Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 23 dicembre 2025

Le sei perfezioni del buddhismo. Vīrya (energia)

Il Vīrya, spesso tradotto come energia, diligenza, vigore e sforzo, rappresenta una delle pāramitā (virtù di perfezionamento) fondamentali nel pensiero buddhista. Questa parola affonda le sue radici nell'antica parola indo-iraniana vira, che significa eroe. Nel contesto delle virtù spirituali, le pāramitā sono concepite come qualità innate nell'essere umano che devono essere pazientemente coltivate e lasciate fiorire, liberandole progressivamente dall'influenza dell'ego e dalle sue distorsioni.

Vīrya nel contesto spirituale e il giusto sforzo

Nel buddhismo, il termine Vīrya non si riferisce all'eroismo nel senso convenzionale o mitologico del supereroe occidentale, ma è strettamente associato all'energia che il praticante deve consapevolmente impiegare nel suo percorso di trasformazione spirituale. È riconosciuto come un prerequisito indispensabile per raggiungere la liberazione, la libertà interiore o la realizzazione ultima. Il Vīrya implica l'affrontare gli ostacoli in modo instancabile e coraggioso, percorrendo il sentiero "fino in fondo" con determinazione costante, senza cedere alla stanchezza o allo scoraggiamento.

Nei contesti del Mahayana Abhidharma, il Vīrya viene tradotto come diligenza, ma è anche intimamente connesso al concetto di sammā-vāyāma, ovvero il giusto sforzo, uno degli elementi del Nobile Ottuplice Sentiero. L'azione di procedere "fino in fondo" richiede una capacità di discernimento sottile per evitare che lo sforzo sia guidato esclusivamente dal super-ego o da ambizioni egocentriche, anziché dalla giusta determinazione e dalla compassione autentica.

La pratica della meditazione svolge qui un ruolo cruciale, agendo come strumento privilegiato per sviluppare la consapevolezza necessaria a calibrare la giusta quantità di energia da impiegare in ogni situazione. Un esempio di sforzo errato o mal diretto si verifica quando si cerca ostinatamente di aiutare qualcuno contro la sua volontà, oppure quando si investono aspettative eccessive e irrealistiche su altre persone, oggetti o pratiche spirituali, mettendo così un eccesso di sforzo non commisurato alla realtà effettiva delle cose. Questo porta inevitabilmente a frustrazione, esaurimento e sofferenza sia per sé che per gli altri.

Vīrya come ponte tra dimensione interiore ed esteriore

Tradizionalmente, nella sequenza delle sei pāramitā, le prime tre – generosità (dāna), disciplina etica (śīla) e pazienza (kṣānti) – sono spesso interpretate come prevalentemente orientate alla relazione con gli altri esseri e con il mondo, mentre le successive tre – energia perseverante (vīrya), concentrazione meditativa (dhyāna) e saggezza discriminante (prajñā) – riguardano in modo più diretto il lavoro interiore e la trasformazione della mente.

Questa forza vivificante funge da base energetica per tutte le altre virtù, connettendo intimamente la propria realizzazione interiore e il proprio stato di coscienza più elevato con la manifestazione esterna e la relazione compassionevole con gli altri. Senza Vīrya, la generosità rimane un impulso occasionale, la disciplina si riduce a rigidità meccanica, la pazienza diventa passività rassegnata, e le pratiche meditative perdono vigore e profondità.

La relazione profonda tra energia e pazienza

L'energia del Vīrya è intrinsecamente e paradossalmente legata alla pazienza (kṣānti). Sebbene la pazienza sia sostenuta e mantenuta viva dalla forza e dalla determinazione del Vīrya, è essenziale comprendere che, reciprocamente, è la pazienza stessa a generare e rigenerare continuamente energia e forza interiore. Questa relazione circolare e sinergica rappresenta uno dei punti più sottili della pratica buddhista.

La pazienza, in questo contesto profondo, non è passività, rassegnazione o semplice sopportazione degli eventi avversi. Significa piuttosto "stare lì", essere pienamente presenti, entrare completamente nel momento ed essere il momento stesso, senza fuggire da nulla, senza cercare distrazioni o vie di fuga dalla realtà così com'è. Questa quiete attiva, questa presenza vigile e accogliente, costituisce la vera fonte che sviluppa l'energia autentica e sostenibile, un'energia che non si esaurisce ma si rinnova continuamente dall'interno.

Affrontare gli ostacoli interni: i draghi dell'ego

Lo sforzo e l'energia disciplinata sono fondamentali per affrontare i veri ostacoli della pratica spirituale e della vita stessa. Questi ostacoli, nella prospettiva buddhista, non sono "draghi" esterni da combattere con le armi dell'eroismo convenzionale, ma piuttosto i "draghi del nostro io" o del nostro ego, che si manifestano concretamente come convinzioni limitanti ("sono fatto così, non posso cambiare"), impazienza cronica, indolenza mentale e fisica, paura del cambiamento, attaccamento alle abitudini distruttive e resistenza alla trasformazione.

Questi demoni interiori si affacciano quotidianamente, spesso in forme sottili e ingannevoli, e in assenza di forza, vigore e vigilanza consapevole è facile soccombere alla loro influenza, ritornando ai vecchi schemi di comportamento e di pensiero. La pratica diventa allora discontinua, superficiale, inefficace.

Per acquisire la forza e il vigore necessari per riconoscere e superare progressivamente queste condizioni afflittive, è sufficiente – ma non semplice – sviluppare una consapevolezza penetrante della sofferenza (dukkha) che inconsapevolmente si infligge a se stessi e, per estensione, agli altri. Questa visione chiara della sofferenza non è masochismo o pessimismo, ma lucida comprensione che diventa motivazione potente per la trasformazione.

La pratica meditativa costante sviluppa il Vīrya in modo naturale e organico, generando un'energia qualitativamente diversa da quella frenetica, dispersiva e consumistica della vita urbana contemporanea. È una forza interiore stabile, centrata, radiosa che permette di affrontare la giornata con presenza, equanimità e compassione, rimanendo connessi al proprio centro anche nelle circostanze più sfidanti.

Fede, fiducia e l'incarnazione del Vīrya

Infine, l'energia del Vīrya si collega profondamente alla parola sanscrita śraddhā, spesso tradotta come fede o fiducia spirituale. È cruciale distinguere qui la fede cieca o dogmatica dalla fiducia intelligente (confidenza consapevole). La fiducia autentica è il risultato di un'esperienza diretta, di una consapevolezza sviluppata, di un'analisi personale o di una constatazione verificabile nella propria pratica e nella propria vita.

Sebbene la fede, specialmente nel contesto occidentale, possa richiamare immediatamente concetti religiosi di tipo teistico o dogmatico, nel buddhismo la śraddhā rappresenta un elemento da considerare attentamente nel contesto delle pāramitā, particolarmente in relazione al Vīrya. Questa fede-fiducia non è credenza acritica, ma un'apertura coraggiosa, una disponibilità a impegnarsi pienamente nel cammino anche prima di avere tutte le risposte, sostenuta dall'energia diligente della pratica continua.

Chi incarna autenticamente questa energia trasformatrice, come il bodhisattva nella tradizione Mahayana, si dedica completamente alla propria realizzazione e simultaneamente all'aiuto disinteressato verso tutti gli altri esseri senzienti, manifestando una pienezza di forza vitale e un vigore continuo che non conosce stanchezza o scoraggiamento. Questa energia non è agitazione né esaltazione temporanea, ma una corrente profonda e inesauribile che sgorga dalla connessione con la natura ultima della realtà e con la compassione universale.

In conclusione, il Vīrya rappresenta molto più di un semplice sforzo volontaristico o di una determinazione testarda. È l'energia saggia, equilibrata e compassionevole che sostiene e permea l'intero cammino spirituale, trasformando gradualmente l'individuo e, attraverso di lui, il mondo stesso.

- Rev. Dr. Luca Vona

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Emmanuel

L'antifona "O Emmanuel" rappresenta il culmine delle Antifone Maggiori poiché invoca Dio non più solo attraverso i titoli della tradizione profetica, ma con il nome che esprime la Sua vicinanza assoluta: il Dio-con-noi. In questo testo, Cristo viene riconosciuto come il legislatore e il re che porta a compimento l'attesa di tutti i popoli, non solo d'Israele, manifestando una salvezza universale. L'invocazione finale "Vieni a salvarci" è carica di un'urgenza particolare, poiché si colloca alla vigilia del Natale, trasformando la riflessione teologica in un grido di speranza immediata. 

O Emmanuel,
nostro re e legislatore,
speranza delle genti,
e loro Salvatore:
vieni e salvaci,
Signore, nostro Dio.

O Emmanuel,
Rex et legifer noster,
expectatio gentium,
et Salvator earum:
veni ad salvandum nos,
Domine, Deus noster.



Advent Antiphons No. 7 - O Emmanuel - Queen's College



Antifona di Avvento No. 7 - O Emmanuel - Canto gregoriano

Fermati 1 minuto. La migliore versione di noi stessi

Lettura

Luca 1,57-66.80

57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. 59 All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61 Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. 80 Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Commento

Il più grande conforto che possiamo avere dai nostri figli è di metterli nelle mani di Dio. Per questo la circoncisione, che è stata sostituita, nella nuova alleanza, dal battesimo cristiano, diviene occasione di gioia più grande della stessa nascita. 

L'usanza giudaica era quella di dare nome al bambino proprio in occasione della circoncisione, così come Abramo ricevette un nome nuovo dopo aver sancito l'alleanza con Dio mediante questo segno esteriore. Il Signore, infatti, chiama per nome coloro che sono affidati a lui, il che significa che non è solo genericamente il Dio del popolo dei salvati, ma il Padre di ciascuno di noi, che così possiamo chiamarlo in virtù del rapporto personale e filiale che abbiamo con lui. 

Questo rapporto, insito in un "nome nuovo", unico, che ci viene attribuito è ben rappresentato dal "contenzioso" tra Elisabbetta e gli amici e parenti giunti per assistere alla circoncisione di Giovanni. Questi suggeriscono di chiamarlo Zaccaria, come il padre, ma lei si oppone e mossa dallo Spirito Santo afferma risolutamente che si chiamerà Giovanni.

Comunicando con Zaccaria mediante segni, i vicini e parenti ottengono anche da lui la risposta scritta che il bambino dovrà chiamarsi Giovanni. Muto e sordo, Zaccaria non può fare a meno di esprimere la volontà di Dio. Quando lo Spirito parla sa come farsi sentire. Così affermerà Gesù, quando i farisei rimprovereranno la folla esultante al suo ingresso a Gerusalemme: "se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19,40). 

Compiuta la volontà di Dio sul bambino la lingua di Zaccaria si scioglie in un canto di lode. Giovanni susciterà meraviglia e la sua fama si spargerà per le regioni circostanti fin dall'infanzia, anticipando quella che otterrà con l'inizio del suo ministero profetico, quando folle di peccatori verranno a lui in cerca di conversione. Ci si sarebbe aspettato di vedere Giovanni sacerdote come suo padre. Ma i piani di Dio per lui erano altri. Egli sarebbe diventato un profeta. Il più grande dei profeti.

Dio ci ama nella nostra specificità e ha un piano di salvezza e di santità particolari per ognuno di noi. Chiediamogli la grazia per imparare ad essere la migliore versione di noi stessi, piuttosto che la brutta copia di qualche santo.

Preghiera

O Dio, che ci chiami per nome, rivelaci la tua volontà ed effondi su di noi il tuo Spirito, affinché possiamo portarla a compimento a lode del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 22 dicembre 2025

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Rex Gentium

L'antifona "O Rex Gentium" ("O Re delle genti") esprime il desiderio universale di una concordia che superi ogni confine. Invocando Cristo come Re delle genti e pietra angolare, il testo sottolinea la sua missione di riconciliazione: egli è il cardine che unisce ciò che è diviso, trasformando la frammentarietà dei popoli in un'unica famiglia. Il passaggio finale è di grande intensità poetica, poiché ricorda al Creatore la nostra origine umile, chiedendogli di salvare l'uomo "formato dal fango". Questa preghiera non celebra una regalità fatta di potere, ma di cura verso la fragilità umana, invitandoci a scorgere nel Natale la mano di Dio che si china per risollevare la sua creatura, preziosa e vulnerabile.

O Re delle Genti,
da loro bramato,
e pietra angolare,
che riunisci tutti in uno:
vieni, e salva l'uomo,
che hai plasmato dal fango.

O Rex Gentium,
et desideratus earum,
lapisque angularis,
qui facis utraque unum:
veni, et salva hominem,
quem de limo formasti.



Advent Antiphon No. 6 - O Rex Gentium - Queen's College



Antifona di Avvento No. 6 - O Rex Gentium - Canto gregoriano 

All'ombra della misericordia. Commento al Magnificat

Lettura

Luca 1,46-55

46 Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre».

Commento

Conosciuta fin dall'antichità come "cantico di Maria" e utilizzata probabilmente nella liturgia della chiesa primitiva, questa composizione ricalca il "cantico di Anna" (1 Sam 2,10), alla quale "il Signore aveva chiuso il grembo", ma che per la sua preghiera prolungata nel tempio ottenne la nascita di Samuele, consacrato al Signore.

Luca sceglie questo inno probabilmente perché lo ritiene in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili del cantico (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia nel Signore, coloro che Gesù proclama beati nel suo discorso sul monte (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata".

Il cantico di Maria, "benedetta fra le donne" (Lc 1,42) per il concepimento verginale del Messia di Israele, esprime la riconoscenza verso Dio che scaturisce da un'attenta e prolungata meditazione delle Scritture.

Il Magnficat presenta Maria nella sua umile creaturalità, ma al contempo anche come colei che ha dato la carne al Figlio di Dio, tempio di Dio e nuova arca dell'alleanza. Per questo Maria assume un ruolo preminente nel genere umano, "nuova Eva" che dando la vita al Salvatore, ci ha riscattati dal peccato, riparando, con la sua totale apertura alla grazia di Dio e alla sua volontà, la disobbedienza della progenitrice sedotta dal serpente. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia.

Dio è glorificato nel Magnificat per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Possiamo confidare nella salda presa di Dio che ci soccorre con la sua misericordia.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 21 dicembre 2025

La musica liturgica armena

La musica liturgica armena rappresenta uno dei pilastri della cultura e dell'identità del popolo armeno, intrecciando storia, fede e arte in una tradizione millenaria che ha saputo resistere alle vicissitudini storiche e preservare la propria autenticità. Con radici che risalgono ai primi secoli del Cristianesimo, questa forma musicale testimonia il profondo legame tra spiritualità e creatività, un aspetto distintivo della Chiesa Apostolica Armena che ha attraversato i secoli mantenendo intatta la propria forza espressiva e simbolica.

Le origini della tradizione liturgica

Sotto l'influenza di Gregorio l'Illuminatore, figura carismatica che convertì re Tiridate III, l'Armenia adottò ufficialmente il Cristianesimo come religione nazionale nel 301 d.C., divenendo il primo stato al mondo a compiere tale passo storico. Questo evento epocale segnò profondamente non solo la sfera religiosa, ma l'intera struttura sociale, culturale e identitaria del popolo armeno, accompagnandosi alla creazione di una liturgia distintiva, radicata nelle sensibilità locali ma aperta alle influenze delle pratiche di Gerusalemme, considerate la fonte primaria della tradizione cristiana.

La liturgia armena, pur condividendo elementi comuni con altre tradizioni orientali, sviluppò caratteristiche uniche che riflettevano il genius loci del popolo armeno: una particolare enfasi sulla dimensione contemplativa, l'uso di melodie modali complesse e una ricerca di profondità teologica espressa attraverso il linguaggio musicale. Questa peculiarità permise alla Chiesa Armena di mantenere la propria autonomia anche nei momenti di maggiore pressione politica e culturale.

Un punto di svolta cruciale fu l'introduzione dell'alfabeto armeno da parte di Mesrop Mashtots intorno al 405 d.C., realizzata in stretta collaborazione con il catholicos Sahak Partev. Questo straordinario evento culturale, che rispondeva all'esigenza di liberare la Chiesa armena dalla dipendenza linguistica dalle tradizioni greca e siriaca, permise non solo la traduzione della Bibbia in armeno, ma stimolò la nascita di una tradizione letteraria e musicale autonoma di straordinaria ricchezza. La creazione dell'alfabeto, composto da 36 lettere (successivamente ampliate a 38), gettò le basi per una produzione teologica, filosofica e artistica che divenne il fondamento incrollabile della cultura armena, permettendo la fioritura del cosiddetto "Secolo d'Oro" della letteratura armena (V-VII secolo).

L'alfabeto non fu semplicemente uno strumento di scrittura, ma divenne il simbolo stesso dell'identità nazionale armena, un baluardo contro l'assimilazione culturale e un veicolo per la trasmissione della fede cristiana nelle forme più accessibili al popolo. La musica liturgica beneficiò immediatamente di questa innovazione, potendo finalmente sviluppare testi poetici originali in lingua vernacolare che esprimessero la sensibilità religiosa autoctona.

Gli inni liturgici e lo Sharaknots

Gli inni liturgici armeni, noti come sharakan (plurale di sharakn, che significa "fila" o "serie"), costituiscono il cuore pulsante della musica sacra armena e rappresentano una delle espressioni più raffinate della spiritualità cristiana orientale. Raccolti nello Sharaknots (letteralmente "libro degli sharakan"), un corpus monumentale che contiene 1166 odi organizzate e stratificate tra il V e il XV secolo, questi inni riflettono l'evoluzione della teologia armena, le tensioni dottrinali con altre Chiese, e le influenze di altre tradizioni cristiane, come quella bizantina e siriaca, pur mantenendo una fisionomia inconfondibilmente armena.

Lo Sharaknots è diviso in otto gruppi basati sui cantici biblici veterotestamentari e segue una struttura modale complessa fondata sugli otto toni (dzayn), ciascuno dei quali evoca particolari stati d'animo e significati teologici. La compilazione di questa raccolta attraversò secoli di lavoro paziente da parte di poeti-teologi, cantori e copisti che selezionarono, ordinarono e preservarono il patrimonio innologico della Chiesa Armena. Tra i principali autori di sharakan si annoverano figure di spicco della letteratura armena come Nerses Shnorhali (XII secolo), Grigor Narekatsi (X secolo) e Grigor Magistros (XI secolo), ciascuno dei quali apportò contributi fondamentali alla teologia poetica armena.

Gli sharakan presentano una struttura letteraria sofisticata, caratterizzata da acrostici alfabetici, parallelismi semantici, ricchezza di immagini bibliche e un linguaggio metaforico che richiede una profonda conoscenza delle Scritture. Musicalmente, essi si distinguono per melodie elaborate, ornamentazioni vocali (melismi) e una tessitura modale che permette ampie variazioni espressive pur mantenendo l'identità del modo di riferimento.

Accanto agli sharakan, esistono altre forme poetico-musicali che arricchiscono ulteriormente il panorama della musica sacra armena, tra cui:

  • Gandz: inni celebrativi di carattere festivo, spesso dedicati a santi armeni, martiri o eventi liturgici particolari come la Natività, la Trasfigurazione o la Dormizione della Vergine. Questi inni presentano uno stile più accessibile e melodico, adatto al coinvolgimento della comunità dei fedeli;
  • Tagh: poemi elaborati e fortemente ornamentali, caratterizzati da una struttura strofica complessa e da un linguaggio poetico particolarmente denso. I tagher (plurale) rappresentano la forma più elevata della poesia liturgica armena e venivano eseguiti in occasioni solenni;
  • Erg: canti più semplici e immediati, spesso di carattere popolare, che fungevano da ponte tra la liturgia ufficiale e la devozione quotidiana dei fedeli. La loro struttura melodica lineare li rendeva facilmente memorizzabili e favoriva la partecipazione comunitaria;
  • Meghedi: inni penitenziali che esprimono riflessioni teologiche profonde sul peccato, la redenzione e la misericordia divina, caratterizzati da un tono contemplativo e da melodie di particolare intensità emotiva. Il termine deriva dal siriaco e sottolinea le antiche connessioni tra le tradizioni liturgiche orientali.

Questa straordinaria varietà di forme testimonia la ricchezza e la complessità della tradizione musicale armena, che integra magistralmente elementi poetici, teologici e melodici in un sistema coerente ma dinamico, capace di rispondere alle diverse esigenze del calendario liturgico e della vita spirituale della comunità.

Teoria e notazione musicale

La musica liturgica armena si basa su un sistema modale sofisticato e raffinato, concettualmente simile a quello bizantino (oktoechos) e siriaco, ma con caratteristiche distintive che riflettono la sensibilità musicale armena. Gli otto modi (dzayn, termine che significa "voce" o "suono") organizzano le melodie secondo parametri precisi: prototipi melodici (tzayn), formule di intonazione (armat), note dominanti (ishkhan) e finali (vardapet), offrendo una struttura teorica che guida l'esecuzione ma lascia deliberatamente spazio a variazioni interpretative e ornamentazioni personali del cantore. Questo equilibrio tra rigore formale e libertà espressiva ha consentito alla tradizione di evolversi organicamente attraverso i secoli senza perdere la sua essenza spirituale e stilistica.

Ogni modo possiede un carattere (ethos) particolare: alcuni sono considerati adatti all'espressione della gioia e della lode, altri alla meditazione penitenziale, altri ancora alla celebrazione trionfale dei misteri della fede. Questa concezione della musica come linguaggio capace di veicolare significati teologici specifici rivela una profonda comprensione della dimensione psicologica e spirituale del suono.

La teoria musicale armena si sviluppò in dialogo costante con le tradizioni vicine, assorbendo influenze ma rimanendo fedele ai propri principi fondamentali. Trattati teorici come quelli attribuiti a Stepanos Syunetsi (VIII secolo) testimoniano l'esistenza di una riflessione musicologica sofisticata già nei primi secoli dopo l'adozione del Cristianesimo.

La notazione musicale armena ha attraversato diverse fasi di sviluppo evolutivo che rispecchiano le trasformazioni culturali e tecnologiche della società armena. Dai primi sistemi ecfonetici, simili a quelli bizantini e destinati principalmente alla salmodia delle letture bibliche, si passò gradualmente ai segni khazy (anche detti khaz o neumi armeni), un sistema di notazione neumatica che indicava gli andamenti melodici, le dinamiche e le ornamentazioni attraverso simboli posti sopra il testo. I khazy rappresentavano uno stadio intermedio tra la pura tradizione orale e una notazione diastematica precisa, richiedendo che i cantori conoscessero già le melodie attraverso la trasmissione orale diretta.

La svolta decisiva avvenne nel XIX secolo con la codifica sistematica realizzata da Hamparsum Limondjian (1768-1839), un musico armeno di Costantinopoli che elaborò un sistema di notazione più preciso e dettagliato, capace di registrare non solo le altezze relative ma anche le sfumature microtonali, le ornamentazioni (khorovats) e le caratteristiche ritmiche del canto armeno. Il sistema Hamparsum, inizialmente concepito anche per la musica ottomana, divenne lo standard per la trascrizione della musica liturgica armena e permise la pubblicazione di numerosi libri corali che garantirono la conservazione di un repertorio vasto e complesso, rendendolo accessibile alle generazioni future e alle comunità della diaspora.

Nel XX secolo, con l'avvento della notazione occidentale, si svilupparono sistemi ibridi che tentavano di conciliare la precisione della notazione europea con le peculiarità del canto armeno, un processo non privo di difficoltà data la presenza di intervalli microtonali e di ornamentazioni idiomatiche difficilmente riducibili al temperamento equabile occidentale.

Stili e pratiche esecutive

La musica liturgica armena è tradizionalmente e prevalentemente monofonica, eseguita da cori maschili (yergevorakan) o solisti (dzaynaget, letteralmente "colui che dà la voce") senza accompagnamento strumentale, secondo la convinzione teologica che la voce umana, essendo diretta creazione divina, sia lo strumento più appropriato per la lode di Dio. Tuttavia, strumenti a percussione come cimbali (tsintsghak) e campane (zang) vengono talvolta utilizzati per sottolineare accenti ritmici, segnare divisioni liturgiche o annunciare momenti particolarmente solenni della celebrazione.

Gli stili esecutivi variano considerevolmente lungo uno spettro che va da forme semplici e meditative (partesakan), caratterizzate da melodie sillabiche e andamento tranquillo, a forme elaborate e riccamente ornamentali (melismatiche), dove una singola sillaba può essere estesa su lunghe frasi melodiche ricche di arabeschi vocali. Questa varietà riflette le diverse esigenze liturgiche: le ore canoniche quotidiane tendono verso uno stile più sobrio e contemplativo, mentre le grandi feste del calendario liturgico richiedono esecuzioni più elaborate e festive.

Le tradizioni locali hanno sviluppato varianti stilistiche significative, influenzate dai contesti culturali in cui le comunità armene si sono trovate a vivere. Centri come Edjmiatsin (Vagharshapat), sede del Catholicos di Tutti gli Armeni e cuore spirituale della Chiesa Armena, Gerusalemme, dove la comunità armena mantiene una presenza ininterrotta dal IV secolo, Venezia, sede dell'importante congregazione mechitarista di San Lazzaro, e Vienna, altro centro mechitarista fondamentale, hanno sviluppato pratiche esecutive distinte, ciascuna caratterizzata da peculiarità interpretative, velocità di esecuzione, ornamentazioni preferite e approcci alla dinamica vocale.

Questi centri non solo hanno contribuito alla diversificazione organica della tradizione musicale, arricchendola di sfumature regionali, ma hanno anche istituito vere e proprie scuole di notazione, teoria musicale e interpretazione che continuano a influenzare profondamente il panorama musicale armeno contemporaneo. La scuola di Edjmiatsin, in particolare, ha mantenuto quello che molti considerano lo stile più antico e autentico, mentre i centri della diaspora hanno talvolta integrato elementi delle tradizioni musicali circostanti, creando sintesi culturali originali.

Nel XX secolo, compositori come Komitas Vardapet (1869-1935), figura centrale della musicologia armena, hanno intrapreso un importante lavoro di raccolta, trascrizione e analisi scientifica del repertorio tradizionale, contribuendo sia alla sua preservazione sia alla sua rivitalizzazione. Komitas, in particolare, viaggiò attraverso le province armene registrando migliaia di canti popolari e liturgici e studiando sistematicamente le caratteristiche modali e ritmiche della musica armena, gettando le basi della moderna etnomusicologia armena.

Conclusione: continuità e rinnovamento

La musica liturgica armena rappresenta un patrimonio vivente che continua a evolversi pur mantenendo un profondo legame con le sue radici millenarie. Le sfide della modernità, la diaspora armena sparsa nel mondo e i cambiamenti nelle pratiche liturgiche pongono questioni importanti sulla trasmissione e l'adattamento di questa tradizione. Tuttavia, l'interesse crescente per le musiche sacre orientali, i progetti di digitalizzazione dei manoscritti antichi e la formazione di nuove generazioni di cantori e musicologi garantiscono che questa straordinaria espressione della spiritualità cristiana continui a risuonare nelle chiese e nei cuori dei fedeli, testimoniando la capacità della cultura armena di preservare la propria identità attraverso le tempeste della storia.

- Rev. Dr. Luca Vona

Ridestiamoci dal sonno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

Colletta

Dio Onnipotente, donaci la grazia di allontanare da noi le opere delle tenebre e rivestirci dell’armatura della luce, ora nel tempo di questa vita mortale, in cui il tuo figlio Gesù Cristo è venuto a visitarci in grande umiltà; affinché nell’ultimo giorno, quando ritornerà nella sua gloriosa maestà, per giudicare i vivi e i morti, possiamo risorgere alla vita immortale, per lui che vive e regna, con te e con lo Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Ti supplichiamo Signore, solleva la tua potenza e vieni in nostro soccorso; affinché mentre corriamo, affaticati e ostacolati, tra il peccato e la debolezza, sul percorso che ci hai posto dinanzi, la tua grazia e la tua misericordia, possano soccorrerci prontamente. Per Gesù Cristo, nostro Signore, al quale, con te e con lo Spirito Santo, va ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

Fil 4,4-7; Gv 1,19-28

Commento

«Egli è colui che viene dopo di me e che mi ha preceduto» (Gv 1,27). In queste parole di Giovanni Battista è racchiusa la ragione della nostra speranza. Dio ci precede nel donarci la sua salvezza. 

La colletta della quarta settimana di Avvento richiama la seconda lettera di San Paolo a Timoteo, scritta dalla prigionia, nella consapevolezza della morte imminente: "Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno" (2 Tim 4,7-8). Ma come ci ricorda questa preghiera liturgica la corsa può risultare estremamente faticosa, e può essere non priva di inciampi, a volte di rovinose cadute, a causa del peccato e della nostra debolezza. Il Signore ci viene incontro, con la sua grazia e la sua misericordia.

Fin dal primo atto di allontanamento dal Creatore vediamo nel libro della Genesi un Dio che cerca la sua creatura, chiamandola per il giardino: «Dove sei?» (Gen 3,9). Anche dopo l'allontanamento dell'uomo dall'Eden, Dio parla ai patriarchi, come a Giacobbe, nel sogno della scala mediante la quale gli angeli salgono e scendono dal cielo. Qui Dio gli promette «Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai... non ti abbandonerò» (Gen 28,15).

L'Avvento e il tempo di Natale sono il momento in cui maggiormente siamo chiamati a riconoscere la presenza di Dio tra noi. La lettera di Paolo ai Filippesi descrive il mirabile scambio di nature che si realizza nel mistero dell'incarnazione. Una dinamica circolare ascendente e discendente, proprio come quella degli angeli sulla scala di Giacobbe. Per questo la letteratura cristiana antica, in Oriente, parla di theosis kenosis, divinizzazione e spoliazione: divinizzazione dell'uomo, mediante la spoliazione di Dio. L'apostolo Paolo lo afferma con parole eloquenti: "Cristo Gesù... essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell'esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6). Vi è un profondo legame tra l'incarnazione e la passione.

Dio ha spogliato se stesso, assumendo la nostra natura, la nostra miseria, affinché non vi potesse essere più alcuna regione dell'umano classificabile come terra straniera, "senza Dio". Affinché saltassero tutte le distinzioni tra "sacro" e "profano". Affinché ciascuno di noi potesse esclamare, come Giacobbe, ridestatosi dal suo sogno profetico in terra straniera: «Certamente l'Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Ridestiamoci dal sonno, dunque, e riconosciamo il Dio che è venuto ad abitare in mezzo a noi.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 20 dicembre 2025

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Clavis David

L'antifona "O Clavis David" ("O Chiave di Davide") rappresenta uno dei momenti più intensi dell'Avvento, concentrandosi sulla figura del Cristo come colui che possiede l'autorità definitiva di aprire o chiudere le porte del destino umano. Richiamando la profezia di Isaia e l'Apocalisse, l'immagine della chiave non è solo un simbolo di potere regale, ma un annuncio di liberazione profonda: Gesù è colui che scardina i chiavistelli del peccato e della morte.

L'invocazione finale si trasforma in una supplica accorata affinché il Salvatore venga a trarre fuori dalle tenebre e dall'ombra della morte coloro che giacciono prigionieri, trasformando la nostra condizione di chiusura interiore in uno spazio di luce e libertà spirituale.

O Chiave di David,
e scettro della casa di Israele,
che apri e nessuno chiude,
chiudi e nessuno apre:
vieni e libera lo schiavo
dal carcere,
che è nelle tenebre,
e nell'ombra della morte.

O Clavis David,
et sceptrum domus Israël,
qui aperis, et nemo claudit,
claudis, et nemo aperit:
veni, et educ vinctum
de domo carceris,
sedentem in tenebris,
et umbra mortis.




Advent Antiphon No. 4 - O Clavis David - Queen's College



Antifona di Avvento No. 4 - O Clavis David - Canto gregoriano

venerdì 19 dicembre 2025

La Antifone maggiori dell'Avvento - O Radix Jesse

L'antifona "O Radix Jesse" è un'invocazione di profonda speranza che attinge alla profezia di Isaia: il Messia è il germoglio vitale che spunta dal tronco reciso della stirpe di Davide, dimostrando che Dio sa trarre la vita anche da ciò che appare secco o finito. Cristo non è solo un discendente, ma la radice stessa della storia, un segno universale davanti al quale i potenti della terra restano in silenzio, colpiti da una regalità che supera ogni logica umana. Il brano si chiude con il grido accorato "Vieni, non tardare", che trasforma l'attesa teologica in un'urgenza esistenziale, chiedendo a Dio di manifestarsi come forza rigeneratrice capace di liberare l'umanità dalle sue aridità.

O Radice di Jesse,
che sei un segno per i popoli,
innanzi a te i re della terra non parlano,
e le nazioni ti acclamano:
vieni e liberaci,
non fare tardi.

O Radix Jesse,
qui stas in signum populorum,
super quem continebunt reges os suum,
quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos,
jam noli tardare.





Advent Antiphons No. 3 - O Radix Jesse- Queen's College Cambridge





Antifona di Avvento No. 3 - O Radix Jesse - Canto gregoriano

giovedì 18 dicembre 2025

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Adonai

L'antifona "O Adonai" si rivolge a Cristo riconoscendolo come il Signore e la Guida del popolo d'Israele, colui che si manifestò a Mosè nel fuoco del roveto ardente e consegnò la Legge sul monte Sinai. In questa preghiera, la maestà divina dell'Antico Testamento si fonde con l'attesa messianica, chiedendo al Redentore di venire a liberarci con la forza del suo braccio teso. È un richiamo potente all'Esodo: lo stesso Dio che spezzò le catene dell'Egitto è colui che oggi viene invocato per sciogliere i legami del peccato, manifestando una potenza che si farà vicina e umile nella grotta di Betlemme.

Testo

O Adonai,
e condottiero di Israele,
che sei apparso a Mosè tra le fiamme,
e sul Sinai gli donasti la legge:
redimici col tuo braccio potente.

O Adonai,
et dux domus Israël,
qui Moysi in igne flammae rubi apparuisti,
et ei in Sina legem dedisti:
veni ad redimendum nos in brachio extento.



Advent Antiphons No. 2 - O Adonai - Queen's Colledge Cambridge




Antifona di Avvento No. 2 - O Adonai - Canto gregoriano

Fermati 1 minuto. Come Spirito sulle acque calme

Lettura

Matteo 1,18-24

18 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19 Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 20 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 21 Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23 Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. 24 Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Commento

Un uomo innamorato della sua futura moglie si trova davanti al timore di essere stato tradito. Giuseppe non è solo giusto, osservante della legge del Signore, ma anche misericordioso, poiché non vuole esporre Maria alla pubblica accusa e preferisce allontanarla in segreto, con un divorzio privato. 

Il fidanzamento ebraico era considerato nell'antichità come un moderno matrimonio. Poteva essere sciolto solo con un formale atto di ripudio, in presenza di due testimoni. I fidanzati erano considerati dal punto di vista legale come marito e moglie e sebbene l'unione fisica non fosse stata ancora consumata l'adulterio era punito con la lapidazione. 

Il modo di comportarsi di Giuseppe ci suggerisce di giudicare con delicatezza e prudenza il nostro prossimo, presupponendo sempre la sua innocenza piuttosto che la colpevolezza, ma ci invita anche ad accogliere quanto di incredibile accade nelle nostre vite. 

Giuseppe viene visitato da Dio mentre "stava pensando a tutte queste cose" (v. 20). Dio rivela la sua volontà a coloro che la ricercano e considerano interiormente i segni della sua presenza. Egli appare nel momento di maggiore quiete, come spirito che si muove sulle acque calme. Così Giuseppe, che custodisce la fiducia in Dio, si convince dell'innocenza di Maria venendo visitato in sogno da un angelo, il cui messaggio sconvolge i suoi piani e ogni aspettativa sul nascituro. Questi sarà chiamato Gesù, ovvero "il Signore salva" e infatti salverà gli uomini dal peccato. 

Emmanuele - "Dio con noi" - non è il nome proprio di Cristo, ma descrive perfettamente l'efficacia della sua opera di redenzione, che solleva la nostra umanità dalla miseria, elevandola alle altezze divine. Dio aveva camminato con Israele nel deserto, nella forma di una nube rinfrescante di giorno e luminosa di notte; per questo il suo popolo poteva domandarsi "qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?" (Dt 4,7). In Gesù, vero uomo, che lo Spirito ha plasmato a immagine del Padre, Dio si fa presente in mezzo a noi, per condurci verso la risurrezione. 

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Giuseppe si desta dal sonno (v. 24) e fa subito come gli è stato ordinato. Anche noi siamo chiamati a rispondere senza tardare alla volontà del Signore: "Per questo sta scritto: "Svègliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà" (Ef 5,14).

Preghiera

Donaci la saggezza, o Dio, di discernere la tua volontà tra le pieghe della nostra vita e la grazia per compierla con sollecitudine; affinché la luce di Cristo possa risplendere nel mondo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 17 dicembre 2025

Le Antifone maggiori dell'Avvento - O Sapientia

Le antifone maggiori dell'Avvento (o anche antifone O, perché cominciano tutte con il vocativo "O") sono sette antifone latine proprie della Liturgia delle Ore secondo il rito romano. Vengono cantate come antifone del Magnificat nei vespri e come versetto alleluiatico del Vangelo nella Messa delle ferie maggiori dell'Avvento, dal 17 al 23 dicembre.

Anche il rito ambrosiano le ha introdotte nella propria liturgia, durante la "commemorazione del Battesimo" alla sera di questi stessi giorni precedenti il Natale (in ambrosiano, feriae de Exceptato, ferie dell'Accolto).

La Chiesa anglicana le ha reintrodotte in tempi recenti.

Origine

La loro origine è sconosciuta, ma Boezio le menziona già nel sesto secolo a Roma, al tempo della riforma liturgica di papa san Gregorio Magno (540-604). Spesso sono state musicate. I sostantivi con cui ogni antifona si apre hanno origine nella Bibbia e sono utilizzati come titoli di Gesù Cristo. È stato osservato fin dal Medioevo che le lettere iniziali di questi stessi sostantivi, lette partendo dall'ultima antifona, formano la frase latina ero cras, cioè "Domani sarò qui", una espressione che sottolinea il carattere di attesa proprio dell'Avvento. La serie in questo modo si divide in due parti: dal 17 al 20, e dal 21 al 23 dicembre.

La prima antifona

L'antifona "O Sapientia" inaugura le grandi invocazioni dell'Avvento presentando Cristo come il Verbo eterno che ordina il cosmo. Il testo celebra la sintesi perfetta tra la forza del governo divino e la dolcezza della sua provvidenza, capace di abbracciare la storia senza mai violare la libertà umana. Chiedendo a Dio di insegnarci la "via della prudenza", non invochiamo una semplice nozione intellettuale, ma il dono del discernimento per orientare i nostri passi verso la luce del Natale.

Testo

O Sapienza,
che esci dalla bocca dell'Altissimo,
ed arrivi ai confini della terra,
e tutto disponi con dolcezza:
vieni ad insegnarci la via della prudenza.

O Sapientia,
quae ex ore Altissimi prodisti,
attingens a fine usque ad finem,
fortiter suaviter disponensque omnia:
veni ad docendum nos viam prudentiae.



Advent Antiphons No. 1 - O Sapientia - Queen's College, Cambridge



Antifona di Avvento No. 1 . O Sapientia - Canto gregoriano

Fermati 1 minuto. Più che una cantilena

Lettura

Matteo 1,1-17

1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2 Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3 Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, 4 Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6 Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, 7 Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, 8 Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9 Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10 Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11 Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. 12 Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, 13 Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, 14 Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15 Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16 Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. 17 La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici.

Commento

La genealogia di Gesù ci offre un elenco di nomi, che potrebbero suonare come una noiosa cantilena, ma testimoniano la profonda appartenenza del Messia al genere umano, le cui miserie e grandezze egli, come Figlio di Dio, è venuto ad assumere su di sé, per portare a compimento il progetto del Padre.

L'incipit matteano "Genealogia di Gesù Cristo" richiama il titolo del libro della Genesi nella Bibbia greca ("dei Settanta"), chiamato appunto Libro delle genealogie. In questo senso Gesù appare nel Vangelo di Matteo come compimento della creazione nella pienezza dei tempi. 

Il riferimento agli antenati di Gesù è presente sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Luca, ma Matteo gli conferisce un'importanza particolare, aprendo con esso il suo racconto. Il nome "Gesù" significa in ebraico "il Signore salva", mentre "Cristo" è un appellativo che traduce in greco (Christos)  l'ebraico "Messia". La parola significa "unto" con allusione al carattere profetico, sacerdotale e regale di Gesù; infatti era d'uso nella tradizione ebraica ungere con l'olio coloro che avevano ricevuto un mandato da Dio. Davide fu unto alla sua consacrazione come re (1 Sam 16,13); Aronne quando fu consacrato sacerdote (Lv 8,12), Eliseo (1 Re 19,16) e Isaia (Is 61,1) furono unti come profeti.

L'appellativo Gesù Cristo significa dunque il Salvatore promesso. Gesù è il sacerdote venuto a espiare i nostri peccati entrando "una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna" (Eb 9,12); Gesù è il profeta che illumina le tenebre dell'ignoranza nelle nostre anime e istruisce la nostra volontà, la "luce per illuminare le genti" (Lc 2,32) cantata da Simeone durante la presentazione al tempio; Gesù è il re venuto a regnare sui nostri cuori, affinché possano trovare la vera libertà dalle inquietudini di questo mondo, riposando in Dio. 

Matteo seleziona e antepone negli anelli della catena genealogica i nomi del re Davide e di Abramo; perché Gesù è sia il messia regale, sia colui nel quale si adempie la promessa di una discendenza numerosa come la sabbia del mare (Gn 22,17), nell'universalità della sua missione. 

La presenza di Ieconia ha una certa rilevanza: egli fu maledetto da Dio il quale gli precluse una discendenza dal trono di Davide, ma il suo nome in questa genealogia indica la capacità della grazia di prevalere sul peccato. Anche la presenza di Tamar (una prostituta) e delle altre tre donne straniere - Racab (cananea), Rut (moabita) Betsabea, moglie di Urìa l'hittita - indica che il piano di salvezza non è precluso a nessuno, e che l'irregolarità stessa della situazione in cui esse hanno concepito i loro figli non spezza il filo continuo dell'azione di grazia che Dio svolge nella storia. 

La bontà di Dio corre di generazione in generazione. Quale gloria se i nostri nomi trovassero posto nel suo libro, pur dimenticati dagli uomini!

Preghiera

Scrivi i nostri nomi sul libro della vita Signore; affinché possiamo prendere parte alla tua famiglia celeste, nonostante le nostre mancanze e per l'azione della tua grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 16 dicembre 2025

Fermati 1 minuto. È ora di metterci al lavoro

Lettura

Matteo 21,28-32

28 «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. 29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.

Commento

Gli scribi e i farisei mostrano grande zelo nel servizio di Dio, ma si tratta di mera apparenza, contraddetta dalle loro azioni. Sono ben rappresentati dal figlio indolente della parabola, che pure si rivolge al proprio padrone come "signore" (v. 29), ma promette più di quanto è disposto a mantenere.

Anche il cristiano corre il rischio di coltivare grandi ambizioni ma di non sapere lavorare neanche un'ora nella vigna del Signore. Lungi dal coltivare una religiosità puramente idealistica, dobbiamo fare in modo che la preghiera, l'adorazione, lo studio delle Scritture, abbiano una ricaduta concreta nel nostro quotidiano. 

Guai a noi, però, se cadessimo nell'auto-giustificazione, disconoscendo la grazia di Dio: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: 'Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare'» (Lc 17,10). Con Paolo dobbiamo tenere presente che "né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere" (1 Cor 3,7). 

Dal peccato di Adamo siamo stati condannati a coltivare con fatica la terra per il nostro sostentamento, ma con l'avvento di Cristo siamo stati resi partecipi dell'opera della salvezza, che tutta la creazione attende con impazienza, gemendo e soffrendo nelle doglie del parto (Rm 8,19-23). Il figlio obbediente della parabola dimostra che l'unica evidenza del nostro pentimento è di metterci al lavoro e così ciò che è passato sarà perdonato e le nostre fatiche troveranno un orizzonte di senso.

Preghiera

Donaci l'umiltà, Signore, di riconoscerci bisognosi della tua grazia e il desiderio di una sincera conversione; affinché il tuo ritorno ci trovi operosi nella tua vigna. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 15 dicembre 2025

Le sei perfezioni nel buddhismo: Dāna (generosità)

Il cuore della pratica bodhisattvica

Nel buddhismo Mahāyāna, il bodhisattva è colui che ha generato il nobile proposito di raggiungere il risveglio non solo per se stesso, ma per liberare tutti gli esseri senzienti dalla sofferenza. È una figura che incarna la compassione universale e dedica ogni azione al benessere di tutti, rinunciando al proprio nirvana personale finché ogni essere non avrà raggiunto la liberazione.

La pratica di Dāna, che si traduce comunemente come generosità o dare, è considerata nel buddhismo uno dei pilastri fondamentali sia per l'accumulo di merito che per lo sviluppo spirituale. Non è semplicemente un atto di carità occasionale, ma una virtù coltivata attivamente, la prima delle sei o dieci Pāramitā, perfezioni essenziali sul cammino del bodhisattva. Dāna rappresenta un esercizio primario per l'allentamento dell'attaccamento e dell'egoismo, il cuore caldo della pratica bodhisattvica che si manifesta come generosità, disponibilità, amore e protezione verso tutti gli esseri.

Il Buddha insegnò che l'atto del donare purifica la mente del donatore, creando una connessione diretta tra l'eliminazione della bramosia, quella sete insaziabile che ci rende schiavi, e la coltivazione della felicità autentica. L'essenza di Dāna risiede non tanto nel valore materiale dell'offerta, quanto nell'atteggiamento mentale con cui viene compiuta. La generosità più alta è quella data senza aspettativa di ricompensa, senza attaccamento ai beni donati e senza discriminazione verso il ricevente. Questa è la generosità pura, che sgorga spontaneamente dalla compassione, karuṇā, e dalla benevolenza amorevole, mettā.

Questa qualità fondamentale rappresenta molto più di un semplice atto esteriore: è un'attitudine interiore che permea ogni aspetto dell'esistenza. La generosità assiste e risponde con gentilezza a qualunque cosa si presenti nella nostra vita, non solo nella mente, includendo anche persone ed eventi che troviamo difficili o impegnativi da affrontare. Fondamentalmente, è l'accogliere gentilmente ogni aspetto della nostra esistenza, senza discriminazione o rifiuto.

Quando questa pratica gioiosa del dare e ricevere è perfezionata, essa include tutte le altre pratiche spirituali, diventando la porta attraverso cui si manifestano naturalmente la disciplina, la pazienza, la perseveranza, la meditazione e la saggezza. È come se la generosità fosse il terreno fertile da cui germogliano tutti gli altri fiori del risveglio. Attraverso la pratica costante di Dāna, il praticante impara a rompere le catene del possesso e a riconoscere l'interdipendenza profonda di tutte le cose. Il donare diventa un potente antidoto contro l'avidità, una delle tre radici malsane della sofferenza insieme all'odio e all'illusione.

L'impermanenza come fondamento

Il fondamento di questa pratica risiede nel riconoscimento della nostra vera natura umana: il cambiamento e l'impermanenza, una condizione meravigliosa che permette a tutti noi di trasformarci e raggiungere stati di coscienza e realizzazione più elevati. Questa comprensione dissolve l'illusione della permanenza e della solidità dell'io, rivelando invece un flusso continuo di esperienze interconnesse.

Avendo ben presente l'impermanenza, diventa quasi superfluo spiegare cosa siano generosità e disponibilità, poiché non sono qualità da adottare artificialmente dall'esterno, ma da manifestare spontaneamente dall'interno. Quando il cambiamento è lasciato libero di fluire, in assenza di un io o un ego dominante che cerca di controllare e possedere, tutto diventa naturalmente disponibilità e condotta appropriata. La vita stessa diventa un atto di generosità continua, dove ogni momento offre l'opportunità di dare e ricevere senza attaccamento.

L'istruzione per l'incontro con la vita

Un insegnamento fondamentale per comprendere lo spirito di generosità del bodhisattva, centrato sul donare e accogliere la vita nella sua totalità, si trova in una storia Zen profonda e illuminante. La storia narra di un giovane monaco che rispettava profondamente la saggezza di una vecchia maestra e viveva con lei, apprendendo attraverso l'esempio silenzioso della sua presenza. Quando il giovane si preparò a partire per il suo viaggio nel mondo, chiese alla maestra un'istruzione come viatico per affrontare la vita. La vecchia rispose con parole che contenevano l'essenza dell'intera pratica: "Qualunque cosa accada, prova a dire grazie mille, non ho lamentele di sorta".

Il giovane cercò con sincerità di esercitarsi in questo modo, ma scoprì che non era in grado di farlo in modo costante e coerente. La semplicità apparente dell'istruzione nascondeva una profondità che richiedeva la trasformazione completa del suo essere. Quando in seguito incontrò nuovamente la vecchia e confessò il suo fallimento con un senso di inadeguatezza, lei sorridendo rispose con le stesse parole: "Grazie mille, non ho alcuna lamentela".

Questa risposta rivela una profonda sincerità priva di oggettività e di giudizio. La vecchia, infatti, non accolse il giovane solamente nella sua incapacità di aver praticato correttamente l'istruzione, ma lo accolse nella sua completezza di essere umano, con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. In quel momento, lei stava incarnando esattamente ciò che aveva insegnato, dimostrando che la pratica non consiste nel raggiungere uno stato ideale, ma nell'accogliere pienamente ciò che è.

Questa istruzione può essere riformulata come un invito ad incontrare ciò che accade nella nostra vita con completa naturalezza e apertura incondizionata. "Grazie mille, non ho alcuna lamentela" è l'apertura radicale che dobbiamo coltivare verso noi stessi e verso l'esistenza, permettendoci di donarci veramente alla vita e di essere consapevoli di ciò che sta accadendo realmente, non di come vorremmo che fosse secondo le nostre preferenze e aspettative. È questa consapevolezza nuda e diretta che consente di conoscere e affrontare la realtà sempre differente e mutevole, e di dare corso al giusto cambiamento senza resistenza.

Le tre manifestazioni del donare

Nell'insegnamento classico del buddismo, si distinguono tre dimensioni del donare, che riguardano la generosità verso se stessi e verso gli altri, formando un percorso progressivo di approfondimento della pratica. Sebbene Dāna sia spesso associata al donare beni materiali come cibo, vestiti e medicine, essa abbraccia categorie che vanno dal tangibile al più sottile livello spirituale.

Il primo è il donare materiale, āmisa-dāna, che è il più convenzionale e immediatamente comprensibile. Sebbene apparentemente difficile per alcuni, specialmente per chi ha conosciuto la scarsità o ha sviluppato un forte attaccamento ai beni materiali, donare qualcosa di tangibile è spesso molto più facile che privarsi di un proprio pensiero, attaccamento, o condizionamento mentale come l'idea "per me è così, questa è la mia verità". Ciò che ci identifica a livello psicologico viene percepito come più prezioso di qualsiasi possesso materiale, e rinunciarvi può sembrare una deprivazione insopportabile o una perdita della propria identità.

Il secondo tipo è la generosità del dono della non paura, abhaya-dāna, che rappresenta un livello più sottile e profondo. Questa dimensione è cruciale e comprende l'atto di mettere gli altri a proprio agio, di offrire sicurezza e protezione da ogni timore. Include soprattutto il donare la liberazione dalla paura del nostro cambiamento a noi stessi. Significa essere disponibili a trasformarci radicalmente e, in particolare, lasciare che gli altri siano autenticamente se stessi, non essendo attaccati al nostro volere che siano diversi da come sono o che corrispondano alle nostre aspettative. Lasciare andare i desideri materiali può essere difficile, certamente, ma è ancora più difficile e liberatorio lasciare andare l'immagine fissa che abbiamo costruito di noi stessi e che difendiamo con tutte le nostre forze.

Infine, il terzo tipo è il dono del Dharma, dhamma-dāna, considerato la forma più elevata di generosità. Questa dimensione riguarda specificamente il donarsi alla chiarezza di chi siamo veramente, al di là di tutte le maschere e le identificazioni, e l'insegnamento della verità spirituale che conduce alla liberazione. Riscoprire le nostre migliori qualità innate, quella natura di Buddha che è sempre stata presente ma oscurata dalle afflizioni mentali, è un grande dono che facciamo a noi stessi. Questo dono include anche la condivisione degli insegnamenti e della saggezza con gli altri, offrendo loro gli strumenti per la propria liberazione.

L'importanza di donare a se stessi e superare l'ego

Molte persone sono incapaci non solo di donare generosamente agli altri, ma anche di accettare con grazia dagli altri, spesso perché hanno interiorizzato un sistema di credenze rigido secondo cui ogni cosa debba essere conquistata e meritata attraverso lo sforzo personale. Adottano una scala di meritocrazia interna che impedisce loro persino di ricevere un sorriso gratuito o un complimento sincero senza sentirsi in debito o inadeguati. Queste persone, dominate dal loro ego ipertrofico, sono spesso anche tragicamente incapaci di donare a se stessi ciò di cui hanno veramente bisogno: accettazione, compassione, perdono. Sono pronte a giudicarsi come manchevoli e difettose o, all'opposto estremo, come perfette e superiori, ma raramente riescono a vedersi con onestà e tenerezza.

La pratica della generosità inizia proprio con l'accogliere anche la nostra possessività e le nostre resistenze, riconoscendo con umiltà che la vita stessa è un dono immeritato dovuto all'interagire continuo e misterioso di causa ed effetto che va oltre la nostra comprensione razionale. L'avarizia, d'altro canto, è la scarsa disponibilità a donare ciò che si possiede per un attaccamento gretto e contratto al nostro io, quella struttura mentale artificiale costruita dalle nostre idee, dai nostri pensieri e dalle nostre storie personali.

Quando ci approcciamo alla pratica di Dāna, dobbiamo essere profondamente consapevoli che il donare non sia a senso unico e non sia motivato principalmente dal nostro piacere o dal desiderio di ricevere gratitudine. Spesso, se il nostro dono non viene accettato o apprezzato nel modo che ci aspettavamo, diventiamo infelici e delusi, e accusiamo l'altro di non saper ricevere o di essere ingrato. In realtà, siamo noi che non accettiamo che il nostro dono non sia stato compreso o valorizzato secondo le nostre aspettative, rivelando così che il nostro dare era ancora contaminato dall'attaccamento al risultato.

Questo stesso meccanismo accade anche quando ci doniamo la pratica del cambiamento o della meditazione con l'aspettativa di risultati immediati e tangibili: se le cose non vanno come vorremmo e le aspettative sono superiori alla nostra condizione attuale, rimaniamo profondamente delusi e spesso abbandoniamo la pratica, dimenticando che il vero frutto della generosità è nel dare stesso, non in ciò che riceviamo in cambio.

Le cinque paure vinte dalla generosità

La pratica della generosità è un mezzo potente e trasformativo per superare le paure fondamentali che ci imprigionano, proteggendoci dalla sofferenza e liberandoci per vivere pienamente. I bodhisattva, attraverso la loro dedizione instancabile, superano cinque paure principali che affliggono gli esseri umani.

La prima è la paura di perdere la vita, quella paura primordiale della morte che sottende molte delle nostre ansie quotidiane. Questa paura viene superata realizzando profondamente la nostra universalità e il nostro essere uno con il tutto, comprendendo che la separazione è un'illusione e che la nostra vera natura è immortale e non può essere toccata dalla dissoluzione del corpo. Chi pratica sinceramente la generosità si dona completamente alla scoperta del proprio vero essere e così supera la paura psicologica della morte, vedendola non come un'annichilazione ma come una trasformazione.

La seconda è la paura di perdere il controllo della nostra mente, quella sensazione terrificante di poter impazzire o perdere la lucidità. Questa paura è alimentata dall'ego, che vuole controllare ossessivamente ogni cosa, ogni pensiero, ogni emozione. Dobbiamo imparare a lasciare andare gli attaccamenti senza cercare di dominarli con la forza di volontà, e accettare con fiducia che tutto è interdipendente e interconnesso in una rete infinita di relazioni che va oltre il nostro controllo individuale.

La terza è la paura di perdere la reputazione dell'io, quell'immagine pubblica che abbiamo costruito con tanta cura. L'identità autentica non dovrebbe basarsi sul nostro ego fragile e le sue pretese, ma spesso agiamo principalmente per mantenere la stima di noi stessi o preservare ciò che gli altri pensano di noi. Quando siamo umiliati pubblicamente o abbandonati da coloro di cui cercavamo l'approvazione, dobbiamo ricordarci con chiarezza che la sofferenza appartiene solo al nostro ego, non alla nostra vera natura che rimane intatta e imperturbabile.

La quarta è la paura di mostrarsi per quello che si è realmente dentro, con tutte le nostre vulnerabilità e imperfezioni. Per vincere questa paura paralizzante, occorre andare coraggiosamente controcorrente rispetto alle convenzioni sociali: dove gli altri giudicano duramente, astenersi dal giudizio; dove rifiutano con disgusto, accettare con compassione; e donare via generosamente i valori superficiali e le identità costruite che ci danno un senso illusorio di sicurezza e appartenenza.

La quinta e ultima è la paura di perdere i mezzi di sussistenza, che non si riferisce tanto alla paura concreta di cadere in indigenza materiale, quanto alla paura più sottile di perdere gli attaccamenti psicologici con cui ci si identifica profondamente, quei mezzi di sussistenza mentali ed emotivi che alimentano e sostengono il proprio senso dell'io.

I bodhisattva bruciano letteralmente le loro paure nel fuoco purificatore dell'intensa gioia di donare se stessi prima di tutto a se stessi, in un atto di amore incondizionato. Poiché danno costantemente via tutto con tutto il cuore, senza trattenere nulla per sé, non perdono mai nulla di essenziale e perciò non hanno più alcuna paura di perdere qualcosa.

Il dono della domanda

La generosità ci aiuta anche ad accogliere il cambiamento in modi sorprendenti e non convenzionali. In alcune scritture buddhiste, si osserva con saggezza che anche la richiesta sincera degli insegnamenti è considerata un grande dono del Dharma. Il bodhisattva, quando pone una domanda autentica, non chiede semplicemente per ottenere qualcosa per sé o per soddisfare la propria curiosità intellettuale, ma per offrire il dono del Dharma, creando l'opportunità per l'altro di manifestarsi pienamente e di essere se stesso nell'atto della risposta.

Fare domande genuine diventa così un modo per il bodhisattva di mettere in atto la propria compassione attiva, desiderando profondamente che le domande siano utili per il beneficio e la felicità di tutti gli esseri, non solo per il proprio vantaggio personale. Non dovremmo, quindi, essere avari nel donare domande significative, offrendo così agli altri l'opportunità preziosa di scoprire la loro vera natura attraverso l'articolazione delle risposte, e magari iniziare il loro proprio viaggio di trasformazione e cambiamento.

Conclusione: la disponibilità radicale

In conclusione, la Pāramitā di Dāna è essenzialmente la disponibilità radicale e incondizionata verso il cambiamento migliore dell'essere umano. Non è una tecnica da applicare meccanicamente, né una virtù morale da coltivare con sforzo, ma piuttosto il riconoscimento e l'espressione naturale della nostra vera natura, che è già generosa, aperta e interconnessa con tutto ciò che esiste.

Sebbene i benefici karmici, come la ricchezza e la prosperità nelle vite future, siano spesso menzionati nelle scritture, il vero frutto di Dāna è la pace interiore, la leggerezza della mente e la preparazione del terreno per meditazioni più profonde e per la realizzazione finale del Nibbāna. Così, Dāna non è solo un atto etico e sociale, ma una pratica meditativa in sé, che incarna lo spirito di distacco e altruismo fondamentale per il risveglio.

Quando comprendiamo profondamente l'impermanenza e lasciamo andare l'illusione della separazione, la generosità fluisce spontaneamente come l'acqua che scorre verso il basso, senza sforzo e senza aspettativa di ricompensa. Questa è la via del bodhisattva, e questa è la porta della liberazione.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. In chi o in cosa risiede l'autorità della chiesa?

Lettura

Matteo 21,23-27

23 Entrato nel tempio, mentre insegnava gli si avvicinarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo e gli dissero: «Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?». 24 Gesù rispose: «Vi farò anch'io una domanda e se voi mi rispondete, vi dirò anche con quale autorità faccio questo. 25 Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?». Ed essi riflettevano tra sé dicendo: «Se diciamo: "dal Cielo", ci risponderà: "perché dunque non gli avete creduto?"; 26 se diciamo "dagli uomini", abbiamo timore della folla, perché tutti considerano Giovanni un profeta». 27 Rispondendo perciò a Gesù, dissero: «Non lo sappiamo». Allora anch'egli disse loro: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose».

Commento

La domanda dei capi dei sacerdoti del tempio riguardo l'autorità di Gesù si riferisce alla cacciata dei venditori dal cortile esterno, alla sua predicazione e alle guarigioni operate. Gesù non è un sacerdote secondo la legge, non è un levita, né uno scriba. Egli è il sacerdote celeste e "non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso" (Eb 7,27). 

L'autorità di Gesù viene direttamente dal Padre; mentre i sommi sacerdoti, rispondendo falsamente di non sapere da dove viene l'autorità di Giovanni, si mostrano ignoranti e incapaci di insegnare con autorità. 

Questo episodio evangelico ripropone a noi cristiani una domanda essenziale: da dove proviene l'autorità della Chiesa? Sappiamo che questa domanda ha generato delle risposte divisive nella storia, ma non possiamo fare a meno di porcela e di cercare una risposta. Diversamente, cadremmo nella stessa ambiguità delle autorità giudaiche con cui si confrontò Gesù. 

Mentre i protestanti riconoscono come autorità suprema la Scrittura, i cattolici aggiungono a questa il magistero della chiesa e l'autorità del vescovo di Roma; gli ortodossi, invece, si richiamano alle dichiarazioni dei concili ecumenici e dei sacri sinodi.

Di fronte a tante e diverse interpretazioni del cristianesimo si potrebbe restare confusi, ma una cosa è certa: l'autorità della Chiesa proviene direttamente dal suo capo: Gesù Cristo, che la vivifica con lo Spirito Santo, il quale ci guiderà fino al compimento escatologico della storia. La Chiesa non è orfana, non è una pecora senza pastore e non ha bisogno di un "vicario", perché non è abbandonata a se stessa. Cristo è la sua guida e parla al suo popolo mediante l'esempio della propria vita, si comunica a ogni credente mediante la grazia battesimale e il nutrimento della Santa cena.

Preghiera

Vivifica con il tuo Spirito, Signore, la tua santa Chiesa e guidala verso l'unità, affinché i tuoi discepoli siano una cosa sola con te. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona