Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

sabato 30 novembre 2024

Assidui e concordi nella preghiera. Commento al Salterio - Salmo 31

Lettura

Salmi 31

1 Di Davide. Maskil.

Beato l'uomo a cui è rimessa la colpa,
e perdonato il peccato.
2 Beato l'uomo a cui Dio non imputa alcun male
e nel cui spirito non è inganno.
3 Tacevo e si logoravano le mie ossa,
mentre gemevo tutto il giorno.
4 Giorno e notte pesava su di me la tua mano,
come per arsura d'estate inaridiva il mio vigore.
5 Ti ho manifestato il mio peccato,
non ho tenuto nascosto il mio errore.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe»
e tu hai rimesso la malizia del mio peccato.
6 Per questo ti prega ogni fedele
nel tempo dell'angoscia.
Quando irromperanno grandi acque
non lo potranno raggiungere.
7 Tu sei il mio rifugio, mi preservi dal pericolo,
mi circondi di esultanza per la salvezza.
8 Ti farò saggio, t'indicherò la via da seguire;
con gli occhi su di te, ti darò consiglio.
9 Non siate come il cavallo e come il mulo
privi d'intelligenza;
si piega la loro fierezza con morso e briglie,
se no, a te non si avvicinano.
10 Molti saranno i dolori dell'empio,
ma la grazia circonda chi confida nel Signore.
11 Gioite nel Signore ed esultate, giusti,
giubilate, voi tutti, retti di cuore.

Commento

Il componimento è indicato come Maskil, ovvero "contemplazione, istruzione sulla saggezza". Questo termine è riferito ad altri 12 salmi.

Il Salmo 31, incentrato sul tema della confessione e del perdono divino, è introdotto dalla formula ebraica ashre, "beato", che è propria della letteratura sapienziale ed è utilizzato anche da Gesù nella sua predicazione (cfr. Mt 5,1-12, "le beatitudini"). Al termine ashre è contrapposto altrove il termine arur, "maledetto".

I versetti 1-2 presentano il perdono dei peccati attraverso una terminologia assai frequente nella Bibbia, Il verbo più usato è nasa, "portare via", "togliere". Dall'ambito cultuale deriva il verbo kasah, "coprire". Il verbo hashab, "imputare" è invece proprio dell'attività commerciale: il peccato è visto come un debito, che Dio rimette all'uomo e cancella. A questo significato si ispira anche Gesù nella preghiera del Padre nostro ("rimetti a noi i nostri debiti", Mt 6,12).

Il peccato è rappresentato come il nemico più pericoloso, che si annida nella coscienza e dilaga anche nel corpo (vv. 3-4). Il salmista descrive il tormento interiore causato dal peccato nascosto. La colpa non confessata si manifesta come un peso insopportabile, che consuma sia fisicamente che spiritualmente. Le acque possenti (v. 6) sono una immagine biblica usuale per una grande calamità e potrebbero alludere anche al diluvio genesiaco.

Ma l'accento che il salmista vuole porre è più sul perdono, descrivendo la felicità che deriva dalla confessione del peccato davanti a un Dio il cui desiderio è quello di perdonare.

Una volta purificato dal suo male il peccatore pentito diventa un maestro di vita per gli altri. Sarà Dio stesso a indicargli le parole da dire e le cose da fare per seguirlo sulla strada della verità e della giustizia.

Il peccatore perdonato si rende conto che per i retti di cuore non è questione di "morso" e "briglia" (v. 9), ma di tenersi docili sotto lo sguardo di Dio, che indica la via da seguire a chi confida in lui e lo circonda di grazia, inebriandolo della gioia ineffabile di sentirsi perdonato (vv. 10-11).

Il Salmo 31 afferma il principio retributivo di tipo tradizionale, che anche nella vita presente mette in stretta connessione la sventura con la colpa e il divino favore con la fedeltà dell'uomo a Dio (v. 11). Paolo riprende e cita direttamente questo salmo nella sua lettera ai Romani (Rm 4:6-8) per supportare la sua argomentazione sulla giustificazione per fede e non per opere. Come Davide sperimentò la beatitudine del perdono attraverso la misericordia divina, così ogni credente è dichiarato giusto davanti a Dio grazie alla fede. Il Salmo 31 insegna che il perdono è un dono gratuito di Dio, ottenibile indirizzando a lui la confessione sincera e il pentimento.

- Rev. Dr. Luca Vona


Andrea apostolo. Il primo dei chiamati

Oggi le chiese d'oriente e d'occidente ricordano Andrea, apostolo del Signore. Figlio di Giona e fratello di Simon Pietro, Andrea era originario di Betsaida ed esercitava il mestiere di pescatore. Discepolo del Battista, egli comprese in profondità la testimonianza resa da Giovanni a Gesù di Nazaret e si mise subito alla sequela dell'Agnello di Dio. Andrea fu il «primo chiamato», e si prodigò per portare a Gesù quanti attendevano il Messia. Secondo la tradizione, dopo la morte e resurrezione di Gesù egli annunciò il vangelo in Siria, in Asia Minore e in Grecia. Divenuto pescatore di uomini attraverso l'annuncio della stoltezza della croce, Andrea morì a Patrasso, crocifisso come il suo Maestro. Nel IV secolo, le sue reliquie furono trasferite a Costantinopoli. Finite poi in occidente, esse sono state restituite alla chiesa di Patrasso da papa Paolo VI nel 1974, in segno d'amore verso l'ortodossia, che venera in Andrea il primo arcivescovo della chiesa di Costantinopoli.

Tracce di lettura

Andrea, dopo essere rimasto con Gesù e aver imparato tutto ciò che Gesù gli aveva insegnato, non tenne chiuso per sé il tesoro, ma si affrettò a correre da suo fratello per comunicargli la ricchezza che aveva ricevuto. Ascolta bene cosa gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa Cristo». Questa è la parola di un'anima che con grande ansietà prepara la venuta di lui e attende la sua discesa dai cielo, ed è piena di gioia sovrabbondante quando l'Atteso si è manifestato, e si affretta ad annunziare agli altri la grande novità. L'aiutarsi reciprocamente nella vita spirituale è proprio segno di benevolenza, di amore fraterno, di sincerità d'animo. Guarda anche Pietro: Andrea «lo condusse da Gesù», affidandolo a lui perché imparasse tutto da lui direttamente.
(Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Giovanni 19,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

ANDREA APOSTOLO, dipinto su tela copia di affresco bizantino
(Andrea apostolo, 6-60 d.C.)

venerdì 29 novembre 2024

Giacomo di Sarūg, monaco, pastore, poeta della Chiesa di Siria

La chiesa siro-occidentale fa oggi memoria di uno dei suoi più grandi scrittori e poeti: Giacomo di Sarūg la cui vita ci è giunta soprattutto grazie alla Storia del contemporaneo Giacomo di Edessa. Nato nel 451 nel villaggio di Qurtam, sull'Eufrate, Giacomo studiò alla celebre scuola di Edessa. 
A 22 anni divenne monaco, e iniziò presto a trasfondere la sua meditazione delle Scritture in poemi religiosi di rara bellezza. Dopo aver ricevuto l'ordinazione presbiterale, Giacomo divenne visitatore ecclesiastico della chiesa locale di Ḥawra, ed ebbe così modo di conoscere tutta la Siria; poi, sul finire della vita, fu eletto vescovo di Batnān-Sarūg, nel 518. Giacomo morì il 29 novembre del 521, e per le sue grandi doti di scrittore la chiesa siriaca gli attribuì il titolo di «arpa dello Spirito santo», al pari del suo maestro sant'Efrem. Dei suoi 763 poemi, appena un terzo è giunto a noi. In essi Giacomo canta con continui e sapienti rinvii alle Scritture ebraiche e cristiane la bellezza dell'agire divino nella storia, riflesso emblematicamente nello sguardo misericordioso di Dio rivelato a noi dal volto di Cristo.

Tracce di lettura

Nel suo dolore, l'anima malata dice:
Chi mi restituirà la bellezza di cui ero adorna
perché non pecchi più?
E se Dio mi ha gradito
a motivo della sua misericordia,
chi mi restituirà le qualità che ho perduto?
La mia natura è bella e splendente come il giorno;
se succederà che si spenga e si oscuri,
chi la rischiarerà ancora
per restituirle la bellezza?
E se tu cancelli i miei peccati
con la tua misericordia,
chi mi innalzerà al livello da cui sono caduta?
O anima che hai perduto la bellezza,
tu sei l'immagine del re: vieni!
La tua bellezza è fra le mani del tuo Signore:
egli l'ha custodita per te fino al momento
in cui farai ritorno a lui.
Allora egli te la ridarà
secondo la sua promessa.
Ci tiene assolutamente a rendertela.
(Giacomo di Sarug, Poemi )

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Giacomo di Sarūg (451-521)

Fermati 1 minuto. Sapere osservare

Lettura

Luca 21,29-33

29 E disse loro una parabola: «Guardate il fico e tutte le piante; 30 quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l'estate è vicina. 31 Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32 In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. 33 Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Commento

Con la parabola del fico Gesù insegna che come c'è un meccanismo di causalità nella natura, così è anche nella storia umana, mediante l'azione soprannaturale di Dio che la guida. 

Vi è un tempo che "divora" i nostri giorni, come l'antica divinità Chrons, ma vi è un Kyrios, un Signore del tempo, Cristo, che attua nella storia - nella nostra storia personale e in quella dell'umanità - un piano di salvezza. 

L'ultima  parola sulla fine dei tempi non è una visione trionfalistica che nega o fagocita la storia, ma un invito alla riflessione, all'attenzione nel presente. I cristiani guardano alla storia per decifrarne i segni che fanno presagire già ora il passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà. La loro attesa non teme smentite, perché è sostenuta da una solidità che ha la certezza della promessa di Dio. Ma essi non possiedono neppure un calendario apocalittico segreto che li metta al riparo dai rischi dell'imprevedibile; hanno ricevuto soltanto la libertà di guardare al futuro con fiducia.

Non siamo dunque in balìa degli eventi e anche quando tutto appare destinato al fallimento, proprio al termine dell'inverno si approssima la primavera e spuntano i primi germogli sulle piante (vv. 29-30). Così è la parola del vangelo per "questa generazione" (v. 32) visitata dalla grazia: un segno e una promessa di speranza che darà frutto a suo tempo.

Preghiera

Donaci, Signore, uno sguardo capace di cogliere i segni dei tempi, per magnificare l'azione della tua grazia nelle nostre vite e nella storia, in cui realizzi il tuo piano di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 28 novembre 2024

Paisij Veličkovskij, la preghiera esicasta e lo studio dei Padri

Le chiese ortodosse ricordano oggi lo starec Paisij Veličkovskij, maestro di intere generazioni di monaci. Paisij nacque nel 1722 a Poltava, in Ucraina. Desideroso di una profonda vita spirituale, egli entrò nell'Accademia teologica di Kiev. Deluso dai sistemi troppo ispirati alla teologia delle scuole occidentali e poco radicati nella tradizione patristica, egli partì alla volta dell'Athos, dove giunse all'età di 24 anni. Uomo di grande dolcezza, amante della sapienza e capace di utilizzare i moderni metodi scientifici per esplorare il pensiero dei padri, Paisij trovò presto riunita attorno a sé una folta schiera di monaci romeni e slavi. Cominciò allora a organizzare comunità cenobitiche, che strutturava attorno al duplice polo della preghiera di Gesù, da lui appresa al Monte Athos, e dello studio dei padri. Grazie a Paisij e ai suoi compagni furono tradotte per la prima volta in lingua romena e slava moltissime opere patristiche. È a lui che si deve l'edizione in slavone della Filocalia, cioè dell'antologia composta da Nicodemo Aghiorita di testi dei padri orientali sulla preghiera del cuore. Per il suo discernimento e l'enorme numero di discepoli di diverse nazionalità che aveva accolto e saputo riconciliare attorno a sé, Paisij esercitò un profondo influsso sulla vita spirituale di generazioni di cristiani e di monaci. Paisij morì il 15 novembre del 1793 nel monastero romeno di Neamţ, di cui nel 1779 era divenuto starec.

Tracce di lettura

Così si edifica la vita comunitaria dei cenobi: per prima cosa, figli miei occorre che chi presiede sia molto versato in tutte le divine Scritture, in pieno possesso del dono di un vero e retto discernimento, capace di istruire e di guidare i suoi discepoli secondo la potenza delle sante Scritttire. Abbia amore vero e sincero per tutti. Sia mite e molto umile, molto paziente. Sia assolutamente libero dalla collera. In secondo luogo, i discepoli siano nelle sue mani come utensili nelle mani dell'artista, come argilla nelle mani del vasaio, come la pecora nelle mani del pastore. Non posseggano beni particolari, nulla di nulla, nemmeno un ago. Non confidino in se stessi a proposito di nulla, ma solo nel loro padre spirititale.
(P.Veličkovskij, Lettere)

La vera obbedienza consiste in questo: nel non pensare che si servono gli uomini, bensì il Signore. Dall'obbedienza nasce l'umiltà e l'umiltà è il fondamento di tutti i comandamenti, così come l'amore ne è la sommità. Perciò sforzatevi, nei limiti delle vostre possibilità, di compiere tutti i comandamenti del Signore. Umiliatevi l'uno davanti all'altro; preferite l'altro a voi stessi e abbiate amore secondo Dio tra di voi. Allora ci sarà in voi un'unica anima e un unico cuore nella grazia di Cristo.
(P. Veličkovskij, Istruzioni ai monaci)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Levate il capo

Lettura

Luca 21,20-28

20 Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina. 21 Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città; 22 saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia.
23 Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. 24 Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti.
25 Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26 mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
27 Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
28 Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».

Commento

La descrizione della venuta gloriosa del Figlio dell'uomo è collocata all'interno di uno scenario apocalittico. La distruzione di Gerusalemme, per opera dei romani, è una prova del fatto che come si è avverata, nel tempo in cui scrive Luca, la predizione di Gesù su di essa, così si avvererà anche il suo annuncio della redenzione finale. 

Grande fu la rovina della città, nel cui assedio perirono oltre un milione di ebrei e quasi centomila furono deportati (secondo quanto riferisce lo storico Giuseppe Flavio). La sordità ai ripetuti richiami alla conversione ha fatto avverare le profezie degli antichi profeti portando alla distruzione delle istituzioni giudaiche e del culto sacrificale levitico. 

Non vi sarà più tempio, perché Cristo stesso è sacerdote, altare e sacrificio (Eb 4,14). Egli, che ha camminato nel mondo senza essere riconosciuto dai suoi (Gv 1,10), ritorna nascosto sulle nubi, fino alla sua manifestazione alla fine dei tempi. 

Come la città santa fu sconvolta dalle potenze nemiche così l'intero cosmo - il sole, la luna, le stelle, il mare - è sovvertito dalla potenza distruttiva del peccato dell'uomo. Ma il Signore ci libera dalla paura e dall'oppressione, che tengono l'uomo a testa bassa.

A consentirci di levare il capo è Dio stesso - "Ma tu, Signore, sei uno scudo attorno a me, tu sei la mia gloria e sollevi il mio capo" (Sal 3,4) -, restituendoci dignità e consentendoci di vedere l'orizzonte ultimo della storia.

Preghiera

Vieni, Signore Gesù! Noi ti attendiamo come giudice della storia e liberatore degli oppressi. Non tardare. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 27 novembre 2024

Fermati 1 minuto. L'occasione della testimonianza

Lettura

Luca 21,12-19

12 Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. 13 Questo vi darà occasione di render testimonianza. 14 Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15 io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. 16 Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; 17 sarete odiati da tutti per causa del mio nome. 18 Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. 19 Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime.

Commento

Gli ultimi tempi saranno un periodo di persecuzione per i credenti; ma non dobbiamo pensare a un momento lontano nella storia. Sono proprio quelli che viviamo: tutto l'arco temporale che separa l'instaurazione della Chiesa dalla seconda venuta del Signore. 

"Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me" (Gv 15,18). Vi è una potenza nel mondo avversa al vangelo, una forma di resistenza alla penetrazione del suo messaggio. Ma lungi dal far soccombere i cristiani, diventa per essi occasione di testimonianza (v. 13), di martyrion

Non si tratta qui solo della morte cruenta, ma di una intera vita che si lascia guidare dalla fede, in mezzo alle avversità, all'ostilità degli increduli e alla possibilità della solitudine nell'esperienza del tradimento da parte degli affetti più cari. 

Una tale prova può essere affrontata solo non confidando in se stessi, nelle proprie capacità e nei propri  meriti, ma abbandonandosi fiduciosamente a Dio e allo Spirito che Cristo ci ha lasciato affinché sia con noi fino alla fine del mondo (Gv 14,16-17). Da lui proviene quella pace che dimora nel più profondo del cuore del credente e che nessuna tribolazione può togliere. Nulla di quel che siamo perirà, ma tutto verrà trasfigurato nella gloria futura.

Preghiera 

Donaci, Signore, la forza della coerenza nella fede; affinché possiamo testimoniare con coraggio il tuo Nome, fino all'incontro con te nella gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 26 novembre 2024

Fermati 1 minuto. La fine e il fine della storia

Lettura

Luca 21,5-11

5 Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse: 6 «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». 7 Gli domandarono: «Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?». 8 Rispose: «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli. 9 Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine». 10 Poi disse loro: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, 11 e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo.

Commento

Comincia con questi versetti del Vangelo di Luca il discorso di Gesù sugli ultimi tempi (discorso escatologico). Gli avvenimenti narrati riguardano la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, ma sono di insegnamento anche per la Chiesa, su come dovrà attendere il ritorno di Cristo. 

Israele non ha accolto il messaggio di liberazione spirituale predicato da Gesù e perderà per sempre la propria libertà e i propri fasti. Questo è il rischio che corriamo anche noi se non lasciamo che il vangelo ci liberi dalla "nostalgia" del tempio e dai falsi profeti. 

La nostalgia del tempio è propria di una religiosità che pensa di poter racchiudere Dio dentro la maestosità degli edifici di culto e nell'apparente solidità dell'istituzione clericale. Si tratta di un atteggiamento che spegne lo spirito di profezia, la capacità della fede di essere lievito nel mondo. 

I falsi profeti, per contro, traggono il pretesto dagli eventi dolorosi che attraversano ciclicamente la vita su questa terra per annunciare l'imminenza della fine, prospettando facili vie di fuga, mediante una religiosità disincarnata e settaria.

Molte sono le tribolazioni che gli uomini di ogni tempo dovranno affrontare, ma "non sarà subito la fine" (v. 9). Le prove che siamo chiamati ad attraversare, individualmente e come comunità, rappresentano l'occasione per testare la nostra perseveranza e la nostra solidarietà con gli uomini, nell'attesa di quel fine ultimo della storia in cui Cristo ci attende.

Preghiera

Signore, che attraverso gli avvenimenti della storia ci guidi verso la liberazione e la risurrezione, aiutaci ad attenderti con speranza e operosità. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 25 novembre 2024

Fermati 1 minuto. Tutto quel che abbiamo. Tutto quel che siamo

Lettura

Luca 21,1-4

1 Alzati gli occhi, vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. 2 Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli 3 e disse: «In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. 4 Tutti costoro, infatti, han deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere».

Commento

Gesù alza gli occhi (v. 1) e il suo sguardo vede oltre le apparenze esteriori. Poco prima aveva osservato alcuni ricchi pavoneggiarsi nel fare le proprie offerte al tempio, ora scorge una povera vedova tra la folla e ne trae un insegnamento per i discepoli.

Più volte Luca, nel suo Vangelo, esalta la povertà e il distacco come un modello di vita cristiana. Qui troviamo l'esempio di una vedova che depone nel tesoro del tempio i pochi spiccioli che possiede: il valore venale è minimo, ma il valore morale è altissimo, perché «ha dato tutto quanto aveva per vivere» (v. 4). Gli "spiccioli" (gr. lepta) in rame, erano le più piccole monete in uso. Da ciò si comprende l'estrema povertà della vedova, evidenziata dal termine greco penichros ("misera"), che è più forte di ptochos (per l'appunto, "povero").

La piccola, silenziosa, offerta della vedova - che avrebbe dovuto essere destinataria della carità più che donatrice - crea un evidente contrasto con la pretenziosità dimostrata poco prima dagli scribi (Lc 20,45-47). Donando tutto ciò che aveva per vivere la donna compie un vero sacrificio, a differenza degli scribi che hanno offerto il superfluo, coltivando il proprio orgoglio. Lungi dal giustificarla, l'offerta della vedova testimonia la sua giustizia davanti a Dio.

La vedova non ha semplicemente "messo più di tutti" (v. 3), ma secondo una traduzione letterale del testo greco "ha gettato tutta la vita (gr. bios) che aveva" portando a pieno compimento il comandamento di amare Dio "con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze" (Lc 10,27). Il gesto della donna ha un senso escatologico: è come se intuisse che sono giunti gli ultimi tempi e non c'è più da preoccuparsi della propria vita. Nel dilagare dell'iniquità e della falsa religiosità il suo gesto di integrità non passa inosservato agli occhi del Figlio di Dio. Il piccolo atto esteriore testimonia un orizzonte interiore totalmente diverso da quello che circonda la vedova e Gesù, che sta per donare la sua vita fino all'estremo della croce, si rispecchia in esso.

Fedeli nelle azioni quotidiane, che spesso passano inosservate, siamo chiamati a mettere tutti noi stessi in tutto quel che facciamo per dare lode a Dio, che per primo è stato generoso con noi, donandoci se stesso. La povera vedova ne era consapevole, perché pur portando pochi spicci nelle proprie tasche custodiva Dio nel proprio cuore.

Preghiera

Aiutaci, Signore, a spogliarci del nostro egoismo e del nostro orgoglio; per fare spazio nel nostro cuore al dono della tua grazia ed essere testimoni della tua bontà in ogni nostra azione quotidiana. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 23 novembre 2024

Colombano. «Bussiamo forte, per entrare in cielo»

Il 23 novembre del 615 si spegne nel monastero di Bobbio, sull'Appennino tosco-emiliano, Colombano, monaco irlandese e pellegrino per Cristo. Ciò che sappiamo di lui è contenuto principalmente nella Vita scritta dal discepolo Giona di Bobbio. Nativo della provincia irlandese di Leinster, Colombano sentì presto la chiamata a lasciare la propria terra, secondo l'esempio di Abramo, caro a tutti i monaci, per porsi in cammino verso la patria dei cieli, sulle tracce di Cristo.
Dopo essersi formato alla vita monastica nel celebre cenobio gallese di Bangor, Colombano proseguì il suo cammino lasciando i paesi celtici assieme a dodici compagni. Arrivato in Bretagna attorno al 590, iniziò a fondare monasteri e a svolgere un'azione missionaria. Uomo di forte personalità e di radicale attaccamento al vangelo, egli si scontrò spesso con i potenti del suo tempo, e fu costretto a più riprese a ripartire per nuove peregrinazioni. Alcune sue fondazioni, in particolare quella di Luxeuil, in Francia, divennero centri importanti dell'irradiamento monastico irlandese in Europa. Colombano fu esiliato da Luxeuil a causa dei suoi aspri rimproveri al re Teodorico, e dopo un tempo trascorso presso il lago di Costanza raggiunse Bobbio, due anni prima della morte. Colombano fu un aperto sostenitore delle tradizioni ecclesiali irlandesi, e non esitò a rivolgersi a Gregorio Magno per esporre le ragioni dei cristiani irlandesi sulla data della Pasqua e sulle nuove discipline penitenziali da loro introdotte in tutta l'Europa. Le sue regole monastiche ebbero una certa diffusione, ma saranno più tardi soppiantate dall'imposizione a tutto l'occidente della Regola di san Benedetto.

Tracce di lettura

È proprio dei pellegrini affrettarsi verso la patria, ed è egualmente loro caratteristica sperimentare la precarietà durante il cammino, la sicurezza invece nella patria. Affrettiamoci dunque verso la patria, noi che siamo viandanti. Dio è così grande che non si può vedere in tutta la sua grandezza. Tuttavia bussiamo forte, soprattutto qui, sia per entrare in cielo da veri familiari, sia per comprendere in modo più chiaro i beni che ci aspettano.
(Colombano, Istruzioni 8,1)

Clemente di Roma e il vincolo della carità

Agli inizi del II secolo muore martire Clemente, secondo la tradizione terzo vescovo di Roma e autore di un'Epistola ai Corinzi, che è uno dei più toccanti testi letterari della cristianità primitiva. Secondo il Liber Pontificalis, Clemente nacque nel I secolo nel quartiere romano di Montecelio. Di lui si sa con certezza che fu vescovo a Roma sotto gli imperatori Galba e Vespasiano, e che, a nome degli anziani della sua chiesa ritenne opportuno intervenire per riportare la concordia nella chiesa di Corinto, lacerata da divisioni riguardanti l'autorità nella comunità cristiana.
Nella sua lettera, con un tono umile e al tempo stesso pieno di sapienza e di parresia evangeliche, Clemente ricorda ai cristiani di Corinto che la via dell'unità e della pace tracciata da Cristo passa per l'umiliazione e la sottomissione reciproca per amore, secondo gli insegnamenti di san Paolo, che costituivano un legame profondo tra i cristiani di Roma e quelli di Corinto. La sua fama di uomo mite ed evangelico crebbe a tal punto che nei secoli successivi fiorirono numerose tradizioni a suo riguardo. Secondo alcune di esse, Clemente morì martire in Crimea, dove fu annegato per ordine dell'autorità romana.

Tracce di lettura

Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L'altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: «La carità copre la moltitudine dei peccati». Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima.
(Clemente di Roma, Epistola ai Corinzi 49)

venerdì 22 novembre 2024

Fermati 1 minuto. La purificazione necessaria

Lettura

Luca 19,45-48

45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: «Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!». 47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.

Commento

Giunto a Gerusalemme Gesù non compie più miracoli e guarigioni ma si dedica all'insegnamento nel tempio, impegnandosi in varie dispute e dando ammaestramenti sulle cose ultime. Ma prima di far risuonare la sua parola svolge un'opera di purificazione, allontanando i venditori. 

La predicazione si svolge tra l'ammirazione del popolo, che "pendeva dalle sue parole" (v. 48) e l'ostilità dei capi politici e religiosi, che saranno i suoi antagonisti nel dramma della passione. 

Anche nel nostro cuore si svolge un commercio con le cose di questo mondo - spesso ridotte a beni di scambio - e si manifestano reazioni contrastanti alle parole del vangelo. Ma il Signore viene a purificarlo, a volte in maniera veemente, ma sempre per amore del suo luogo santo, creato a immagine e somiglianza di Dio.

Non fare del Tempio una "spelonca di ladri" significa anche recarsi in esso senza la presunzione di avere diritto a ottenere qualcosa da Dio, piegandolo alla nostra volontà spesso prigioniera di dinamiche del tutto umane. Gesù ci invita a rivolgerci a lui per trovare nella relazione con lui il senso di ogni cosa, che si esprime in un amore gratuito e sovrabbondante.

Preghiera

Crea in noi Signore un cuore puro; affinché possiamo adorarti in spirito e verità, mettendoci in ascolto della tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 21 novembre 2024

Fermati 1 minuto. L'assedio del cuore

Lettura

Luca 19,41-44

41 Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: 42 «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. 43 Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; 44 abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

Commento

Gesù sta scendendo dal Monte degli ulivi verso Gerusalemme e ammirando la città e il suo Tempio proprompe in pianto. Il verbo greco qui utlizzato da Luca - klaio - è diverso da quello impiegato per descrivere il pianto di fronte alla tomba di Lazzaro - dakryo. Non si tratta semplicemente di commozione, ma di un vero lamento profetico. 

Non accettando colui che porta la pace, Gerusalemme non potrà trovar pace e sarà vittima di devastazioni di ogni genere. Eppure Gesù sarà di lì a poco accolto in modo trionfale nel suo ingresso in città. Ma egli scorge la superficialità dei cuori delle folle e il rinnegamento che si consumerà nelle ore della passione. 

Gerusalemme sarà distrutta nel 70 d.C. da Tito Flavio Vespasiano, durante la prima rivolta giudaica. La città, dopo un lungo assedio, verrà passata a fil di spada e rasa al suolo; anche il Tempio, in cui confidava, come luogo della presenza di Dio, che avrebbe assicurato la sua protezione, sarà distrutto. 

Le parole di Gesù non sono solo una triste testimonianza delle tragiche conseguenze per Gerusalemme per averlo respinto come Cristo. Anche noi siamo chiamati a riconoscere il tempo in cui viene a visitarci la grazia di Dio, colui che è venuto a "dirigere i nostri passi sulla via della pace" (Lc 1,79); il solo che può garantire la tregua ai nostri cuori, cinti d'assedio dai turbamenti interiori e dalle potenze di questo mondo.

Preghiera

Signore, donaci la pace non come la dà il mondo, ma come la dà il tuo Spirito; affinché possiamo restarti fedeli in ogni tribolazione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 20 novembre 2024

Fermati 1 minuto. Un Dio che dà fiducia

Lettura

Luca 19,11-28

11 Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro. 12 Disse dunque: «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14 Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. 19 Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città. 20 Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21 avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: 23 perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi. 24 Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci 25 Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! 26 Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 27 E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me». 28 Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.

Commento

Gesù sta per intraprendere la lunga salita che da Gerico lo condurrà a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua. Le aspettative dei suoi discepoli sono grandi. Pensano infatti che il suo regno debba manifestarsi "da un momento all'altro" (v. 11). Non immaginano il sacrificio che sta per compiersi. 

Ma Gesù narra una parabola che per immagini ci svela quanto sta per affidare a ogni suo discepolo. Un uomo nobile parte per "un paese lontano" (v. 12) per essere fatto re. Gesù sta per morire e ascenderà al Padre dopo la sua risurrezione. Il suo regno non si manifesterà immediatamente, ma vi sarà un "tempo di mezzo", qui rappresentato dall'affidamento di dieci mine (una moneta dell'antica grecia), da parte del nobile uomo a dieci suoi servitori, una per ciascuno. In questo tempo si manifesterà la ribellione di molti, nel rifiuto di essere governati dal nuovo re. 

Gesù prende spunto probabilmente da un fatto storico: dopo la morte di Erode il Grande il figlio Archelao si recò a Roma per ricevere il titolo di re. Ma una ambasciata di giudei si presentò a Cesare Augusto per opporsi alla richiesta. Divenne comunque governatore della Gudea, per quanto non gli fu conferito il titolo di re. 

Il protagonista della parabola ottiene il titolo di re e al suo ritorno chiede conto ai suoi servitori di come hanno impiegato le mine affidate. Viene portato l'esempio di tre diversi tipi di condotta. Un primo servo ha ricavato dalla sua mina altre dieci mine; il secondo altre cinque; mentre il terzo, anziché fare fruttare la mina affidatagli l'ha nascosta in un fazzoletto, rendendola improduttiva. 

La ricompensa per i servi operosi è incomparabile con quanto loro affidato: una mina corrispondeva a circa tre mesi di lavoro e per ciascuna mina fatta fruttare il re affida ai suoi servi una intera città. Il terzo servo considera il suo padrone come una sorta di avido tiranno e sarà proprio questa sua idea distorta a condannarlo. 

Il padrone è certo severo ma ha affidato a ogni servo la stessa somma di denaro. Cristo non fa differenze nel dare fiducia. Spetta a noi agire con gratitudine e responsabilmente, non restando oziosi in attesa del suo ritorno, né lasciandoci paralizzare dalla paura del suo giudizio. La fedeltà al Signore ci renderà operosi nell'annunciare il suo vangelo e nel moltiplicare la sua stessa grazia.

Preghiera

Signore, concedici di accogliere responsabilmente la fiducia che ci hai accordato, agendo come buoni amministratori della tua grazia, nell'attesa del tuo ritorno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 19 novembre 2024

Fermati 1 minuto. In fretta e con gioia

Lettura

Luca 19,1-10

1 Entrato in Gerico, attraversava la città. 2 Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. 5 Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». 6 In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore!». 8 Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9 Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; 10 il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Commento

Gesù, che aveva da poco rammentato quanto sia difficile per un ricco entrare nel regno dei cieli (Lc 18,24), passa lungo le vie di Gerico, non su un carro come i principi di questo mondo, ma a piedi, perso tra la folla. Zaccheo, che ha sentito parlare dei suoi miracoli e della sua predicazione, desidera anche solo vederlo, ma per la sua bassa statura è costretto a salire su un sicomoro; posizione di certo non degna del suo rango - un capo dei pubblicani (v. 2) -, ma che attesta una grande curiosità. 

La curiosità si trasforma in opportunità di salvezza quando Gesù chiama Zaccheo per nome - perché conosce personalmente coloro che salva - e "si invita" a casa sua. Quella di Gesù non è una richiesta ma l'espressione di un preciso mandato: "Oggi devo fermarmi a casa tua" (v. 5). 

Zaccheo è odiato sia dall'élite religiosa che dalla gente comune, per il suo ruolo di capo degli esattori delle tasse per conto dell'occupante romano. Per questo mormorano di fronte alla decisione di Gesù di condividere con lui qualcosa di intimo come il pasto. 

Zacchero riceve Gesù in casa sua "in fretta" e "pieno di gioia" (v. 6). Decide di risarcire coloro ai quali ha estorto denaro, ma tale decisione è il frutto, non la condizione, della sua conversione. Egli dona la metà dei suoi beni ai poveri non per comprarsi la salvezza, ma perché il suo cuore è stato convertito dalla misericordia di Dio.

Il Signore si aspetta di trovarci pronti a riceverlo con gioia quando ci chiama per portare "nella nostra casa" il dono della grazia.

Preghiera

Non considerare Signore, la bassa statura della nostra anima, ma l'altezza della tua misericordia; affinchè possiamo accoglierti con gioia come nostro personale salvatore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Matilde di Magdeburgo. Oltre le tradizionali forme di vita religiosa

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Matilde di Magdeburgo (ca 1208-1283), beghina.

Il monastero di Helfta fu nel XIII secolo un luogo di alta spiritualità e un ritrovo di grandi mistiche che trovavano alimento nella ruminazione quotidiana delle Scritture. Molte di loro non erano monache tradizionali, ma beghine rifugiatesi in monastero per le persecuzioni attuate contro il beghinaggio da parte soprattutto dei frati domenicani. Fra le beghine giunte a Helfta, la più celebre fu senz'altro Matilde di Magdeburgo. Poco si sa della sua vita. Nata intorno al 1208 nella diocesi di Magdeburgo, appartenente a una famiglia nobile, Matilde decise giovanissima di ritirarsi presso una comunità di beghine, cioè di donne che rifiutavano le tradizionali forme di vita religiosa, ma che desideravano vivere un'intensa vita interiore in piccoli nuclei ai bordi dei villaggi. Per trent'anni Matilde visse una profonda comunione con il Signore nella preghiera; non appena però, su ordine del confessore, si accinse a mettere per iscritto le proprie esperienze, iniziarono per lei i guai, soprattutto perché denunciava con molta franchezza la corruzione del clero di cui spesso era stata testimone. Nel 1261, dopo il sinodo domenicano di Magdeburgo contro le beghine, Matilde si rifugiò a Helfta, dove fu compagna di Matilde di Hackeborn e maestra di Gertrude di Helfta.
Nella pace di quel cenobio e nella compagnia di donne straordinarie, Matilde portò a termine la sua opera letteraria, le Rivelazioni, in cui raffigurava - con immagini tra le più belle della letteratura medievale - lo sprigionarsi della luce divina in un cuore che ha meditato per tutta la vita la parola di Dio. Matilde morì attorno al 1283, completamente cieca, ma con una vivida luce negli occhi del cuore. La data odierna è quella in cui Matilde è ricordata dalla Chiesa d'Inghilterra, lo stesso giorno in cui nel Calendario monastico si fa memoria di Matilde di Hackeborn.


I beghinaggi

Tra l’XI e il XIV secolo sorse in Europa, nelle Fiandre, un grande movimento di rinnovamento spirituale, con le donne come protagoniste. Questo  movimento spirituale di donne di ogni estrazione sociale, fu ispirato dal desiderio di condurre una vita di intensa spiritualità fuori dai monasteri, vivendo nella propria casa e nella propria città. Queste autentiche “donne di preghiera e carità”, anche per aiutarsi l’un l’altra, si stabilirono in case vicine formando piccole comunità in piccoli quartieri chiamati “beghinaggi” ai margini delle città e dei villaggi. Il primo di questi “beghinaggi” comparve a Liegi su iniziativa del presbitero Lambert la Bègue, che cercò di organizzarle in comunità, da cui il nome di “beghine”. Le beghine hanno incarnato una delle esperienze di vita femminile più libere della storia. Laiche e religiose al tempo stesso, esse cercarono forme di vita che permettesse loro di conciliare una doppia esigenza: quella di una vita monastica e quella di cristiane che vivono nel mondo, ai margini della struttura ecclesiastica.

Le beghine non erano delle suore, non prendevano infatti i voti e potevano ritornare alla vita normale in qualsiasi momento: vivevano in castità e spesso dedite alla carità, un po' come delle converse, cioè delle suore laiche. Inoltre non chiedevano l'elemosina (da cui si capisce che è errata l'etimologia da beg begard), ma mantenevano le loro proprietà originarie, se ne avevano, oppure, se necessario, lavoravano, per esempio filando la lana o tessendo.
La prima donna ad essere identificata come beghina fu la mistica Maria di Oignies, che influenzò il cardinale Jacques di Vitry (1160-1240), protettore del movimento, di cui Vitry ottenne il riconoscimento, purtroppo solo a parole, da Papa Onorio III (1216-1227) nel 1216.
Successivamente, i beginaggi divennero delle vere e proprie comunità, orientate alla cura dei malati e all'aiuto di donne sole, non accettate dai conventi. Ci furono beghinaggi, forti anche di migliaia di beghine (come a Ghent), in tutte le città e paesi del Belgio e dell'Olanda, dove, nonostante le vicissitudini storiche (furono per esempio aboliti durante la Rivoluzione Francese), esistono oggigiorno, dopo ben sette secoli, ancora 11 comunità in Belgio e 2 in Olanda.

Beghinaggio fiammingo di Bruges

Ci fu anche una forma maschile di beghinaggio, che ebbe minore diffusione rispetto alla controparte femminile e fu denominata (con un connotato negativo in senso eretico) begardi.
In Italia furono denominati anche bizzocchi o pinzocheri o beghini, condussero spesso una vita da predicatori erranti (molto diffusa nel Medioevo) e furono molto impegnati nel denunciare il nicolaismo (l'abitudine dei religiosi di vivere in concubinato con donne) e la corruzione del clero, propendendo per una vita apostolica e povera, come quella di Gesù e dei primi Apostoli.
Su questi punti in comune si allearono spesso con i Francescani spirituali nel combattere il comune nemico Papa Giovanni XXII (1316-1334), che contro di loro scatenò il famoso (o meglio famigerato) inquisitore Bernardo Gui (1261-1331).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 18 novembre 2024

Fermati 1 minuto. Il Signore passa

Lettura

Luca 18,35-43

35 Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. 36 Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 37 Gli risposero: «Passa Gesù il Nazareno!». 38 Allora incominciò a gridare: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». 39 Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 40 Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: 41 «Che vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io riabbia la vista». 42 E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». 43 Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio.

Commento

La guarigione del cieco segue immediatamente il terzo annuncio della passione da parte di Gesù  e forse è posta in relazione simbolica con l'incapacità dei discepoli di comprendere il suo destino terreno fino al momento della risurrezione, quando saranno in grado di vedere ciò che prima non vedevano. 

La menomazione fisica del cieco lo costringe a una vita di stenti e a mendicare lungo la strada, proprio come la cecità spirituale tiene lontano l'uomo dalle ricchezze del regno di Dio.

Ma lungo la strada in cui giace il cieco si trova a passare Gesù. Impossibilitato a vedere, l'uomo fa propri gli occhi della folla e l'annuncio dell'arrivo di Gesù gli giunge attraverso l'udito. Proclama così con la lingua la sua professione di fede: "Figlio di Davide!". Egli riconosce in Gesù il Messia promesso e a nulla valgono i tentativi di dissuasione per farlo tacere, da parte di "quelli che camminavano avanti" (v. 39). 

Gesù stesso lo chiama a sé. Così da "ultimo" diviene primo, destinatario della misericordia del Signore. La sua guarigione lo trasforma in testimone e annunciatore della gloria di Dio, e egli inizia a seguire Gesù.

Tutti noi abbiamo delle debolezze, difettiamo di qualcosa, ma vi è in noi anche la capacità di arrivare a Cristo "per altre strade", oltrepassando gli ostacoli con uno slancio di fede. Egli non solo si lascia raggiungere, ma ci raggiunge in prima persona, ascoltando il grido della nostra preghiera. Il Signore passa. Siamo in grado di riconoscerlo?

Preghiera

Concedici di trovarti, Signore, oltre il buio della nostra umana fragilità. La luce della tua risurrezione ci guidi alla piena comprensione del tuo mistero di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 17 novembre 2024

Susciterò a Davide un germoglio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA PRECEDENTE L’AVVENTO

Colletta

Risveglia, ti supplichiamo Signore, la volontà dei tuoi fedeli, affinché essi coltivando i frutti delle opere buone, possano essere da te ricompensati in pienezza. Per Cristo nostro Signore. Amen

Letture

Gr 23,5-8; Mt 9,18-26

Commento

"I giorni vengono" (Gr 23,5), non "i giorni verranno": si tratta di una realtà già in atto nel tempo in cui Geremia profetizza, e di una realtà che si adempie ed è ancora in divenire oggi. Con l'avvento di Cristo, e con la sua morte e risurrezione, la salvezza giunge a compimento, estendendosi oltre i confini di Israele, ma i frutti di questo "germoglio giusto", si dispiegheranno nella storia fino al suo ritorno glorioso.

Se ai tempi del profeta Geremia la salvezza indicava la liberazione di Israele dalla cattività babilonese e la ricostruzione del Tempio, nella prospettiva neotestamentaria questo evento storico diviene prefigurazione della liberazione dal peccato e dalle sue conseguenze, aperta ora a tutti i popoli. Il tempio che Cristo viene a costruire è egli stesso: "Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!" (Gv 2,19) e "l'ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre" (Gv 4,21).

Il tempio che Gesù viene a costruire è la sua Chiesa, non come istituzione, ma come Corpo mistico in cui lo Spirito vivifica ogni membro e restaura in noi l'uomo in comunione con Dio.
Ecco perchè questo re, discendenza di Davide, sarà chiamato "l'Eterno, nostra giustizia". Il tempio che ricostruisce è l'uomo, giustificandolo dal peccato e rendendolo capace di ricevere lo Spirito santificante.

L'unica condizione richiesta per accedere a questo è la fede. E il Vangelo ci offre grandi esempi di fede. Quello del capo della Sinagoga è davvero tra i più forti, perché quest'uomo crede l'incredibile: che Gesù possa esercitare la propria potenza anche sulla morte, risuscitando la figlia appena defunta: "vieni, metti la mano su di lei, ed ella vivrà".

Mentre Gesù si reca a casa del capo della Sinagoga il Vangelo inserisce un racconto nel racconto, una specie di "cameo" che offre un'altro esempio di fede. Una donna, è affetta da dodici anni da una emorragia e pensa di potere ritrovare la propria salute mediante Gesù. Non osa chiedergli nulla, ma tocca il suo mantello, le cui frange rappresentavano i comandamenti della legge. La donna esprime con il proprio gesto una piena fiducia in Gesù come Salvatore e Santo nel quale la legge è portata a compimento e perfezione. Non è l'atto di toccare il mantello in sé che la guarisce, ma la sua fede, come attestato dalle parole di Gesù: "Fatti animo, figliola; la tua fede ti ha salvata".

Gesù giunge a casa del capo della Sinagoga e qui trova, come era tradizione al tempo, diverse persone che intonano lamenti, accompagnati da strumenti musicali. Forse anche infastidito da una maniera scomposta di celebrare il cordoglio per il defunto, ordina a tutti di ritirarsi, dicendo che la fanciulla non è morta ma dorme. In tal modo si attira le derisioni dei presenti, i quali non comprendono che dal punto di vista di Dio, anche ciò che ci spaventa al di sopra di ogni altra cosa, la morte, è una realtà a lui soggetta. 

Gesù "prese la fanciulla per la mano ed ella si alzò". La parola ebraica qui usata e tradotta con il verbo "alzarsi" è la stessa impiegata per indicare la risurrezione di Cristo. Il Signore ci prende per mano, soccorrendo la nostra impotenza, anche laddove la fede è messa alla prova e conducendoci nelle regioni della grazia, la terra promessa fin dai tempi antichi.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 16 novembre 2024

Assidui e concordi nella preghiera. Commento al Salterio - Salmo 30

Lettura

Salmi 30

1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
2 In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso;
per la tua giustizia salvami.
3 Porgi a me l'orecchio,
vieni presto a liberarmi.
Sii per me la rupe che mi accoglie,
la cinta di riparo che mi salva.
4 Tu sei la mia roccia e il mio baluardo,
per il tuo nome dirigi i miei passi.
5 Scioglimi dal laccio che mi hanno teso,
perché sei tu la mia difesa.
6 Mi affido alle tue mani;
tu mi riscatti, Signore, Dio fedele.
7 Tu detesti chi serve idoli falsi,
ma io ho fede nel Signore.
8 Esulterò di gioia per la tua grazia,
perché hai guardato alla mia miseria,
hai conosciuto le mie angosce;
9 non mi hai consegnato nelle mani del nemico,
hai guidato al largo i miei passi.
10 Abbi pietà di me, Signore, sono nell'affanno;
per il pianto si struggono i miei occhi,
la mia anima e le mie viscere.
11 Si consuma nel dolore la mia vita,
i miei anni passano nel gemito;
inaridisce per la pena il mio vigore,
si dissolvono tutte le mie ossa.
12 Sono l'obbrobrio dei miei nemici,
il disgusto dei miei vicini,
l'orrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
13 Sono caduto in oblio come un morto,
sono divenuto un rifiuto.
14 Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.
15 Ma io confido in te, Signore;
dico: «Tu sei il mio Dio,
16 nelle tue mani sono i miei giorni».
Liberami dalla mano dei miei nemici,
dalla stretta dei miei persecutori:
17 fa' splendere il tuo volto sul tuo servo,
salvami per la tua misericordia.
18 Signore, ch'io non resti confuso, perché ti ho invocato;
siano confusi gli empi, tacciano negli inferi.
19 Fa' tacere le labbra di menzogna,
che dicono insolenze contro il giusto
con orgoglio e disprezzo.
20 Quanto è grande la tua bontà, Signore!
La riservi per coloro che ti temono,
ne ricolmi chi in te si rifugia
davanti agli occhi di tutti.
21 Tu li nascondi al riparo del tuo volto,
lontano dagli intrighi degli uomini;
li metti al sicuro nella tua tenda,
lontano dalla rissa delle lingue.
22 Benedetto il Signore,
che ha fatto per me meraviglie di grazia
in una fortezza inaccessibile.
23 Io dicevo nel mio sgomento:
«Sono escluso dalla tua presenza».
Tu invece hai ascoltato la voce della mia preghiera
quando a te gridavo aiuto.
24 Amate il Signore, voi tutti suoi santi;
il Signore protegge i suoi fedeli
e ripaga oltre misura l'orgoglioso.
25 Siate forti, riprendete coraggio,
o voi tutti che sperate nel Signore.

Commento

Il Salmo 30 fonde insieme generi differenti: supplica, fiducia, ringraziamento, ma l'atteggiamento fondamentale dell'autore è quello caratteristico dei chasidim, i "fedeli", "pii", che si impegnano in una vita giusta per rispondere alla fedeltà amorosa di Dio.

L'orante rappresenta la fedeltà di Dio attraverso alcune formulazioni arcaiche della fede biblica: la roccia, il baluardo, la cinta di riparo (vv. 3-4). Al versetto 4 si allude anche al Signore come pastore, che dirige i passi del salmista. La fragilità dell'uomo invece è ben rappresentata dalle ossa che si dissolvono (v. 11).

L'abbandono fiducioso nelle mani di Dio è espresso dai versetti 2-9, che potrebbero alludere anche all'asilo nel tempio, sotto la protezione del Signore.

Il versetto 6 del Salmo risuona nelle parole di Gesù prima di morire: «Nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46) e in quelle di Stefano, primo martire cristiano (At 7,59). Il prendere rifugio nel Signore è motivo introduttivo ricorrente nei Salmi (cfr. 7,2; 11,1; 16,1; 70,1).

Nei versetti 10-19 troviamo invece una lamentazione sul male di vivere, sulla morte fisica e su quella morale, anche se non viene meno la fiducia nel Signore, a cui si rivolgono invocazioni molto intense.
Il versetto 11, tradotto a partire dalla versione greca dei Settanta con "inaridisce per la pena il mio vigore" può essere reso più fedelmente all'originale ebraico con "nella mia iniquità...", esprimendo meglio il nesso tra il peccato e la sofferenza.
Il salmista, nel suo sentirsi abbandonato, si paragona a "un rifiuto" (v. 13), alcune tradizioni riportano "un vaso rotto", ossia senza più valore e scartato da tutti. Ma dal versetto 15 si apre uno scorcio di speranza, con il riconoscimento che tutti gli eventi della vita sono stabiliti e regolati dal volere di Dio: "nelle tue mani sono i miei giorni" (v. 16). Il volto splendente del Signore, ricercato dal salmista, è segno della sua benedizione (cfr. Sal 4,7; 66,2). L'espressione richiama anche la formula di benedizione comunicata da Dio a Mosé affinché fosse consegnata ad Aronne e ai suoi figli per benedire Israele: «Il Signore faccia risplendere le sua faccia verso te, e ti sia propizio» (Nm 6,25).

L'ultima parte, composta dai versetti 20-25, approda alla gioia del ringraziamento, aperto da una esclamazione entusiastica: «Quanto è grande la tua bontà, Signore» e concluso da un appello rivolto ai "santi" (chasidim) del Signore: «Amate il Signore voi tutti suoi santi… Siate forti, riprendete coraggio, o voi tutti che sperate nel Signore». I benefici dell'intervento di Dio si estendono così dal salmista a tutti coloro che onorano Dio e lo invocano.

Le angustie descritte dal salmista diventano vangelo e ci parlano del Cristo paziente. Le suppliche sono quelle del Getsemani e del Calvario, che riecheggiano di giorno in giorno attraverso il cuore dolorante della Chiesa in cammino. La gratitudine erompente nella parte conclusiva è quella del Risorto, che si rivolge personalmente a ciascuno di noi, esortandoci a essere forti, coraggiosi, animati dalla speranza nel Signore (v. 25; cfr. Gv 16,33: «abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!»).

Il Salmo 30 ci insegna a fare del grido a Dio non un atto di disperazione, ma un'esperienza di fiducia che si apre alla certezza della sua presenza e del suo amore.

- Rev. Dr. Luca Vona

Dizionario della Musica Anglicana. Henry Cooke

Henry Cooke (1616–1672) è stato un importante compositore, cantante e maestro di coro inglese attivo durante il periodo della Restaurazione. Nato probabilmente a Londra, iniziò la sua carriera come corista nella Cappella Reale sotto Carlo I. Durante la Guerra Civile Inglese (1642-1651), Cooke prestò servizio come soldato nelle forze realiste, interrompendo temporaneamente la sua attività musicale.

Con la restaurazione della monarchia nel 1660, Carlo II lo nominò Master of the Children of the Chapel Royal, incaricandolo di ricostruire il celebre coro della cappella reale, che aveva subito gravi danni durante il periodo del Commonwealth. In questo ruolo, Cooke formò e ispirò alcuni dei più grandi musicisti dell'epoca, tra cui Henry Purcell e Pelham Humfrey.

Come compositore, Henry Cooke contribuì principalmente alla musica sacra e al repertorio liturgico, creando inni e pezzi corali che riflettevano il gusto e le esigenze cerimoniali della Restaurazione. Morì nel 1672, lasciando un'importante eredità come insegnante e promotore della rinascita musicale inglese.

Alcune sue composizioni rappresentative sono:

"O Lord, Thou Hast Searched Me Out" - Un anthem sacro, tipico del repertorio della Cappella Reale, che mostra la maestria di Cooke nell'adattare lo stile corale ai nuovi gusti della Restaurazione.

"Now Let Us Sing" - Un esempio di musica liturgica semplice ma efficace, progettata per le funzioni religiose alla corte di Carlo II.

"Hear My Prayer, O Lord" - Un altro anthem che riflette l’influenza dei maestri inglesi precedenti, come Orlando Gibbons, combinata con elementi innovativi introdotti durante la Restaurazione.

Gertrude di Helfta e l'equilibrio interiore

La Chiesa cattolica fa oggi memoria di Gertrude, monaca del monastero di Helfta, in Sassonia. Entrata a soli cinque anni in monastero, Gertrude fu educata da maestre spirituali di grande valore, come Matilde di Hackeborn e Matilde di Magdeburgo. Alla loro scuola essa acquisì una profonda dimestichezza con tutte le dimensioni della vita interiore: lo studio, la lettura orante delle Scritture e la preghiera personale. Il suo più vivo desiderio divenne presto quello di poter accedere nel profondo del cuore per dimorarvi e incontrare Dio, il quale mediante lo Spirito si rende presente al credente nel Cristo misericordioso e amante. Grazie alla grande cultura e all'equilibrio interiore che aveva acquisito, Gertrude seppe mettere a frutto i suoi molti doni spirituali, evitando gli eccessi e le deviazioni in cui incorreranno altre mistiche dei secoli successivi. Dalle sue esperienze spirituali, infatti, messe per iscritto in parte da lei stessa e in parte da una consorella, trapela una dottrina profondamente sobria e biblica. Ritenuta in modo improprio un esempio di «cristocentrismo assoluto» nella vita spirituale, Gertrude fu in realtà una delle grandi cantrici dell'azione della Trinità divina nel cuore dei credenti e nella comunità ecclesiale. Gertrude morì il 17 novembre del 1301 o 1302, ed è spesso raffigurata con un libro in mano, in atteggiamento orante, vestita da monaca cistercense, anche se il monastero di Helfta non appartenne probabilmente a nessuna delle grandi congregazioni del tempo.

Tracce di lettura

O amore, tu sei, nella santa Trinità, il dolcissimo bacio che unisce in modo così stretto il Padre al Figlio. Tu sei quel bacio di salvezza che la maestà divina ha impresso sulla nostra umanità mediante il Figlio. O dolcissimo bacio, fa' che questo piccolo granello di polvere non sia dimenticato dai tuoi legami: che io non sia privata del tuo contatto e della tua stretta, fino a divenire un solo spirito con Dio. Fammi sperimentare per davvero come sia delizioso abbracciare te, il Dio vivente, amore mio dolcissimo, dimorando in te, a te essere unita. O Dio amore, tu sei quanto di più caro io possieda; all'infuori di te, nel cielo come in terra, io non spero nulla, nulla voglio e nulla abita i miei desideri. Tu sei la mia vera eredità e ogni mia attesa, verso di te tende il mio fine e la mia intenzione.
(Gertrude di Hefta, Esercizio quinto)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Gertrude di Helfta (1256-1301/2)

venerdì 15 novembre 2024

Fermati 1 minuto. Non importa dove. Non importa quando

Lettura

Luca 17,26-37

26 Come avvenne al tempo di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell'uomo: 27 mangiavano, bevevano, si ammogliavano e si maritavano, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e li fece perire tutti. 28 Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; 29 ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. 30 Così sarà nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si rivelerà. 31 In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. 32 Ricordatevi della moglie di Lot. 33 Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà. 34 Vi dico: in quella notte due si troveranno in un letto: l'uno verrà preso e l'altro lasciato; 35 due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l'una verrà presa e l'altra lasciata». [36 Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l'altro lasciato.]  37 Allora i discepoli gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi».

Commento

Diversamente da Matteo e Marco che riferiscono questi detti in riferimento alla distruzione di Gerusalemme, Luca li adatta ai suoi lettori, prevalentemente pagani, sottolineando la necessità del distacco dai beni terreni in vista della salvezza eterna.

Niente di ciò che Gesù cita riguardo ai giorni di Noè e di Lot è intrinsecamente peccaminoso. Ma le persone risultano così assorbite dalle cose di questo mondo che sono trovate totalmente impreparate quando viene il momento del giudizio.

L'attaccamento della moglie di Lot a Sodoma è così grande che viene travolta dal giudizio di Dio, proprio quando è a un passo dalla salvezza.

Gesù non indica una scadenza temporale né un luogo in cui avverrà il giudizio. Ma esorta a tenersi sempre pronti, facendo della propria vita un dono. Questo il significato del verbo greco zoogoneo, che indica il "conservare in vita" (v. 33), "far vivere"; una vita che non solo si fruisce e detiene per sé ma che può essere donata agli altri; il detto di Gesù va dunque interpretato nell'ottica di sacrificare la propria vita se la si vuole conservare. 

Una prospettiva esistenziale del tutto diversa da quella di chi si preoccupa solo dei propri affari. Questo è il tratto distintivo del cristiano. Quel "marchio" che consentirà all'occhio di Dio di distinguere chiaramente i suo figli, chiamati alla vita eterna. Non importa dove. Non importa quando. Con Paolo possiamo esclamare: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (2 Cor 6,2).

Preghiera

Il tuo ritorno, Signore, ci trovi all'opera nella tua vigna. Insegnaci a comprendere le giuste priorità della nostra vita e a fare di essa un dono per la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Alberto Magno. Lo studio come culto della verità

La Chiesa Cattolica d'Occidente e la Chiesa Luterana celebrano oggi la memoria di Alberto Magno, "Doctor universalis".

Alberto nacque nel 1193 a Launigen, sul Danubio, in Diocesi di Augusta, da famiglia militare al servizio di Federico II. 
Venuto in Italia per compiere gli studi, fu prima a Bologna, poi a Venezia, infine a Padova dove conobbe Giordano di Sassonia, Maestro Generale dell'Ordine dei Predicatori (Frati Domenicani) e immediato successore del Patriarca Domenico di Guzmán. Contro la volontà dei genitori decise di entrare nell'Ordine (probabilmente nel 1223).
Ritornato in Germania, nel 1228, lo troviamo, appena terminato il corso filosofico e teologico, docente a Colonia. Iniziano le tappe del suo insegnamento: Hildeshein, Friburgo, Ratisbona, Strasburgo; maestro di teologia (1244) a Parigi, dove tenne per quattro anni la cattedra all'Università, fino a quando fu destinato a Colonia, per fondarvi uno Studio Generale, di cui assunse la direzione (1248-1252). Qui ebbe un allievo d'eccezione: Tommaso d'Aquino.
Nel 1274 partecipa al Concilio di Lione. Muore il 15 novembre 1280 nella sua amatissima Colonia. La sua salma riposa nella chiesa parrocchiale di Sant'Andrea a Colonia. 
Dell'ideale domenicano Alberto rappresenta forse, insieme a Tommaso d'Aquino, la personificazione più completa. In lui è l'ansia di affrontare e prevenire l'errore, lo sforzo geniale per unificare in sintesi armonica tutto lo scibile e di assimilare le conquiste del pensiero pagano. Lo studio è da lui concepito come culto della Verità, come pratica ascetica, come perfezione umana: esso gli consente quella visione sapienziale della realtà che affiora ad ogni pagina della sua immensa opera scientifica, filosofica e teologica (di qui il titolo di Doctor universalis). 
Insieme a quattro confratelli Alberto redige la magna charta degli studi dell'Ordine e la sua scuola sarà la scaturigine di due filoni auriferi: da un lato la corrente mistica agostiniana, con Ulrico di Strasburgo, Maister Eckhart, Johannes Tauler, Heinrich Seuse e gli Amici di Dio (Gottesfreunde), dall'altro la corrente aristotelico-tomista, con Tommaso d'Aquino.

Tracce di lettura

"Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi; la mia eredità è magnifica" (Sal 15,6). "Disse il Signore ad Aronne... Sono io la tua parte, la tua eredità in mezzo ai figli di Israele" (Nm 18,20). "Sara, moglie del mio padrone, nella sua vecchiaia ha partorito al mio padrone un figlio a cui egli ha dato tutto quello che possiede" (Gn 24,36). Sara, che si interpreta "principessa" è la Chiesa: figlio dell'eterno gaudio, fiore ed erede è colui che per mezzo della Chiesa Dio Padre genera senza meriti nella tarda età degli ultimi tempi. A lui anche dà in eredità tutto ciò che ha sempre avuto, perché dando se stesso dona tutto ciò che è suo. Dio stesso non si vergogna di chiamarsi loro Dio (Eb 11,6). "Il Signore è la mia porzione, ha detto l'anima mia, per questo lo aspetterò" (Lam 3,24). In coloro che il Sommo Padre genera per grazia, questi sono gli inizi del suo agire paterno. (Alberto Magno, Commenti sul Vangelo di San Matteo)

Alberto Magno (1193-1280)