Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

giovedì 29 febbraio 2024

Giovanni Cassiano e il monachesimo tra Oriente e Occidente

Le chiese ortodosse ricordano oggi Giovanni Cassiano, monaco e trasmettitore della vita monastica dal deserto egiziano all'occidente cristiano.
Nato intorno al 360, probabilmente alla foce del Danubio, dopo aver ricevuto un'educazione classica Giovanni intraprese un viaggio in oriente, assieme all'amico Germano, per conoscere la vita dei monaci in quelle terre. Egli soggiornò a Betlemme e per due volte percorse i deserti egiziani della Tebaide, dove dimorò per diversi anni. I suoi ricordi e le conversazioni sulla vita monastica avute con i padri del deserto daranno più tardi origine ai libri delle Conferenze spirituali e delle Istituzioni cenobitiche nei quali cercò di riproporre la spiritualità del monachesimo egiziano, riformandola in modalità comprensibili per l'Occidente cristiano. Benedetto nella sua regola rimanda a queste opere chi desidera progredire nel cammino monastico.
Verso il 399, Cassiano si recò a Costantinopoli presso Giovanni Crisostomo e, nel 404, dopo che quest'ultimo fu condannato all'esilio, visse dapprima a Roma e poi in Gallia. Fondato a Marsiglia nel 415 il monastero di San Vittore, egli vi rimase fino alla morte, avvenuta verso il 435, guidando i suoi monaci e componendo le sue opere di spiritualità monastica.

Tracce di lettura

La Scrittura chiama la nostra libertà a diversi gradi di maturità nella fede.
E' vero, essa loda coloro che temono Dio, e promette loro di poter giungere per mezzo del timore a una beatitudine perfetta. Tuttavia, essa dice anche: «Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore; perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore».
Chi avrà posto le proprie fondamenta sulla perfezione di una tale carità, potrà elevarsi a un grado ancor più eccellente e più sublime: il timore dell'amore. Esso non nasce dalla paura del castigo, né dal desiderio della ricompensa, ma dalla grandezza stessa dell'amore. E' un misto di rispetto e di attenzione affettuosa, come quella che un figlio ha per un padre pieno di misericordia, un fratello per il fratello, un amico per l'amico, la sposa per lo sposo. Un tale timore non sta in apprensione né per i colpi né per i rimproveri che può ricevere. Ciò che esso teme, è soltanto di ferire l'amore anche con la più piccola ferita.
(Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali 11,12-13)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Il povero alla nostra porta

Lettura

Luca 16,19-31

19 C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. 20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 25 Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 26 Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. 27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. 29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

Commento

La parabola del ricco ingordo e del povero Lazzaro è riportata solo nel Vangelo di Luca, che sottolinea in modo particolare l'atteggiamento di Dio nei confronti dei poveri, gli anawin (ebr.), che parlano in molti salmi e che devono essere protetti, secondo la legge mosaica (Es 22,21-24) e la letteratura profetica (Am 5,10-12; Is 1,17; 58,7). 

Il Lazzaro di questa narrazione non è il fratello di Maria e Marta; il suo nome che significa "Dio ha aiutato" (ebr. Eleazar) è rappresentativo del suo destino ultraterreno. Il ricco rimane invece una figura anonima; forse a sottolineare che la sua fama è caduta nell'oblio dopo la sua morte. 

Le piaghe di cui è coperto il corpo di Lazzaro rendevano certamente il protagonista della parabola odioso all'uditorio di Gesù, composto di farisei; erano infatti considerate impure e segno della riprovazione divina. Il "seno di Abramo" è un semitismo per indicare il luogo di pace in cui le anime dei buoni attendono la risurrezione, partecipando al banchetto celeste. L'inferno, letteralmente nel testo greco l'Ade, rappresenta nell'ambito del Nuovo testamento il luogo in cui dimorano le anime dei malvagi in attesa del giudizio finale; qui sono afflitte dal tormento di un fuoco inestinguibile, che rappresenta l'accusa della coscienza e l'eterna separazione da Dio. 

Il ricco non sembra aver mutato mentalità, rispetto a quando era in vita: si rivolge ad Abramo trattando Lazzaro come un servo. La malvagità dei peccatori impenitenti non è purificata neanche dalle fiamme dell'Inferno. Continua, tuttavia, a chiamare Abramo "padre", proprio come coloro che chiamano Gesù "Signore, Signore" ma non fanno la sua volontà ("Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli"; Mt 7,21). 

Il finale della parabola è un richiamo a non aspettare segni particolari per cambiare vita, ma a far tesoro del messaggio delle Scritture e del tempo che ci è dato per convertirci e fare la volontà di Dio. Neanche le risurrezione di un morto - e come non vedere un riferimento alla risurrezione di Cristo? - sarà in grado di per sé di suscitare la conversione del cuore. Persino i discepoli di Emmaus sarano "sciocchi e tardi di cuore" (Lc 24,25) finché il Risorto non spiegherà loro tutto ciò che nelle Scritture si riferiva a lui. 

Alla luce del racconto di Lazzaro e del ricco ingordo siamo chiamati a interrogarci sul nostro rapporto con i beni di questo mondo. Dobbiamo evitare due estremi: da un lato quello del "vangelo del benessere", secondo il quale la ricchezza sarebbe un segno inequivocabile della benedizione di Dio; dall'altro quello dell'idealismo pauperista, secondo cui la povertà di per sé costituirebbe un pegno di salvezza. Ciò che conta è se siamo in grado di mettere al servizio degli altri le ricchezze di cui disponiamo, amministrandole con generosità; in tal modo diventeranno fonte di benedizione; ma se ci attaccheremo ad esse, fossero pure cose di scarso valore materiale, diventeranno un laccio che ci impedirà di elevare la nostra anima a Dio. 

Siamo dunque chiamati alla condivisione. Non chiudiamo il cuore davanti al povero che sta davanti alla nostra porta, perché in lui si nasconde Cristo, il quale afferma "Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).

Preghiera

Tutto ciò che possediamo, Signore, lo abbiamo ricevuto da te; rendici amministratori saggi e generosi e fa' che possiamo riconoscere il tuo volto nei poveri e negli afflitti. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona



mercoledì 28 febbraio 2024

Martin Bucer. Il riformatore di Strasburgo

Il 28 febbraio 1551 muore esule a Cambridge Martin Bucer, riformatore della chiesa di Strasburgo.
Era nato a Sélestat, in Alsazia, da una famiglia umile. Essendo un giovane con spiccate qualità intellettuali, l'unica via possibile nella sua povertà per poter studiare era entrare in convento, e così avvenne nel 1506, quando Martin fu accolto dai domenicani della sua città natale.
I suoi superiori lo mandarono dieci anni dopo ad affinare la sua conoscenza teologica presso i domenicani di Heidelberg; fu nell'università di quella città che Bucer conobbe Martin Lutero e fu conquistato alla causa riformatrice. Uscito dapprima dall'Ordine, ma rimasto prete secolare, Bucer fu tuttavia scomunicato quando si sposò con Elisabeth Silbereisen. Perseguitato per le sue idee luterane, egli si rifugiò nel 1523 a Strasburgo, dove divenne il principale protagonista della riforma nel capoluogo alsaziano. Nei venticinque anni dedicati alla riforma, Bucer fu un predicatore convinto del ritorno al vangelo in tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Egli organizzò il sinodo locale, grazie al quale tentò poi di creare una rete di piccole «comunità cristiane» confessanti, che dovevano costituire nei suoi intenti le unità evangeliche di base della chiesa, secondo il modello degli Atti degli Apostoli.
Ma Bucer fu anche un sincero uomo di pace. Egli si adoperò in tutti i modi per tenere unite le varie anime della Riforma, per reintegrare gli anabattisti e per giungere a un'intesa con i teologi romani.
La posizione di Bucer riguardo al sacramento dell'eucaristia era simile a quella di Zwingli ma, prevalendo il suo desiderio di mantenere l'unità con i luterani, si impegnò costantemente – specie dopo la morte di Zwingli – nella formulazione di una professione di fede che potesse essere accettata sia dai luterani sia dai riformatori svizzeri e della Germania meridionale. Questi tentativi di conciliazione - che si concretizzarono nella sua partecipazione a molti incontri, fra i quali quello di Basilea del 1536 da cui uscì la prima delle due Confessiones Helveticae - furono all'origine dell'accusa di oscurità che gli venne mossa. Esiliato nel 1549 su ordine di Carlo V, fu felice di accettare l'invito di Cranmer a stabilirsi in Inghilterra. Al suo arrivo, nel 1549, fu nominato regius professor of Divinity all'Università di Cambridge. Egli fu consultato quando si decise di rivedere il Book of Common Prayer (Libro delle preghiere comuni), testo base della comunione anglicana; fondamentale fu il suo contributo, insieme a quello di Pietro Martire Vermigli, per l'edizione del 1552. Bucer terminò la sua vita a Cambridge il 28 febbraio 1551 e fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa dell'Università. Nel 1557 i commissari della regina Maria esumarono e bruciarono il suo corpo e ne demolirono la tomba, che fu poi ripristinata dalla regina Elisabetta I.

Tracce di lettura

Fratelli, per quanto riguarda il primo punto della nostra riforma, cioè la predicazione della parola di Dio, dobbiamo ringraziare incessantemente l'onnipotente ed eterno Dio per la sua immensa grazia e misericordia, perché in questi ultimi tempi egli ha mediante la sua sovrabbondante grazia riacceso in noi a tal punto la luce del suo santo vangelo e ci ha salvati e liberati da errori e idolatrie orrendi e perniciosi. E così anche l'insegnamento è talmente radicato nella parola di Dio che non abbiamo coscienza di alcun errore in nessun articolo di fede, ma abbiamo predicato, sul fondamento della santa Scrittura, secondo le nostre capacità, in modo limpido e chiaro, il puro vangelo, dal momento in cui Dio ci ha portati a questa vera conoscenza.
La questione, tuttavia, non è solo che la parola sia predicata fedelmente, ma soprattutto che la gente orienti la propria vita conformemente ad essa, perché non sono gli uditori della parola, ma i facitori di essa che saranno beati. Cristo stesso dice per questo: «Insegnate loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate»; in altre parole la gente, attraverso una tale predicazione, sia indotta a cambiare vita, a convertirsi a Dio col cuore. (Martin Bucero, Le carenze e i difetti delle chiese 2,1)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose e Enciclopedia Treccani


Fermati 1 minuto. Essere... per...

Lettura

Matteo 20,17-28

17 Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici e lungo la via disse loro: 18 «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte 19 e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà».
20 Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. 21 Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di' che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». 22 Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». 23 Ed egli soggiunse: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio».
24 Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; 25 ma Gesù, chiamatili a sé, disse: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. 26 Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, 27 e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; 28 appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti».

Commento

Dirigendosi verso Gerusalemme per l'ultima volta Gesù intraprende il suo viaggio verso la croce. Per la terza volta parla ai suoi discepoli della sua passione. Pietro, Giacomo e Giovanni lo avevano sentito discutere di essa anche con Mosè ed Elia, durante la trasfigurazione. L'annuncio è una verità dura da comprendere e non viene rivolto alle folle, ma soltanto a coloro che lo seguono da vicino. 

L'incomprensione si fa subito manifesta nella richiesta di Salome, madre dei figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni. Questi desiderano regnare con Cristo, ma ciò comporta l'estremo dono di sé. Il calice di cui parla Gesù è metaforicamente, il destino stabilito da Dio, sia esso di benedizione o di giudizio. Qui si riferisce alla sua passione e alla sua morte. 

Se Giacomo e Giovanni hanno frainteso la missione del Figlio venuto per servire, gli altri discepoli, gelosi della loro richiesta, non sono da meno. Ma i modelli politici del potere temporale non si accordano con le esigenze del regno dei cieli. Volontà di dominio e prevaricazione dovranno essere bandite dalla Chiesa di Cristo. I credenti sono chiamati a servire e donare se stessi per gli altri, sull'esempio di Gesù; proprio in questo l'esistenza acquisisce pienezza di senso. Quando sembrerà che ci stiamo privando della nostra vita sarà proprio allora che la troveremo (Mt 16,25). 

Il riscatto pagato da Gesù, rappresenta il suo sacrificio sostitutivo che ottiene la vita eterna a coloro che sono schiavi del peccato. Soffrendo per mano dei giudei e dei gentili, egli riconcilierà entrambi con la sua croce. La salvezza non esclude nessuno, come potrebbe fare pensare la parola "molti" (gr. pollon), da intendere come un semitismo (cfr. Is 53,12) per rappresentare l'intera comunità che trae beneficio dal servizio di uno. 

La sofferenza di Gesù non è solo un atto di soddisfazione vicaria dei nostri peccati. Il suo dare la vita "per molti" costituisce anche una teofania dell'intima natura di Dio. Dio non è soltanto l'Essere ("Io sono colui che sono"; Es 3,14), ma è l'"Essere per": Dio si dona all'uomo, nell'incarnazione del Figlio, il quale "abita" la nostra umanità fino alla sofferenza e alla morte. Ma rivelandosi come dono Dio chiama anche l'uomo, creato a sua immagine e somiglianza, a farsi egli stesso relazione. Alla luce degli eventi pasquali della morte e risurrezione di Cristo l'apostolo Giovanni comprenderà questa verità ultima, ben espressa nella sua prima lettera: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1 Gv 4,16).

Preghiera

Donaci, Signore, lo spirito per accettare le sofferenze del momento presente, consapevoli che non sono paragonabili alla gloria futura che hai preparato per noi; affinché possiamo testimoniare con coraggio il tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 27 febbraio 2024

Gregorio di Narek, padre e poeta della chiesa armena

Secondo gli antichi sinassari armeni, il 27 febbraio veniva un tempo celebrata la memoria di Gregorio di Narek, monaco e innografo vissuto tra il X e l'XI secolo.
Nato probabilmente nell'odierno villaggio di Narek, nei pressi del lago di Van, in Armenia, attorno al 945, Gregorio rimase presto orfano della madre. Affidato dal padre al locale monastero, Gregorio vi trascorrerà tutta la vita. Lì egli ricevette una ricchissima formazione dall'igumeno Anania, che gli permise di leggere tutte le grandi opere patristiche, sia greche che orientali, e di nutrire la sua meditazione quotidiana con un immenso tesoro di letture spirituali.
In un incessante alternarsi di lavoro e di preghiera, Gregorio cominciò a manifestare una forte propensione a rielaborare la tradizione ricevuta in un linguaggio poetico fra i più alti della storia cristiana. Compose così, per chiunque glielo chiedesse, inni, trattati, commenti alla Scrittura, panegirici; fu un predicatore amato e apprezzato dai più dotti ma anche dai più semplici. Il suo Libro di preghiere è uno dei massimi capolavori della letteratura cristiana. Nersēs di Lambron lo definirà «un angelo rivestito di un corpo». La chiesa armena ricorda Gregorio assieme ai «santi traduttori» nella prima metà di ottobre.

Tracce di lettura

Tu sei questo meraviglioso canto
nel quale noi troviamo il nostro impulso,
musica al cui seno le forme sono costruite.
Tu sei il segreto del pensiero
grazie a cui tutto insieme è in movimento,
ogni splendore si trova in te riunito
come nell'anfora si accostano le canne.
Tu sei il dito del cipresso che indica la via
e le tue sopracciglia sono riunite in un sol arco.
Dio del mezzogiorno che domini sugli astri
(Gregorio di Narek, Libro di preghiere)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose



George Herbert. Innografo anglicano

Il 27 febbraio la Chiesa Anglicana celebra la memoria di George Herbert (Montgomery, 3 aprile 1593 – Bemerton, 1º marzo 1633), presbitero, poeta e oratore inglese.

Nonostante sia vissuto solo fino a 40 anni, la sua importanza, come poeta è sempre più aumentata anche se, è da notare, nessuna delle sue opere è stata pubblicata mentre era in vita. I poemi dei suoi ultimi anni, scritti quando era pastore a Bemerton vicino a Salisbury sono tra i più riusciti della letteratura del suo tempo, combinando una profonda spiritualità con una inesausta sperimentazione ed il loro linguaggio rimane fresco e ispirato anche ai nostri giorni.

La famiglia di Herbert era ricca, eminente, intellettuale ed amante dell'arte, la madre, Magdalen, era patrona e amica di John Donne e altri poeti, il fratello Edward Herbert, primo barone di Cherbury, nominato cavaliere e Lord Herbert di Cherbury da re Giacomo I d'Inghilterra, fu un poeta e filosofo che cercava di riconciliare il cristianesimo con il razionalismo ed è spesso citato come il "padre del deismo inglese".
Herbert bilanciò una iniziale carriera secolare con gli ultimi anni di contemplazione teologica e di umile lavoro parrocchiale.

Dopo aver conseguito la laurea al Trinity College di Cambridge Herbert ebbe il posto di "pubblico oratore" di Cambridge, responsabile di porgere ampollosi saluti in latino ai visitatori importanti; una posizione cui probabilmente teneva date le sue capacità poetiche. Nel 1624 divenne membro del Parlamento. Entrambe queste attività indicano un intento di intraprendere una carriera a corte. Tuttavia, nel 1625 si verifico la morte di Giacomo I, che aveva mostrato di favorirlo e forse di volerlo nominare ambasciatore. Da qui la scelta - per certi versi pragmatica - di Herbert di scegliere quella che probabilmente era la sua iniziale inclinazione: una carriera nella Chiesa d'Inghilterra.
Nel 1626 prese gli ordini e la cura di una parrocchia rurale nel Wiltshire a circa 75 miglia a sud ovest di Londra dove si rivelò un onesto e coscienzioso pastore, attento alla cura spirituale e anche fisica dei parrocchiani, dei quali cercò di alimentare la vita spirituale attraverso la recita quotidiana dell'ufficio delle ore, e mediante la composizione di una grande quantità di inni e di poemi liturgici. 

Sul letto di morte consegnò il manoscritto "The Temple" (il Tempio), la sua raccolta di poesie, a Nicholas Ferrar, il fondatore di una comunità religiosa semi-monastica a Little Gidding (un nome oggi molto più conosciuto attraverso le poesie di T. S. Eliot). Herbert chiese a Ferrar di pubblicare le poesie se le riteneva capaci di "essere di aiuto a qualche anima bisognosa" oppure di bruciarle. Prima del 1680 The Temple aveva raggiunto le tredici edizioni. Sempre postumo nel 1652 venne pubblicato Priest to the Temple, or, The Country Parson his Character and Rule of Holy Life (Sacerdote al tempio o il parroco di campagna, suo carattere e ruolo nella vita spirituale), trattato sulla devozione, in prosa.

Tracce di lettura

L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare 
fin dal mio primo passo, 
mi si accostò, con dolcezza 
domandandomi se qualcosa mi mancava.. 
«Un invitato» risposi «degno di essere qui». 
L’Amore disse: «Tu sarai quello». 
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, 
non posso guardarti. 
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose: 
«Chi fece quest’occhi, se non io?» 
«È vero, Signore, ma li ho insozzati; 
che vada la mia vergogna dove merita». 
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?» 
«Mio diletto, allora servirò». 
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo».
Così mi sedetti e mangiai. (George Herbert, Love)

George Herbert.jpg

Fermati 1 minuto. Seduti nel posto del discepolo

Lettura

Matteo 23,1-12

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì" dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare "rabbì", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. 11 Il più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.

Commento

Le Scritture riconoscevano ai leviti e ai sacerdoti l'autorità di decidere sull'applicazione della legge mosaica, ma gli scribi e i farisei si erano spinti oltre l'autorità legittima aggiungendo tradizioni umane alla parola di Dio. Gesù esorta a seguire quanto predicano, ma nella misura in cui è conforme alle Scritture; condanna infatti "i pesanti fardelli" della tradizione extrabiblica che essi impongono sulle spalle della gente. 

La vita di fede è più grande della mera religiosità; quest'ultima, anzi, quando scade nel legalismo e nella precettistica aumenta le distanze dell'uomo da Dio. Guai a coloro che chiudono il regno di Dio agli uomini, perché non vi entrano e non vi lasciano entrare nemmeno coloro che vogliono entrarci! (Mt 23,13). 

I filatteri erano piccole scatole di cuoio contenenti delle pergamente recanti alcuni versetti biblici. Venivano legati sulla fronte e sul braccio sinistro durante la preghiera, secondo un'osservanza strettamente letterale delle esortazioni contenute nell'Esodo (Es 13,9) e nel Deuteronomio (Dt 6,8). I farisei interpretavano materialmente il comandamento di tenere la legge di Dio davanti agli occhi, ma avevano perso di vista la strada che conduce a lui divenendo "ciechi e guide di ciechi" (Mt 15,14). Rendendo più lunghi i lacci dei filatteri e le frange del mantello (che dovevano ricordare i dieci comandamenti), cercavano di essere notati e ammirati. 

Gesù stesso portava il mantello per la preghiera; non condanna, dunque, il suo uso, ma la volontà di apparire, propria dei farisei. Anche l'utilizzo dei titoli "rabbì", "padre", "maestro", non è proibito di per sé, ma nella misura in cui diventa per chi ne è fatto oggetto una pretesa e motivo di orgoglio. Paolo, infatti, parla ripetutamente di "maestri" nella Chiesa e spesso li definisce anche "padri" (1 Cor 4,15), esortando a mostrare loro rispetto (1 Tess 5,11-12; 1 Tim 5,1); chiama anche se stesso "padre", nei confronti di coloro che ha fatto nascere alla fede, ma il titolo è da lui utilizzato per rimarcare il suo affetto e non il proprio prestigio. L'uso di questi titoli è riprovevole anche nella misura in cui l'uomo viene riconosciuto come fonte di autorità al di sopra di Dio, mentre Mosè agì come semplice mediatore tra Dio e gli uomini. 

La colpa dei farisei è di costruire una religiosità priva di quell'aspetto gioioso che scaturisce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a partecipare alla sua creazione e alla sua opera di redenzione. Gesù rimprovera anche la loro ipocrisia, perché indulgono verso se stessi ma predicano un grande rigore. Anche il cristiano rischia di cadere in questo peccato, quando proietta sugli altri quelle aspettative di osservanza che non riesce a soddisfare in se stesso. 

Ma vi è un atteggiamento peggiore: quello di chi si mostra religioso per essere lodato dagli altri. Costoro, come affermato da Gesù nel discorso della montagna "hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Mt 6,2.5). Gli ammonimenti da lui rivolti alle folle - ma anche ai discepoli (v. 1) - sono un invito alla coerenza, senza la quale la nostra testimonianza del vangelo perde solidità. 

Più che i filatteri dobbiamo tenere sempre davanti ai nostri occhi l'esempio di colui che è stato maestro nel servire. Solo collocandoci nel posto a sedere che spetta ai discepoli potremo vincere la tendenza a sentirci "giusti" davanti a Dio e agli uomini. Se saremo umili, saremo veri. E se saremo veri dimoreremo in Gesù: Via, Verità e Vita.

Preghiera

Signore, tu ci doni la gioia di essere salvati; concedici di metterci alla tua scuola, per imparare da te che sei mite e umile di cuore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 26 febbraio 2024

Fermati 1 minuto. Pronti a ricevere una misura traboccante

Lettura

Luca 6,36-38

36 Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. 37 Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; 38 date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Commento

Gesù non ci vuole servi ma figli, in cui è restaurata l'immagine e somiglianza divina, per opera della sua grazia santificante. Ci esorta dunque a imitare il Padre nella sua più alta perfezione: la misericordia. Essere misericordiosi come il Padre significa essere perfetti come lui (Mt 5,48). La carità è infatti il vincolo della perfezione (Col 3,14). 

Comandandoci di non giudicare, Gesù non condanna il vero discernimento, ma l'arroganza e l'ipocrisia di chi riconosce gli errori altrui dimenticando la propria fallibilità e debolezza. "Amore e verità si incontreranno" recita il Salmo 85: la capacità di rimettere i debiti altrui nasce infatti dal riconoscere la verità della nostra condizione, il nostro essere per primi debitori verso Dio.

La capacità di perdonare muove dalla consapevolezza che solo Dio può comprendere la vera intenzione che c'è dietro le azioni dell'uomo: "L'uomo guarda alle apparenze, ma Dio guarda al cuore" (1 Sam 16,7). Il giudizio ultimo sull'uomo è una prerogativa di Dio, che non dobbiamo usurpare. Siamo chiamati piuttosto a imitare la sua clemenza, che non perde fiducia nella capacità del peccatore di giungere alla conversione. Se noi siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13).

Gesù ribalta la "legge del taglione" ("occhio per occhio e dente per dente"; Es 21,24), istruendo i suoi disepoli con due negazioni e due affermazioni: "non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato" (vv. 37-38).

Quando ci rifiutiamo di perdonare il prossimo, il nostro cuore si chiude alla misericordia di Dio; quando riconosciamo il nostro peccato il cuore si apre alla grazia e si fa ancor più capace di perdono, in un flusso crescente di amore.

Per essere capaci di perdonare, dobbiamo riconoscere noi stessi come uomini perdonati da Dio. Teniamoci pronti a ricevere con abbondanza la sua misericordia - una "buona misura, pigiata, scossa e traboccante" (v. 38) - e a condividerla con chi è bisognoso di perdono, per ottenerne ancora in abbondanza. Diventiamo seminatori di pace e di compassione.

Preghiera

La misericordia che ogni giorno riversi su di noi, Signore, non vada perduta ma ci trovi pronti a seminare frutti di pace. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 25 febbraio 2024

Quale demone ci tormenta?

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

Colletta

Dio Onnipotente, che sai che non possiamo salvarci da soli, custodisci i nostri corpi e le nostre anime; affinché possiamo essere al riparo da ogni avversità esteriore, e da ogni pensiero malvagio che possa assalirci interiormente. Per Cristo nostro Signore. Amen

Letture

1 Ts 4,1-8; Mt 15,21-28

Commento

Le letture della prima domenica di Quaresima hanno proposto la narrazione del ritiro di Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero. Nel Vangelo di oggi assistiamo a un altro “ritiro”, questa volta conseguenza dell'incomprensione e del rifiuto: sebbene in molti ancora continuino a seguire Gesù, la maggior parte lo accoglie come profeta, come maestro e come guaritore, ma non è in grado di riconoscerlo come il Messia che è venuto a riscattare gli uomini dal peccato. 

Capita ancora oggi di vedere Gesù riconosciuto come modello etico, esempio di solidarietà e di saggezza, ma respinto quando viene proposto come colui che redime l'uomo dal peccato, e che lo libera dai demoni antichi e da quelli del mondo “civilizzato”.

Il regno di Dio è vicino, e il tempo quaresimale ci invita a preparargli la strada, facendo frutti di conversione. Ma la luce è venuta nel mondo e “le tenebre non l’hanno compresa” (Gv 1,5). Venne in casa sua ma “i suoi non lo hanno ricevuto” (Gv 1,11). Gesù, affaticato dal suo ministero esce dai confini di Israele e si ritira in terra straniera, “verso le parti di Tiro e Sidone”. Questa regione vicino al mare era una sorta di luogo di villeggiatura dove trovare un po’ di pace, ma abitato da genti pagane, dedite a culti idolatri, che nel passato prevedevano addirittura il sacrificio di bambini. Motivo per cui le sue genti erano fortemente disprezzate da Israele. 

In questo contesto si inserisce la preghiera della donna cananea per la guarigione della propria figlia e il suo atto di fede, speculare all’incredulità manifestata dagli abitanti della Giudea. Anche oggi il vangelo trova spesso freddezza, disinteresse, rifiuto, in quelle famiglie e in quelle terre che hanno alle spalle generazioni, millenni di storia cristiana, ma germoglia e produce frutti in alcune periferie geografiche ed esistenziali, in maniera del tutto inattesa. 

Il Signore non teme di addentrarsi al di fuori dei confini di Israele, e così anche noi non dobbiamo temere di oltrepassare i confini di territori e contesti che si considerano cristiani per abitudine, ma che spesso non comprendono il senso profondo della sua missione. Il regno messianico è in continuo movimento e quando le tenebre lo rigettano, Dio opera altrove. Gesù ammonisce nel Vangelo di Luca: “Fate dunque frutti degni del ravvedimento e non cominciate a dire dentro di voi: "Noi abbiamo Abrahamo per padre", perché io vi dico che Dio può suscitare dei figli ad Abrahamo anche da queste pietre.” (Luca 3,8).

È sorprendente il modo in cui la donna cananea si rivolge a Gesù; impiega, infatti, il titolo dal chiaro significato messianico “Figlio di Davide”, che forse aveva sentito pronunciare da qualche israelita, perché non apparteneva al suo ambiente culturale. Ancora più sorprendente è la reazione di Gesù: inizialmente si mostra distaccato, poi spiega che il suo mandato prioritario è di salvare “le pecore perdute della casa di Israele”, contestando alla donna l’appartenenza a un popolo pagano e, dunque, idolatra. 

Gesù utilizza la metafora dei “cagnolini”, ovvero dei cani “domestici” ma si lascia convincere dall’insistenza della donna, dalla sua fede (la prostrazione sembra un atto di riconoscimento della natura divina di Cristo) e dalla sua umiltà, nel momento in cui chiede di potersi cibare di ciò che gli altri hanno rifiutato.

E noi di quali idoli siamo schiavi? Quali sono i demoni che ci tormentano? La rabbia? L’avidità? La paura? Il clima penitenziale della Quaresima ci spinge a interrogarci e a ricercare il nostro affrancamento in Gesù, colui nel nome del quale ogni ginocchio si piega nei cieli, sulla terra e sotto terra, per proclamarlo come unico Signore, a gloria di Dio Padre (Fil 2,10-11).

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 24 febbraio 2024

Il re Etelberto e la diffusione del cristianesimo tra gli Angli orientalli

Gregorio Magno e Agostino di Canterbury vengono ricordati come gli apostoli degli Angli. Al loro fianco bisogna ricordare anche re Etelberto.
Nato verso il 552, Etelberto ancora in giovane età divenne il più potente sovrano anglo dell’epoca. Verso il 588 sposò Berta, la figlia cattolica del re franco Cariberto. Dando prova di tolleranza, permise alla sua sposa di continuare a professare la sua fede. Ancora più magnanimo egli si mostrò nel 597 quando accolse la delegazione di monaci inviata da papa Gregorio e guidata da Agostino. Egli ascoltò i missionari e concesse loro di stabilirsi presso Canterbury con facoltà di predicare e convertire. Lo stesso Etelberto ricevette il battesimo nel giorno di Pentecoste del 597. Saggio e prudente, non costrinse i sudditi a seguire la sua scelta, ma certo favorì quanti si facevano battezzare. La svolta favorevole al cristianesimo venne consolidata dalla costruzione, non lontano da Canterbury, di un monastero dedicato ai santi Pietro e Paolo. Inoltre il re concesse ad Agostino dei terreni per edificare la sede episcopale di Canterbury e lo sostenne nell’organizzazione di un sinodo cui parteciparono vescovi e dottori dalla vicina regione dei Britanni. 
Nel 601 arrivò in Inghilterra una nuova spedizione di monaci. Tra di loro vi erano Paolino, Mellito e Giusto. Con l’aiuto di Etelberto, diverranno vescovi rispettivamente di York, Londra e Rochester.  Favorevole al cristianesimo, Etelberto rimase un sovrano saggio ed equilibrato che procurò benefici a tutta la sua nazione. Morì il 24 febbraio del 616 dopo un regno di più di 50 anni e venne sepolto accanto alla moglie Berta, anch’ella venerata come santa.

- Santiebeati.it


Re Etelberto (560-6161)

Fermati 1 minuto. Supplemento di amore

Lettura

Matteo 5,43-48

43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Commento

La prima parte del comandamento citato da Gesù, l'amore per il prossimo, è contenuta nella legge mosaica (Lv 19,18). Sebbene l'odio verso i malvagi nell'Antico Testamento sia considerato giusto (Sal 139,19-22), non c'è propriamente un comandamento che prescriva di odiare i propri nemici. Inoltre va rilevato che la parola "odiare" in ambito semitico non ha la connotazione estremamente negativa acquisita nel nostro linguaggio. 

Gesù estende ai nemici il comandamento dell'amore e invita i suoi discepoli a imitare l'esempio del Padre, che concede i suoi doni sia ai buoni che ai cattivi. Un cenno all'amore per i nemici è contenuto nell'Antico Testamento, nel libro dei Proverbi (Prov 25,21).

I pubblicani vengono assurti a simbolo del "nemico" di Israele per eccellenza. Erano infatti gli esattori delle tasse al servizio dei romani e perciò particolarmente odiati. Matteo era stato uno di loro, prima di diventare discepolo di Gesù.

L'esortazione di Gesù a non limitarsi ad amare i propri fratelli (v. 47) mette in guardia da ogni settarismo, che era proprio delle diverse correnti ebraiche e rischia di essere replicato nella Chiesa. Un atteggiamento stigmatizzato anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: "Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli (...) che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: 'Io sono di Paolo', 'Io invece sono di Apollo', 'E io di Cefa', E io di Cristo!'" (1 Cor 1,12). I cristiani dovrebbero dunque evitare che le differenze denominazionali diventino fonte di divisione nella Chiesa.

Ai discepoli di Gesù è richiesto un supplemento di amore, che li renda capaci di dare a tutti più degli altri; questo è il distintivo del loro essere cristiani.

Gesù ci insegna che la pratica del vangelo è più che semplice umanesimo. Lo sforzo che richiede per vincere la tendenza retributiva della nostra natura e imitare il Padre nella sua benevolenza può giungere a compimento solo con l'assistenza della grazia santificante, effusa dallo Spirito.

Preghiera

Rendici capaci, Signore, di un amore senza condizioni; come tu per primo ci hai amato, donandoci tutto te stesso nell'opera della redenzione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 23 febbraio 2024

Policarpo di Smirne. Partecipare al calice di Cristo

Attorno al 167, in Asia minore, muore martire Policarpo, vescovo di Smirne.
Ireneo di Lione, che fu suo discepolo, riferisce che conobbe l'apostolo Giovanni e altri che avevano visto il Signore.
Verso l'anno 100, Policarpo fu scelto come vescovo della chiesa di Smirne. Esercitò il suo ministero con totale dedizione e con un amore degno degli insegnamenti ricevuti dall'apostolo Giovanni, il «discepolo amato». Accolse e confortò Ignazio, vescovo di Antiochia, in viaggio verso Roma dove avrebbe ricevuto il martirio e questi gli indirizzò una lettera in cui gli trasmise la sua esperienza di pastore. Nel 154 Policarpo si recò a Roma per discutere l'annosa questione della data della Pasqua con papa Aniceto. Pur non avendo trovato un accordo, i due vescovi rimasero in comunione e si separarono in pace celebrando un'agape fraterna.
Tornato a Smirne, al termine di una lunga vita di fedeltà e di amore per il Signore, Policarpo subì il martirio, benedicendo Dio di averlo reso degno di partecipare al calice di Cristo «per la resurrezione alla vita eterna». Il racconto della sua morte, uno dei testi più toccanti dell'antichità cristiana, vede nel martirio la realizzazione della piena sequela di Cristo e nei martiri «i discepoli e gli imitatori del Signore per l'amore immenso al loro re e maestro».

Tracce di lettura

Policarpo, levati gli occhi al cielo, disse: «Signore Dio onnipotente, Padre dell'amato e benedetto Figlio tuo Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la conoscenza di te, sii benedetto per avermi giudicato degno in questo giorno e in quest'ora di prender posto nel novero dei martiri, nel calice del tuo Cristo per la resurrezione alla vita eterna dell'anima e del corpo nell'incorruttibilità dello Spirito santo. Che io fra essi sia accolto oggi al tuo cospetto come sacrificio a te gradito, così come tu, il Dio veritiero e alieno da menzogna, hai in precedenza disposto, manifestato e compiuto. Per questo al di sopra di tutto io ti lodo, ti benedico, ti glorifico tramite l'eterno e celeste tuo sommo sacerdote e Figlio amato Gesù Cristo, mediante il quale sia gloria a te con lui e con lo Spirito santo, ora e per i secoli a venire. Amen».
(Martirio di Policarpo 14)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Policarpo di Smirne (+167)

Fermati 1 minuto. La strada giusta per presentarsi a Dio

Lettura

Matteo 5,20-26

20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!

Commento

Gli scribi e i farisei erano gli insegnanti della legge e avevano fama di essere grandi osservanti della stessa. Gesù ci chiede di "superarli" non limitandoci a un'obbedienza puramente esteriore, ma ricercando il rigore della carità. Egli parla con l'autorità di un legislatore e non di un semplice interprete o commentatore della legge - "io vi dico" (v. 20), non "così dice il Signore" - e approfondisce i precetti consegnati da Dio sul Sinai, portandoli a pieno compimento. Sul Calvario, appeso alla croce, fisserà su di essa la legge suprema dell'amore.

Gesù considera la collera e le ingiurie - che a seconda del loro grado di gravità venivano condannate (anche a morte) da parte di un tribunale locale o del sinedrio - meritevoli della Geenna, la valle di Hinnom, posta a sud di Gerusalemme, maledetta dal re Giosia (perché sede del culto di Moloch, cui venivano offerti sacrifici umani) e destinata a immondezzaio della città. Poiché nella Geenna ardeva continuamente il fuoco, nei Vangeli è presa a simbolo dell'Inferno. 

Il rigore cui richiama Gesù ci fa comprendere quanto sia difficile per l'uomo adempiere in pienezza i suoi precetti. L'unica giustizia dalla quale il peccatore può essere giustificato è la perfetta giustizia di Cristo, imputata a nostra salvezza mediante la fede in lui. Questo non ci esime, tuttavia, dall'impegno sulla via della santificazione, che la grazia ci spinge a percorrere. 

Gesù ci invita a sanare immediatamente le nostre relazioni quando entriamo in contesa con qualcuno e stabilisce il primato dei rapporti fraterni rispetto allo stesso culto sacrificale presso il tempio, cuore della religiosità ebraica. La strada per presentarci innanzi a Dio in adorazione passa attraverso la riconciliazione con il nostro prossimo.

Preghiera

Insegnaci a guardare a te, Signore, che sei mite e umile di cuore; affinché fissando lo sguardo sulla tua passione possiamo imparare a offrire il perdono ai nostri nemici. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 22 febbraio 2024

Margherita da Cortona e la ricerca del volto di Cristo

Il 22 febbraio del 1297 conclude i suoi giorni terreni Margherita da Cortona, terziaria francescana. Nata nel 1247 a Laviano, sul lago Trasimeno, Margherita rimase presto orfana di madre. A disagio con la propria matrigna, essa fuggì, appena sedicenne, nel castello del conte Arsenio di Montepulciano, con il quale visse per dieci anni. Quando l'uomo che amava incontrò precocemente la morte durante una partita di caccia, Margherita fu respinta sia dalla propria famiglia sia da quella di Arsenio. Abbandonata da tutti e con un figlio da allevare, nato dalla relazione con il nobile toscano, la giovane fu accolta da due nobildonne di Cortona, che la indirizzarono ai frati minori, presso i quali trascorrerà gran parte della sua vita. Aiutata dai francescani, Margherita segnò a sua volta profondamente la loro spiritualità con una vita di grande austerità e di totale dedizione agli ultimi. Donna di grande carità e mistica della passione di Cristo, da cui attingeva la forza per amare, Margherita fu all'origine di innumerevoli iniziative a favore di poveri e ammalati, nei quali non si stancò mai di cercare il volto del suo Signore. Essa si spense all'età di cinquant'anni in una piccola cella nella rocca sovrastante Cortona, delusa dalle decisioni dei capitoli francescani che ormai si allontanavano dal rigore degli inizi, ma ritenuta da tutti un modello di vita evangelica.

Tracce di lettura

Il Signore le disse in visione: «Cosa domandi di me, Margherita, martire mia?». «Signore mio, perché mi chiami martire, quando io non ho patito per amor tuo nulla di aspro?». Il Signore le rispose: «Il tuo martirio è il timore che hai di perdermi e di offendere me, tuo Creatore; ma io ti dico che sei la nuova luce data a questo mondo e illuminata da me». A queste parole l'umile Margherita esclamò: «Signore, scenda su di me la tua misericordia, perché non sia tenebra in questo mondo, ma fa' che io risplenda della tua luce, tu che sei la mia luce». E il Signore a lei: «Non è forse vero, figlia mia, che tu per amor mio ti sei privata di ogni gioia della terra? E che per amore mio sei pronta ad affrontare ogni sofferenza? Non racchiudi forse nel tuo cuore, per amore mio, tutti i poveri del mondo?». (fra' Giunta Bevignati, Leggenda di Margherita da Cortona 10,16)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Margherita da Cortona (1247-1297)

Fermati 1 minuto. Solo la fede ci apre alla comprensione

Lettura

Matteo 16,13-19

13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». 14 Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15 Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». 16 Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17 E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Commento

In un momento di riposo dal suo ministero Gesù coglie l'occasione per domandare ai suoi discepoli cosa pensa la gente di lui. Le opinioni sono diverse. D'altra parte Gesù ha detto che sarebbe venuto a portare divisione (Lc 12,51). Molte ipotesi sul suo conto sono buone: alcuni credono che egli sia Elia, Geremia o Giovanni Battista tornati dai morti. Ma non sono opinioni all'altezza della sua vera natura. 

Egli non è un semplice profeta, ma "il Figlio del Dio vivente" (v. 16) e questa verità è professata da Simon Pietro, che parla per primo, forse per il suo carattere un po' irruento, ma facendosi anche portavoce degli altri apostoli. 

Dio apre il suo cuore alla conoscenza della natura di Cristo per fede. Pietro non esprime una tesi "accademica" riguardo l'identità di Gesù; la sua è una confessione personale resa possibile dalla rigenerazione interiore operata dallo Spirito. Solo chi crede può comprendere la vera natura di Gesù di Nazaret. 

Simone riceve un nuovo nome, "Pietro", "roccia", diventando il padre della Chiesa, l'assemblea di coloro che si riuniscono nel nome di Gesù, così come Abramo, che pure ricevette un nome nuovo, divenne, con la sua fede, padre di tuti i credenti. Le parole dette da Gesù a Pietro attestano che la Chiesa non è una mera istituzione umana ma è fondata sulla fede nel Cristo. Con la sua confessione di fede Pietro pone la pietra fondativa di questa costruzione divina.

A capo della Chiesa, proprio in quanto istituzione soprannaturale, vi è Cristo stesso, come testimonianto da numerosi passi neotestamentari (At 4,11; 1 Cor 11, Ef 5,23), da Gesù in prima persona (Mt 21,41) e da Pietro nella sua prima epistola: "Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare" (1 Pt 2,7). 

Significativo è anche l'utilizzo dell'aggettivo possessivo, "la mia Chiesa" (gr. mou ten ekklesian) da parte di Gesù, a sottolineare che egli ne è il costruttore, proprietario e Signore. La Chiesa non è la chiesa di Pietro, la chiesa di qualche particolare confessione cristiana, ma è la Chiesa di Cristo. Così afferma l'apostolo Paolo: "Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: 'Io sono di Paolo', 'Io invece sono di Apollo', 'E io di Cefa', 'E io di Cristo!'. Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor 1,12-13). 

Gesù rappresenta gli inferi come una fortezza cinta da mura, le cui "porte" simboleggiano il potere della morte, l'arma definitiva di Satana, dalla quale la Chiesa sarà preservata. Anche il sangue dei martiri, infatti, lungi dall'indebolire la Chiesa, sarà seme di nuovi credenti. 

"Legare" e "sciogliere" equivalgono a "proibire" e "permettere". Questo potere conferito a Pietro lo costituisce garante dell'insegnamento di Gesù nella Chiesa. Inteso come possibilità di rimettere i peccati, il potere di "legare" e "sciogliere" va considerato alla luce di quanto poco più avanti affermato da Gesù (Mt 18,15-18), dove la stessa autorità è riconosciuta a tutti i discepoli e la possibilità di allontanare un peccatore dalla Chiesa è affidata all'assemblea: "se non ascolterà neanche l'assemblea sia per te come un pagano e un pubblicano" (Mt 18,17). 

Il giudizio dell'assemblea non potrà essere arbitrario, ma fondato sulla Parola di Dio, della quale gli apostoli sono depositari, custodi e annunciatori. L'autorità della Chiesa nel corso della storia dovrà dunque fondarsi sulla dottrina apostolica, come testimoniata dalle Scritture. Il giudice non fa la legge ma dichiara ciò che ne è conforme. 

Anche a noi è dato di dischiudere i segreti del Regno agli uomini, nella misura in cui resteremo fedeli all'insegnamento del vangelo. Saremo allora beati come Pietro (v. 17) e fonte di beatitudine per chi incontreremo sul nostro cammino.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi ti riconosciamo come Figlio del Dio vivente e pastore della tua Chiesa; edificaci in essa come pietre vive, per testimoniare la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 21 febbraio 2024

Carnevale di Torrevieja: bambine e ragazze come oggetti sessuali

Un gruppo di 68 persone, tra cui alcune bambine, provenienti da Torrevieja, Spagna, ha partecipato al carnevale indossando costumi che raffiguravano lingerie erotica, insieme a bandiere LGBT+. Chiamato Osadía, il gruppo ha utilizzato questa manifestazione per ironizzare sulla situazione politica e sociale del paese. Tuttavia, il consiglio comunale ha espresso condanna per l'iper-sessualizzazione delle ragazze e delle donne presenti.

L'iper-sessualizzazione delle ragazze comporta molteplici implicazioni negative. Innanzitutto, perpetua lo stereotipo delle donne come oggetti sessuali, anziché individui con dignità e autonomia. Inoltre, viola il loro diritto alla dignità e al rispetto dell'immagine, esponendole a sguardi e commenti sessuali indesiderati.

Inoltre, l'iper-sessualizzazione delle bambine può costituire abuso infantile e favorire la pedofilia, mettendole a rischio di sfruttamento sessuale. Questo fenomeno alimenta anche la mercificazione sessuale delle donne, contribuendo alla percezione delle donne come oggetti sessuali da consumare.

È importante sottolineare che l'iper-sessualizzazione delle ragazze non promuove la diversità e l'inclusione, ma contribuisce alla violenza contro le donne, giustificando l'abuso e il dominio nei loro confronti.

Infine, l'iper-sessualizzazione delle ragazze può portare a relazioni sessuali immature, gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili. Nonostante l'importanza delle leggi nel porre limiti a questo comportamento dannoso, è fondamentale comprendere che il vero cambiamento deve avvenire all'interno del cuore umano. L'impegno del femminismo cristiano è quello di lottare per la giustizia del Regno di Dio e per la dignità delle donne e delle ragazze, promuovendo una visione che le riconosca come individui degni di rispetto e valore intrinseco.

Immagine dal Carnevale di Torrevieja

Pier Damiani. Dotto eremita e riformatore della Chiesa

Nei calendari romano e ambrosiano si fa oggi memoria di Pietro (Pier) Damiani, eremita e vescovo nell'XI secolo. Pietro nacque a Ravenna nel 1007. Rimasto orfano in tenera età, egli compì gli studi classici a Faenza e a Parma grazie all'aiuto del fratello Damiano, del quale, in segno di riconoscenza, assumerà il suo secondo nome. Cresciuto in mezzo ai fermenti dell'eremitismo sviluppatisi attorno alla figura di Romualdo, Pietro entrò non ancora trentenne nell'eremo di Fonte Avellana, di cui in seguito divenne priore e per il quale scrisse anche una regola. 

Negli anni avellaniti egli compose tra l'altro la Vita del beato Romualdo, documento di fondamentale importanza per la conoscenza degli ideali monastici nell'XI secolo. Uomo di straordinario vigore, tendente all'estremo in tutte le sue attività, egli riuscì a contemperare nella propria vita una forte passione per la vita solitaria, di cui è forse il più convinto teorizzatore in occidente, e un impegno ecclesiale e politico che lo portò a girare l'Europa per fungere da paciere in situazioni difficili fra papi, vescovi, monaci e regnanti di ogni sorta. Pier Damiani si batté dapprima con parole veementi per la riforma dei costumi corrotti del clero; poi, eletto vescovo di Ostia e cardinale attorno al 1057, si mostrò un uomo capace di misericordia e di perdono, capace di accondiscendere alle debolezze altrui al fine di ricomporre i conflitti e acquietare le tensioni.

Pur rinunciando al cardinalato dopo pochi anni per ritrovare la libertà e la pace, egli non cessò di compiere missioni conciliatrici ovunque ve ne fosse bisogno. Morì a Faenza, la notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072, di ritorno dall'ennesima missione a servizio della pace. Le sue spoglie mortali riposano nella cattedrale di Faenza.

Tracce di lettura

Chi darà una fontana di lacrime ai miei occhi? Velatevi, o mie pupille, nel pianto: guai a me che sono caduto!
Le gocce del mare, l'arena del lido, non uguagliano la moltitudine dei miei peccati: essi sono più delle stelle e delle piogge, pesano più delle montagne.
Sono indegno di vedere il cielo coi miei occhi, non merito di pronunciare con le mie labbra il nome di Dio. Mi sforzo al pianto, ma il cuore resta di pietra. Insisto nella preghiera, ma lo spirito si perde altrove. Cerco la luce, ed ecco giungono le tenebre della mia mente perversa. Io piango questa mia povera anima ferita: tu che morendo annientasti l'impero della morte, risuscitala! Per le tue viscere di misericordia, ti prego: liberami dai lacci del peccato. Merito sdegno: largiscimi perdono, o fonte di pietà. Fammi sempre obbediente ai tuoi comandi, e guidami alla vita celeste, tu che con il Padre e con lo Spirito santo tutto disponi nelle nostre vite. (Pier Damiani, Carmi )

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

Pier Damiani (1007-1072)

Fermati 1 minuto. Segni

Lettura

Luca 11,29-32

29 Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. 30 Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell'uomo lo sarà per questa generazione. 31 La regina del sud sorgerà nel giudizio insieme con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, ben più di Salomone c'è qui. 32 Quelli di Nìnive sorgeranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, ben più di Giona c'è qui.

Commento

La folla pretende di vedere continuamente dei "segni" da parte di Gesù: prodigi, guarigioni, esorcismi. Ma la sua risposta spazza via ogni falsa attesa, richiamando la gente che lo segue al senso profondo di ciò che sente e ascolta. Non sono, in realtà, dei "segni" che essa deve aspettare, perché il "segno" vero è lui stesso: la sua persona, la sua parola e la sua testimonianza. Questo "segno" va accolto attraverso un impegno di conversione, l'unico capace di far riconoscere la grandezza di Gesù e del suo insegnamento, che si innalza ben sopra quella di Salomone. 

Il "segno di Giona" è interpretato da Gesù in relazione alla sua morte e risurrezione. Come Giona fu gettato dalla barca per salvare la vita dell'equipaggio minacciato dalla tempesta così Gesù è stato gettato fuori da questo mondo nella sua passione per salvarci dalla tempesta del peccato; e come Giona riemerse dal ventre del pesce dopo tre giorni e tre notti, così Gesù risorge il terzo giorno, liberandoci dal potere della morte. 

Gli abitanti di Ninive risposero alla predicazione di Giona, che minacciava la distruzione della città da parte di Dio, cospargendosi di cenere e facendo quaranta giorni di penitenza. Anche noi siamo chiamati al ravvedimento, dalla persona di Gesù, che è molto più grande di Giona. Ma mentre quest'ultimo predicava l'imminente castigo di Dio, Gesù annuncia la buona notizia della salvezza, che ci spinge a conformarci alla volontà di Dio non per timore, ma in risposta al suo gratuito atto di amore. 

Il sorgere (v. 31) della regina del sud, insieme agli abitanti di Ninive, nel giorno del giudizio, indica la loro risurrezione, ma anche la loro accusa contro la generazione incredula. La sapienza di cui Dio aveva rivestito Salomone diventa fulgida manifestazione della misericordia divina nel volto di Gesù, disprezzato, flagellato, crocifisso per essersi fatto carico dei nostri peccati: "Ecco l'uomo!" (Gv 19,5); ecco Dio che viene a visitarci come amore disarmato e come tale ci chiede di accoglierlo.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che ti sei fatto peccato in nostro favore, perché diventassimo giusti davanti a Dio, concedici di conformarci sempre più a te, segno vivente dell'amore del Padre. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 20 febbraio 2024

Fermati 1 minuto. Gesù maestro di preghiera. Commento al Padre nostro

Lettura

Matteo 6,7-15

7 Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. 8 Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. 9 Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
10 venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
14 Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Commento

Prima di offrirci un modello perfetto di preghiera con il "Padre nostro" Gesù ci esorta a essere parsimoniosi nelle parole da utilizzare. Il rapporto con Dio deve essere filiale, e quindi improntato a semplicità di cuore. Lo sproloquiare (gr. battalogeo, chicchierare) può essere riferito all'abitudine dei pagani di recitare una lunga lista di nomi divini. Nella nostra preghiera dobbiamo stare attenti a comprendere quel che diciamo e a dire solo ciò che scaturisce dal profondo del nostro cuore.

Eviteremo dunque la ripetizione di formule senza prestare attenzione, ma ciò non costituisce una proibizione contro la preghiera insistente, alla quale ci esorta, ad esempio, la parabola dell'amico importuno (Lc 11,5-8). Gesù stesso prega ripetendo le stesse parole nell'orto degli ulivi: "lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole" (Mt 26,44). Non è dunque condannata la ripetizione di parole ma la vana ripetizione. Neanche è condannata la preghiera che si protrae a lungo. Gesù prega tutta la notte (Lc 6,2) ed esorta i suoi discepoli a pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1).

La preghiera del Padre nostro comprende tutte le nostre reali necessità e tutto ciò che è legittimo chiedere. Era entrata sicuramente a far parte della liturgia già al tempo in cui Matteo scrive, ma lungi dal rappresentare una semplice formula è un modello di brevità, semplicità e completezza, che dovrebbe ispirare ogni altra preghiera. Delle sei petizioni tre sono rivolte a Dio e tre riguardano le necessità dell'uomo. Gesù ci esorta infatti a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutte le altre cose ci saranno date in aggiunta (Mt 6,33). 
Le richieste per le necessità umane sono tutte rivolte al plurale, a indicare che dobbiamo pregare gli uni per gli altri, in un vincolo di comunione.

Le prime parole della preghiera rivelano la natura intima di Dio: Egli è padre; e noi possiamo chiamarlo Padre perché in Cristo abbiamo ricevuto lo spirito di adozione a figli. Lo Spirito stesso intercede nella nostra preghiera, con gemiti inesprimibili (Rm 8,26), gridando "Abbà, Padre" (Gal 4,6).

Il primo atto della preghiera è un atto di adorazione: "sia santificato il tuo nome" (v. 9). Tutte le altre richieste devono essere subordinate a questa e devono avere come unico scopo questa. Santificare (gr. hagiazo) il nome di Dio può essere inteso come un atto di ossequio e obbedienza; ma è anche una invocazione affinché Dio santifichi il suo stesso nome, manifestando la sua potenza e la sua gloria con l'avvento del suo regno. Nella supplica che segue (v. 10) si chiede infatti che il regno, predicato da Cristo e dai suoi apostoli, giunga a compimento sulla terra, così come è realizzato perfettamente in cielo.

"Sia fatta la tua volontà" esprime la necessità che ogni richiesta sia sottomessa ai piani e alla gloria di Dio. Con questa invocazione chiediamo che in questo mondo, deturpato dal maligno, prevalga la volontà di Dio, che lo rende simile al Cielo.

Gesù ci invita a chiedere al Padre che ci doni il pane quotidiano (v. 11). Non che ce lo venda, né che ce lo presti, ma che ce lo dia per la sua misericordia. La nostra sopravvivenza, materiale e spirituale, dipende dalla grazia di Dio.
L'aggettivo greco epiousios viene comunemente tradotto con "quotidiano", a indicare il nutrimento materiale essenziale per il nostro sostentamento. Ma il termine potrebbe anche essere reso con "futuro", assumendo una connotazione escatologica e venendo a significare il pane del giorno che verrà, il pane del regno, tanto desiderato e ora urgentemente atteso ("dacci oggi"). Con queste parole chiediamo dunque anche il pane che nutre il nostro spirito, il pane sacramentale e la grazia di Dio, con cui riceviamo Cristo, il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51).

La richiesta di rimettere, letteralmente "lasciar andare", i debiti (v. 12), ovvero i peccati contratti verso Dio, è correlata al perdono nel giudizio finale. Chiediamo di essere perdonati come noi perdoniamo ai nostri debitori, non comportandoci come il servo al quale fu condonato molto dal suo padrone ma che non ebbe pietà del suo conservo (Mt 18,21-35).

Gesù ci esorta a chiedere di non essere introdotti nella tentazione (v. 13); questo il senso traslato della parola greca eisphero, che significa "portar dentro" Tenendo conto quanto afferma Giacomo nella sua lettera, dove è detto che "Dio non tenta nessuno al male" (Gc 1,13) si arriva alla conclusione che non è Dio l'agente attivo della tentazione, sebbene l'esempio di Giobbe dimostra che egli può mettere l'uomo alla prova esponendolo all'azione di Satana. Ciò che si chiede al Padre è di essere preservati dalle tentazioni, che qui possono essere riferite sia ai peccati che alle più generali prove della fede. Nel contesto escatologico dominante di questo passo il senso potrebbe essere anche quello di chiedere a Dio di risparmiare ai discepoli le prove e le persecuzioni che precedono la fine dei tempi. 

Il termine greco hò poneròs indica il male, da cui si chiede di essere liberati; è chiaramente maschile e sta a indicare il Maligno, a causa del quale il peccato e la morte sono entrati nel mondo.

Esortandoci a perdonare per essere perdonati (vv. 14-15), Gesù non condiziona la nostra giustificazione alle nostre opere. La grazia che ci è stata accordata dal sangue di Cristo e che trova espressione nel segno sacramentale del Battesimo ci ha purificati completamente dal peccato, ma qui siamo invitati a chiedere a Dio e concedere al nostro prossimo una remissione dei peccati quotidiani, come un lavacro parziale: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo" (Gv 13,10). Con le parole a commento della sua preghiera (v. 14) Gesù attesta che egli è venuto nel mondo non solo per riconciliarci con il Padre ma anche per riconciliarci l'un l'altro.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, insegnaci a pregare; perché possiamo crescere in santità e sapienza in un continuo dialogo con il nostro Padre che è nei Cieli. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 19 febbraio 2024

Fermati 1 minuto. Alla sera della vita

Lettura

Matteo 25,31-46

31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. 32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, 33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. 34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. 37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? 40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. 41 Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 42 Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43 ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. 44 Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? 45 Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. 46 E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».

Commento

Uscito dal velo delle parabole (quella delle dieci vergini e quella dei talenti) Gesù passa a una rappresentazione più diretta del discorso escatologico ("sulle cose ultime"). In una pagina di grande potenza e intensità è rappresentato il giudizio divino, affidato al Figlio dell'uomo, al termine della storia. Le immagini sono così chiare e immediate da impedire qualsiasi esitazione nell'interpretazione.

Il giudizio per la vita eterna o per la dannazione eterna (v. 46) è già presente nel libro di Daniele, dove compaiono il "figlio dell'uomo", le schiere celesti e il trono della gloria, e viene affermato che "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna" (Dn 12,2).

La descrizione profetica data da Gesù pone come discrimine tra la salvezza e la perdizione il compimento delle opere di misericordia (vv. 35-36). Il giudizio è pronunciato su "tutte le genti" (v. 32), espressione che include sia i giudei che i pagani, perché prima della fine il vangelo sarà predicato a tutto il mondo.

Le azioni elencate da Gesù, salvo l'ultima - "visitare i carcerati" - sono raccomandate anche dal giudaismo come opere di misericordia. Così ad esempio profetizza Isaia: "Non è piuttosto questo il digiuno che voglio [...] Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?" (cfr. Is 58,6-7).

Oltreché con gli infelici e i poveri in genere, i "fratelli più piccoli" potrebbero essere identificati con i discepoli di Gesù, accolti o rifiutati da coloro ai quali portano l'annuncio del vangelo.

La sorpresa degli uomini sottoposti al giudizio è nel sentire che ogni volta che hanno soccorso qualcuno nel bisogno o si sono astenuti dal farlo il vero destinatario della loro misericordia o della loro negligenza era Cristo. Solo con la fede operosa si può entrare nel regno di Dio. La compassione e la misericordia sono i segni distintivi dei discepoli di Cristo. Alla sera della vita saremo giudicati sull'amore (Giovanni della Croce).

Il giudice non pone i ricchi alla sua destra e i poveri alla sua sinistra; coloro che hanno ottenuto fama e onori alla sua destra e i disprezzati alla sinistra; ma è specificato che egli porrà i buoni alla sua destra e i malvagi alla sua sinistra.

La punizione dei malvagi è descritta in numerosi passaggi delle Scritture come "fuoco eterno" (v. 41); "fuoco inestinguibile" (Mt 3,12); "vergogna e infamia eterna" (Dn 12,2); luogo dove il verme non muore e il fuoco non si estingue (Mc 9,48); sete inestinguibile (Lc 16,23-24); rovina eterna, lontano dalla presenza di Dio (2 Tess 1,9); luogo dove coloro che hanno adorato la bestia berranno l'ira di Dio e saranno torturati con fuoco e zolfo, mentre il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli e non avranno riposo né giorno né notte (Ap 14,10-11).

Gesù condivide dalla mangiatoia alla croce la condizione dei poveri e si identifica a tal punto con loro che fa della sollecitudine verso il povero la condizione stessa per accedere al suo regno. Mediante le opere di misericordia tocchiamo nella persona che soffre e che è nel bisogno il corpo stesso di Cristo; attraverso di esse - sacramento d'amore - si realizza una vera comunione con lui.

Preghiera

Signore, Dio di compassione infinita, donaci il tuo Spirito, affinché possiamo riconoscerti in chi attende le nostre opere di misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona