Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 3 ottobre 2025

La teologia del silenzio di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

La ricerca del divino e dell'ultima realtà ha prodotto, nelle diverse tradizioni spirituali dell'umanità, approcci apparentemente paradossali: il silenzio come linguaggio più eloquente, la negazione come affermazione suprema, il vuoto come pienezza ultima. Due figure emblematiche di questa via negativa emergono da contesti culturali distanti: Dionigi Pseudo-Areopagita, teologo cristiano del V-VI secolo, e la tradizione del Buddhismo Zen con il suo concetto di śūnyatā (vuoto). Nonostante le profonde differenze teologiche e filosofiche, questi due approcci condividono una comune intuizione: l'ineffabilità dell'assoluto e l'inadeguatezza del linguaggio concettuale nel cogliere l'ultima realtà.

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita

Il contesto e l'opera

Dionigi Areopagita, la cui vera identità rimane avvolta nel mistero, produsse un corpus di scritti che avrebbe profondamente influenzato la mistica cristiana orientale e occidentale. Le sue opere principali - "I nomi divini", "La teologia mistica", "La gerarchia celeste" e "La gerarchia ecclesiastica" - elaborano una teologia che si muove su due livelli complementari: la via affermativa (catafatica) e la via negativa (apofatica).

La via negativa

Al centro del pensiero dionisiano sta la convinzione che Dio trascenda radicalmente ogni categoria dell'essere e del pensiero umano. La teologia apofatica procede quindi per negazioni successive: Dio non è buono, non è sapiente, non è essere, non è vita - non nel senso che gli manchino queste qualità, ma perché le trascende infinitamente. Come scrive Dionigi nella "Teologia mistica": "Procedendo verso l'alto, diciamo che Egli non è anima, né mente, né ha immaginazione o opinione o ragione o intellezione, né è ragione o intellezione, né si può dire o pensare".

Questo processo di negazione non è nichilismo, ma riconoscimento dell'inadeguatezza del linguaggio umano di fronte all'assoluto trascendente. Dio è "super-essenziale", oltre ogni determinazione. Le affermazioni catafatiche (Dio è buono, Dio è sapiente) rimangono valide come simboli che ci orientano verso il divino, ma devono essere trascese nella contemplazione mistica.

La tenebra luminosa

Un'immagine centrale in Dionigi è quella della "tenebra luminosa" o "tenebra divina". Mosè che sale sul Sinai e penetra nella nube oscura dove dimora Dio diventa il paradigma dell'esperienza mistica: "Allora Mosè si libera da tutto ciò che vede e da coloro che vedono ed entra nella tenebra veramente mistica dell'ignoranza; qui fa tacere ogni conoscenza positiva, sfugge interamente a ogni presa e a ogni visione, perché appartiene totalmente a Colui che è al di là di tutto".

Questa oscurità non è assenza di luce, ma eccesso di luminosità che abbaglia la mente discorsiva. È l'esperienza dell'unione mistica che trascende la dualità soggetto-oggetto, un'esperienza che può essere vissuta ma non adeguatamente descritta.

L'influenza sulla mistica cristiana

L'influenza di Dionigi sulla mistica cristiana è stata immensa. Attraverso Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo, il pensiero dionisiano penetrò in Occidente, influenzando figure come Meister Eckhart, Giovanni della Croce con la sua "notte oscura dell'anima", e la tradizione contemplativa della "Nube della non-conoscenza". In Oriente, la sua teologia apofatica divenne parte integrante della spiritualità ortodossa, dalla Filocalia agli esicasti del Monte Athos.

Il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

Le radici nella filosofia Madhyamaka

Il concetto di śūnyatā (vuoto) nel Buddhismo Zen affonda le sue radici nella filosofia Madhyamaka di Nāgārjuna (II-III secolo). Śūnyatā non indica il nulla nichilistico, ma l'assenza di esistenza intrinseca, indipendente e permanente in tutti i fenomeni. Ogni cosa esiste in relazione, in dipendenza da cause e condizioni, priva di un'essenza fissa e sostanziale.

Nāgārjuna, attraverso la sua dialettica delle "quattro negazioni" (catuṣkoṭi), decostruisce sistematicamente ogni posizione metafisica: la realtà ultima non è, non non-è, non è sia essere che non-essere, né è né essere né non-essere. Questa logica tetralemmatica dissolve ogni tentativo della mente concettuale di afferrare l'assoluto.

Lo Zen e la realizzazione diretta

Il Buddhismo Zen, sviluppatosi in Cina (Chan) e poi in Giappone, radicalizza l'approccio alla śūnyatā enfatizzando l'esperienza diretta oltre le parole e i concetti. Il famoso verso attribuito a Bodhidharma recita: "Una trasmissione speciale al di fuori delle scritture, non dipendente da parole e lettere, che punta direttamente alla mente umana, permettendo di vedere nella propria natura e raggiungere la buddhità".

Il vuoto nello Zen non è un concetto da comprendere intellettualmente, ma una realtà da realizzare attraverso la pratica meditativa (zazen) e l'illuminazione improvvisa (satori o kenshō). È la percezione diretta della natura vuota di tutti i fenomeni, incluso il sé, che libera dall'attaccamento e dalla sofferenza.

Il Paradosso della Forma e del Vuoto

Il celebre Sutra del cuore condensa questa visione nella formula: "La forma è vuoto, il vuoto è forma; la forma non è altro che vuoto, il vuoto non è altro che forma". Questo non è dualismo, ma la comprensione non-duale che la vacuità dei fenomeni non li nega ma ne costituisce la vera natura. I fenomeni non possiedono esistenza sostanziale, eppure appaiono e funzionano nel mondo relativo delle cause e condizioni.

Nel Buddhismo Zen, questa comprensione si traduce in un'affermazione radicale dell'ordinario: "Prima dell'illuminazione: tagliare legna, portare acqua. Dopo l'illuminazione: tagliare legna, portare acqua". Il sacro non è altro dal profano; il nirvana non è separato dal samsara. La realizzazione del vuoto non ci porta fuori dal mondo, ma trasforma il nostro modo di essere nel mondo.

I Kōan come Pedagogia del Vuoto

Una caratteristica distintiva dello Zen Rinzai è l'uso dei kōan, enigmi che sfidano la logica razionale e costringono la mente a trascendere il pensiero dualista. Domande come "Qual è il suono di una mano sola?" o "Mostrami il tuo volto originale prima che i tuoi genitori nascano" non ammettono risposte concettuali. Servono a cortocircuitare il pensiero discriminante e a precipitare l'esperienza diretta della vacuità.

Convergenze e risonanze

L'ineffabilità dell'Assoluto

Sia Dionigi che lo Zen condividono una profonda diffidenza verso il linguaggio concettuale quando si tratta dell'ultima realtà. Per Dionigi, Dio è al di là di ogni nome e predicato; per lo Zen, la natura di Buddha non può essere catturata dalle parole. Entrambi riconoscono che il linguaggio, nato dalla dualità soggetto-oggetto, è intrinsecamente inadeguato a esprimere ciò che trascende tale dualità.

Questa comune enfasi sull'apofatismo non è mero agnosticismo: è il riconoscimento che l'esperienza dell'assoluto supera le capacità della ragione discorsiva. Come afferma Dionigi nella "Teologia mistica", si devono abbandonare i sensi e le operazioni dell'intelletto per unirsi al divino. Similmente, lo Zen insiste che "se incontri il Buddha per strada, uccidilo" - un modo provocatorio per dire che qualsiasi concetto o immagine del risveglio deve essere trasceso.

La via della negazione

Entrambe le tradizioni impiegano strategie negative per indicare l'assoluto. Le negazioni successive di Dionigi ("né questo né quello") trovano un parallelo nel metodo di Nāgārjuna e nei kōan dello Zen che demoliscono sistematicamente ogni posizione concettuale. Questa negazione non è fine a se stessa, ma strumento di purificazione della mente dalle sue costruzioni e attaccamenti.

Tuttavia, c'è una differenza significativa: mentre Dionigi procede da affermazioni catafatiche a negazioni apofatiche mantenendo comunque una direzione verso un Dio trascendente personale, lo Zen tende a dissolvere ogni reificazione, inclusa quella di un assoluto separato dal relativo. Il vuoto buddhista è vuoto anche di sé stesso: non è un'entità metafisica ma l'assenza di sostanzialità in tutti i fenomeni.

L'Esperienza trasformativa

Centrale in entrambe le tradizioni è l'idea che la comprensione ultima non sia questione di acquisire nuove informazioni ma di trasformazione esistenziale. L'unione mistica di Dionigi e il satori dello Zen non sono conoscenze "su" qualcosa, ma modi radicalmente nuovi di essere e percepire la realtà.

In Dionigi, questa trasformazione avviene attraverso la contemplazione che culmina nell'henōsis (unione) con il divino. Nello Zen, è la realizzazione improvvisa o graduale della propria natura di Buddha, il riconoscimento che illuminazione e confusione, sacro e profano, non sono due realtà separate ma aspetti della stessa realtà ultima.

Il ruolo del maestro e della tradizione

Entrambe le tradizioni riconoscono l'importanza della guida spirituale. Dionigi parla delle gerarchie celesti ed ecclesiastiche come mediazioni necessarie; lo Zen enfatizza la trasmissione diretta da maestro a discepolo (ishin-denshin). Nonostante l'enfasi sull'ineffabile, entrambi riconoscono che la realizzazione spirituale avviene all'interno di comunità di pratica e attraverso la trasmissione vivente.

Divergenze fondamentali

Teismo e non-teismo

La differenza più radicale sta nella natura dell'assoluto. Per Dionigi, nonostante tutta la via negativa, Dio rimane un essere supremo personale, creatore trascendente che si rivela attraverso la creazione e l'incarnazione di Cristo. La teologia apofatica cristiana afferma che Dio è al di là dell'essere, ma non nega che sia il fondamento personale di ogni esistenza.

Il Buddhismo Zen, invece, non postula alcun Dio creatore o assoluto personale. La śūnyatā non è un'entità divina ma la natura ultima di tutti i fenomeni. Il Buddhismo evita consapevolmente le speculazioni metafisiche su un'origine prima o un creatore, concentrandosi invece sulla liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione della natura vuota dell'io e dei fenomeni.

Creazione vs. originazione dipendente

Per Dionigi e il cristianesimo, il mondo è creato ex nihilo da Dio e mantiene una distinzione ontologica tra Creatore e creato, anche se la creazione partecipa dell'essere divino. Nel Buddhismo, la dottrina del pratītyasamutpāda (originazione dipendente) nega qualsiasi creazione assoluta: ogni fenomeno sorge in dipendenza da cause e condizioni, in una rete infinita di interdipendenza senza inizio primo.

Il ruolo della grazia e dello sforzo

Nella mistica cristiana dionisiana, l'unione con Dio è ultimamente un dono della grazia divina. L'ascesi e la contemplazione preparano l'anima, ma l'henōsis è opera di Dio che si dona al mistico. Nello Zen, invece, l'illuminazione dipende dallo sforzo personale nella pratica (jiriki, "potere proprio"), anche se alcune scuole buddhiste, come la Terra Pura, enfatizzano il "potere altro" (tariki).

Persona e non-sé

Il cristianismo, anche nella sua mistica più radicale, mantiene l'identità personale dell'anima anche nell'unione con Dio. Meister Eckhart può parlare della "nascita di Dio nell'anima", ma l'anima mantiene la sua identità di fronte a Dio. Il Buddhismo, invece, nega l'ātman (sé permanente) come illusione fondamentale. L'anattā (non-sé) è una delle tre caratteristiche dell'esistenza, e la realizzazione buddhista include il riconoscimento che non esiste un'anima sostanziale, permanente e indipendente.

Implicazioni filosofiche e spirituali

Epistemologia mistica

Entrambe le tradizioni sfidano l'epistemologia razionalista occidentale che privilegia il pensiero concettuale e la conoscenza proposizionale. Propongono invece forme di conoscenza non-duale, contemplativa o meditativa, che trascendono la separazione soggetto-oggetto. Questa epistemologia mistica ha influenzato profondamente la fenomenologia contemporanea e gli studi sulla coscienza.

La docta ignorantia (dotta ignoranza) di Niccolò Cusano, influenzato da Dionigi, e il "non-sapere" (wu-wei) del Buddhismo Zen suggeriscono che la saggezza ultima comporti un disimparare, uno svuotamento delle certezze concettuali piuttosto che un accumulo di conoscenze. Questo ha profonde implicazioni per come concepiamo l'educazione spirituale e la maturità intellettuale.

Etica e compassione

Interessante è notare come entrambe le tradizioni, pur enfatizzando il trascendente o il vuoto, non conducano al quietismo ma a un'etica dell'azione compassionevole. In Dionigi, l'amore (agape) è centrale: il movimento estatico verso Dio si riflette nell'amore per il prossimo. Nello Zen e nel Buddhismo Mahāyāna più ampiamente, la realizzazione della vacuità genera spontaneamente compassione (karuṇā): riconoscendo che tutti gli esseri sono vuoti di esistenza intrinseca e interconnessi, sorge naturalmente il desiderio di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza.

Linguaggio e paradosso

Entrambe le tradizioni hanno sviluppato sofisticate strategie linguistiche per parlare dell'ineffabile. Dionigi usa il linguaggio simbolico e la via della negazione; lo Zen impiega paradossi, ossimori, poesia e gesti non verbali. Questo riconosce che, sebbene il linguaggio sia inadeguato, è l'unico strumento che abbiamo. Il linguaggio deve quindi essere usato abilmente per puntare oltre se stesso, come un dito che indica la luna senza essere la luna.

Dialogo interreligioso contemporaneo

Nel contesto del pluralismo religioso contemporaneo, il confronto tra la teologia apofatica cristiana e il concetto buddhista di vuoto offre terreno fertile per il dialogo. Pensatori come Thomas Merton, che praticò lo Zen pur rimanendo monaco cristiano, hanno dimostrato che è possibile un arricchimento reciproco senza sincretismo superficiale.

Teologi come John Cobb Jr. hanno esplorato come il processo filosofico possa mediare tra buddhismo e cristianesimo. Altri, come Masao Abe e la Scuola di Kyoto, hanno cercato di pensare insieme śūnyatā e kenōsis (svuotamento) cristologica, vedendo in entrambi un movimento di auto-svuotamento che apre alla trasformazione.

Tuttavia, è importante mantenere l'onestà intellettuale: le convergenze, per quanto profonde, non devono oscurare le differenze reali. Il rischio del dialogo interreligioso è talvolta quello di creare un "minimo comune denominatore" che impoverisce entrambe le tradizioni. Una vera convergenza rispetta le particolarità: il Dio personale e trascendente del cristianesimo non è riducibile alla śūnyatā buddhista, e viceversa.

Due vie, una saggezza?

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen rappresentano due delle più raffinate articolazioni dell'esperienza mistica dell'umanità. Nonostante le profonde differenze teologiche, ontologiche ed epistemologiche, entrambe condividono un'intuizione fondamentale: l'ultima realtà trascende le categorie del pensiero concettuale e può essere realizzata solo attraverso una trasformazione radicale della coscienza.

Dionigi ci invita a salire nella tenebra luminosa dove Dio dimora oltre ogni nome e concetto. Lo Zen ci chiama a realizzare il vuoto in ogni forma, a vedere attraverso l'illusione del sé separato e riconoscere la nostra natura originale. Entrambi i percorsi richiedono coraggio: il coraggio di abbandonare le certezze concettuali, di morire alle nostre costruzioni mentali, di aprirci a una realtà che eccede infinitamente la nostra comprensione.

In un'epoca caratterizzata dal nichilismo da un lato e dal fondamentalismo dall'altro, queste tradizioni apofatiche offrono una terza via: né il rifiuto cinico di ogni verità ultima, né l'attaccamento dogmatico a formulazioni concettuali, ma un'umile apertura al mistero che ci trascende. Sia la tenebra luminosa di Dionigi che il vuoto luminoso dello Zen ci insegnano che l'apofasi - il silenzio davanti all'ineffabile - non è resa o agnosticismo, ma la forma più alta di saggezza.

Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein concludeva il suo "Tractatus" con le parole: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Ma questo silenzio non è vuoto di significato; è gravido di presenza. Forse è in questo silenzio eloquente, in questa negazione affermativa, che Oriente e Occidente, Dionigi e lo Zen, si incontrano veramente - non nelle parole che pronunciamo, ma nella profondità indicibile verso cui entrambi ci conducono.

- Rev. Dr. Luca Vona