Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

mercoledì 19 novembre 2025

La Bhagavad Gītā: il canto eterno della liberazione

Introduzione: una celebrazione universale della saggezza

Ogni anno, nel mese lunare di Mārgaśīrṣa (corrispondente a novembre-dicembre), l'India e la diaspora induista celebrano il Gītā-Jayantī Mahotsava, l'anniversario della rivelazione della Bhagavad Gītā. Secondo la tradizione, fu in questo giorno propizio, nell'undicesimo giorno (Ekādaśī) della quindicina luminosa, che Krishna trasmise i suoi insegnamenti eterni ad Arjuna sul campo di battaglia di Kurukṣetra, oltre cinquemila anni fa. La celebrazione della Gītā-Jayantī non è semplicemente la commemorazione di un evento mitico del passato, ma il riconoscimento vivente della perenne attualità di questo testo sacro. In questo giorno, templi e comunità organizzano letture continue (Gītā pāṭha), discorsi, canti devozionali e cerimonie rituali (pūjā), ribadendo come la Gītā non sia un reperto archeologico della spiritualità, ma una fonte viva di ispirazione e trasformazione per milioni di persone nel mondo contemporaneo.

La Bhagavad Gītā (il "Canto del Glorioso Signore") è riconosciuta come uno dei testi fondamentali e più importanti dell'intera tradizione religiosa e filosofica indiana. La sua rilevanza è tale che, per la grande metafisica indiana del Vedānta, essa costituisce uno dei tre punti di partenza essenziali (Prasthāna Traya) per l'indagine filosofica e teologica, affiancando le Upaniṣad vediche e i Brahma Sūtra. Per millenni, la Gītā è stata il fondamento della vita religiosa, della speculazione filosofica e dell'insegnamento in India, guadagnandosi in epoca moderna l'appellativo di "Vangelo dell'India" per la sua importanza e ispirazione paragonabile ai testi evangelici. Presso la tradizione indiana, il testo gode di tale venerazione da essere considerato una rivelazione, assimilabile a una sorta di "quinto Veda", sebbene tecnicamente appartenga alla letteratura smṛti (tramandata) piuttosto che śruti (rivelata).

Contesto epico e rivelazione divina

Il Mahābhārata: l'oceano della narrazione

La Bhagavad Gītā è parte integrante della grande epopea del Mahābhārata, l'epica più estesa della storia dell'umanità, che consta di circa centomila versi distribuiti in diciotto libri (Parvan). Questo monumentale poema nazionale indiano (il cui nome ufficiale è Bharat) è di dimensioni inusitate, otto o nove volte più grande dell'Iliade e dell'Odissea messe assieme. Il Mahābhārata non è semplicemente un'epica guerriera, ma una straordinaria enciclopedia della civiltà indiana, contenente insegnamenti etici, genealogie divine, trattati sul dharma, racconti mitologici e riflessioni filosofiche. La tradizione stessa lo definisce "itihāsa" (letteralmente "così è stato"), sottolineandone il valore storico-mitico e normativo per la cultura indiana.

La Gītā stessa è un testo relativamente breve, composto da 700 versi (śloka), organizzati in 18 capitoli (Adhyāya), che risiedono nel cuore dell'epica, precisamente nel sesto Parvan, il Bhīṣma Parvan. Il testo è un'altissima opera di poesia e si articola come un dialogo filosofico-teologico, il cui scenario è la piana sacra di Kurukṣetra, situata nell'attuale stato di Haryana, a nord di Delhi, ancora oggi luogo di pellegrinaggio.

Il dramma di Kurukṣetra: metafora universale del conflitto

La scena si apre immediatamente prima dell'inizio di una catastrofica guerra fratricida tra cugini: i cinque fratelli Pāṇḍava, guidati da Yudhiṣṭhira, il re giusto per eccellenza, che incarnano il bene e il Dharma (l'ordine cosmico e morale), e i cento fratelli Kaurava, capeggiati dall'ambizioso e cieco (moralmente e materialmente, attraverso suo padre Dhṛtarāṣṭra) Duryodhana, che tipizzano il male e l'Adharma. Questo conflitto non è una semplice disputa dinastica per la successione al trono di Hastināpura, ma assume dimensioni cosmiche: è la lotta archetipica tra le forze della luce e dell'oscurità, tra ordine e chaos.

Il dialogo avviene tra l'eroe Pāṇḍava Arjuna, il più grande arciere del suo tempo, che rappresenta l'umanità nella sua dimensione più elevata ma anche nelle sue fragilità, e Krishna, suo cugino, amico e auriga. Krishna, tuttavia, non è un semplice conducente di carri: egli è una manifestazione (avatāra) del dio supremo Viṣṇu, il preservatore dell'universo nella trimurti induista. La scelta di Krishna di servire come auriga piuttosto che come guerriero è profondamente simbolica: egli guida metaforicamente l'anima umana attraverso il difficile percorso dell'esistenza.

La crisi esistenziale di Arjuna: il punto di partenza della ricerca spirituale

L'insegnamento ha inizio quando Arjuna, colto da una profonda disperazione e angoscia esistenziale (viṣāda) vedendo schierati contro di sé non nemici anonimi ma parenti carissimi, amici d'infanzia, venerati maestri come Bhīṣma (il grande patriarca della dinastia) e Droṇa (il suo maestro d'armi), getta l'arco Gāṇḍīva e si abbandona completamente a Krishna, riconoscendolo come il suo maestro divino (guru) e rifugio spirituale. Questo momento di crisi è fondamentale: Arjuna non è semplicemente codardo o confuso, ma sta vivendo un autentico dilemma morale e spirituale. Come può uccidere coloro che ama? Che senso ha una vittoria costruita sul sangue dei propri cari? Non sarebbe meglio rinunciare, lasciare il regno, ritirarsi in una vita ascetica?

Il primo capitolo, intitolato "Arjuna-viṣāda-yoga" (lo yoga della disperazione di Arjuna), è dunque introduttivo ma essenziale: stabilisce la condizione di crisi che apre alla ricerca spirituale autentica. La vera dottrina inizia dal secondo capitolo, quando si configura esplicitamente il rapporto maestro-discepolo (guru-śiṣya), fondamento dell'educazione tradizionale indiana.

Il Dharma come fondamento cosmico e sociale

Il dialogo affronta immediatamente il tema centrale del Dharma, termine sanscrito di complessità straordinaria che indica ciò che è conforme alla rettitudine, alla giustizia, alla legge cosmica e morale, alla funzione naturale di ogni essere, contrapposto all'Adharma. Il Dharma non è semplicemente una legge esterna, ma l'ordine stesso che mantiene la coesione dell'universo. Quando il Dharma decade, il cosmo stesso vacilla.

La battaglia di Kurukṣetra diventa così una potente metafora stratificata: è certamente uno scontro storico-mitico, ma è anche e soprattutto il simbolo del conflitto interiore ed esteriore tra bene e male che ogni essere umano sperimenta quotidianamente. I Pāṇḍava, pur essendo guerrieri (Kṣatriya), appartenenti alla seconda varṇa (casta) del sistema sociale vedico il cui dharma è proteggere la società, avevano cercato in ogni modo di evitare lo scontro, accettando persino l'esilio e offerte umilianti di pace. Questo rende la loro guerra una "guerra giusta" (Dharma-yuddha), l'ultimo ricorso necessario per ristabilire l'ordine quando tutte le alternative sono esaurite.

La dottrina della sintesi: Karma, Bhakti e Jñāna

Un capolavoro di integrazione spirituale

La Bhagavad Gītā deve la sua straordinaria fortuna storica e la sua capacità di parlare a pubblici diversissimi alla sua natura di testo di sintesi magistrale, capace di fondere insieme e conciliare le tre grandi vie (mārga) classiche di liberazione (Mokṣa) del pensiero indiano. Questa integrazione armonica è il tratto distintivo della Gītā rispetto ad altri testi che tendono a privilegiare una singola via. Krishna afferma che queste vie, lungi dall'essere in conflitto, sono accessibili a tutti indipendentemente dalla casta, dal genere o dalla condizione sociale, e si trovano sullo stesso piano di dignità spirituale, conducendo tutte al medesimo obiettivo ultimo:

  1. Karma Mārga (o Karma Yoga): La via dell'azione rituale e mondana, dell'impegno nel mondo.
  2. Bhakti Mārga (o Bhakti Yoga): La via della devozione appassionata e dell'amore per Dio personale.
  3. Jñāna Mārga (o Jñāna Yoga): La via della conoscenza metafisica, della discriminazione (viveka) e della saggezza liberatrice.

La Gītā integra armonicamente queste prospettive apparentemente disparate, offrendo un insegnamento altissimo in forma poetica accessibile, evitando sia l'aridità del puro intellettualismo sia gli eccessi dell'emotivismo devozionale incontrollato.

Il Niṣkāma Karma: l'azione disinteressata come via di liberazione

La metafisica dell'eternità dell'Atman

Di fronte allo sconforto paralizzante di Arjuna, Krishna interviene con una premessa metafisica fondamentale che rivoluziona l'intera prospettiva del problema: lo spirito individuale (Ātman) è eterno (nitya), senza inizio né fine, indistruttibile, immutabile. Come una persona abbandona vestiti logori per indossarne di nuovi, così l'Ātman abbandona corpi usurati per assumerne altri. Pertanto, uccidendo i suoi nemici sul campo di battaglia, Arjuna colpisce solo una forma transitoria (śarīra) destinata comunque a morire, non l'essenza spirituale immortale. Questa visione, radicata nelle Upaniṣad, relativizza drammaticamente l'importanza della morte fisica.

Inoltre, Krishna ricorda ad Arjuna che il combattimento (yuddha) è il dovere (svadharma) specifico della sua classe sociale, quella del guerriero (Kṣatriya). Rifiutare di combattere non sarebbe saggezza spirituale ma tradimento del proprio dharma, con conseguenze karmiche negative. Nella visione induista, ogni individuo ha un svadharma (dovere personale) determinato dalla sua natura (svabhāva) e dalla sua posizione sociale: meglio adempiere imperfettamente al proprio dharma che perfettamente a quello di un altro.

La rivoluzione etica del distacco

Tuttavia, ciò che rende l'etica della Gītā profondamente rivoluzionaria e universalmente significativa non è semplicemente questa giustificazione del dovere sociale, ma l'insegnamento radicale sul Niṣkāma Karma (azione senza desiderio dei frutti): l'azione deve essere attuata con pieno impegno ma spassionatamente, senza attaccamento (āsakti) ai frutti (phala) o ai risultati dell'azione stessa. Il famoso verso recita: "karmaṇy evādhikāras te mā phaleṣu kadācana" (hai diritto all'azione, mai ai suoi frutti). Il dovere deve essere compiuto per fedeltà al dharma, per pura obbedienza alla propria natura e funzione, non per interessi personali, aspettative di ricompensa, motivazioni psicologiche o passionali.

Questo insegnamento è straordinariamente "laico" e universale, rivolto a tutti gli esseri umani in ogni condizione di vita, non solo ad asceti, monaci o a chi ha intrapreso una vita di rinuncia formale (sannyāsa). La Gītā respinge esplicitamente l'idea che la liberazione richieda l'abbandono della società e del mondo: la liberazione può e deve essere conseguita nel pieno dell'attività mondana.

L'inevitabilità dell'azione e il paradosso della liberazione

Krishna spiega con chiarezza che l'uomo non può letteralmente non agire: anche stare fermi, trattenere il respiro, pensare sono forme di azione. L'azione (Karma) riguarda simultaneamente tre dimensioni: il corpo (kāya), il linguaggio (vāc) e la mente (manas), ed è quindi ontologicamente ineliminabile dalla condizione umana finché si è incarnati. Persino la semplice sopravvivenza biologica richiede azione.

Nella visione indiana, sviluppata soprattutto nelle Upaniṣad, il Karma ha una doppia valenza: da un lato è azione, dall'altro è la legge di causa-effetto morale che vincola l'uomo al ciclo delle rinascite (Saṃsāra) e quindi inevitabilmente al dolore (duḥkha), dato che ogni esistenza condizionata comporta sofferenza. Ogni azione produce residui karmici (saṃskāra) che determinano le rinascite future. La domanda cruciale, che angoscia generazioni di ricercatori spirituali, è quindi: come liberarsi dal Karma senza cadere nell'inazione, che è impossibile?

La risposta di Krishna è paradossale e geniale: è possibile trascendere la dimensione karmica vincolante attraverso il Karma stesso, trasformato però nella sua qualità. Non serve fuggire dall'azione, ma cambiare il rapporto con essa. L'azione deve essere svolta con dedizione totale, impegno completo, eccellenza (śraddhā) – non c'è spazio per l'approssimazione o la negligenza. Tuttavia, la chiave alchemica che trasforma l'azione vincolante in azione liberante risiede nell'intenzione (bhāva), nell'attitudine mentale che muove l'agire.

Se l'intenzione è pura, scevra da attaccamento egoistico (nirahaṃkāra), se l'azione è offerta come sacrificio (yajña) al divino piuttosto che perseguita per gratificazione personale, essa non produce contaminazione karmica, diventando "come uno scrivere sull'acqua che non lascia traccia". L'azione non genera residui se compiuta come puro dovere o come offerta devozionale. Se l'uomo agisce in questo modo, libero dall'identificazione con l'ego agente (kartṛ) e dall'attaccamento ai risultati, il Karma perde ogni potere vincolante su di lui e l'azione stessa diventa paradossalmente strumento di liberazione anziché di ulteriore schiavitù. Questo è lo Yoga dell'azione, il Karma Yoga.

La via regale della Bhakti: la devozione amorosa

L'integrazione di azione e sentimento

Sebbene l'azione disinteressata costituisca un pilastro fondamentale, la Gītā non si ferma a un'etica austera del dovere, ma la integra organicamente con la dimensione del sentimento e della dedizione emozionale. La via regale (rāja-mārga), la via suprema per la liberazione (Mokṣa), è proclamata essere la Bhakti, la devozione amorosa verso Dio personale.

Krishna spiega che la passione e il sentimento, che devono essere disciplinati e trascesi quando diretti verso i frutti delle azioni e i fini egoistici (kāma, desiderio egoistico), devono invece essere intensamente coltivati e rivolti interamente a Dio (Bhagavān). Non si tratta di reprimere le emozioni ma di riorientarle verso l'oggetto appropriato. La Bhakti non è fredda accettazione intellettuale ma partecipazione appassionata, intima, personale.

La circolarità dell'amore divino

La Bhakti è descritta come un movimento circolare di amore: è la partecipazione spontanea dell'anima umana a Dio, l'aspirazione del finito verso l'infinito, ma è anche e fondamentalmente l'amore precedente di Dio verso l'essere umano. Dio non è distante o indifferente, ma prema (amore divino) che si effonde. Krishna stesso dichiara: "Coloro che mi adorano con devozione, essi sono in me e io in loro."

Crucialmente, Krishna si manifesta nel mondo (come Avatāra) proprio per amore verso gli esseri senzienti, per proteggerli e guidarli. L'incarnazione divina non è motivata da necessità cosmiche impersonali ma da compassione (karuṇā) e grazia (anugraha).

La dottrina dell'Avatāra

Il concetto di Avatāra (letteralmente "discesa", dal sanscrito ava, giù, e tṛ, attraversare, oltrepassare) ha il suo locus classicus, il suo fondamento testuale per eccellenza, proprio nella Gītā. L'Avatāra è la manifestazione volontaria, periodica e compassionevole della divinità suprema (Viṣṇu/Nārāyaṇa) nel mondo fenomenico, che avviene ciclicamente quando il Dharma è gravemente in pericolo e l'Adharma (il chaos, il male, l'ingiustizia) rischia di travolgere completamente l'ordine cosmico e sociale.

Nel celeberrimo verso del quarto capitolo, Krishna proclama: "yadā yadā hi dharmasya glānir bhavati bhārata, abhyutthānam adharmasya tadātmānaṁ sṛjāmy aham" (Ogniqualvolta il dharma declina e l'adharma si solleva, O Arjuna, allora Io manifesto me stesso). L'Avatāra non è un'unica incarnazione irripetibile ma un evento ricorrente nella ciclicità cosmica induista. Krishna afferma di manifestare sé stesso "di era in era" (yuge yuge) per ristabilire l'ordine, proteggere i virtuosi, distruggere i malvagi e ristabilire il dharma.

Krishna è considerato dalla tradizione vaiṣṇava un pūrṇa-avatāra (avatāra completo, plenario), la manifestazione piena e totale della divinità suprema, a differenza di altri avatāra che sono manifestazioni parziali (aṃśa-avatāra). La tradizione enumera classicamente dieci avatāra principali di Viṣṇu (Daśāvatāra), tra cui Rāma, Buddha, e il futuro Kalki.

La supremazia della Bhakti

La Gītā proclama ripetutamente che la Bhakti è la via suprema, superiore anche alla conoscenza e all'ascetismo. Nell'undicesimo capitolo, dopo che Krishna ha rivelato ad Arjuna la sua forma cosmica terrificante (viśvarūpa), mostrando l'universo intero nel suo corpo, egli afferma che solo attraverso la devozione incondizionata (ananya-bhakti) può essere veramente conosciuto, visto e raggiunto.

L'amore puro per il divino è un amore non strumentale, non motivato dall'interesse personale o dalla ricerca di ricompense. Il vero devoto (bhakta) ama Dio non per ottenere liberazione, paradiso o poteri, ma per sua stessa natura intrinseca: l'amore non può essere ridotto a mero mezzo per un fine, ma è esso stesso il fine sommo (puruṣārtha). Questo rapporto d'amore è una comunione sublime (sāyujya) tra l'Amato divino (Īśvara) e l'amante umano, configurandosi come una chiamata divina, una grazia (prasāda) che precede e rende possibile la risposta umana.

L'unico vero scopo (prayojana) della vita umana, in questa prospettiva, è "tornare a casa" (svarga, vaikuṇṭha), ovvero entrare in una perfetta comunione eterna con la divinità, superando definitivamente il ciclo delle rinascite. Questa comunione non implica necessariamente la fusione indistinta ma può mantenere una dualità-nell'unità, permettendo la perpetuazione della relazione d'amore.

Yoga e Samatva: la via della conoscenza e dell'equanimità

Lo Yoga come equilibrio perfetto

Il terzo grande argomento della Gītā, intimamente legato alla conoscenza (Jñāna) e alla disciplina spirituale (sādhana), riguarda lo Yoga inteso nel suo significato più profondo. Krishna offre diverse definizioni memorabili dello Yoga. Una delle più celebri è che lo Yoga è la perfetta equanimità (samatva): "samatvaṁ yoga ucyate" (l'equilibrio è chiamato yoga).

L'equanimità (samatva o samatvam) consiste nel rimanere interiormente uguali, stabili, imperturbabili (sthita-prajña) di fronte a tutte le coppie di opposti (dvandva) che caratterizzano l'esistenza fenomenica: onore e disonore, caldo e freddo, piacere e dolore, vittoria e sconfitta, guadagno e perdita, lode e biasimo. Questo non significa indifferenza apatica o insensibilità, ma una centratura profonda che non viene scossa dalle vicissitudini esterne.

Un'altra definizione illuminante è che lo Yoga è "duḥkha-saṁyoga-viyoga" (lo scioglimento dell'unione con la sofferenza), ovvero la separazione definitiva dall'identificazione con il dolore e la sofferenza che caratterizzano l'esistenza condizionata.

Il sentiero dello Yogi: disciplina e autocontrollo

Per raggiungere la vetta vertiginosa dello Yoga, per realizzare questo stato di perfetta equanimità e liberazione, l'essere umano deve intraprendere un rigoroso cammino di auto-trasformazione. L'uomo deve innanzitutto soggiogare sé stesso (ātmanā ātmānaṁ uddharet: sollevi sé stesso attraverso sé stesso), diventando amico piuttosto che nemico di sé stesso. Questo richiede un distacco ascetico (vairāgya) unito a pratica costante, assidua e disciplinata (abhyāsa).

Il nemico principale e più insidioso in questo percorso interiore è l'ego nella sua forma di attaccamento (rāga), avidità (lobha) e interesse personale egoistico (ahaṃkāra, letteralmente "io-faccio", il senso dell'ego agente). Nella visione della Gītā, questo ego non è la vera identità dell'essere umano ma una sovrapposizione illusoria sull'Ātman puro. La vita spirituale autentica richiede di lasciar cadere progressivamente, minimizzare e infine trascendere completamente questo "io" egoico falso.

Il praticante dello Yoga (Yogi) deve inoltre coltivare moderazione in tutte le attività vitali: deve essere misurato (yukta) nel cibo e nel digiuno, nel sonno e nella veglia, nel lavoro e nel riposo. La Gītā propone chiaramente una "via mediana" (madhyama-mārga), respingendo sia il materialismo edonistico sia l'ascetismo autolesionista. Krishna afferma esplicitamente che lo Yoga non è per chi mangia troppo né per chi digiuna eccessivamente, non per chi dorme troppo né per chi resta sempre sveglio.

Il Samādhi: l'esperienza del Sé trascendente

L'esperienza culminante del percorso yogico è la comunione estatica con il Sé (Ātman), uno stato chiamato Samādhi (letteralmente "mettere insieme", perfetta concentrazione). In questo stato di assorbimento totale, le ordinarie funzioni mentali discorsive (vṛtti) si arrestano (nirodha), i sensi si ritirano dagli oggetti esterni come una tartaruga ritrae le membra (pratyāhāra), e il praticante attinge una felicità infinita (ānanda), una beatitudine che trascende completamente i limitati piaceri sensoriali (viṣaya-sukha).

Questo stato non è semplicemente psicologico ma ontologico: è la realizzazione diretta, non concettuale, dell'identità tra l'Ātman individuale e il Brahman universale, secondo l'interpretazione non-dualistica, o della perfetta comunione con il divino personale, secondo l'interpretazione devozionale.

La visione unitaria: Sé in tutti, tutti nel Sé

In questo stato di perfetta equanimità e realizzazione spirituale, lo Yogi consegue una trasformazione radicale della percezione: vede la stessa realtà essenziale ovunque (sarva-bhūta-hite rataḥ), riconoscendo il proprio Sé (Ātman) dimorare in tutti gli esseri senzienti e, reciprocamente, tutti gli esseri nel proprio Sé. La separazione illusoria tra sé e altro, tra soggetto e oggetto, viene definitivamente trascesa.

Lo Yogi perfetto (siddha-yogi) è descritto come colui che "giudica il piacere e la sofferenza che si manifestano in tutti gli esseri con lo stesso metro (ātmavat) che userebbe per sé stesso", realizzando così un senso di piena unità ontologica e compassione universale (mahā-karuṇā), in cui non sussiste più distinzione dualistica artificiale (dvaita). Questa non è semplice empatia psicologica ma realizzazione metafisica dell'interconnessione profonda di tutto ciò che esiste. Il vero Yogi vede con uguale sguardo un brahmano erudito, una mucca, un elefante, un cane e un mangiatore di cani – non perché sia cieco alle differenze esteriori, ma perché percepisce l'unica essenza spirituale che pervade tutte le forme.

Eredità, trasmissione e interpretazione

Datazione e contesto storico

La Bhagavad Gītā, come composizione autonoma inserita nel Mahābhārata, è stata datata dagli studiosi moderni in modo variabile, con un consenso generale che la colloca presumibilmente tra il primo secolo avanti Cristo e il primo secolo dopo Cristo, sebbene alcuni elementi possano essere più antichi. Questo la rende posteriore alle principali Upaniṣad ma anteriore ai grandi sistemi del Vedānta classico. Nasce quindi in un periodo di sintesi e fermento, quando diverse correnti spirituali (vedica, upaniṣadica, devozionale, ascetica) stavano cercando forme di integrazione.

Śaṅkara e il testo standard

Il testo è stato tramandato oralmente per secoli secondo la tradizione dei brāhmaṇa specializzati nella memorizzazione, e successivamente fissato in forma scritta grazie ai commenti esegetici (bhāṣya) di grandi maestri spirituali e filosofi. In particolare, il testo standard che leggiamo oggi (la cosiddetta vulgata) deriva direttamente dal commento (Śaṅkara-bhāṣya) di Ādi Śaṅkara (Shankara, circa 788-820 d.C.), uno dei più grandi filosofi e mistici dell'India, considerato dalla tradizione vaiṣṇava un Avatāra di Śiva stesso, venuto per ristabilire l'ortodossia vedica contro il Buddhismo.

Śaṅkara fu il principale esponente e sistematizzatore della scuola Vedānta non-dualistica radicale (Advaita Vedānta), che sostiene l'identità assoluta e non qualificata tra l'Ātman individuale e il Brahman universale, e considera il mondo fenomenico e la molteplicità come māyā (illusione o apparenza). Nella sua interpretazione, la liberazione (mokṣa) consiste nel riconoscimento intellettuale diretto (jñāna) di questa identità già esistente, dissolvendo l'ignoranza (avidyā) che crea l'illusione della separazione.

La tensione teistica: interpretazioni alternative

Tuttavia, l'intensa dimensione devozionale (Bhakti) e la ricca teologia teistica del testo della Gītā, con la sua enfasi su Krishna come Dio personale supremo (Bhagavān), su cui riversare amore e devozione, si concilia difficilmente con il non-dualismo radicale e impersonalista di Śaṅkara. Come può esistere devozione autentica se il devoto e l'oggetto della devozione sono ultimamente identici e il dualismo è illusorio? Come può Dio manifestarsi come avatāra se la realtà ultima è priva di attributi (nirguṇa)?

Questa tensione ermeneutica ha portato altri grandi maestri del Vedānta a sviluppare interpretazioni alternative e commentari sistematici che cercassero di preservare più fedelmente la dimensione teistica e devozionale del testo. Rāmānuja (1017-1137 d.C.), fondatore del Viśiṣṭādvaita Vedānta (Vedānta non-dualistico qualificato), e Madhva (1238-1317 d.C.), fondatore del Dvaita Vedānta (Vedānta dualistico), svilupparono interpretazioni che mantenevano una distinzione ontologica reale e permanente tra l'anima individuale (jīvātman) e Dio supremo (Paramātman), pur affermando una relazione intima di dipendenza.

Per Rāmānuja, Brahman è qualificato dagli attributi e dalle anime individuali, che sono reali anche dopo la liberazione, permettendo una relazione eterna di amore. Per Madhva, la distinzione tra anime, mondo e Dio è assoluta ed eterna. Entrambi ritenevano teologicamente e concettualmente più appropriato sposare il teismo devozionale con una metafisica che riconoscesse la realtà della pluralità, piuttosto che interpretare allegoricamente i passaggi devozionali come faceva Śaṅkara.

L'autorità del commento di Śaṅkara

Nonostante queste alternative interpretative di grande valore filosofico e teologico, il commento di Śaṅkara è rimasto storicamente il più autorevole e influente, ed è il suo lavoro esegetico che ha effettivamente "congelato" il testo nella forma manoscritta e nella struttura che conosciamo oggi. La sua autorità era tale che tutti i commentatori successivi dovevano necessariamente confrontarsi con la sua interpretazione, anche se per confutarla. Śaṅkara aveva organizzato monasteri (maṭha) in tutta l'India e creato una tradizione interpretativa vivente che assicurò la trasmissione del suo approccio.

L'influenza moderna: Gandhi e il rinascimento della Gītā

In epoca moderna, la Gītā ha vissuto un autentico rinascimento, diventando simbolo dell'identità spirituale indiana. Figure come Swami Vivekananda (1863-1902), Sri Aurobindo (1872-1950) e soprattutto Mahatma Gandhi (1869-1948) hanno riscoperto e reinterpretato la Gītā in chiave universalistica e come fonte di ispirazione per l'azione sociale e politica.

Gandhi, in particolare, vedeva nella Gītā non un testo che giustificava la violenza bellica letterale, ma un'allegoria della lotta interiore, e trovava nel Niṣkāma Karma il fondamento filosofico del suo Satyāgraha (aderenza alla verità) e della non-violenza attiva (ahiṃsā). Per Gandhi, agire senza attaccamento ai risultati significava lottare per la giustizia con massima determinazione ma senza odio e senza attaccamento alla vittoria personale. La sua interpretazione, pur controversa filologicamente, ha mostrato la vitalità ermeneutica del testo e la sua capacità di parlare alle sfide contemporanee.

Il messaggio eterno: agire nel mondo, trascendere il mondo

La battaglia di Kurukṣetra come teatro universale dell'esistenza

In conclusione, la Bhagavad Gītā offre una sintesi vertiginosa e profondamente stratificata della spiritualità indiana, incastonando magistralmente l'etica guerriera del Dharma nell'alta filosofia della liberazione metafisica. Krishna insegna che l'essere umano, pur dovendo impegnarsi totalmente e completamente nell'azione mondana, con eccellenza e responsabilità, deve simultaneamente farlo mantenendo una "zona" di distacco interiore, di non-identificazione, come uno spettatore consapevole (il "kṣetra-jña", il conoscitore del campo) che osserva il "campo" (kṣetra) – il corpo con i suoi bisogni, le passioni con le loro tempeste, il campo di battaglia della vita con i suoi drammi – senza esserne travolto o posseduto.

La battaglia di Kurukṣetra, dunque, non è solamente una guerra storica o mitica fra parenti rivali per la conquista di un trono terreno, ma è un'immensa e potentissima metafora del grande teatro della vita umana. È il simbolo del dramma cosmico ed esistenziale in cui ogni essere umano si trova inevitabilmente inserito. In questo teatro, l'essere umano è simultaneamente attore e testimone: è chiamato a vivere pienamente nel mondo, ad agire con coraggio e determinazione secondo il proprio dharma, ma allo stesso tempo è invitato a trascendere l'attaccamento egoico, a superare l'identificazione con i ruoli transitori e le maschere temporanee, per realizzare l'unità ultima con il divino e conseguire la liberazione definitiva (mokṣa) dal ciclo doloroso delle rinascite.

Il paradosso della vita spirituale

Questo è il paradosso luminoso al cuore della Gītā: non si raggiunge la trascendenza fuggendo il mondo, ma abitandolo pienamente con la giusta attitudine. Non si consegue la pace interiore evitando l'azione, ma agendo senza egoismo. Non si realizza l'unità con Dio allontanandosi dalle creature, ma vedendo Dio in ogni creatura. La liberazione non richiede l'abbandono delle responsabilità mondane, ma la loro santificazione attraverso il distacco e la dedizione.

Il messaggio della Gītā è quindi rivoluzionario nella sua sintesi: invita a una spiritualità incarnata, non disincarnata; a un'azione contemplativa, non frenetica; a un impegno distaccato, non indifferente. Propone una via mediana che evita sia il materialismo edonistico sia l'ascetismo mortificante, offrendo invece una strada regale (rāja-mārga) accessibile a ogni essere umano, indipendentemente dalla sua condizione sociale, dal suo genere o dalle sue capacità intellettuali.

Rilevanza contemporanea

In un'epoca moderna caratterizzata da iperattività compulsiva, ansia da prestazione, attaccamento ossessivo ai risultati e crisi di significato esistenziale, il messaggio della Gītā risulta straordinariamente attuale e terapeutico. Insegna a impegnarsi completamente nelle proprie responsabilità professionali, familiari e sociali, ma senza permettere che il successo o il fallimento definiscano la propria identità o distruggano la propria pace interiore. Invita a lavorare con eccellenza ma senza identificarsi con le proprie prestazioni. Propone un'etica della responsabilità unita a una spiritualità della libertà interiore.

La Gītā ricorda che ciascuno di noi combatte quotidianamente la propria battaglia di Kurukṣetra: nel luogo di lavoro, nelle relazioni familiari, nelle scelte morali, nei conflitti interiori tra dovere e desiderio, tra aspirazioni spirituali e necessità materiali. E in ogni momento, Krishna – che simboleggia la coscienza divina, la voce interiore della saggezza – è disponibile come auriga, come guida, se solo sappiamo rivolgerci a lui con sincerità e apertura.


Metafora conclusiva: l'orchestra sinfonica della vita

Immaginate un'orchestra sinfonica: l'obiettivo supremo non è che ogni musicista smetta di suonare o rimanga in silenzio, ma che ogni strumento – il violino, l'oboe, il timpano, ciascuno rappresentando il Karma, l'azione dovuta secondo la propria natura e posizione – si impegni al massimo delle sue potenzialità, suoni la sua parte con eccellenza tecnica ed espressiva, non per ottenere successo personale, riconoscimento individuale o maggiore compenso (i frutti dell'azione), ma per contribuire alla bellezza e all'armonia dell'opera sinfonica nella sua interezza, per servire la musica stessa (che rappresenta il servizio a Dio e al Dharma universale).

La Bhakti è il direttore d'orchestra che coordina ogni strumento con amore, ispirazione e visione unitaria, trasformando suoni potenzialmente caotici in sublime armonia. La Samatva (l'equanimità) è il perfetto equilibrio dinamico del suono complessivo, che rimane centrato e armonioso sia che il pubblico applauda entusiasticamente o critichi severamente, sia nella sezione fortissimo che in quella pianissimo. La Jñāna (la conoscenza) è la comprensione profonda della partitura musicale, della struttura compositiva, del significato dell'opera.

Solo quando ogni musicista suona così – con impegno totale ma senza attaccamento egoistico, con eccellenza tecnica ma in ascolto degli altri, contribuendo al tutto piuttosto che affermando sé stesso – l'orchestra (che simboleggia la vita umana individuale e collettiva) può raggiungere quella perfezione sonora che è simultaneamente bellezza artistica e liberazione spirituale, creazione culturale e realizzazione metafisica.

Questo è l'insegnamento eterno della Bhagavad Gītā: suonare la propria parte nell'orchestra cosmica con maestria, passione e dedizione, ma sempre al servizio di un'armonia che ci trascende e, proprio in questo trascendimento, ci completa e ci libera.

- Rev. Dr. Luca Vona