Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

giovedì 31 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. Non saltare questa pagina

Lettura

Luca 3,23-38

23 Gesù, quando cominciò a insegnare, aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, di Eli, 24 di Mattàt, di Levi, di Melchi, di Iannài, di Giuseppe, 25 di Mattatìa, di Amos, di Naum, di Esli, di Naggai, 26 di Maat, di Mattatìa, di Semèin, di Iosec, di Ioda, 27 di Ioanan, di Resa, di Zorobabele, di Salatiel, di Neri, 28 di Melchi, di Addi, di Cosam, di Elmadàm, di Er, 29 di Gesù, di Eliezer, di Iorim, di Mattàt, di Levi, 30 di Simeone, di Giuda, di Giuseppe, di Ionam, di Eliachim, 31 di Melea, di Menna, di Mattata, di Natan, di Davide, 32 di Iesse, di Iobed, di Boos, di Sala, di Naàsson, 33 di Aminadàb, di Admin, di Arni, di Esrom, di Fares, di Giuda, 34 di Giacobbe, d'Isacco, d'Abraamo, di Tara, di Nacor, 35 di Seruc, di Ragau, di Falec, di Eber, di Sala, 36 di Cainam, di Arfàcsad, di Sem, di Noè, di Lamec, 37 di Matusala, di Enoc, di Iaret, di Maleleel, di Cainam, 38 di Enos, di Set, di Adamo, di Dio.

Meditazione

La genealogia di Luca, rispetto a quella presentata da Matteo, si muove a ritroso e si riferisce a Giuseppe in quanto padre legale di Gesù (essendo sposato con Maria). Sebbene abbia già precedentemente raccontato della nascita verginale di Gesù da Maria, Luca specifica ancora che Gesù era figlio, "come si credeva " (v. 23), di Giuseppe; dopodiché propone una sfilza di nomi che vengono a costituire una di quelle pagine delle Scritture che verrebbe voglia di saltare a pié pari. Si tratta, invece, di versetti molto importanti, perché costituiscono come il "certificato di nascita" di Gesù e ci rivelano verità pregnanti sulla sua natura e la sua missione. Nella sua genealogia Luca non si ferma ad Abramo, ma risale fino ad Adamo, capostipite dell'umanità e direttamente plasmato da Dio. Gesù è dunque presentato come il "nuovo Adamo". Come questi è chiamato "figlio di Dio" (v. 38); ma Gesù è figlio di Dio perché, come recitiamo nel credo Niceno, è "della stessa sostanza del Padre", da lui direttamente "generato, non creato". Il Padre stesso, nel battesimo al Giordano, presentato nel brano evangelico immediatamente precedente la genealogia, proclama Gesù, con una voce dal cielo, suo "figlio prediletto" (Lc 3,22). Il diavolo, che compare nelle tentazioni di Gesù nel deserto, nel brano immediatamente successivo alla genealogia, si rivolge lui dicendo "Se tu sei il Figlio di Dio" (Lc 4,3). Così anche i demoni, in occasione degli esorcismi, riconosceranno Gesù come Figlio di Dio (Lc 4,41). Infine, i sommi sacerdoti esorteranno Gesù a dirgli se egli è il Figlio di Dio (Lc 22,70). Gesù è dunque il nuovo Adamo perché assumendo interamente la nostra umanità la congiunge in modo mirabile alla divinità, e offrendosi in sacrificio per noi sulla croce per annullare la colpa del nostro progenitore, diviene il primogenito di coloro che risuscitano dai morti (Col 1,18). Al principio della genealogia Luca ci informa che Gesù iniziò il suo ministero quando aveva circa trent'anni. Questa era l'età in cui poteva essere intrapreso l'ufficio di profeta, sacerdote o re. Questo sarà il triplice mandato di Gesù, anche se egli non sarà sacerdote nel senso Levitico, come coloro che devono offrire continuamente sacrifici prima per i propri peccati e poi per gli altri nel tempio (Eb 7,27); egli è il sacerdote universale che offre se stesso nel "sacrificio pieno, perfetto e sufficiente per i peccati del mondo intero" (cf. The Book of Common Prayer). Anche la sua regalità appartiene a una dimensione cosmica e non meramente terrena - "Il mio regno non è di questo mondo" (Gv 18,36); assunta l'umile condizione del servo sofferente (Is 53,5-12) aprirà per noi le porte della misericordia, fino al suo ritorno nella veste di giudice universale. Vero Figlio di Dio e vero figlio di Adamo, Gesù è il mediatore perfetto per rendere i figli di Adamo figli di Dio per adozione e per grazia.

Preghiera

Dio onnipotente, concedici di essere figli nel tuo Figlio, affinché possiamo essere liberati dalla miseria e dal peccato ed essere introdotti nella gioia senza fine. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 30 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. La lunga attesa di Anna

Lettura

Luca 2,36-40

36 C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37 era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38 Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. 39 Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. 40 Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui.

Commento

Il Vangelo di Luca si apre con un coro di profezie sul bambino Gesù, prima di accennare alla sua vita nascosta a Nazaret e farlo ricomparire dodicenne a discutere con i dottori nel Tempio. L'ultima di queste profezie vede protagonista Anna, un'anziana vedova che conduce una vita ascetica senza allontarsi mai dal Tempio. La sua età avanzata non le impedisce di servire Dio e il servizio che gli rende è fatto di digiuno e di preghiera. 

Esaltando la devozione di Anna, l'Evangelista testimonia che la fede non può rinchiudersi in una dimensione puramente "orizzontale", relegando nell'ambito dell'inutilità coloro che non possono esercitare un ministero attivo per l'età avanzata o per altre limitazioni. 

La preghiera di Anna, il suo digiuno, protratti per così tanti anni dalla sua vedovanza, sono un segno profetico della superiorità di Dio in relazione con qualsiasi altra cosa; testimoniano la perseveranza nell'attesa e nell'invocazione del Messia, una implorazione che si trasforma in lode e annuncio nel momento in cui si realizza il sospirato incontro: "lodava Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (v. 38). 

Come Giovanni il Battista, Anna si fa interprete delle profezie dell'Antico Testamento, fa da "ponte" tra esse e la nuova alleanza in Cristo; ricordandoci con le sue veglie e i suoi digiuni, l'unico necessario, "la parte migliore" (Lc 18,41-42) che si rivela agli umili, ai "poveri di spirito", perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).

Preghiera

Risveglia in noi, Signore, il desiderio di trascendere le cose di questo mondo, per annunciare, con le nostre vite e con la nostra parola, l'avvento del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 29 dicembre 2020

Thomas Becket. Poiché non siete del mondo, il mondo vi odia

Il 29 dicembre la chiesa cattolica e la chiesa anglicana celebrano la memoria di Thomas Becket (1118-1170).
Al termine dei vespri del 29 dicembre 1170, viene ucciso nella cattedrale di Canterbury l'arcivescovo Thomas Becket, primate della chiesa d'Inghilterra. Thomas era nato nel 1118 a Londra, da una famiglia normanna di mercanti. Dopo aver concluso brillanti studi di diritto a Londra e a Parigi, aveva rapidamente conquistato la considerazione del re d'Inghilterra Enrico II, fino ad essere nominato Cancelliere dello Scacchiere nel 1155. 
Amico fraterno del re, Becket fu per sette anni suo fedele servitore, condividendone fatiche e preoccupazioni di governo, sfarzo e spensieratezza di vita. Considerate le sue brillanti doti di amministratore e i problemi tra casa reale e alti prelati inglesi, il re volle nominarlo nel 1162 arcivescovo di Canterbury, nonostante la sua opposizione. Thomas si sentì allora chiamato a operare un profondo cambiamento nella propria vita per poter svolgere responsabilmente il gravoso ministero ricevuto. Cominciò così ad assumere l'abito e la morigeratezza dei monaci del tempo, e invitò i poveri a sedere alla sua mensa. Nella sua azione pastorale, Becket difese senza accettare compromessi l'autonomia della chiesa contro le ingerenze del re, e fu costretto per questo a un lungo esilio in Francia. Lasciato solo dai confratelli nell'episcopato, tiepidamente difeso da Roma e osteggiato dalla nobiltà, egli rientrò a Canterbury nel novembre del 1170 a seguito di una momentanea riconciliazione con il re. Pochi giorni dopo, essendosi rifiutato di revocare la scomunica contro i nemici della chiesa d'Inghilterra, questi lo fecero uccidere di spada davanti all'altare della sua cattedrale. Thomas Becket, pur avendo la possibilità di farlo, decise di non fuggire e accettò di perdere la vita.

Tracce di lettura

Qual è la ragione della morte di Thomas Becket? Se si guarda bene, egli morì per ciò che costituisce la causa dell'antagonismo tra il mondo e la chiesa. La chiesa è stabilita in tutti i paesi per rivolgersi a tutte le genti, ai grandi e ai piccoli, di ogni rango e ogni condizione. Per dirigere e in un certo senso intervenire con coscienza, e nel caso di miseria morale di quei prìncipi che il mondo adula fin dalla loro infanzia, anche per promulgare la legge e insegnare così la fede. Questo è il conflitto: il mondo non ama ricevere lezioni. I re d'Israele non amavano i profeti. La chiesa può arrivare a contrapporsi al mondo, a erigersi contro di esso come testimone. Questo fu il conflitto tra il mondo e Thomas Becket (J. H. Newman, Appunti per i sermoni )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


Thomas Becket (1118-1170), reliquiario, Ashmolean Museum (Oxford)

Fermati 1 minuto. Uno sguardo inquieto finché non si posa in lui

Lettura

Luca 2,22-35

22 Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, 23 come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; 24 e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore. 25 Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele; 26 lo Spirito Santo che era sopra di lui, gli aveva preannunziato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore. 27 Mosso dunque dallo Spirito, si recò al tempio; e mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, 28 lo prese tra le braccia e benedisse Dio:

29 «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
30 perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
31 preparata da te davanti a tutti i popoli,
32 luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele».

33 Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34 Simeone li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione 35 perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima».

Commento

Secondo la legge mosaica (Lv 12,2-8) la donna che partoriva un figlio maschio non doveva toccare niente di sacro né entrare nel tempio per quaranta giorni, a motivo della sua impurità rituale. Al termine di questo periodo doveva offrire un agnello di un anno come sacrificio da bruciare e una tortora o un giovane colombo in espiazione dei suoi peccati. Le donne che non potevano permettersi un agnello dovevano offrire, come fece la madre di Gesù, due giovani colombi. Ciò attesta la povertà di Maria e Giuseppe. La Legge prevedeva, la consacrazione al Signore di ogni primogenito (Es 13,2.12). 

La nascita di Gesù porta a compimento le speranze degli ebrei devoti, che attendevano il Messia annunciato a Israele, in particolare dal profeta Isaia e nel libro di Daniele. Il cantico di Simeone, chiamato Nunc dimittis dalle sue due prime parole nella versione in latino, sembra provenire dall'ambiente giudeo-cristiano, come anche il Magnificat e il Benedictus

L'inno si trova perfettamente in sintonia con l'annuncio del carattere universale della salvezza che attraversa il vangelo di Luca. Il vangelo sarà predicato a uomini di ogni lingua popolo e nazione (Ap 5,9), non solo a Israele, dunque, ma anche ai gentili. Per tutti e tre i cantici viene specificato da Luca che chi li pronuncia è mosso dallo Spirito Santo. 

I primi a riconoscere l'avvento del Messia sono persone umili, povere, senza posizioni di particolare rilievo: Maria e Giuseppe, fidanzati di modeste condizioni del paesino di Nazaret; Elisabetta, anche lei una donna, che profetizza mentre il precursore sussulta nel suo grembo; e Simeone, "uomo giusto e timorato di Dio" (v. 25) che non sarà più menzionato nei Vangeli. 

Nel prendere tra le braccia Gesù, Simeone trova la gioia e la pace che non solo gli fanno sentire compiute le aspettative di Israele ma danno compimento e significato alla sua stessa esistenza: "Ora lascia, O Signore, che il tuo servo vada in pace..." (v. 29). 

Nell'incontro con il Figlio di Dio incarnato scopriamo una pace che pervade la nostra vita e che ci conforta anche di fronte alla morte, non più considerata con terrore. L'incontro con Gesù colma le aspettative più profonde della nostra anima; questo il senso etimologico della "salvezza" cantata da Simeone: "fare integro", aggiungere all'edificio della nostra esistenza quella pietra angolare (Mt 21,42) che gli dona stabilità e perfezione. 

"Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere" (Eccl 1,8). Finché non vede Cristo. Come Simeone, tenendo quel bambino tra le braccia, posando il nostro sguardo su di lui, possiamo trovare nella sua tenerezza il volto misericordioso di Dio.

Preghiera

Donaci, Signore, la pace che scaturisce dall'incontro con te; affinché possiamo cantare il mistero della grazia compiutosi nella tua incarnazione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 28 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. Il sangue dei giusti

Lettura

Matteo 2,13-18

13 Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». 14 Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, 15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio. 16 Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. 17 Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18 Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

Commento

La mancanza di tracce storiche sulla strage degli innocenti, al di fuori di quanto riportato da Matteo  è dovuta probabilmente all'"irrilevanza" del fatto rispetto ad altri massacri di ben più vaste proporzioni.  Betlemme era un villaggio di circa mille abitanti e il numero di maschi sotto i due anni fatti uccidere da Erode non poteva essere stato che di qualche decina. 

In questo episodio del Vangelo di Luca vediamo ancora una volta Giuseppe avvertito in sogno da un angelo. Giuseppe ubbidisce prontamente all'ordine impartitogli dal messaggero di Dio; quella stessa notte intraprende un viaggio rischioso e con scarsità di mezzi. La sua obbedienza coraggiosa e incondizionata ricorda quella di Abramo. 

La "sacra famiglia" soggiornerà in Egitto fino alla morte di Erode. Sarà costretta a dimorare lontana dal Tempio, in mezzo alle genti che non conoscono il Dio d'Israele. Anche noi siamo chiamati a preservare la nostra fede in un mondo ostile e incredulo, a prenderci cura del nostro Dio, che ha accettato di farsi creatura sotto la custodia di un uomo e di una donna.

Israele, "figlio" di Dio, era stato chiamato dall'Egitto al tempo di Mosè (Os 11,1); allo stesso modo Gesù, il Figlio di Dio, dovrà essere nascosto in questa terra straniera, dalla quale sarà chiamato per un nuovo esodo. Rama è una città che si trova sette chilomentri a nord di Gerusalemme. Il lamento di Rachele, che morì dando alla luce Beniamino, diviene espressione di un dolore così forte da poter essere udito a grande distanza. I profeti dell'Antico Testamento nominano Rama in diverse occasioni legate alla tristezza e al lutto (Is 10,29; Ger 31,15; Os 5,8), facendo della città un luogo-simbolo dell'afflizione. 

La fuga in Egitto rappresenta una prova per Maria e Giuseppe, i quali mostrano umiltà e obbedienza nei confronti della volontà di Dio e accettano l'invito al nascondimento in terra straniera. 

A volte vorremmo difendere la nostra causa "a spada tratta", quando Dio ci chiede semplicemente di riporre la nostra fiducia in lui, disarmando la nostra volontà di potenza e attendendo la sua chiamata nell'ora che avrà stabilito. 

L'episodio della fuga in Egitto mostra che la persecuzione verso Cristo comincia fin dalla sua nascita e così la testimonianza passiva, involontaria, di questi infanti, diventa prefigurazione della passione di Gesù, alla quale vengono associati: hanno sparso il loro sangue per lui, e lui lo verserà per loro. 

Non si tratta di una morte "inutile" perché il sangue dei martiri innocenti si innalza verso il cielo gridando giustizia verso Dio; come il sangue del giusto Abele, e quello di tante vittime di guerre, persecuzioni, povertà. Una storia di violenza e ingiustizia dove si manifesta il rifiuto dei potenti nei confronti della regalità di Cristo, nascosta nella fragilità di un bambino. In questa piccola creatura è riposta la speranza per un cielo nuovo e una terra nuova (Ap 21,1).

Preghiera

Ascolta, Signore, il grido degli innocenti che dalla terra si innalza a te; liberaci dall'oppressione dell'uomo violento e rendici capaci di accogliere la grazia che si manifesta nella debolezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

La strage degli innocenti. L'odio del mondo verso una regalità disarmante

Le chiese d'occidente ricordano in questo giorno la «strage degli innocenti», perpetrata dal re Erode, secondo l'evangelista Matteo, a danno di tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni al di sotto dei due anni, mentre Gesù aveva trovato riparo in Egitto con la sua famiglia. Vittime innocenti della naturale ostilità dei potenti di questo mondo verso la disarmante e mite regalità del Cristo manifestata da Gesù di Nazaret, i bambini ebrei uccisi da Erode costituiscono la primizia di quell'immenso nugolo di martiri che accompagnano le nozze dell'Agnello. Sebbene il loro involontario sacrificio preceda cronologicamente la passione, morte e resurrezione di Cristo, nondimeno il loro drammatico coinvolgimento nel mistero dell'incarnazione è la conseguenza della piena integrazione di Israele nel corpo di Gesù, Messia e Servo sofferente di JHWH. Questa memoria, come altre ricorrenze dell'ottava di Natale, nelle chiese ortodosse e in quelle orientali viene celebrata un giorno dopo rispetto alle chiese occidentali.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Adrian Willaert (1490-1562), Laudate pueri Dominum

Massacre of the Innocents - Maestà by Duccio - Museo dell'Opera del Duomo - Siena 2016.jpg
Duccio di Buoninsegna (1255-1318/1319),
La strage degli innocenti,
Museo dell'Opera del Duomo, Siena


domenica 27 dicembre 2020

Giovanni, l'aquila di Dio

Il 27 dicembre cattolici, anglicani e luterani celebrano la memoria di Giovanni, evangelista ed apostolo.
Giovanni era figlio di Zebedeo e di Salome. Egli fu dapprima discepolo del Battista, ma prese a seguire Gesù quando il suo primo maestro gli indicò nel Nazareno l'agnello di Dio venuto a prendere su di sé il peccato del mondo. Chiamato da Gesù a comprendere in profondità il comandamento nuovo dell'amore, Giovanni accolse l'invito a dimorare assiduamente con il suo Maestro e Signore, e imparò ad amare vivendo nell'intimità con lui. Per questo fu chiamato «il discepolo amato». Assieme al fratello Giacomo e a Pietro, Giovanni fu il testimone privilegiato di alcuni episodi decisivi della vita di Gesù: la resurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione sul monte, l'agonia del Getsemani. E nel momento più cruciale, la passione e morte di Gesù, egli fu l'unico discepolo che rimase a condividere da vicino, con Maria, gli ultimi istanti della vita terrena del Signore. Dall'alba della resurrezione Giovanni sarà spesso presentato in compagnia di Pietro, quasi a significare che l'ossatura della chiesa è costituita dalla compresenza del discepolo che ama perché conosce e contempla da vicino l'amore del Signore e di quello che ama perché molto gli è stato perdonato. Dopo la Pentecoste, lasciata Gerusalemme, secondo la tradizione Giovanni risiedette dapprima in Samaria e poi a Efeso, dove attorno a lui si formarono delle comunità cristiane di cui testimoniano gli scritti che portano il suo nome: il quarto vangelo, le tre Lettere e l'Apocalisse. La memoria di Giovanni, giustamente posta accanto alla memoria della nascita del suo Amato, invita la chiesa a guardare al mondo con gli occhi trasformati dalla contemplazione dell'amore.

Tracce di lettura

Occorre avere l'ardire di affermare da una parte che i vangeli sono primizia di tutta la Scrittura, dall'altra che primizia dei vangeli è quello secondo Giovanni, la cui intelligenza non può cogliere chi non abbia poggiato il capo sul petto di Gesù e non abbia ricevuto da lui Maria come propria madre. Colui che sarà un altro Giovanni deve diventare tale da essere indicato da Gesù, per così dire, come Gesù stesso: è ciò che accadde a Giovanni. Sebbene infatti non ci sia alcun figlio di Maria, se non Gesù, ciò nonostante Gesù dice a sua madre: «Ecco il tuo figlio» (e non già: «Ecco, anche questo è tuo figlio»); ciò equivale a dire: «Questi è Gesù che tu hai partorito». Infatti, chi è giunto alla piena maturità «non vive più», ma in lui «vive Cristo»; e poiché in lui vive Cristo, quando si parla di lui a Maria si dice: «Ecco il tuo figlio». (Origene, Commento all'Evangelo secondo Giovanni 1,23 )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Eredi di Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO IL NATALE

Colletta

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo unico Figlio, affinché prendesse su di sé la nostra natura e nascesse in questo tempo dal grembo di una vergine; concedici di essere rigenerati e fatti tuoi figli per adozione e grazia; affinché possiamo essere quotidianamente rinnovati dallo Spirito Santo. Per Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo stesso Spirito, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Gal 4,1-7; Mt 1,18-25

Commento

Il tema dell'adozione per grazia - richiamato nella Colletta della liturgia del giorno e nella Lettera di Paolo ai Galati - ci costringe a rivedere radicalmente la nostra immagine di Dio. La rivelazione del Dio trinitario e della dinamica che ne anima la vita, interna ed esterna, ci è data innanzitutto nel mistero dell’incarnazione. Dio ci viene rivelato come Padre, dunque non come un'ente chiuso in se stesso, sterile e autoreferenziale, ma capace di generare in eterno un'altro da sé, il Figlio, e di effondere su di esso il proprio amore. Il Figlio restituisce al Padre questo amore, che è lo Spirito Santo, in una dinamica che è come quella di una sorgente perenne, capace di autoalimentare il proprio flusso, senza fine né principio.

Ma il mistero dell'adozione a figli, mediante l'incarnazione del Verbo, ci offre una ulteriore rivelazione. La capacità del Dio trinitario di effondere la propria vita anche al di fuori di sé. Assumendo e condividendo fino in fondo la nostra natura umana il Figlio ci rende una cosa sola con lui. Il processo discendente e di spoliazione che ha inizio con l'incarnazione del Verbo e giunge alla rinuncia di Dio a se stesso nella passione e morte di Cristo, ha un parallelo nella progressiva ascesa della natura umana, nel momento in cui Dio decide di assumerla su di sé, di innalzarla rivestendosi di essa.

L’incarnazione dell'eterno Figlio è il passo decisivo con cui Dio ci offre, gratuitamente, la possibilità di essere inseriti nella sua vita trinitaria. È il segno della fedeltà di Dio alla sua creatura, che ci consente di recuperare non solo il paradiso perduto, ma di condividere la stessa vita divina, di ottenere ciò che i nostri progenitori desideravano e che il menzognero tentatore gli prospettava come un qualcosa che Dio non ci avrebbe concesso: «Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e sarete come Dio» (...) "Allora si apersero gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi" (Gn 3,5-7). 

La comunione con Cristo, non solo restaura in noi l'immagine originaria, ma ci fa eredi di Dio; sicché quando il Padre ci guarda, non vede noi, non vede me, non vede te... ma vede il Figlio suo, ci ama come il suo Figlio prediletto. E quando noi preghiamo rivolgendoci al Padre, noi preghiamo con la stessa voce del Figlio di Dio, mediante lo Spirito Santo, che egli ha effuso abbondantemente su di noi.

Fatti figli nel Figlio, Dio può vederci realmente con gli occhi di un Padre. Non siamo più orfani in terra straniera, ma siamo chiamati a regnare con Cristo, nel quale il Padre ci dice: «Tu sei mio figlio, oggi io ti ho generato» (Sal 2,7) e «Ogni cosa mia è tua» (Lc 15,31).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 26 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. Sarete odiati da tutti

Lettura

Matteo 10,17-22

17 Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; 18 e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19 E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: 20 non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. 21 Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. 22 E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato.

Commento

Il tempo che ci separa dalla parusìa (dal ritorno di Cristo) è il tempo della prova e della testimonianza. Gesù profetizza ai suoi discepoli le difficoltà che incontreranno nel loro ministero e come dovranno comportarsi davanti agli oppositori. I predicatori del vangelo, infatti, non siederanno come principi sui troni delle nazioni ma saranno odiati dal mondo. Gesù, venuto come "segno di contraddizione" (Lc 2,34) sarà testimoniato (questo il significato del termine martirio) tra sofferenze e fatiche. 

Vi è un legame tra il mistero della culla, la profezia di Simeone durante la presentazione del piccolo Gesù al tempio, e il mistero della croce. Gesù preannuncia una ostilità al vangelo che comincerà nello stesso ambiente religioso in cui sono inseriti i primi cristiani - le sinagoghe - fino ai più alti vertici di chi comanda sulla terra - "governatori e re" (v. 18) e recidendo come una spada gli stessi legami familiari - "il fratello darà a morte il fratello" (v. 21). 

Anche oggi chi fa propri gli insegnamenti di Cristo si ritroverà inevitabilmente ad andare controcorrente e a incontrare resistenza nel suo stesso ambiente religioso, in famiglia e nella cultura dominante. Gesù invita i suoi discepoli a non confidare in se stessi e promette il dono dello Spirito santo, che parlerà in loro (v. 20). Le Scritture, ispirate da Dio, ci daranno gli strumenti per rispondere al biasimo del mondo, ma lo stesso Spirito che parla in esse porrà sulla nostra lingua le parole per rendere ragione della speranza che è in noi (1 Pt 3,15). "Chi semina nel pianto mieterà nella gioia" (Sal 126,5), afferma il Salmista. 

Alla fine del II secolo Tertulliano scrive nel suo Apologeticum che "il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani". Dai tempi del primo martire Stefano ne è corso di sangue sulla terra. Ancora oggi sono milioni i cristiani perseguitati nel mondo, spesso dimenticati dagli stessi credenti che possono professare una fede tiepida in luoghi meno ostili. Eppure non mancano segni di intolleranza al cristianesimo anche nei paesi più "liberali", spesso ammantata da uno spirito che vede nella Bibbia una pietra d'inciampo (Rm 9,32). Ma la parola di Dio può restare fedele a se stessa pur mettendosi in dialogo con gli sviluppi della scienza, della cultura e della società. Essa infatti non è lettera morta, ma parola vivente, Spirito e vita (Gv 6,63). 

Siamo allora chiamati a evitare facili fughe in avanti o all'indietro, chiudendoci nel recinto confortevole del progressismo o del conservatorismo di maniera, ma piuttosto a una testimonianza radicale, proprio perché capace di scendere fino alle radici delle questioni del nostro tempo. Solo attraverso una ricerca sofferta della Verità potremo contemplare i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio (At 7,56).

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi siamo nel mondo come pecore in mezzo ai lupi; tu che ci hai riscattato con il tuo sangue donaci la forza di seguirti con coraggio, fedeli alla tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Stefano, primo martire. Il dono di sé fino alla morte

La chiesa, con grande sapienza, ha posto la memoria di Stefano nel giorno immediatamente successivo al Natale di Cristo Signore, sottolineando così lo stretto legame esistente tra incarnazione e martirio.

La liturgia celebra nell'effusione del sangue di Stefano il paradosso cristiano del Figlio di Dio che nasce e muore per dare al mondo la vita. I cristiani sono così guidati a discernere nel bambino deposto in una mangiatoia la pietra di paragone e insieme la pietra di inciampo di cui parla la Scrittura, e a ricordare che chiunque voglia amare Cristo, mettendosi alla sua sequela, va liberamente incontro al dono di sé fino alla morte. 

Stefano apparteneva alla prima comunità cristiana di Gerusalemme. Era un capo ellenista, cioè uno di quegli ebrei di lingua greca provenienti dalla diaspora che saranno i primi a essere allontanati dalla città santa e a diffondere di conseguenza il vangelo. Accusato, come molti suoi compagni, di avere un atteggiamento sovversivo nei confronti della Torah e del Tempio, Stefano lasciò che di fronte ai suoi accusatori fosse lo Spirito santo a parlare in lui. L'interpretazione sapiente che egli offrì delle Scritture ebraiche dinanzi al sinedrio venne autenticata dalla sua disponibilità a morire perché fosse resa testimonianza all'affermazione che Gesù è risorto, che è il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio. 

Conformato dallo Spirito al suo Signore, Stefano muore invocando il perdono per i suoi uccisori, mostrando così che il vero martire non è martire contro nessuno, ma dà la vita perché tutti possano aderire al messaggio di vita contenuto nel vangelo. La testimonianza resa da Stefano non sarà certo estranea alla conversione di Saulo, presente alla sua lapidazione: il sangue dei martiri inizia con Stefano a essere il seme dei cristiani.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose



Video Caelos Apertos - Canto per il Communio della Messa di Santo Stefano

Annibale Carracci: Martirio di Santo Stefano (Louvre)

Martirio di Santo Stefano, Annibale Carracci, Louvre, Parigi

giovedì 24 dicembre 2020

Il Verbo ha piantato la sua tenda in mezzo a noi. Commento al Prologo del Vangelo di Giovanni

Lettura

Giovanni 1,1-14

1 In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2 Egli era in principio presso Dio:
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
4 In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5 la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
6 Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
7 Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8 Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10 Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
11 Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto.
12 A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13 i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

Meditazione

Il prologo del Vangelo di Giovanni è probabilmente l'adattamento di materiale tradizionale antico, forse un inno, simile ad altri inni cristologici presenti nelle lettere di Paolo. Il suo nucleo centrale presenta frasi brevi concatenate l'una all'altra mediante la ripresa dell'ultima parola di un verso nella prima del verso seguente. 

Diversamente da Matteo e Luca che iniziano il loro vangelo con la genealogia di Gesù secondo la carne, Giovanni si preoccupa di presentare il Cristo come Logos che sussiste con Dio prima della creazione del tempo e che è egli stesso Dio (Gv 1,1). L'incipit "In principio" è lo stesso della Genesi. Il "Verbo" è traduzione dal latino Verbum, che a sua volta traduce il greco del testo originale Logos, "Parola". Questa rappresenta Dio in azione; egli infatti crea e si rivela mediante la sua Parola ed è Gesù Cristo, Verbo incarnato, a redimere l'umanità.

Il termine Logos pur avendo affinità con la filosofia greca è imbevuto in Giovanni da riferimenti veterotestamentari: è con la Parola che Dio ha creato il mondo (Gn 1,3) e essa è autoespressione della potenza, saggezza, rivelazione di Dio: "quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull'abisso" (Pr 8,27); "Mandò la sua parola, li guarì e li salvò dalla morte" (Sal 107,20). 

Giovanni sceglie certamente il termine Logos perché comprensibile tanto ai giudei quanto ai gentili; la lingua greca era infatti l'idioma colto nell'impero romano dell'epoca. Contro alcune teorie che circolavano nei primi secoli del cristianesimo, secondo le quali il mondo sarebbe stato creato da un dio inferiore, emanazione del Dio inacessibile, o da figure angeliche, il testo giovanneo proclama che nulla è stato fatto senza la Parola di Dio (v. 3). 

Anche la lotta tra luce e tenebre non è destinata, come in alcune cosmogonie a una coesistenza eterna delle due, ma la luce ha vinto le tenebre: questo il senso della parola greca katalambano che è da intendere con il significato  di "sopprimere". Come le tenebre di una stanza non possono oscurare le fiamma di una candela, così il Logos prevale sull'oscurità. 

Luce e tenebre sono due termini frequenti nel vangelo di Giovanni. La luce nelle Sacre scritture indica la loro verità, mentre le tenebre si riferiscono all'errore; sul piano morale la luce rappresenta la purezza di cuore e le tenebre l'empietà. Nella letteratura giovannea le tenebre indicano anche Satana e la sua coorte (1 Gv 5,19), che governano il mondo presente. Il termine "tenebre" ricorre 17 volte nel Nuovo testamento, di cui 14 solo nei testi giovannei. Ma alle tenebre è contrapposta la luce, che è anche la "vita", vittoriosa sul principe di questo mondo, che sarà "cacciato fuori" dalla croce di Cristo e con l'instaurazione definitiva del Regno di Dio al suo ritorno. Il termine "vita" compare nel Vangelo di Giovanni 36 volte e ha uno speciale significato in relazione al Signore Gesù Cristo. 

Il prologo prosegue presentando Giovanni il Battista come l'uomo che Dio ha mandato per rendere testimonianza a Cristo. Ma egli è solo un profeta, non la luce stessa; è come la sentinella che veglia nella notte per annunciare l'approssimarsi dell'alba (Is 21,11-12). Cristo è invece la luce che illumina ogni uomo, perché assume l'umanità stessa su di sé mediante l'incarnazione. L'Evangelista afferma che le tenebre non hanno accolto la luce; indicando con ciò non solo il rifiuto da parte del popolo di Israele di Cristo, ma una potenza ostile, umana e soprannaturale, "il mondo" (termine che ricorre 78 volte nel Vangelo di Giovanni, 24 volte nelle sue lettere e 3 volte nell'Apocalisse). Ma chi accoglie il Figlio di Dio, credendo nel suo nome, cioè nella sua potenza, ha vinto il mondo e diviene figlio di Dio per adozione. È una vera e propria generazione spirituale, che non ha nulla a che vedere con una elezione determinata da un legame di sangue, da un diritto acquisito per discendenza dal popolo eletto. Si tratta invece di un atto procreativo del Padre, che consente agli uomini di "rinascere dall'alto", di rinascere "in acqua e Spirito" (Gv 3,3-5). 

Il Verbo si fa carne, letteralmente "pianta la sua tenda" (eskenosen) in mezzo a noi, proprio come Dio aveva preso dimora nella tenda del convegno (Es 33,7-10) eretta da Mosè. Ora la nostra umanità è la sua tenda e in essa Gesù ha manifestato la gloria divina che un tempo riempiva il tabernacolo e il tempio. Proprio come il Dio di Israele aveva dimorato con lui in una umile tenda e non in un palazzo regale così il Figlio ha scelto di abitare nella nostra umile condizione umana. 

Il mistero dell'incarnazione fa sì che l'Infinito divenga finito, l'eterno conforme al tempo, l'invisibile visibile, ciò che è superiore alla natura parte della creazione. Tutto questo senza che Dio, pur svuotato della sua potenza, cessi di essere Dio, in Cristo. Attraverso Gesù i discepoli hanno visto la gloria di Dio, nei suoi attributi di grazia, bontà, misericordia, saggeza, verità. Tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che egli compie, è una esegesi, interpretazione e manifestazione, di ciò che è Dio e delle sue mirabili operazioni.

Preghiera

Dio Onnipotente, che ci hai donato il tuo Figlio unigenito, affinché assumesse la nostra natura su di sé e che in questo tempo è nato da una vergine pura; concedici di essere rigenerati e fatti tuoi figli per adozione e grazia, rinnovati quotidianamente dallo Spirito Santo. Per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito santo, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen. (The Book of Common Prayer)

- Rev. Dr. Luca Vona

Il Natale di John Donne

Provato nel corpo e nello spirito, per la perdita dell'amata moglie e per un cancro allo stomaco, pochi mesi prima di morire John Donne pronunciò questo Sermone di Natale nella Cattedrale londinese di St. Paul, di cui era stato nominato Decano. È un Sermone che vale la pena leggere e rileggere, meditare e rimeditare di anno in anno, per la sua capacità di rompere i canoni, specie contemporanei, di una Natale edulcorato, dimentico del fatto che l'incarnazione del Verbo è prima di tutto una spoliazione di Dio da se stesso.

Discorso contro la morte

Sermone pronunciato da John Donne la notte di Natale del 1630, nella Cattedrale di Saint Paul, Londra.

     Solo adesso arrivo a parlarvi, miei fedeli. Educato fra uomini abituati al disprezzo della vita e al culto dei morti, affamati di un immaginario martirio e di una tormentosa trascendenza, oppressi dal cilicio di una religione oscura come una tara inconfessabile, solo adesso arrivo a parlarvi, come dopo un lungo viaggio.
     Ora siamo nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, e non possiamo tacere. I nostri abiti sono quella piccola montagna di stracci ammucchiata davanti al portale. Ma non vergognatevi. Nessuno entrerà. La porta è stata sbarrata dall’interno con un trave di legno. E’ quasi mezzanotte e nessuno potrà vederci così come siamo. Dowland ha acceso questo grande fuoco al centro della chiesa, che ci scalda tutti. Non possiamo avere freddo. Dobbiamo restare in preghiera – noi, chiusi in questo silenzioso mausoleo con i nostri corpi nudi, nudi come lo furono alla nascita, senza lo straccio di una veste, senza l’orpello di un abito, scorticati da ogni lusso superfluo – con tutti i nostri corpi, giovani, vecchi, bambini, adulti, nel giorno della massima festività: il Natale del 1630, la nascita di Cristo, Nostro Signore.
     Il cuore mi si colma di commozione. Quasi non riesco a proferire parola. Come siete diversi tutti. Il tempo è leggero su quelle braccia, pesante su quella schiena, funesto su quel cranio, atroce su quelle gambe. Vi vedo tutti – non posso farne a meno. Vedo la vita in cammino, come il suo muto gemello, il Signore della Morte. Dio passa dentro di voi. Quell’addome magro, Katherine, ieri era florido e ha generato Anna Porter, vostra figlia. Quel braccio che ieri lavorava duramente nei campi, Summer, adesso è lì, raggrinzito sul volume di preghiere. Vi vedo con chiarezza, come un cartografo la mappa delle terre che esplorerà.
     Ma i vostri pensieri sono le cose più incredibili: affollano questo luogo da ogni parte, sono uno sciame di cose tranquille e atroci, chi vorrebbe ammazzare il vicino di campo, chi cullare la figlia, chi mangiare un arrosto di cervo, chi fare all’amore con la donna dell’amico. Voi che ora mi ascoltate e arate dei campi e nutrite delle famiglie, non avete mai sentito parlare, da bambini, di apostasie, anatemi, abiure, sentenze. Non siete stati allontanati, a sei anni, da un drappello di militari che conducevano l’eretico alla forca: non vi hanno coperto il viso, come fecero a me, obbligandomi a giurare di non fare parola di quello scandalo. Io, che sentii solo il rullo dei tamburi, non promisi però di non immaginare: così vidi me stesso, issato sulla forca, il cappuccio sulla testa, ma, nel momento in cui la botola avrebbe dovuto aprirsi, la terra tremò, franò la forca, e io ero là, nudo e ispirato, la morte negli occhi, che soggiogavo tutti con le parole e cambiavo il corso del mondo.
     Ognuno di voi, lo sapete, è nato da un luogo buio, lì ha preso forma: e, dentro il corpo della madre, è nato e si è nutrito, per nove mesi. Ma, se quel tempo non fosse stato rispettato, se il feto avesse avuto qualche malattia, la morte avrebbe ucciso le madri e i figli, e qui ci sarebbero dei posti vuoti e io non potrei guardare negli occhi persone che hanno vissuto una vita intera, di felicità o di stenti, perché non sarebbero mai esistite, perché un piccolo germe, quel giorno di primavera o di autunno, si sarebbe insediato nell’utero di qualche madre, un piccolissimo insetto, invisibile a occhio nudo, che anche adesso potrebbe benissimo stare sotto la cute del tuo braccio, John, o la pelle del tuo cranio, Jane, anticipando il vostro viaggio agli inferi. La vita è qualcosa di incongruo e di non ragionevole: dipende da un acaro o da un bacillo, a noi è capitato di viverla e siamo qui, insieme, come una mappa di cui è impossibile decifrare qualcosa. Siamo corpi che si espongono a Dio.
     Io non mi staccherò più dalla pelle degli uomini, non sarò più il perfetto ascoltatore delle Variazioni Walshingham di John Bull, non sarò più l’assiduo frequentatore dell’Hamlet di William Shakespeare. Mi spoglierò di tutte le mie maschere. Prima di venire a Saint Paul a parlarvi, ho lacerato con un bisturi affilato la tela in cui mi ero fatto dipingere con il lenzuolo funebre annodato sul capo, già composto per la sepoltura: vezzi di poeta funebre, che predispone la mappa del suo cadavere per il futuro giudizio di Dio.
     Atlante, libri, pianeti, sudore, fatiche, singulti – voi siete la mia mappa, la parabola accidentata della creazione. I libri sacri lo dicono: La creazione è il sommo bene, ecco l’opera di Dio, mirabile ai nostri occhi, e tu mi hai fatto e plasmato, Signore: ma queste meraviglie, se sono attaccate dalla peste e dilaniate dalle guerre, restano sempre delle meraviglie? A volte marciscono negli uteri, a volte marciscono nel mondo, e la vita è meno di una pezza da piedi, in cui il potente si asciuga lo stivale infangato o la lancia insanguinata. E tutto è così precario anche se ci copriamo di mille abiti e pellicce e corazze e armature, perché la puntura di un ago infetto potrebbe provocare dolori, febbri, bubboni, e non lasciarci più finché non abbiamo reso l’ultimo respiro.
     Credete a me – miei cari, miei nudi fedeli, miei vivi – è solo per caso che qui ci vediamo e parliamo. Nostro Signore è nato in quella capanna che le nostre storie dolcificano a nido edificante di un bambino meraviglioso ma lo sapete – voi! – che era una notte d’inverno e faceva un freddo atroce e il fuoco non bastava e, se Cristo non fosse stato il miracolo di se stesso, la febbre lo avrebbe assalito e lui sarebbe morto di freddo o di fame o per qualche agente maligno, e lo avrebbero pianto i suoi sventurati genitori, eletti da Dio?
     Certo, quando un uomo nasce, può scegliere le sue condizioni di vita. Può viaggiare o pensare, sposarsi o restare solo, leggere libri o conquistare città: ma non c’è nessuna differenza fra un eremita e un viaggiatore, entrambi si consumano, entrambi sono ben fragili fortezze. Uno preferisce farsi di pietra, l’altro di vento, ma alla fine devono tutti morire: e chi va sul Nilo a trovarsi oscure terzane e sopravvive, e chi non si sposta dal tugurio dove è nato e un piccolo verme lo possiede, distrugge il suo corpo, lo espropria dalla vita: questo è il dannato exitus a cui siamo tutti avviati, e i vostri corpi lo confermano, chi giovane, chi vecchio, chi malato. Nessuno di voi è immune dai segni del tempo e dai sintomi del male. Implorate al vostro corpo, che ora è qui, nudo, di tacere a lungo, di non portarvi le sue sorde pene; fatelo stare zitto; non forzatelo con lavori massacranti; non esibitelo come trofeo nelle guerre; non esponetelo in guerre di religione; non vituperatelo in risse da quattro soldi; non vi spaccate lo stomaco con la carne e i reni con la birra.
     Rispettiamoci: la morte verrà, anche se siamo prudenti. Ma forse, possiamo essere in armonia con lei, se cerchiamo di vivere un’ora d’ozio al giorno, di leggerezza assoluta, senza vestiti e senza rimorsi, disincantati e liberi.  Eccoci qui, corpi e volti nudi, come non siamo mai stati prima, a mezzanotte. Qui non ci sono orge o scandali, ma solo la pace giusta. Non sento più il sussurro delle fontane, le armonie dei clavicordi, i cori delle campane, i corni di caccia, le marce funebri, i canti liturgici. Ho perso il lessico del teologo per essere qui, con voi, nel dubbio reale dei capelli intorno all’osso, della pelle viva contro lo scheletro. Voi siete la mia mappa planetaria e le mie strofe perfette: voi significate il mio abbandono di ogni perfezione. Io entro, con voi, nella presenza della vita e della morte.
     Anche se la chiesa, come abbiamo voluto, è sbarrata a chiave. Anche se non vogliamo che nessun vescovo o nessuna guardia entri qui, dove preghiamo, e inorridito dallo scandalo delle mie parole condanni me al rogo e voi ai lavori forzati. Ma sarebbe bello fosse così per ognuno di noi – nella sua comunità; che fosse esposto a tutti, docile e giusto. Certo è che l’uomo, così come voi lo vedete, ha bisogno di tutto. E’ l’essere più fragile. Se questo fuoco uscisse dai limiti in cui lo abbiamo confinato e si appiccasse ai vostri corpi, cosa potrei fare io, per voi? cercare di salvarvi?  Ma come, se io sono debole e leggero quanto voi? e se questa chiesa fosse invasa dall’acqua e grandi onde frantumassero le vetrate e si impadronissero dei vostri corpi? e se il vento vi trascinasse via come fuscelli? e se la terra vi inghiottisse nei suoi crateri?
     Ecco, noi siamo qui, nudi e calmi, in questo Natale, solo perché la terra è tranquilla e non manda scosse e gli oceani non escono dai loro limiti. Noi esistiamo e i nostri padri e i padri dei padri e i figli dei figli e i figli dei nostri figli, magari per cinquecento anni, solo perché in questi cinquecento anni la terra è rimasta tranquilla. Quindi viviamo per caso: e intanto continuiamo a invecchiare e niente può arrestare il processo se non amare meno la vita e pensare con saggezza al possibile distacco.
     Guardate laggiù, i vostri abiti. Sono tutti fradici delle vostre fatiche, del sudore, della gioia che avete vissuto. Sanno di quando avete fatto all’amore o avete cagato i vostri escrementi. Sono una piccola montagna lurida. Ma racchiudono tutti i fatti che vi sono accaduti. Forse, in qualche brandello, ci sono rimasti anche i vostri pensieri.  Forse un giorno li brucerete, li dimenticherete, li getterete via, parte della vostra storia resterà in quelle fibre di tessuto, e le fibre non andranno distrutte, magari saranno macinate o riassorbite dall’acqua e porteranno nel mondo, dove voi siete morti, l’eco di voi.
     Eccoci qui, nudi. Le maschere le abbiamo lasciate lì, addossate al portale della chiesa, e qui nessuno entrerà. Ma ricordiamo che quelle maschere sono anche la nostra storia. Non illudiamoci di essere sempre nudi. Santi o veggenti o folli – è un destino di cui ho appena intravisto l’orrore.
     Qualcuno di voi è malato. Qualcuno di voi mi dirà che, magari, desidera uccidersi. Non c’è niente di più naturale, per l’uomo, che togliersi la vita. Cosa si può imputare, al suicida? Egli corre, invece di camminare. Si affretta, invece di rallentare. Cade nel pozzo, invece di esserci a fatica buttato dentro. Siamo tutti mortali. Non ci sono peccati né nel vivere né nel morire. Siamo tutti la mappa di un disegno sacro, che ognuno di noi potrebbe anche turbare, chi ridendo, chi giocando, chi uccidendo, chi cominciando a danzare. Non c’è un fato già scritto: già scritto è solo il fatto che morremo.
     Ma qui, adesso che siamo nudi e spaventati, io vi dico: guardiamo con chiarezza il mistero. Nutriamoci della morte come gustiamo la carne degli animali o le piante della terra, è tutto un ciclo naturale, non pensiamo troppo a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli, non possediamo i nostri pensieri ma facciamo che loro traversino noi. Non viviamoci indispensabili, anche se siamo portati a pensarlo, ognuno con le sue eccellenti ragioni. Tutti andiamo e veniamo dalla stessa porta. Ognuno di noi ha il suo volto e il suo incubo: la paura non è neppure un sentimento, è uno stato. E’ sangue della nostra carne, prendiamola con noi, passiamo con lei le nostre ore. Viviamo o uccidiamoci o sopportiamo gli stenti: ogni giorno ci colerà vita dalle mani, è stupido poi piangere quando qualcuno muore, come se un fato crudele ce lo avesse strappato. Sarebbe come incolpare una bottiglia di essere vuota, dopo che è stata bevuta giorno per giorno. Piangere, lo possiamo fare a ogni secondo che scappa dalle dieci dita; ma, se non fossimo esistiti, potremmo gustare questa gioia di esserci, di gridare e battere i piedi, e gustare il vino e tenerci per mano? Non saremmo nulla e allora niente servirebbe, né cibo né vesti né carezze.
     Se uscite di qui, quando sarete di nuovo con le vostre vesti, non pensate a voi stessi. Ricordate di esservi visti e che domani potete ancora vedervi, se il caso lo concede. Non c’è speranza o disperazione: solo una stretta di mano, un bacio, uno sguardo. Si vive di nulla. Qui, a pelle nuda, col sangue che ci scorre nelle vene. Qualcuno leggerà la mappa dei nostri corpi anche quando essi saranno cenere e solo le ossa indicheranno la nostra permanenza sulla terra. Qualcuno ci sognerà o respirerà di noi e noi rivivremo nel sogno di un re o nel rimpianto di un soldato, nel dolore di un mendicante o nel sonno di un eremita, in qualche angolo del pianeta, e allora, verme o Shakespeare, cosa importa, resteranno sempre le ossa, fuori sarà primavera o inverno, o qualche altra stagione.
     Forse qualcuno di noi, presente oggi, potrebbe domani uccidere il vicino, per una questione di donne o di campi. Si uccide per difendersi da chi ci opprime o ci offende: è un impulso naturale. Un uomo deve uccidere, per essere vivo: ma se lo fa, lo circondano ingombranti cadaveri, cose da sotterrare. Deve essere più scaltro. Deve, se sarà necessario, annientare l’altro, privarlo delle armi, ridurlo alla condizione di morto, ma senza spargere sangue. Così l’essere umano ammazza il padre e la madre non se li elimina fisicamente ma quando sa distaccarsene. Essere vivi è sempre e solo un distacco. Tutta la vita è un raffinato vagare nelle strategie dell’addio. Ma durante queste fasi, durante il tempo che ci separa dalla morte o dall’assassinio, eccoci nudi, qui, nella chiesa di Saint Paul, a dichiarare che amiamo, a non potere non amare, nel modo più eretico e folle, personale e avventuroso, quanto vogliamo e possiamo. E, se ci sarà occasione di odiare, odieremo.
     Ma ora rivestiamoci. Il tempo della Messa è quasi finito e non voglio che nessuno sappia di quanto è accaduto. Questa notte è stata irripetibile: teniamola dentro la nostra memoria come un evento. Spegniamo il fuoco e torniamo a vivere e a morire nelle nostre case. Non cerchiamo mai di opprimere o di rassegnarci ma di essere liberi, innanzitutto. Di sorprendere e meravigliarci. Mai dormire in se stessi ma addormentarsi fuori di sé, per uscire dai nostri corpi, lasciando a chi resta l’insegnamento del sogno e qualche gesto da ricordare.

Amen

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Biografia

John Donne nasce a Londra nel 1572 da un ricco mercante di ferramenta, fu educato dalla madre Elizabeth, figlia del drammaturgo J. Heywood e pronipote di Thomas More in ambiente cattolico. Dal 1584 studiò a Oxford. Frequentò (1591-1594) l'istituto legale di Lincoln's Inn. Soldato e cortigiano, partecipò alle spedizioni del conte di Essex a Cadice (1596) e alle Azzorre (1597). Nel 1601 sposò Anne More, nipote del guardasigilli lord Egerton di cui John Donne era segretario. Un matrimonio contrastato. Risale a questo periodo la conversione all'anglicanesimo. 
Anne More morì a 33 anni nel 1617 nel dare alla luce il dodicesimo figlio. Nel 1621 Donne ricevette la nomina a decano della cattedrale di Saint Paul, raggiungendo una posizione di grande prestigio che, nonostante le sue ambizioni, gli era stata preclusa come membro di corte – attraverso imprese eroiche o incarichi pubblici – e che poté conseguire invece come uomo di Chiesa. La sua salute si aggravò seriamente, compromessa per aver contratto il tifo, e il momento delicato lo portò a considerare con gravità le fragilità del fisico e la prospettiva della morte, soggetto che Donne, ormai irrimediabilmente rovinato dall'insorgere di un cancro allo stomaco, riprese in quello che viene ritenuto il suo sermone funebre, Death Duell, composto nel 1631. Gli ultimi momenti lo videro autoritrarsi in un sudario, e dal disegno fu ricavata da parte di Nicholas Stone una scultura marmorea, che restò indenne nell'incendio di Londra che distrusse la città nel 1666 e che è conservata nella cattedrale di St. Paul.
John Donne morì a Londra il 31 marzo del 1631; fu sepolto nella vecchia cattedrale di Saint Paul, dove è stata eretta una statua in suo onore portante un'epigrafe in latino, probabilmente composta dallo stesso Donne poco prima di morire.

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Monumento funebre di John Donne (1572-1631), St. Paul's Cathedral

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Fermati 1 minuto. Liberati dalla paura

Lettura

Luca 1,67-79

67 Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo:
68 «Benedetto il Signore Dio d'Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo,
69 e ha suscitato per noi una salvezza potente
nella casa di Davide, suo servo,
70 come aveva promesso
per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo:
71 salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano.
72 Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza,
73 del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
74 di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, 75 in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
77 per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
nella remissione dei suoi peccati,
78 grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge
79 per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
e nell'ombra della morte
e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

Meditazione

Appenza a Zaccaria "si scioglie la lingua" (Lc ,64), pieno di Spirito santo, innalza a Dio un canto di lode, noto come Benedictus, dalla traduzione in latino della sua prima parola. Come il Magnificat anche il cantico di Zaccaria è largamente composto di frasi tratte dall'Antico testamento greco e può essere stato un inno giudaico-cristiano in ambito liturgico.

La salvezza potente (v. 69) suscitata da Dio, letteralmente il "corno di salvezza" - figura ricorrente nell'Antico testamento per rappresentare la forza salvifica di Dio - è riferita non a Giovanni ma a Cristo, come indica l'attribuzione alla casa di Davide. Elisabetta e Zaccaria erano infatti discendenti di Levi. Il corno di salvezza menzionato nell'inno è ricolmo per noi di beni spirituali, della grazia giustificante e santificante. 

Dio, che è apparso a Mosè nel roveto ardente e ha parlato tante volte per mezzo dei profeti, è venuto ora a visitare il suo popolo, ad abitare con lui, ad assumere su di sé la nostra umanità, per trascendere i confini stessi di Israele. Giovanni andrà innanzi al Signore, cioè a Gesù, come precursore mandato ad annunciare la salvezza attraverso il perdono dei peccati. 

La possibilità di servire Dio senza timore - nel testo greco aphobos - è il cuore della grande promessa cantata nel Benedictus. Liberati da Satana e dal potere del peccato non serviamo più con la paura dello schiavo, ma con amore filiale, in virtù dello spirito di adozione. 

La visita del sole che viene a rischiarare coloro che stanno nelle tenebre è una immagine presente nell'Antico testamento e ripresa anche nel Nuovo. Così profetizza Isaia: "Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce" (Is 9,2) e "Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere" (Is 60,3); e Malachia: "Ma per voi che avete timore del mio nome spunterà il sole della giustizia" (Mal 4,2). La metafora della luce è utilizzata anche da Pietro: "abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori" (2 Pt 1,19). Gesù stesso nell'Apocalisse si definisce "'la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino'" (Ap 22,16). 

Salutiamo dunque la luce del vangelo. In queste prime pagine del racconto di Luca è ancora una piccola fiamma, un bambino di nome Giovanni. Ma la voce del precursore risuonerà presto nel deserto, per riempire i burroni e alzare i colli (Lc 3,5); per colmare di consolazione i vuoti della nostra coscienza e richiamarci all'umiltà nella conversione a Dio. Affinchè possa sorgere sulle distese aperte della nostra anima colui che è venuto a portare il fuoco sulla terra (Lc 12,49), lo Spirito che Cristo effonde su chi crede nella sua parola di salvezza.

Preghiera

Sorgi, Signore, e disperdi le tenebre che avvolgono i nostri cuori; ricolmaci della grazia che il tuo servo Giovanni ha preannunciato, affinché possiamo benedire il tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Padre Charbel. Il dono di sé come risposta al dono di Dio

La chiesa maronita ricorda in questo giorno Charbel Makhlouf, monaco ed eremita. Di famiglia molto povera, Yussef Makhlouf nacque a Beka'kafra, un villaggio della montagna libanese. Rimasto orfano, il giovane Yussef fuggì al monastero di San Marone ad Annaya, dove si fece monaco assumendo il nome di Charbel. 

Charbel Makhlouf (1828-1898)

La sua vita di preghiera, estremamente semplice e intensa, lo portò presto a desiderare una maggiore intimità con Dio. All'età di 47 anni, Charbel fu autorizzato a ritirarsi nell'eremo del monastero, dove visse sino alla morte, nel silenzio e nel nascondimento, in compagnia del monaco Macario. Il 24 dicembre del 1898, quando aveva 70 anni, egli fece ritorno a quel Padre al quale aveva così a lungo anelato. Charbel Makhlouf, quasi sconosciuto in vita, è stato dopo la sua morte e rimane tuttora uno dei santi più popolari del Libano, amato dai cristiani di ogni confessione, ma anche da drusi e musulmani, che hanno riconosciuto in lui un uomo totalmente abbandonato in Dio.

Tracce di lettura

Tu hai unito, Signore,

la tua divinità alla nostra umanità

e la nostra umanità alla tua divinità,

la tua vita alla nostra condizione mortale

e la nostra condizione mortale alla tua vita.

Tu hai assunto ciò che è nostro

e ci hai fatto dono di ciò che è tuo

per la vita e la salvezza delle nostre anime.

(C. Makhlouf, Preghiera)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 23 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. La migliore versione di noi stessi

Lettura

Luca 1,57-66.80

57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. 59 All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61 Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. 80 Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Commento

Il più grande conforto che possiamo avere dai nostri figli è di metterli nelle mani di Dio. Per questo la circoncisione, che è stata sostituita, nella nuova alleanza, dal battesimo cristiano, diviene occasione di gioia più grande della stessa nascita. 

L'usanza giudaica era quella di dare nome al bambino proprio in occasione della circoncisione, così come Abramo ricevette un nome nuovo dopo aver sancito l'alleanza con Dio mediante questo segno esteriore. Il Signore, infatti, chiama per nome coloro che sono affidati a lui, il che significa che non è solo genericamente il Dio del popolo dei salvati, ma il Padre di ciascuno di noi, che così possiamo chiamarlo in virtù del rapporto personale e filiale che abbiamo con lui. 

Questo rapporto, insito in un "nome nuovo", unico, che ci viene attribuito è ben rappresentato dal contenzioso tra Elisabbetta e gli amici e parenti giunti per assistere alla circoncisione di Giovanni. Questi suggeriscono di chiamarlo Zaccaria, come il padre, ma lei si oppone e mossa dallo Spirito Santo afferma risolutamente che si chiamerà Giovanni.

Comunicando con Zaccaria mediante segni, i vicini e parenti ottengono anche da lui la risposta scritta che il bambino dovrà chiamarsi Giovanni. Muto e sordo, Zaccaria non può fare a meno di esprimere la volontà di Dio. Quando lo Spirito parla sa come farsi sentire. Così affermerà Gesù, quando i farisei rimprovereranno la folla esultante al suo ingresso a Gerusalemme: "se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19,40). 

Compiuta la volontà di Dio sul bambino la lingua di Zaccaria si scioglie in un canto di lode. Giovanni susciterà meraviglia e la sua fama si spargerà per le regioni circostanti fin dall'infanzia, anticipando quella che otterrà con l'inizio del suo ministero profetico, quando folle di peccatori verranno a lui in cerca di conversione. Ci si sarebbe aspettato di vedere Giovanni sacerdote come suo padre. Ma i piani di Dio per lui erano altri. Egli sarebbe diventato un profeta. Il più grande dei profeti.

Dio ci ama nella nostra specificità e ha un piano di salvezza e di santità particolari per ognuno di noi. Chiediamogli la grazia per imparare ad essere la migliore versione di noi stessi, piuttosto che la brutta copia di qualche santo.

Preghiera

O Dio, che ci chiami per nome, rivelaci la tua volontà ed effondi su di noi il tuo Spirito, affinché possiamo portarla a compimento a lode del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Emmanuel

O Emmanuel,
nostro re e legislatore,
speranza delle genti,
e loro Salvatore:
vieni e salvaci,
Signore, nostro Dio.

O Emmanuel,
Rex et legifer noster,
expectatio gentium,
et Salvator earum:
veni ad salvandum nos,
Domine, Deus noster.



Advent Antiphons No. 7 - O Emmanuel - Queen's College



Antifona di Avvento No. 7 - O Emmanuel - Canto gregoriano

martedì 22 dicembre 2020

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Rex Gentium


O Re delle Genti,
da loro bramato,
e pietra angolare,
che riunisci tutti in uno:
vieni, e salva l'uomo,
che hai plasmato dal fango.

O Rex Gentium,
et desideratus earum,
lapisque angularis,
qui facis utraque unum:
veni, et salva hominem,
quem de limo formasti.





Advent Antiphon No. 6 - O Rex Gentium - Queen's College



Antifona di Avvento No. 6 - O Rex Gentium - Canto gregoriano 

All'ombra della misericordia. Commento al Magnificat

Lettura

Luca 1,46-55

Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».

Commento

Conosciuta fin dall'antichità come "cantico di Maria" e utilizzata probabilmente nella liturgia della chiesa primitiva, questa composizione ricalca il "cantico di Anna" (1 Sam 2,10), alla quale "il Signore aveva chiuso il grembo", ma che per la sua preghiera prolungata nel tempio ottenne la nascita di Samuele, consacrato al Signore.

Luca sceglie questo inno probabilmente perché lo ritiene in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili del cantico (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia nel Signore, coloro che Gesù proclama beati nel suo discorso sul monte (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata".

Il cantico di Maria, "benedetta fra le donne" (Lc 1,42) per il concepimento verginale del Messia di Israele, esprime la riconoscenza verso Dio che scaturisce da una attenta e prolungata meditazione delle Scritture.

Il Magnficat presenta Maria nella sua umile creaturalità, ma al contempo anche come colei che ha dato la carne al Figlio di Dio, tempio di Dio e nuova arca dell'alleanza. Per questo Maria assume un ruolo preminente nel genere umano, "nuova Eva" che dando la vita al Salvatore, ci ha riscattati dal peccato, riparando, con la sua totale apertura alla grazia di Dio e alla sua volontà, la disobbedienza della progenitrice sedotta dal serpente. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia.

Dio è glorificato nel Magnificat per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Possiamo confidare nella salda presa di Dio che ci soccorre con la sua misericordia.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 21 dicembre 2020

Fermati 1 minuto. L'arca della nuova alleanza

Lettura

Luca 1,39-45

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».

Commento

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Maria si mette in viaggio "in fretta" (v. 39) verso la casa delle cugina Elisabetta. La "fretta" di Maria indica la sua pronta disponibilità al disegno di Dio e il suo farsi annunciatrice di salvezza, lei che per prima ha ricevuto l'annuncio dall'angelo. 

Maria, divenuta dimora di Dio, compie un viaggio verso la montagna che ricorda quello dell'arca dell'alleanza (2 Sam 6,1-15) e le parole che Davide pronunciò davanti a questa riecheggiano in quelle di Elisabetta: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (v. 43). La cugina di Maria riconosce Gesù come Signore prima ancora della sua nascita, sorpresa dal sussulto del bambino che porta nel grembo alla voce del saluto di Maria. 

Maria appare qui come vera teòfora, portatrice di Dio, capace di raggiungere coloro che attendono la salvezza e di comunicare il Cristo. Elisabetta è invece il modello, tra i figli di Israele, di chi sa scorgere l'adempimento delle promesse messianiche. Così, dopo il saluto di Maria, Elisabetta viene colmata dallo Spirito Santo e benedice la cugina e il frutto del suo grembo. 

La comprensione, da parte di Elisabetta, degli eventi divini che si stanno compiendo, è straordinaria e solo la grazia illuminante può permetterle di oltrepassare la cortina di mistero che li custodisce. La sua dichiarazione di umiltà dimostra che coloro che sono ricolmi dello Spirito non hanno considerazione dei propri "meriti", ma una grande stima del favore ricevuto da Dio. 

Il viaggio di Maria ci insegna che quando la grazia opera nei nostri cuori desideriamo prontamente condividerla. La missionarietà del credente può assumere svariate forme, ma è sempre il segno di una fede autentica. Nell'attesa del Signore che viene siamo chiamati dallo Spirito a farci annunciatori della grazia, solerti, anche quando il viaggio verso la montagna è faticoso.

Preghiera

Il tuo Spirito signore, ci aiuti a scorgere il tuo piano di salvezza nelle nostre vite e infiammi i nostri cuori, affinche possiamo esultare in eterno per la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Oriens


O (astro) Sorgente
splendore di luce eterna,
e sole di giustizia:
vieni ed illumina
chi è nelle tenebre,
e nell'ombra della morte.

O Oriens,
splendor lucis aeternae,
et sol justitiae:
veni, et illumina
sedentes in tenebris,
et umbra mortis.




Advent Antiphon No. 5 - O Oriens - Queen's College



Antifona di Avvento No. 5 - O Oriens - Canto gregoriano

domenica 20 dicembre 2020

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Clavis David

O Chiave di David,
e scettro della casa di Israele,
che apri e nessuno chiude,
chiudi e nessuno apre:
vieni e libera lo schiavo
dal carcere,
che è nelle tenebre,
e nell'ombra della morte.

O Clavis David,
et sceptrum domus Israël,
qui aperis, et nemo claudit,
claudis, et nemo aperit:
veni, et educ vinctum
de domo carceris,
sedentem in tenebris,
et umbra mortis.




Advent Antiphon No. 4 - O Clavis David - Queen's College



Antifona di Avvento No. 4 - O Clavis David - Canto gregoriano