Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 15 dicembre 2025

Le sei perfezioni nel buddhismo: Dāna (generosità)

Il cuore della pratica bodhisattvica

Nel buddhismo Mahāyāna, il bodhisattva è colui che ha generato il nobile proposito di raggiungere il risveglio non solo per se stesso, ma per liberare tutti gli esseri senzienti dalla sofferenza. È una figura che incarna la compassione universale e dedica ogni azione al benessere di tutti, rinunciando al proprio nirvana personale finché ogni essere non avrà raggiunto la liberazione.

La pratica di Dāna, che si traduce comunemente come generosità o dare, è considerata nel buddhismo uno dei pilastri fondamentali sia per l'accumulo di merito che per lo sviluppo spirituale. Non è semplicemente un atto di carità occasionale, ma una virtù coltivata attivamente, la prima delle sei o dieci Pāramitā, perfezioni essenziali sul cammino del bodhisattva. Dāna rappresenta un esercizio primario per l'allentamento dell'attaccamento e dell'egoismo, il cuore caldo della pratica bodhisattvica che si manifesta come generosità, disponibilità, amore e protezione verso tutti gli esseri.

Il Buddha insegnò che l'atto del donare purifica la mente del donatore, creando una connessione diretta tra l'eliminazione della bramosia, quella sete insaziabile che ci rende schiavi, e la coltivazione della felicità autentica. L'essenza di Dāna risiede non tanto nel valore materiale dell'offerta, quanto nell'atteggiamento mentale con cui viene compiuta. La generosità più alta è quella data senza aspettativa di ricompensa, senza attaccamento ai beni donati e senza discriminazione verso il ricevente. Questa è la generosità pura, che sgorga spontaneamente dalla compassione, karuṇā, e dalla benevolenza amorevole, mettā.

Questa qualità fondamentale rappresenta molto più di un semplice atto esteriore: è un'attitudine interiore che permea ogni aspetto dell'esistenza. La generosità assiste e risponde con gentilezza a qualunque cosa si presenti nella nostra vita, non solo nella mente, includendo anche persone ed eventi che troviamo difficili o impegnativi da affrontare. Fondamentalmente, è l'accogliere gentilmente ogni aspetto della nostra esistenza, senza discriminazione o rifiuto.

Quando questa pratica gioiosa del dare e ricevere è perfezionata, essa include tutte le altre pratiche spirituali, diventando la porta attraverso cui si manifestano naturalmente la disciplina, la pazienza, la perseveranza, la meditazione e la saggezza. È come se la generosità fosse il terreno fertile da cui germogliano tutti gli altri fiori del risveglio. Attraverso la pratica costante di Dāna, il praticante impara a rompere le catene del possesso e a riconoscere l'interdipendenza profonda di tutte le cose. Il donare diventa un potente antidoto contro l'avidità, una delle tre radici malsane della sofferenza insieme all'odio e all'illusione.

L'impermanenza come fondamento

Il fondamento di questa pratica risiede nel riconoscimento della nostra vera natura umana: il cambiamento e l'impermanenza, una condizione meravigliosa che permette a tutti noi di trasformarci e raggiungere stati di coscienza e realizzazione più elevati. Questa comprensione dissolve l'illusione della permanenza e della solidità dell'io, rivelando invece un flusso continuo di esperienze interconnesse.

Avendo ben presente l'impermanenza, diventa quasi superfluo spiegare cosa siano generosità e disponibilità, poiché non sono qualità da adottare artificialmente dall'esterno, ma da manifestare spontaneamente dall'interno. Quando il cambiamento è lasciato libero di fluire, in assenza di un io o un ego dominante che cerca di controllare e possedere, tutto diventa naturalmente disponibilità e condotta appropriata. La vita stessa diventa un atto di generosità continua, dove ogni momento offre l'opportunità di dare e ricevere senza attaccamento.

L'istruzione per l'incontro con la vita

Un insegnamento fondamentale per comprendere lo spirito di generosità del bodhisattva, centrato sul donare e accogliere la vita nella sua totalità, si trova in una storia Zen profonda e illuminante. La storia narra di un giovane monaco che rispettava profondamente la saggezza di una vecchia maestra e viveva con lei, apprendendo attraverso l'esempio silenzioso della sua presenza. Quando il giovane si preparò a partire per il suo viaggio nel mondo, chiese alla maestra un'istruzione come viatico per affrontare la vita. La vecchia rispose con parole che contenevano l'essenza dell'intera pratica: "Qualunque cosa accada, prova a dire grazie mille, non ho lamentele di sorta".

Il giovane cercò con sincerità di esercitarsi in questo modo, ma scoprì che non era in grado di farlo in modo costante e coerente. La semplicità apparente dell'istruzione nascondeva una profondità che richiedeva la trasformazione completa del suo essere. Quando in seguito incontrò nuovamente la vecchia e confessò il suo fallimento con un senso di inadeguatezza, lei sorridendo rispose con le stesse parole: "Grazie mille, non ho alcuna lamentela".

Questa risposta rivela una profonda sincerità priva di oggettività e di giudizio. La vecchia, infatti, non accolse il giovane solamente nella sua incapacità di aver praticato correttamente l'istruzione, ma lo accolse nella sua completezza di essere umano, con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. In quel momento, lei stava incarnando esattamente ciò che aveva insegnato, dimostrando che la pratica non consiste nel raggiungere uno stato ideale, ma nell'accogliere pienamente ciò che è.

Questa istruzione può essere riformulata come un invito ad incontrare ciò che accade nella nostra vita con completa naturalezza e apertura incondizionata. "Grazie mille, non ho alcuna lamentela" è l'apertura radicale che dobbiamo coltivare verso noi stessi e verso l'esistenza, permettendoci di donarci veramente alla vita e di essere consapevoli di ciò che sta accadendo realmente, non di come vorremmo che fosse secondo le nostre preferenze e aspettative. È questa consapevolezza nuda e diretta che consente di conoscere e affrontare la realtà sempre differente e mutevole, e di dare corso al giusto cambiamento senza resistenza.

Le tre manifestazioni del donare

Nell'insegnamento classico del buddismo, si distinguono tre dimensioni del donare, che riguardano la generosità verso se stessi e verso gli altri, formando un percorso progressivo di approfondimento della pratica. Sebbene Dāna sia spesso associata al donare beni materiali come cibo, vestiti e medicine, essa abbraccia categorie che vanno dal tangibile al più sottile livello spirituale.

Il primo è il donare materiale, āmisa-dāna, che è il più convenzionale e immediatamente comprensibile. Sebbene apparentemente difficile per alcuni, specialmente per chi ha conosciuto la scarsità o ha sviluppato un forte attaccamento ai beni materiali, donare qualcosa di tangibile è spesso molto più facile che privarsi di un proprio pensiero, attaccamento, o condizionamento mentale come l'idea "per me è così, questa è la mia verità". Ciò che ci identifica a livello psicologico viene percepito come più prezioso di qualsiasi possesso materiale, e rinunciarvi può sembrare una deprivazione insopportabile o una perdita della propria identità.

Il secondo tipo è la generosità del dono della non paura, abhaya-dāna, che rappresenta un livello più sottile e profondo. Questa dimensione è cruciale e comprende l'atto di mettere gli altri a proprio agio, di offrire sicurezza e protezione da ogni timore. Include soprattutto il donare la liberazione dalla paura del nostro cambiamento a noi stessi. Significa essere disponibili a trasformarci radicalmente e, in particolare, lasciare che gli altri siano autenticamente se stessi, non essendo attaccati al nostro volere che siano diversi da come sono o che corrispondano alle nostre aspettative. Lasciare andare i desideri materiali può essere difficile, certamente, ma è ancora più difficile e liberatorio lasciare andare l'immagine fissa che abbiamo costruito di noi stessi e che difendiamo con tutte le nostre forze.

Infine, il terzo tipo è il dono del Dharma, dhamma-dāna, considerato la forma più elevata di generosità. Questa dimensione riguarda specificamente il donarsi alla chiarezza di chi siamo veramente, al di là di tutte le maschere e le identificazioni, e l'insegnamento della verità spirituale che conduce alla liberazione. Riscoprire le nostre migliori qualità innate, quella natura di Buddha che è sempre stata presente ma oscurata dalle afflizioni mentali, è un grande dono che facciamo a noi stessi. Questo dono include anche la condivisione degli insegnamenti e della saggezza con gli altri, offrendo loro gli strumenti per la propria liberazione.

L'importanza di donare a se stessi e superare l'ego

Molte persone sono incapaci non solo di donare generosamente agli altri, ma anche di accettare con grazia dagli altri, spesso perché hanno interiorizzato un sistema di credenze rigido secondo cui ogni cosa debba essere conquistata e meritata attraverso lo sforzo personale. Adottano una scala di meritocrazia interna che impedisce loro persino di ricevere un sorriso gratuito o un complimento sincero senza sentirsi in debito o inadeguati. Queste persone, dominate dal loro ego ipertrofico, sono spesso anche tragicamente incapaci di donare a se stessi ciò di cui hanno veramente bisogno: accettazione, compassione, perdono. Sono pronte a giudicarsi come manchevoli e difettose o, all'opposto estremo, come perfette e superiori, ma raramente riescono a vedersi con onestà e tenerezza.

La pratica della generosità inizia proprio con l'accogliere anche la nostra possessività e le nostre resistenze, riconoscendo con umiltà che la vita stessa è un dono immeritato dovuto all'interagire continuo e misterioso di causa ed effetto che va oltre la nostra comprensione razionale. L'avarizia, d'altro canto, è la scarsa disponibilità a donare ciò che si possiede per un attaccamento gretto e contratto al nostro io, quella struttura mentale artificiale costruita dalle nostre idee, dai nostri pensieri e dalle nostre storie personali.

Quando ci approcciamo alla pratica di Dāna, dobbiamo essere profondamente consapevoli che il donare non sia a senso unico e non sia motivato principalmente dal nostro piacere o dal desiderio di ricevere gratitudine. Spesso, se il nostro dono non viene accettato o apprezzato nel modo che ci aspettavamo, diventiamo infelici e delusi, e accusiamo l'altro di non saper ricevere o di essere ingrato. In realtà, siamo noi che non accettiamo che il nostro dono non sia stato compreso o valorizzato secondo le nostre aspettative, rivelando così che il nostro dare era ancora contaminato dall'attaccamento al risultato.

Questo stesso meccanismo accade anche quando ci doniamo la pratica del cambiamento o della meditazione con l'aspettativa di risultati immediati e tangibili: se le cose non vanno come vorremmo e le aspettative sono superiori alla nostra condizione attuale, rimaniamo profondamente delusi e spesso abbandoniamo la pratica, dimenticando che il vero frutto della generosità è nel dare stesso, non in ciò che riceviamo in cambio.

Le cinque paure vinte dalla generosità

La pratica della generosità è un mezzo potente e trasformativo per superare le paure fondamentali che ci imprigionano, proteggendoci dalla sofferenza e liberandoci per vivere pienamente. I bodhisattva, attraverso la loro dedizione instancabile, superano cinque paure principali che affliggono gli esseri umani.

La prima è la paura di perdere la vita, quella paura primordiale della morte che sottende molte delle nostre ansie quotidiane. Questa paura viene superata realizzando profondamente la nostra universalità e il nostro essere uno con il tutto, comprendendo che la separazione è un'illusione e che la nostra vera natura è immortale e non può essere toccata dalla dissoluzione del corpo. Chi pratica sinceramente la generosità si dona completamente alla scoperta del proprio vero essere e così supera la paura psicologica della morte, vedendola non come un'annichilazione ma come una trasformazione.

La seconda è la paura di perdere il controllo della nostra mente, quella sensazione terrificante di poter impazzire o perdere la lucidità. Questa paura è alimentata dall'ego, che vuole controllare ossessivamente ogni cosa, ogni pensiero, ogni emozione. Dobbiamo imparare a lasciare andare gli attaccamenti senza cercare di dominarli con la forza di volontà, e accettare con fiducia che tutto è interdipendente e interconnesso in una rete infinita di relazioni che va oltre il nostro controllo individuale.

La terza è la paura di perdere la reputazione dell'io, quell'immagine pubblica che abbiamo costruito con tanta cura. L'identità autentica non dovrebbe basarsi sul nostro ego fragile e le sue pretese, ma spesso agiamo principalmente per mantenere la stima di noi stessi o preservare ciò che gli altri pensano di noi. Quando siamo umiliati pubblicamente o abbandonati da coloro di cui cercavamo l'approvazione, dobbiamo ricordarci con chiarezza che la sofferenza appartiene solo al nostro ego, non alla nostra vera natura che rimane intatta e imperturbabile.

La quarta è la paura di mostrarsi per quello che si è realmente dentro, con tutte le nostre vulnerabilità e imperfezioni. Per vincere questa paura paralizzante, occorre andare coraggiosamente controcorrente rispetto alle convenzioni sociali: dove gli altri giudicano duramente, astenersi dal giudizio; dove rifiutano con disgusto, accettare con compassione; e donare via generosamente i valori superficiali e le identità costruite che ci danno un senso illusorio di sicurezza e appartenenza.

La quinta e ultima è la paura di perdere i mezzi di sussistenza, che non si riferisce tanto alla paura concreta di cadere in indigenza materiale, quanto alla paura più sottile di perdere gli attaccamenti psicologici con cui ci si identifica profondamente, quei mezzi di sussistenza mentali ed emotivi che alimentano e sostengono il proprio senso dell'io.

I bodhisattva bruciano letteralmente le loro paure nel fuoco purificatore dell'intensa gioia di donare se stessi prima di tutto a se stessi, in un atto di amore incondizionato. Poiché danno costantemente via tutto con tutto il cuore, senza trattenere nulla per sé, non perdono mai nulla di essenziale e perciò non hanno più alcuna paura di perdere qualcosa.

Il dono della domanda

La generosità ci aiuta anche ad accogliere il cambiamento in modi sorprendenti e non convenzionali. In alcune scritture buddhiste, si osserva con saggezza che anche la richiesta sincera degli insegnamenti è considerata un grande dono del Dharma. Il bodhisattva, quando pone una domanda autentica, non chiede semplicemente per ottenere qualcosa per sé o per soddisfare la propria curiosità intellettuale, ma per offrire il dono del Dharma, creando l'opportunità per l'altro di manifestarsi pienamente e di essere se stesso nell'atto della risposta.

Fare domande genuine diventa così un modo per il bodhisattva di mettere in atto la propria compassione attiva, desiderando profondamente che le domande siano utili per il beneficio e la felicità di tutti gli esseri, non solo per il proprio vantaggio personale. Non dovremmo, quindi, essere avari nel donare domande significative, offrendo così agli altri l'opportunità preziosa di scoprire la loro vera natura attraverso l'articolazione delle risposte, e magari iniziare il loro proprio viaggio di trasformazione e cambiamento.

Conclusione: la disponibilità radicale

In conclusione, la Pāramitā di Dāna è essenzialmente la disponibilità radicale e incondizionata verso il cambiamento migliore dell'essere umano. Non è una tecnica da applicare meccanicamente, né una virtù morale da coltivare con sforzo, ma piuttosto il riconoscimento e l'espressione naturale della nostra vera natura, che è già generosa, aperta e interconnessa con tutto ciò che esiste.

Sebbene i benefici karmici, come la ricchezza e la prosperità nelle vite future, siano spesso menzionati nelle scritture, il vero frutto di Dāna è la pace interiore, la leggerezza della mente e la preparazione del terreno per meditazioni più profonde e per la realizzazione finale del Nibbāna. Così, Dāna non è solo un atto etico e sociale, ma una pratica meditativa in sé, che incarna lo spirito di distacco e altruismo fondamentale per il risveglio.

Quando comprendiamo profondamente l'impermanenza e lasciamo andare l'illusione della separazione, la generosità fluisce spontaneamente come l'acqua che scorre verso il basso, senza sforzo e senza aspettativa di ricompensa. Questa è la via del bodhisattva, e questa è la porta della liberazione.