di Luca Mazzinghi*
10 gennaio 2021
Il Qohelet fa parte di quel gruppo di libri biblici che chiamiamo “sapienziali”, assieme ai Proverbi, Giobbe, Siracide e Sapienza. Libri di carattere educativo, in realtà non molto letti, destinati ai giovani per aprire il cuore e la mente all’arte del vivere. La sapienza, per la Bibbia, non è una questione di nozioni da apprendere, ma di esperienza da mettere a frutto; un cammino di ricerca nel quale rientra anche la fede in un Dio che si fa cercare e trovare presente nel mondo.
Qoelet, Gustave Doré, 1866 |
“Qohelet” è un termine ebraico connesso con la “assemblea” (in ebraico qahal) e rimanda a un nome fittizio, a un maestro che parla in pubblico; opera di un saggio che si nasconde dietro alla maschera del grande re biblico Salomone. L’autore mostra con molta ironia come il progetto salomonico di un re saggio, ricco e felice, sia in realtà un progetto fallito; si veda in particolare tutto il capitolo 2. L’opera è stata composta quasi certamente verso la metà del III secolo a.C., quando Israele era ormai venuto a contatto con la cultura ellenistica. Da questa nuova cultura, così diversa dalla propria, il Qohelet si lascia provocare, rileggendo criticamente la tradizione ebraica, pur restandone allo stesso tempo profondamente ancorato.
Il metodo seguito dal Qohelet è quello proprio dei saggi di Israele, ovvero l’esperienza critica della realtà; si veda il testo programmatico di 1,13-15: «ho cercato e ho esplorato con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo…». L’autore dell’epilogo, probabilmente un discepolo fedele, aggiungerà che il Qohelet «ascoltò, ricercò e compose molti proverbi» (12,9). Il Qohelet è tuttavia ben consapevole dei limiti dell’esperienza, il primo dei quali è il mistero dell’agire di Dio che nessuno è in grado di penetrare; se infatti ci fosse un saggio che dicesse di sapere, neppure lui ha davvero compreso (Qo 8,16-17); eppure proprio «cercare e esplorare» è il compito che Dio ha affidato all’uomo, pur se si tratta di un brutto compito, perché più l’essere umano cerca, più scopre i propri limiti (cf. ancora Qo 1,13 e 3,10-11).
Il primo risultato della ricerca del Qohelet è infatti negativo: il libro si apre con un celebre ritornello: «assoluto soffio, dice il Qohelet, assoluto soffio, tutto è un soffio».
La maggior parte delle traduzioni moderne, cominciando dalla Bibbia CEI, tradisce il testo del Qohelet, insistendo a seguire la traduzione latina di Girolamo che intedeva il termine ebraico hebel (“soffio”) come “vanità”, moralizzando così il messaggio del Qohelet: «vanità delle vanità, tutto è vanità». La realtà è per il Qohelet un soffio: transitoria, effimera, inconsistente, persino assurda. In particolare, emerge tutta l’assurdità della violenza (4,1-2), dell’avidità e della ricerca del denaro (5,9-10) e del potere (5,7-8). Anche la natura e la storia sembrano almeno a prima vista un movimento privo di senso; si vedano i bei poemi di 1,4-11 e 3,1-9: “non c’è niente di nuovo sotto il sole!” (Qo 1,9). Ma è soprattutto la morte ciò che toglie agli esseri umani ogni illusione; su questo punto, il Qohelet ha parole molto dure; non c’è differenza tra esseri umani e bestie, perché tutti muoiono allo stesso modo e tutti vanno nello stesso luogo (Qo 3,18-21); c’è un’unica sorte per tutti e alla fine la morte livella ogni differenza (cf. Qo 9,1-6). La morte mette soprattutto in discussione l’idea tradizionale che Dio premi i giusti e condanni i malvagi; ciò non avviene né in questa vita (8,11-12) né in un ipotetico aldilà che per il Qohelet non esiste affatto (9,2-3).
Nel passato gli interpreti del Qohelet si sono fermati quasi esclusivamente su questo aspetto negativo del libro, che è senz’altro ciò che più colpisce il lettore. La tradizione cristiana antica, di fronte a queste critiche così radicali, ha cercato di salvare il Qohelet, specialmente a partire dal suo traduttore latino, Girolamo, facendone un cantore della vanità di tutte le cose e della fuga mundi. Il Qohelet si è così trasformato in una sorta di monaco ante litteram che esorta a fuggire i beni effimeri di questo mondo in vista dei beni eterni. I commentatori moderni, invece, ne hanno per lo più sottolineato il pessimismo radicale, facendone così uno scettico e non di rado persino un ateo. In ogni caso, il Qohelet è un realista che smaschera ogni umana illusione di onnipotenza, ricordandoci che la morte sta sempre di fronte a noi. Grande lezione, in questo tempo di pandemia.
C’è tuttavia nel libro del Qohelet un polo positivo, un secondo tema che lo percorre per intero e che spesso viene trascurato dai commentatori: quello della gioia, che viene affermata con forza in sette testi, posti sempre dopo uno sviluppo negativo (2,24-26; 3,13-14; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-10; 11,7-12,8; cf. anche 7,14). In una vita apparentemente priva di senso è possibile per il Qohelet trovare frammenti di una gioia reale, semplice, ma concreta («mangiare e bere»), purché tale gioia sia vista come una “parte” data all’essere umano da Dio, come un suo “dono” e non come una conquista da parte dell’umanità. E così, scrive il Qohelet, «Ecco ciò che io ritengo buono, che è appropriato mangiare, bere e godersi il frutto del proprio lavoro faticoso per il quale ci si affatica sotto il sole, nei giorni contati della propria vita, che Dio concede all’essere umano: questa infatti è la parte che a lui spetta. Poi, ogni essere umano al quale Dio abbia dato ricchezza e sostanze e il potere di servirsene, di prendere la propria parte e gioire della propria fatica, tutto questo è dono di Dio» (5,17-18).
Ma perché tale gioia sia possibile, ecco emergere il terzo grande tema del libro, la figura di Dio, che mai il Qohelet chiama con il suo nome sacro di YHWH, il Signore; sono anche assenti temi biblici centrali come quelli dell’alleanza, della benedizione, della salvezza. Del culto egli parla solo in 4,17-5,6, in modo critico. E tuttavia Dio (in ebraico ’elohîm) è menzionato nel libro ben quaranta volte; in un solo caso con un suffisso personale: «il tuo creatore» (12,1). Dio è soggetto per ben undici volte del verbo “fare” e per sette volte del verbo “dare”; è un Dio che «fa tutto» (11,5), senza però che l’essere umano possa in alcun modo giudicarlo (7,13; cf. anche 6,10-12). E tuttavia è un Dio che “da” all’uomo la vita, pur se breve (9,10), e la gioia, come si è visto (3,14). Su questi doni non goduti Dio chiederà conto ad ogni essere umano (11,9).
Il Qohelet si propone come una sorta di sentinella critica, che ci toglie ogni pretesa di poter racchiudere Dio nei nostri schemi, fossero pur quelli di una tradizione venerabile. Allo stesso tempo, il Qohelet propone ancora oggi un sano realismo; egli non accetta facili soluzioni che portino i credenti a rifugiarsi in un futuro ideale e illusorio, ma lontano dalla vita quotidiana. Per il Qohelet, l’unico atteggiamento possibile nei confronti di un tale Dio è il “temerlo”; si vedano 3,14; 5,6; 7,15-18; 8,11-14; 12,13-14. L’umanità deve riconoscere il mistero dell’agire di Dio e accettarlo nella sua radicale incomprensibilità, scoprendo però allo stesso tempo che un tale Dio continua ad essere presente nelle piccole gioie che, nonostante tutto, la vita è in grado di offrire.
*Don LUCA MAZZINGHI, parroco di San Romolo a Bivigliano (Fi), già Presidente della Associazione Biblica Italiana, è docente alla Pontificia Università Gregoriana Ha pubblicato numerosissimi articoli e libri nel campo degli studi biblici.
-Fonte: Il Quotidiano del Molise