Introduzione: le radici della tradizione vedantica
Il Vedānta rappresenta uno dei sistemi filosofici più profondi e influenti della tradizione indiana, costituendo letteralmente "la fine" o "il culmine" (anta) dei Veda. Questa vasta corrente di pensiero affonda le sue radici nelle intuizioni illuminate di antichi saggi (ṛṣi) come Vasiṣṭha, Bhṛgu e Yājñavalkya, i cui insegnamenti sono stati tramandati attraverso i millenni.
Il corpus testuale del Vedānta si articola in tre fonti fondamentali, conosciute collettivamente come prasthānatrayī (la tripla autorità):
- Le Upaniṣad (circa 108 testi canonici, situati alla conclusione dei quattro Veda sacri), che rappresentano la speculazione filosofica più elevata del pensiero vedico
- La Bhagavad Gītā, il celebre dialogo filosofico-spirituale tra Kṛṣṇa e Arjuna, considerato un testo di sintesi accessibile degli insegnamenti upaniṣadici
- I Brahma Sūtra (o Vedānta Sūtra), composti da Bādarāyaṇa, un'opera altamente analitica che sistematizza in 555 aforismi concisi la dottrina vedantica
Tuttavia, la natura stessa di queste scritture—spesso ellittica, simbolica e apparentemente contraddittoria—le rende suscettibili di interpretazioni molteplici. Nel corso dei secoli, questa apertura ermeneutica ha generato vigorosi dibattiti tra i seguaci delle tre principali scuole vedantiche, discussioni che, iniziate più di un millennio fa, persistono ancora oggi con rinnovato vigore.
I fondatori delle tre scuole: giganti del pensiero indiano
Ādi Śaṅkara e l'Advaita Vedānta (VIII secolo)
Nell'ottavo secolo emerse Śaṅkara (788-820 d.C. circa), conosciuto anche come Ādi Śaṅkara ("il primo Śaṅkara"), un genio spirituale e filosofico originario del Kerala. Nonostante la sua breve vita—la tradizione gli attribuisce solo 32 anni—Śaṅkara compose commentari monumentali sui testi della prasthānatrayī e percorse l'intero subcontinente indiano fondando quattro maṭha (monasteri) ai quattro angoli dell'India, creando così una rete istituzionale che perdura ancora oggi.
Śaṅkara interpretò le scritture secondo una prospettiva rigorosamente non-duale, nota come Advaita (letteralmente "non-due"), sostenendo che la molteplicità fenomenica è illusoria e che solo Brahman, la realtà assoluta indifferenziata, possiede esistenza vera.
Rāmānuja e il Viśiṣṭādvaita (XI-XII secolo)
Circa tre secoli dopo, nell'undicesimo secolo, Rāmānuja (1017-1137 d.C.), un insegnante spirituale visionario del Tamil Nadu, respinse l'interpretazione di Śaṅkara ritenendola troppo astratta, radicale e potenzialmente nichilistica. Rāmānuja temeva che la negazione della realtà del mondo e delle anime individuali potesse minare il fervore devozionale (bhakti) e la responsabilità etica.
Rāmānuja offrì una reinterpretazione sistematica delle scritture, fondando il Viśiṣṭādvaita (non-dualismo qualificato o condizionato), che preserva l'unità ultima della realtà pur riconoscendo la realtà genuina della diversità. Il suo capolavoro, lo Śrī Bhāṣya, è un commento erudito ai Brahma Sūtra che rivaleggia in complessità con quello di Śaṅkara.
Madhvācārya e il Dvaita Vedānta (XIII secolo)
Nel tredicesimo secolo, Madhva (1238-1317 d.C.), noto anche come Madhvācārya o Ānanda Tīrtha, un monaco e riformatore del Karnataka, respinse le interpretazioni filosofiche elaborate di entrambi i predecessori. Influenzato dalla tradizione bhakti del suo tempo e forse anche da correnti teistiche più antiche, Madhva sostenne un'interpretazione dichiaratamente dualistica, il Dvaita (letteralmente "dualità").
Madhva compose trentasette opere in sanscrito, inclusi commentari completi sulla prasthānatrayī, stabilendo una filosofia che enfatizza le distinzioni reali e permanenti tra Dio, le anime e il mondo materiale.
Ciascuno di questi maestri creò non solo sistemi filosofici, ma vere e proprie tradizioni viventi (sampradāya) con lignaggi di maestri e discepoli, istituzioni monastiche e pratiche rituali specifiche.
Le differenze centrali: tre visioni di Brahman
Le divergenze fondamentali tra le tre prospettive riguardano la natura ultima della realtà (Brahman), il rapporto tra l'assoluto e il mondo fenomenico, e la natura del sé individuale (ātman o jīva).
1. Advaita Vedānta: il non-dualismo assoluto
Secondo Śaṅkara, Brahman—la realtà sottostante che rende possibile l'esistenza di ogni cosa—è un'assoluta realtà trascendente, priva di qualsiasi attributo o qualità determinata (nirguṇa). Brahman è saccidānanda (essere-coscienza-beatitudine), ma queste non sono qualità nel senso ordinario, bensì la natura intrinseca dell'assoluto.
Il mondo fenomenico non possiede lo stesso grado di realtà di Brahman; è mithyā, un termine tecnico che non significa "illusorio" in senso volgare, ma piuttosto "dipendente" o "sovraimposto". Il mondo è come un vaso che è solo nome e forma (nāmarūpa) dell'argilla: il vaso appare reale finché non si riconosce che è solo argilla diversamente configurata. Similmente, il mondo appare reale finché non si realizza che è solo Brahman sotto l'apparenza della molteplicità.
L'Ātman (il sé autentico) è assolutamente identico a Brahman. L'apparente individualità del jīva (l'anima incarnata) è dovuta a avidyā (ignoranza metafisica) che fa credere all'anima di essere separata, limitata e soggetta al dolore. La famosa formula upaniṣadica "Tat tvam asi" ("Tu sei Quello") esprime questa identità.
La liberazione (mokṣa) si ottiene attraverso jñāna (conoscenza diretta), scoprendo che l'Ātman non è separato da Brahman, realizzazione che dissolve istantaneamente ogni sofferenza. Il liberato (jīvanmukta) può continuare a vivere nel corpo, ma la sua coscienza rimane stabilita nella consapevolezza dell'unità assoluta.
In sintesi: esiste solo Brahman; tutto il resto è sovrapposizione illusoria dovuta all'ignoranza.
2. Viśiṣṭādvaita: il non-dualismo qualificato
Rāmānuja sostiene che la realtà ultima è Brahman come Viṣṇu (o Nārāyaṇa), un Dio personale dotato di infiniti attributi divini auspiciosi (saguṇa): onniscienza, onnipotenza, misericordia infinita, bellezza suprema. Brahman non è un'astrazione impersonale, ma la divinità suprema degna di adorazione.
Il mondo è considerato altrettanto reale quanto Viṣṇu stesso. Non è un'illusione o una sovrapposizione, ma costituisce il śarīra (corpo) di Viṣṇu, mentre Viṣṇu è l'antaryāmin (il controllore interno) del mondo. Questa relazione è descritta come śarīra-śarīri bhāva (relazione corpo-anima). Il mondo è una manifestazione reale, un'espressione autentica della natura divina.
L'Ātman (il sé individuale) è una parte infinitesimale (aṃśa) dell'essere divino di Viṣṇu—una scintilla della fiamma divina. Le anime sono reali, eterne e distinte, ma dipendono completamente da Viṣṇu per la loro esistenza e sostentamento. Sono apṛthaksiddha (inseparabili) da Dio, come gli attributi sono inseparabili dalla sostanza.
La liberazione si raggiunge attraverso bhakti (devozione amorosa) unita a prapatti (completa resa) a Viṣṇu, raggiungendolo dopo la morte nel suo regno trascendente (Vaikuṇṭha). Lì, l'anima liberata gode della vicinanza eterna a Dio, mantenendo la propria individualità in una relazione di amore infinito.
In sintesi: Brahman è Viṣṇu con attributi; il mondo e le anime sono reali e inseparabili da Lui, costituendo il suo corpo.
3. Dvaita Vedānta: il dualismo pluralistico
Madhva afferma che la realtà ultima è Viṣṇu come Dio personale supremo, che è ontologicamente e eternamente separato dal mondo e dalle anime. La distinzione è reale, fondamentale e permanente.
La dottrina centrale del Dvaita è espressa nelle celebri cinque distinzioni (pañcabheda):
- Tra Dio e le anime individuali (jīva-īśvara-bheda)
- Tra Dio e la materia inerte (jaḍa-īśvara-bheda)
- Tra le anime individuali (jīva-jīva-bheda)
- Tra la materia inerte e le anime (jaḍa-jīva-bheda)
- Tra le diverse entità materiali (jaḍa-jaḍa-bheda)
Il mondo è reale, creato e governato da Viṣṇu, ma completamente distinto da Lui. Dio è indipendente (svatantra), mentre le anime e il mondo sono dipendenti (paratantra).
Le anime sono eterne, numerose e gerarchicamente ordinate secondo la loro natura intrinseca. Madhva introduce una dottrina controversa: alcune anime sono destinate alla liberazione, altre alla schiavitù perpetua, altre ancora alla dannazione eterna—una sorta di predestinazione che distingue radicalmente il Dvaita dalle altre scuole vedantiche.
La liberazione si ottiene attraverso bhakti intensa che invoca la grazia (prasāda) di Viṣṇu, liberando l'individuo dal ciclo di sofferenza (saṃsāra). Nel regno liberato, l'anima gode della beatitudine vicino a Dio, ma sempre come entità distinta.
In sintesi: Dio, anime e mondo sono realtà separate ed eternamente distinte; la liberazione è unione-nella-distinzione.
Tecniche scolastiche: l'arte della disputa filosofica
Nel corso dei secoli, i sostenitori delle tre scuole hanno sviluppato una sofisticata tradizione di dibattito filosofico, utilizzando la logica (tarka) come strumento per confutare le posizioni avversarie e stabilire le proprie.
Una tecnica centrale è il pūrvapakṣa-siddhānta:
- Pūrvapakṣa ("punto di vista preliminare" o "tesi dell'avversario") è la presentazione comprensiva e rispettosa della posizione opposta, mostrandone la forza argomentativa
- Segue poi una confutazione sistematica (khaṇḍana) che ne espone le contraddizioni interne o i difetti logici
- Infine si stabilisce il siddhānta ("conclusione definitiva"), la propria posizione, rafforzata dal contrasto con l'alternativa respinta
Questa metodologia, lungi dall'essere meramente polemica, è una potente tecnica pedagogica che chiarifica le posizioni attraverso il confronto dialettico. I grandi commentari (bhāṣya) di Śaṅkara, Rāmānuja e Madhva seguono costantemente questo schema.
Tuttavia, questa tradizione disputativa ha talvolta generato divisività settaria. Alcune organizzazioni contemporanee associate al Dvaita o al Viśiṣṭādvaita hanno scoraggiato i propri seguaci dallo studiare l'Advaita, percependolo come pericolosamente vicino al nichilismo o all'ateismo. Viceversa, alcuni advaitin hanno liquidato le scuole teistiche come "concessioni" alla debolezza intellettuale dei devoti.
Verso la riconciliazione: il principio di adhikāribheda
La contesa su quale scuola sia assolutamente corretta o sbagliata è ultimamente controproducente, poiché oscura la capacità di ciascuna tradizione di condurre i praticanti verso la liberazione dalla sofferenza.
La chiave per trascendere la divisività risiede nel principio fondamentale dell'Induismo noto come adhikāribheda—letteralmente "differenza di qualificazione" o "diversità dei cercatori spirituali". Questo principio, enunciato già nei testi classici, riconosce che ogni individuo possiede una costituzione psicologica, un temperamento intellettuale e un grado di maturità spirituale unici.
Una possibile interpretazione gerarchica
Si potrebbe ipotizzare—con dovuta cautela—che le tre scuole rappresentino un continuum di accessibilità:
- Advaita, emerso cronologicamente per primo e forse riflettendo più direttamente il linguaggio delle Upaniṣad, costituisce un insegnamento estremamente elevato e intellettualmente esigente. Richiede una radicale decostruzione delle categorie ordinarie di pensiero e un'introspezione filosofica sostenuta. Non tutti i cercatori sinceri possiedono la preparazione o l'inclinazione per questo percorso puramente conoscitivo.
- Viśiṣṭādvaita potrebbe essere visto come un adattamento che preserva l'esperienza devozionale e il senso di relazione personale con il divino, pur mantenendo una sofisticata struttura filosofica. Rende la pratica spirituale più accessibile integrando bhakti (devozione) e jñāna (conoscenza).
- Dvaita semplifica ulteriormente la struttura metafisica, enfatizzando la devozione intensa e la grazia divina come vie primarie. La sua chiarezza dualistica e il suo focus sulla relazione Dio-devoto lo rendono particolarmente accessibile a temperamenti emotivi e devozionali.
Oltre la gerarchia: complementarietà
Tuttavia, questa progressione non implica necessariamente superiorità o inferiorità. Come il calcolo differenziale e l'algebra sono discipline matematiche diverse, ciascuna appropriata per differenti problemi e studenti, così Advaita, Viśiṣṭādvaita e Dvaita sono percorsi spirituali distinti, ciascuno calibrato sulle esigenze di specifici tipi di cercatori.
Si potrebbe anche sostenere che le tre scuole non siano contraddittorie ma complementari, ciascuna illuminando un aspetto diverso della realtà ultima:
- L'Advaita enfatizza la trascendenza assoluta di Brahman oltre ogni categoria
- Il Viśiṣṭādvaita rivela l'immanenza organica del divino nel cosmo
- Il Dvaita celebra la relazionalità personale tra Dio e anime
Tutte e tre le prospettive, sebbene forniscano principi metafisici apparentemente incompatibili, condividono lo stesso scopo ultimo: non impartire teorie astratte, ma offrire mezzi pratici (sādhana) per affrontare la sofferenza esistenziale (duḥkha) e condurre alla liberazione (mokṣa).
Conclusione: l'unità nella diversità
Le divergenze filosofiche nel Vedānta testimoniano la straordinaria ricchezza e vitalità della tradizione indiana. Lungi dal rappresentare una debolezza o confusione, questa pluralità riflette il riconoscimento profondo che la realtà ultima—per sua natura—trascende ogni formulazione concettuale definitiva.
Come affermano le stesse Upaniṣad: "Yato vāco nivartante aprāpya manasā saha" ("Da dove le parole tornano indietro insieme alla mente, senza averlo raggiunto"). Se Brahman è veramente l'assoluto, nessuna descrizione può esaurirne la natura.
Le tre scuole del Vedānta, con le loro differenze e dibattiti, rappresentano tentativi onesti e rigorosi di articolare l'inarticolabile, di concettualizzare l'inconcettualizzabile. Ciascuna offre un darśana (visione) valida, un percorso efficace verso la trasformazione interiore.
Per il praticante moderno, la sfida non consiste nello scegliere la "vera" interpretazione, ma nell'identificare quale percorso risuona più profondamente con la propria costituzione interiore. L'autenticità della ricerca spirituale—e la sua capacità di generare pace interiore duratura—dipende da questa consonanza tra insegnamento e temperamento individuale.
In definitiva, tutte e tre le scuole vedantiche hanno dimostrato nei secoli la loro capacità di condurre innumerevoli esseri umani verso la liberazione dalla sofferenza, verso la realizzazione del loro potenziale più elevato, verso quella pace che "trascende ogni comprensione". Questa efficacia trasformativa, più di ogni sottile argomentazione filosofica, costituisce la loro validazione ultima e la ragione della loro persistente rilevanza spirituale.
- Rev. Dr. Luca Vona