Introduzione: le radici cinesi dello Zen giapponese
Lo studio della tradizione Zen giapponese, che si sviluppa prevalentemente nel periodo medievale (dal XII secolo in poi), richiede una conoscenza approfondita del Chan cinese, dal quale trae origine e con il quale mantiene una stretta continuità filosofica e metodologica. Il buddismo arrivò in Cina intorno al I secolo d.C. dall'India, attraverso le vie carovaniere della seta e le rotte marittime. Le prime fasi furono caratterizzate dalla traduzione di testi indiani (spesso dal sanscrito o dal pali), un processo straordinariamente complesso reso ancora più arduo dalla mancanza di un lessico cinese adeguato per esprimere concetti completamente estranei alla cultura sinica. Questo portò inevitabilmente all'uso di terminologia mutuata dal Taoismo (come wu per il vuoto o ziran per la spontaneità naturale) e dal Confucianesimo, creando fin dall'inizio un sincretismo linguistico e concettuale che avrebbe profondamente influenzato lo sviluppo del buddismo cinese.
Il mutamento del senso della pratica: dalla cura all'espressione della natura originaria
Inizialmente, nel buddismo indiano antico (Theravada o Hinayana), la meditazione era vista come parte integrante dell'Ottuplice Sentiero e concepita esplicitamente come una terapia o una cura per l'essere umano considerato fondamentalmente malato o imperfetto. Lo scopo era portare l'individuo da una condizione di sofferenza (dukkha) a una condizione più elevata attraverso un processo di purificazione progressiva. Ad esempio, alcuni testi cinesi (traduzioni di testi indiani come i Dhyāna Sūtra) descrivevano metodi meditativi specifici per "curare la bramosia" attraverso la "visione delle impurità" (asubha) del corpo, contemplando la decomposizione fisica o gli aspetti ripugnanti della corporeità. In questa fase, si riteneva che i difetti e i vizi umani fossero connaturati alla condizione esistenziale e dovessero essere metodicamente estirpati attraverso una pratica disciplinata e costante.
Questa concezione cambiò radicalmente con l'ingresso in Cina della corrente Mahayana (intorno al V secolo d.C.), alla quale appartiene il Chan/Zen. La Mahayana, più consona alla sensibilità cinese influenzata dal pensiero taoista dell'armonia originaria, sostiene che l'essere umano è fondamentalmente e originariamente illuminato, possedendo già in sé la natura di Buddha (buddhatā o foxing in cinese). La pratica, dunque, non mira più a trasformare o migliorare un individuo imperfetto, ma a farlo tornare indietro, a rimuovere gli strati di condizionamento per riscoprire il proprio "volto originario" (benrai mianmu) o la "natura autentica" che è sempre stata presente ma oscurata dalle illusioni e dagli attaccamenti.
Di conseguenza, a partire dal periodo Tang (618-907 d.C.), considerato l'epoca d'oro del Chan, la meditazione assunse il significato primario di acquietamento (samādhi o ding in cinese, jō in giapponese). L'acquietamento fisico e mentale permette di far cadere spontaneamente le ostruzioni, gli attaccamenti (kleśa) e le illusioni (māyā), consentendo così alla vera natura di manifestarsi senza sforzo intenzionale. Questo concetto di acquietamento come condizione non-discorsiva e non-concettuale è rimasto una chiave fondamentale della pratica meditativa fino allo Zazen giapponese, dove assume particolare importanza nella tradizione Sōtō fondata da Dōgen.
Mente, non-mente e non-dualismo: le basi filosofiche della pratica
La mente (xin in cinese, shin in giapponese, che può significare anche cuore o cuore-mente in una concezione olistica) è considerata il luogo e l'oggetto fondamentale dell'illuminazione e della pratica. Diversamente dalla concezione dualistica corpo-mente occidentale, nel buddismo Chan la mente non è separata dall'esperienza corporea e sensoriale. La pratica mira a raggiungere la "mente non contaminata," chiamata anche "non-mente" (wuxin), "mente unica" (yixin), "mente fondamentale" o "mente originaria" (benxin).
Nel corso dello sviluppo del Chan, specialmente durante il periodo Tang, emersero diverse dottrine e una forte rivalità tra lignaggi che si contendevano l'ortodossia e il patronato imperiale. Il concetto apparentemente paradossale di "non-mente" (sostenuto, ad esempio, dalla Scuola della Testa di Bue o Niutou, considerata estremista dalle correnti principali) nacque dal desiderio filosofico di evitare di dare sostanza, nome o definizione al concetto di mente, impedendo così di sostanzializzare (reificare) il concetto stesso e di attaccarsi a un'idea astratta di illuminazione. L'uso della negazione serviva come strumento apofatico per indicare ciò che trascende ogni categorizzazione. Altri maestri, come quelli della Scuola del Nord, parlavano invece di "mente unica" o universale, preferendo un linguaggio più catafatico ma correndo il rischio di una concezione sostanzialista.
Il Chan si rifà anche alla grande tradizione della Cittamātra (letteralmente "solo-mente", conosciuta anche come scuola Yogācāra o idealismo buddhista), secondo cui la realtà percepita non esiste di per sé come entità indipendente, ma è una proiezione o costruzione della nostra mente attraverso le otto coscienze descritte nella psicologia buddhista Mahayana. Due Sutra indiani sono considerati fondamentali per la costruzione dottrinale delle scuole Chan: il Laṅkāvatāra Sūtra (Sutra della Discesa a Lanka) e il Vimalakīrti Sūtra (Sutra dell'Insegnamento di Vimalakīrti). In particolare, il Laṅkāvatāra Sūtra ha introdotto l'idea cruciale che non vi è distinzione ontologica tra Nirvana e Samsara, che sono due modi di esperire la stessa realtà, e che l'essere umano possiede una natura originaria illuminata chiamata tathāgatagarbha (grembo o embrione del Tathāgata, il Buddha).
Inoltre, il Chan è fortemente influenzato dal Madhyamaka (Via di Mezzo) di Nāgārjuna (II-III secolo d.C.), filosofo indiano che insegna il non-dualismo attraverso la dottrina della "vacuità" (śūnyatā), ovvero il rifiuto degli opposti rigidi, delle categorie fisse e della visione dualistica dell'esperienza umana. Il Madhyamaka decostruisce sistematicamente tutte le posizioni filosofiche attraverso il metodo dialettico del tetralemma, mostrando che né l'affermazione né la negazione, né entrambe né nessuna delle due possono cogliere la vera natura della realtà. Questa influenza si manifesta nel Chan nell'uso frequente di paradossi, negazioni e affermazioni contraddittorie che sfidano il pensiero concettuale ordinario.
La diatriba sulla pratica: illuminazione subitanea contro graduale
Un tema fondamentale e ampiamente dibattuto nello sviluppo del Chan è stato il contrasto tra l'illuminazione gradualista (jianwu) e quella istantanea o subitanea (dunwu). Questa diatriba, che ha diviso scuole come quella del Sud (subitanea, associata a Huineng, il Sesto Patriarca) e quella del Nord (graduale, associata a Shenxiu), ha avuto profonde implicazioni non solo teologiche ma anche pratiche sul modo di intendere e condurre la pratica meditativa. Il dibattito raggiunse il suo apice nel famoso "Concilio di Lhasa" (792-794 d.C.) in Tibet, dove si confrontarono le posizioni cinesi subitanee con quelle indiane graduali.
I sostenitori dell'illuminazione subitanea, come quelli del lignaggio di Linji (Rinzai in giapponese), fondato dal maestro Linji Yixuan (morto nell'866 d.C.), privilegiavano l'uso del gong'an (in giapponese kōan), letteralmente "caso pubblico" o "documento ufficiale". Storicamente, il kōan era inizialmente un oggetto di studio intellettuale, costituito da aneddoti, dialoghi o gesti paradossali di antichi maestri, ma divenne oggetto di pratica meditativa vera e propria con maestri come Dahui Zonggao (1089-1163) nel periodo Song (960-1279 d.C.). Dahui sistematizzò la pratica del "guardare la testa della parola" (kanhua Chan), focalizzandosi intensamente su una singola domanda paradossale fino al punto di rottura.
Il kōan era visto come un "mezzo abile" (upāya o fangbian), una zattera secondo la famosa metafora buddhista che, una volta attraversato il fiume, va abbandonata. Serviva per sfondare il velo dell'illusione attraverso una crisi cognitiva che porta alla dissoluzione del pensiero dualista e all'ottenimento di un'illuminazione improvvisa (kenshō o satori), che avviene in un momento preciso, spesso descritto come un lampo fulmineo o come il crollo improvviso di un muro.
Maestri come lo stesso Dahui criticavano aspramente la meditazione seduta silenziosa (zuochan in cinese, zazen in giapponese, spesso chiamata anche mozhao o "illuminazione silenziosa") definendola una pratica gradualistica e, peggio ancora, una pratica intenzionale nata da una "mente illusoria" che cerca qualcosa (come sostenuto anche dal maestro Shenhui nel VIII secolo), e quindi da evitare in quanto si rischia di trasformare un "abile mezzo" in un oggetto di attaccamento. Alcuni detti famosi di maestri Chan, come quello di Mazu Daoyi (709-788), sembrano scoraggiare esplicitamente la meditazione seduta, equiparandola allo "sfregare una tegola per farne uno specchio" – un'immagine che sottolinea l'inutilità di uno sforzo mal idirizzato che non può portare alla trasformazione desiderata poiché parte da un presupposto errato (la tegola non può diventare specchio, così come il praticante non deve "diventare" Buddha perché lo è già).
Tuttavia, il dibattito era molto più complesso e sfumato di una semplice contrapposizione binaria. Un maestro del IX secolo, Guifeng Zongmi (780-841), figura straordinaria che tentò una grande sintesi delle tradizioni Chan e Huayan, cercò di armonizzare le due visioni apparentemente incompatibili, pur favorendo personalmente l'illuminazione subitanea come obiettivo finale. Egli suggeriva con acume che l'illuminazione improvvisa ottenuta tramite il kōan era spesso solo un "flash" o un'illuminazione iniziale (jianxing o "vedere la natura"), non ancora stabilizzata né integrata profondamente nella personalità. Era dunque necessario, secondo Zongmi, l'uso successivo della meditazione seduta graduale per stabilizzare, approfondire, maturare e rendere attiva e operante l'illuminazione nella vita quotidiana in tutte le sue dimensioni. Questa posizione, nota come "illuminazione subitanea seguita da coltivazione graduale" (dunwu jianxiu), divenne influente in molte scuole successive e rappresenta un tentativo sofisticato di superare la dicotomia.
La pratica come manifestazione della via: oltre il dualismo mezzo-fine
Per alcune delle principali scuole Zen, in particolare la tradizione Sōtō giapponese sviluppata da Dōgen Zenji (1200-1253), la pratica meditativa non è intesa come un mezzo strumentale separato dal fine, uno strumento per cercare o ottenere l'illuminazione come se questa fosse assente, ma come la manifestazione diretta e immediata della natura originaria già presente. Per questi insegnamenti, che si rifanno alla dottrina del hongaku (illuminazione originaria), la pratica non termina con l'illuminazione come se avesse esaurito la sua funzione, ma in un certo senso inizia con essa o, più precisamente, è identica ad essa.
Si sottolinea vigorosamente che non è sufficiente "avere" l'illuminazione originaria in senso potenziale o teorico, se questa non viene attualizzata, manifestata e resa concretamente vera attraverso la pratica continua. L'individuo, pur essendo intrinsecamente e ontologicamente illuminato per natura, deve percorrere una "via" (dō o michi) che comporta l'espressione concreta, incarnata e vissuta della propria natura nella vita quotidiana in ogni gesto e azione, altrimenti è come se non la possedesse affatto. Questa è la famosa dottrina di Dōgen della "pratica-realizzazione" (shushō-ittō), l'unità non-duale di pratica e illuminazione.
Questa Via del Buddha (Butsudō o Buzon) è un percorso complesso, totalizzante e articolato, che va molto oltre la semplice seduta meditativa isolata dal resto dell'esistenza. Prevede, come già nel buddismo antico, tre pilastri fondamentali tradizionalmente chiamati "le tre discipline superiori" (trisikṣā): il rispetto rigoroso dei precetti etici (śīla o kai), la pratica meditativa intesa come coltivazione della concentrazione e della consapevolezza (samādhi o jō), e la ricerca o sviluppo della saggezza non-duale (prajñā o e).
Inoltre, nella tradizione monastica Zen, la Via comporta l'adozione di uno stile di vita completo basato sul igi (decoro, etichetta, forma corretta), in cui ogni aspetto dell'esistenza – dal modo di camminare, mangiare, vestirsi, fino alle modalità di pulizia e lavoro – diventa occasione di pratica e manifestazione della natura illuminata. Si è continuamente e incessantemente dedicati alla Via senza separazione tra tempo di pratica formale e tempo profano. Il vero Zazen, in questa prospettiva, non è una tecnica per raggiungere qualcosa di esterno, ma è la manifestazione naturale e spontanea della natura di Buddha, raggiunta semplicemente lasciando cadere (fushō) corpo e mente, liberandosi dalle illusioni e dalle costruzioni mentali senza cercare di afferrare alcunché.
La ricerca storiografica moderna e la riscoperta dei testi
La comprensione storica del Chan e dello Zen è stata profondamente e radicalmente rivista dagli studi accademici moderni, iniziati principalmente nei primi decenni del XX secolo. Molte narrazioni tradizionali, tramandate come verità storiche incontestabili – come quelle riguardanti la successione dei primi patriarchi, la trasmissione da Bodhidharma, o le drammatiche contese tra la scuola del Nord (gradualista) e quella del Sud (subitanea) – sono oggi considerate dagli storici come semi-mitiche, agiografiche o deliberatamente strumentalizzate a fini propagandistici e di legittimazione dalle scuole che prevalsero politicamente e istituzionalmente.
Una svolta assolutamente cruciale per la conoscenza del Chan cinese antico fu la scoperta fortuita delle grotte di Dunhuang all'inizio del XX secolo da parte dell'archeologo Aurel Stein. Queste grotte, situate lungo la Via della Seta nell'odierna provincia del Gansu, contenevano una biblioteca murata nel XI secolo con un'enorme quantità di manoscritti e testimonianze scritte sul Chan dei periodi Tang e precedenti, che giacevano dimenticate e perfettamente preservate dal clima desertico. Questi documenti hanno letteralmente rivoluzionato la comprensione accademica della situazione storica reale, rivelando l'esistenza di molte più scuole, lignaggi e correnti di quanto la tradizione ortodossa avesse tramandato, oltre a dinamiche sociali, politiche e dottrinali molto diverse e più complesse delle versioni semplificate e idealizzate trasmesse dalle fonti ufficiali.
Per questa ragione metodologica fondamentale, la ricerca attuale più avanzata nel campo degli studi Chan e Zen si concentra principalmente sulla traduzione filologica rigorosa, l'analisi critica e la decifrazione contestuale dei testi originali autentici reperiti archeologicamente – come i manoscritti di Dunhuang per il Chan cinese, o gli scritti originali di Dōgen (in particolare lo Shōbōgenzō) e, nel contesto della trasmissione esoterica giapponese, i misteriosi kirigami (documenti segreti scritti su carta non rilegata) e i monsan (domande e risposte formali per la trasmissione del Dharma) – piuttosto che affidarsi unicamente o acriticamente alle narrazioni agiografiche tradizionali, alle cronache ufficiali compilate secoli dopo gli eventi, o alle ricostruzioni apologetiche delle scuole sopravvissute. Questo approccio filologico-critico ha aperto nuove prospettive sulla natura storica, sociale e religiosa del Chan/Zen, liberandola da interpretazioni romantiche o orientaliste e permettendo una comprensione più accurata e sfumata di questa straordinaria tradizione spirituale e filosofica.