluzione della dualità che imprigiona la percezione ordinaria.

La scuola Sōtō: il koan vivente

La scuola Sōtō, fondata in Giappone da Dōgen nel XIII secolo, adotta un approccio diverso ma complementare. Mentre insiste sullo zazen (meditazione seduta) come shikantaza ("stare semplicemente seduti"), la filosofia Sōtō parte dal presupposto radicale che "siamo già illuminati". Lo zazen non è quindi un mezzo per raggiungere l'illuminazione, ma l'espressione della nostra illuminazione preesistente e intrinseca.

Dōgen, pur amando i koan e commentandoli estesamente nel suo capolavoro Shōbōgenzō, proponeva la pratica del genjō kōan ("koan vivente" o "koan attualizzato"). In questa prospettiva, ogni esperienza – pensieri, emozioni, percezioni – diventa un elemento costituente della Realtà con la R maiuscola. Non c'è separazione tra pratica e illuminazione, tra vita quotidiana e realizzazione spirituale. Il koan non è più un enigma da risolvere, ma la vita stessa nella sua immediatezza.

Impermanenza radicale e libertà assoluta

La comprensione Zen dell'impermanenza (anitya) porta la dottrina buddhista alle sue conseguenze più radicali. Mentre è relativamente semplice accettare intellettualmente che il mondo fenomenico (samsara) sia transitorio e illusorio, lo Zen compie un passo ulteriore, coraggioso e destabilizzante: afferma che anche l'illuminazione stessa (nirvana) è impermanente. La realtà è transeunte attimo dopo attimo, senza eccezioni o rifugi.

Questo rigore assoluto non concede nulla, nemmeno la consolazione di una liberazione definitiva. Si arriva alla conclusione vertiginosa che samsara e nirvana sono entrambi costrutti illusori. Non si può "uscire" dal samsara come se fosse un luogo; si è nel samsara ma con occhi trasformati, con una percezione radicalmente diversa.

Il passato e il futuro sono considerati illusioni della mente: il primo è solo memoria, il secondo solo speranza o timore. Entrambi esistono solo come costruzioni mentali nel presente. Questa realizzazione ha conseguenze profonde: se tutto è impermanente, inclusa la propria mente e le proprie costruzioni identitarie, allora non c'è nulla a cui attaccarsi, nulla da difendere, nulla da possedere.

La bellezza dell'effimero: estetica e liberazione

Paradossalmente, questa accettazione radicale dell'impermanenza non conduce al nichilismo o alla disperazione, ma a una forma di libertà assoluta e a una capacità intensificata di amare e apprezzare la realtà. Non essendo più attaccati o illusi, si può guardare il mondo con autentico amore e passione. La realtà è vista come stupenda e bellissima proprio perché passerà.

Questa sensibilità è magnificamente espressa nell'haiku "Fiori di ciliegio nella sera, anche questo istante è già passato". La consapevolezza della natura irripetibile e fuggevole di ogni istante, lungi dal diminuirne il valore, ne intensifica la bellezza e la preziosità. È precisamente perché i fiori di ciliegio cadranno che la loro fioritura è così toccante; è precisamente perché questo momento non tornerà mai che merita la nostra totale presenza.

Questa estetica dell'impermanenza (mono no aware, la sensibilità per le cose effimere) permea tutta la cultura giapponese ed è intimamente connessa alla realizzazione zen. Non è sentimentalismo o nostalgia, ma una lucida accettazione che trasforma la percezione: ogni cosa, vista nella sua unicità irripetibile, rivela una luminosità e una dignità straordinarie.

Conclusione: Il koan come via di liberazione

Il koan rappresenta uno degli strumenti pedagogici più sofisticati mai sviluppati da una tradizione spirituale. La sua efficacia risiede non nel fornire risposte, ma nel distruggere sistematicamente le domande stesse, o meglio, nel trasformare il modo in cui le domande vengono poste e vissute.

Attraverso la tensione paradossale, il koan crea una frattura nell'armatura della mente concettuale, aprendo uno spazio per una comprensione diretta e non mediata. Non sostituisce il pensiero razionale con l'irrazionalità, ma rivela un modo di conoscere più fondamentale, che precede e include la razionalità senza esserne limitato.

L'eredità del koan va oltre la pratica formale dello Zen. Ci ricorda che esistono forme di verità che resistono alla cattura linguistica, che la realtà è sempre più vasta e misteriosa di qualsiasi descrizione possiamo farne, e che a volte il compito del linguaggio non è definire o spiegare, ma indicare, provocare e infine farsi da parte.

In un'epoca dominata dall'informazione e dalla comunicazione incessante, dove tutto sembra dover essere spiegato, quantificato e risolto, il koan ci offre una via alternativa: la possibilità di sostare nel non-sapere, di abbracciare il paradosso e di scoprire che la vera sapienza non consiste nell'accumulare risposte, ma nel trasformare radicalmente il nostro modo di essere nel mondo.

Il suono di una mano sola continua a risuonare attraverso i secoli, non come problema da risolvere, ma come invito permanente a risvegliarci alla realtà così come è – completa, immediata e perpetuamente nuova in ogni istante che passa.

- Rev. Dr. Luca Vona