Il problema della relazione tra l'Assoluto e il relativo, tra l'Uno e i molti, costituisce il nucleo pulsante della riflessione filosofica universale. Questa tensione concettuale si acuisce drammaticamente quando si tenta di conciliare l'immutabilità perfetta dell'Essere supremo con il divenire incessante del mondo fenomenico. In India, tale questione trovò espressione paradigmatica nel dibattito tra le diverse scuole del Vedanta, ciascuna delle quali offriva una soluzione radicalmente diversa al medesimo enigma metafisico.
La scuola Advaita Vedanta, sistematizzata magistralmente da Ādi Śaṅkara (788-820 d.C. circa), propose una soluzione monista assoluta: Brahman, l'Assoluto indifferenziato e privo di attributi (Nirguṇa Brahman), rappresenta l'unica realtà autentica, mentre il mondo empirico (jagat) e la molteplicità delle anime individuali (jīvātman) sono prodotti dell'ignoranza metafisica (avidyā) operante attraverso la potenza illusoria di Māyā. Questa dottrina, pur sublime nella sua coerenza logica e profondità contemplativa, creò una frattura apparentemente insanabile tra l'esperienza religiosa devozionale e la realizzazione metafisica ultima: se tutto è illusione eccetto il Brahman impersonale, come può sussistere un autentico rapporto d'amore tra il devoto e Dio?
Fu precisamente questa aporia esistenziale e teologica che Ramānuja (tradizionalmente 1017-1137 d.C., secondo alcune fonti 1077-1157 d.C.) si propose di risolvere all'alba del secondo millennio. Brahmano tamil appartenente alla tradizione Śrī Vaiṣṇava del Sud dell'India, Ramānuja non fu semplicemente un commentatore delle scritture vedantiche, ma un riformatore religioso, un pensatore sistematico e un rivoluzionario sociale. La sua sintesi filosofica, il Viśiṣṭādvaita Vedānta (Vedanta del non-dualismo qualificato), rappresenta un tentativo ambizioso di preservare simultaneamente l'unità metafisica dell'Essere, la realtà ontologica del mondo e la legittimità della devozione personale verso Dio.
Il contesto storico-religioso e le opere di Ramānuja
Per comprendere appieno la portata rivoluzionaria del pensiero di Ramānuja, occorre situarlo nel suo contesto storico. L'India meridionale dell'XI-XII secolo era teatro di un fervente movimento devozionale (bhakti), guidato dai poeti-santi Āḻvār (VI-IX secolo), i cui inni appassionati a Viṣṇu nella lingua tamil vernacolare avevano già preparato il terreno per una teologia dell'amore divino. Ramānuja si propose di fornire a questa corrente devozionale popolare una fondazione filosofica rigorosa, radicata nell'interpretazione ortodossa dei testi vedantici in sanscrito.
Le opere principali di Ramānuja includono tre commentari alla Prasthānatrayī (il triplice fondamento del Vedanta): lo Śrī Bhāṣya (il grande commentario ai Brahma Sūtra di Bādarāyaṇa), il Gītā Bhāṣya (commentario alla Bhagavad Gītā) e commentari minori alle Upaniṣad principali. Compose inoltre trattati teologici indipendenti come il Vedānta Dīpa (la lampada del Vedanta) e il Vedānta Sāra (l'essenza del Vedanta), oltre a opere devozionali come il Śaraṇāgati Gadya (prosa sulla resa) e il Vaikuṇṭha Gadya (prosa sul paradiso di Viṣṇu).
La concezione del Brahman Saguṇa: Dio come persona suprema
La rivoluzione concettuale di Ramānuja inizia con una radicale reinterpretazione della natura di Brahman. Contrariamente a Śaṅkara, che distingueva tra un Brahman superiore (para), privo di attributi, e uno inferiore (apara), dotato di qualità solo dal punto di vista dell'ignoranza, Ramānuja sostiene che Brahman è intrinsecamente e realmente qualificato da infiniti attributi di perfezione (kalyāṇa guṇa).
Brahman, identificato con Viṣṇu-Nārāyaṇa, è definito come Parabrahman, l'essere supremo personale (Puruṣottama), caratterizzato da cinque attributi essenziali (pañca guṇa):
- Satya (realtà/verità): Brahman è l'essere pienamente reale, autosufficiente, la cui esistenza non dipende da null'altro.
- Jñāna (conoscenza): possiede conoscenza infinita, onnisciente, che abbraccia simultaneamente tutti gli oggetti passati, presenti e futuri.
- Ānanda (beatitudine): gode di felicità intrinseca, non derivata da fonti esterne, completamente immune dalla sofferenza.
- Ananta (infinità): è illimitato nel tempo, nello spazio e nella potenza.
- Amala (purezza): è completamente privo di imperfezioni, macchie karmiche o limitazioni morali.
A questi attributi essenziali si aggiungono innumerevoli qualità (guṇa) che manifestano la natura personale di Dio: compassione (kṛpā), amore (sneha), misericordia (dayā), giustizia, accessibilità (saulabhya) e bellezza. Ramānuja insiste particolarmente sulla vātsalya (tenerezza paterna) e sulla audārya (generosità magnifica) di Dio verso i suoi devoti.
Per illustrare come Brahman possa conoscere senza subire modificazione, Ramānuja ricorre all'analogia della lampada: così come una lampada è simultaneamente auto-luminosa e illumina gli oggetti circostanti senza alterarsi, la coscienza divina è eternamente auto-cosciente e conosce tutte le cose senza trasformarsi. La conoscenza divina (jñāna) non è un processo discorsivo o temporale, ma un'intuizione eterna e immutabile della totalità del reale.
Le cinque forme di manifestazione (Pañca-rūpa)
Per rendere accessibile ai devoti la trascendenza di Brahman, Ramānuja elabora la dottrina delle cinque forme di manifestazione divine:
- Para (la forma suprema): Brahman nella sua essenza assoluta, risiedente nel regno trascendente di Vaikuṇṭha, accompagnato dalla sua consorte Śrī (Lakṣmī), mediatrice della grazia divina.
- Vyūha (emanazioni): quattro forme che presiedono a specifiche funzioni cosmiche:
- Vāsudeva: coscienza e creazione
- Saṅkarṣaṇa: anime individuali e dissoluzione
- Pradyumna: mente e sostentamento
- Aniruddha: ego individuale e protezione
- Vibhava (incarnazioni): gli avatāra discendono per ristabilire il dharma, come Rāma, Kṛṣṇa, Nṛsiṃha, manifestando la līlā (gioco divino) nella storia.
- Antaryāmin (controllore interno): Brahman come anima dell'anima (ātmanaḥ ātmā), presente intimamente in ogni essere come testimone (sākṣin) e guida interiore.
- Arcā (forma iconografica): la presenza reale di Dio nelle immagini sacre (mūrti) consacrate nei templi, rendendo il divino direttamente accessibile alla devozione sensibile.
Il monismo qualificato: l'architettura metafisica del Viśiṣṭādvaita
Il termine Viśiṣṭādvaita combina viśiṣṭa (qualificato, specificato) e advaita (non-dualismo): la realtà è non-duale, ma questa unità è internamente differenziata da qualificazioni reali. Ramānuja afferma l'esistenza di tre realtà eterne (tattva-traya), tutte ontologicamente autentiche e coessenziali a Brahman:
- Īśvara (Brahman): il Sé supremo, l'anima universale (śarīrin).
- Cit (Jīva): le anime individuali, entità coscienti infinite in numero.
- Acit (Prakṛti): la materia, l'entità non-cosciente che costituisce il mondo fisico.
La relazione Śarīra-Śarīrin: il corpo e l'anima
Il cuore del Viśiṣṭādvaita risiede nella concezione della relazione tra Brahman e il mondo attraverso l'analogia organica del corpo e dell'anima (śarīra-śarīrin-bhāva). Ramānuja definisce rigorosamente il concetto di "corpo" (śarīra):
"Un corpo è una sostanza che un'entità cosciente può completamente controllare e sostenere per i propri scopi, e la cui natura essenziale (svarūpa) consiste esclusivamente nell'essere modo (prakāra) di quell'entità cosciente."
Da questa definizione derivano tre caratteristiche essenziali del rapporto corpo-anima:
- Ādhāra-Ādheya (sostegno-sostenuto): il corpo dipende ontologicamente dall'anima per la sua esistenza; analogamente, cit e acit dipendono completamente da Brahman.
- Niyantṛ-Niyamya (controllore-controllato): l'anima controlla e dirige il corpo dall'interno; Brahman è l'antaryāmin, il regolatore interno di ogni entità.
- Śeṣa-Śeṣin (accessorio-principale): il corpo esiste per servire i fini dell'anima; tutte le entità esistono per glorificare e servire Brahman.
Questa relazione non implica identità assoluta né separazione dualistica, ma inseparabilità ontologica con distinzione reale: cit e acit sono attributi (viśeṣaṇa) o modi (prakāra) di Brahman, il sostantivo qualificato (viśeṣya). Come gli attributi di un oggetto (il colore di un fiore) sono distinti dall'oggetto ma inseparabili da esso, così il mondo è realmente distinto da Dio ma non può esistere indipendentemente da Lui.
Causalità divina e realtà del mondo: la critica alla Māyā
Ramānuja abbraccia la teoria del satkāryavāda: l'effetto preesiste potenzialmente nella sua causa in forma sottile o non-manifesta (sūkṣma, avyakta), e si manifesta in forma grossolana (sthūla, vyakta) attraverso la trasformazione reale (pariṇāma). Brahman è simultaneamente:
- Causa materiale (upādāna-kāraṇa): la sostanza da cui il mondo è fatto, precisamente attraverso la trasformazione di cit e acit, che costituiscono il suo corpo.
- Causa efficiente (nimitta-kāraṇa): l'agente intelligente che progetta, crea e governa il cosmo con uno scopo (prayojana).
Durante la dissoluzione cosmica (pralaya), cit e acit esistono in stato sottile e indifferenziato nel corpo di Brahman; durante la creazione (sṛṣṭi), si espandono (vyūha) in forme distinte e individuate. Crucialmente, questa trasformazione avviene nel corpo di Brahman, non nella sua essenza (svarūpa), che rimane immutabile, proprio come l'anima umana rimane identica nonostante i cambiamenti del corpo.
Il rifiuto della Māyā illusionistica
Ramānuja dedica sezioni estese del suo Śrī Bhāṣya a confutare sistematicamente la teoria śaṅkariana della Māyā. I suoi argomenti principali includono:
- L'aporia ontologica: Māyā non può essere né reale (altrimenti contraddirebbe il monismo assoluto) né irreale (perché produce effetti apparenti). La categoria di anirvacānīya (indescrivibile come reale o irreale) è logicamente incoerente.
- Il problema del locus: dove risiede avidyā (l'ignoranza)? Non può risiedere in Brahman, che è pura conoscenza; né nei jīva individuali, che sono essi stessi prodotti dell'ignoranza.
- La contraddizione epistemologica: se tutta la conoscenza empirica è illusoria, come possiamo fidarci delle Scritture, che sono anch'esse oggetti di percezione e cognizione?
- L'assurdità della liberazione: se il jīva è identico a Brahman, non può esserci liberazione reale, poiché il liberato e il vincolato sarebbero la stessa entità.
Per Ramānuja, Māyā non è illusione oscurante, ma la potenza creativa reale (śakti) di Īśvara, attraverso cui Egli manifesta il mondo come līlā (gioco divino), un'espressione spontanea della sua pienezza e beatitudine, non motivata da necessità o mancanza. Il mondo è reale quanto è reale Brahman, perché è il corpo vivente di Dio.
Epistemologia e interpretazione scritturale
Ramānuja accetta tre pramāṇa (fonti valide di conoscenza):
- Pratyakṣa (percezione diretta): la conoscenza immediata attraverso i sensi, considerata veridica nella sua sfera appropriata. Contrariamente a Śaṅkara, per Ramānuja la percezione sensoriale rivela autenticamente la differenziazione reale.
- Anumāna (inferenza): il ragionamento deduttivo basato su connessioni invariabili (vyāpti) tra eventi o proprietà.
- Śabda (testimonianza autorevole): particolarmente le scritture vediche, considerate apauruṣeya (non di origine umana) e quindi infallibili. Ramānuja accorda priorità epistemica alle Śruti (testi rivelati) rispetto alla logica quando sembrano contraddirsi.
Ermeneutica vedantica: il conflitto con Śaṅkara
Il disaccordo fondamentale con Śaṅkara concerne l'interpretazione delle Upaniṣad. Dove Śaṅkara distingue tra:
- Jñāna-kāṇḍa (sezioni sulla conoscenza): che insegnano la verità ultima del Brahman nirguna
- Karma-kāṇḍa (sezioni sui rituali): valide solo per il piano empirico dell'ignoranza
Ramānuja rifiuta questa distinzione gerarchica. Per lui, le Upaniṣad parlano coerentemente di un Brahman qualificato (saguṇa), e le affermazioni apparentemente contraddittorie possono essere armonizzate attraverso un'interpretazione letterale (abhidhā) piuttosto che figurativa (lakṣaṇā).
Considerando la celebre formula upaniṣadica "Tat tvam asi" ("Tu sei Quello"), Śaṅkara la interpreta come identità assoluta tra ātman e Brahman, mentre Ramānuja la legge come identità qualificata: il jīva è parte (aṃśa) di Brahman come il corpo è parte del sé completo, condividendo la stessa natura essenziale (coscienza) ma distinguendosi per finitezza e dipendenza.
Le anime individuali (Jīva): natura e condizione
Le anime individuali occupano una posizione intermedia nell'ontologia di Ramānuja. Ciascun jīva possiede caratteristiche essenziali:
- Coscienza (jñāna-svarūpa): l'anima è per essenza cosciente, capace di conoscenza e autoconsapevolezza.
- Infinità numerica: esistono innumerevoli jīva, ciascuno eternamente distinto dagli altri.
- Atomicità (aṇutva): ogni anima è infinitesimale in dimensione, sebbene onnipervadente nei suoi effetti attraverso l'attributo della conoscenza.
- Eternità (nitya): le anime non sono create né distrutte, ma eternamente esistenti.
- Dipendenza (paratantra): ontologicamente dipendenti da Brahman per esistenza, conoscenza e azione.
Le anime si trovano in tre stati:
- Nitya: anime eternamente liberate che non sono mai state vincolate (saṃsāra), risiedenti permanentemente in Vaikuṇṭha.
- Mukta: anime liberate che hanno raggiunto la mokṣa dopo essere state legate.
- Baddha: anime attualmente vincolate nel ciclo delle nascite e morti, oscurate dal karma e dall'ignoranza (ajñāna).
Libertà e responsabilità morale
Un problema critico è: se Brahman è l'antaryāmin che controlla internamente ogni anima, come possono i jīva essere liberi e moralmente responsabili? Ramānuja risponde con una teoria del consenso divino: Brahman permette (anumati) alle anime di agire secondo i loro desideri e inclinazioni karmiche, senza determinare coercitivamente le loro scelte. Dio fornisce la capacità di agire, ma la direzione dell'azione dipende dalla volontà del jīva. Questa sovranità limitata è sufficiente per la responsabilità etica, poiché l'anima rimane autrice (kartṛ) delle proprie azioni (karma).
Il sentiero della liberazione: Bhakti e Prapatti
Per Ramānuja, la mokṣa (liberazione) consiste nel raggiungere Vaikuṇṭha, il regno divino, dove l'anima gode della visione beatifica (aparokṣa-anubhava) di Brahman e partecipa eternamente alla sua natura divina pur mantenendo la propria individualità. La liberazione non è fusione annichilante nell'impersonale, ma realizzazione perfetta della relazione d'amore (prema) con Dio.
Bhakti yoga: la via della devozione amorosa
Il percorso principale verso la liberazione è il Bhakti yoga, definito da Ramānuja come "dhyānasya atiśayaḥ" (meditazione intensa e continuata) su Dio, che culmina in un amore (sneha) così profondo che l'anima non può esistere senza la contemplazione dell'amato divino. Questo bhakti include:
- Jñāna: conoscenza corretta della natura di Brahman, dei jīva e della loro relazione.
- Upāsanā: pratica devozionale continuata, inclusi rituali, recitazione dei nomi divini (nāma-saṅkīrtana), ascolto delle scritture.
- Karma-yoga: azioni compiute come offerta a Dio (īśvara-arpaṇa), senza attaccamento ai frutti.
- Vairāgya: distacco da oggetti mondani e auto-centratura.
Il culmine del bhakti è la para-bhakti (devozione suprema), uno stato di assorbimento costante in Dio che precede immediatamente la mokṣa.
Prapatti: la via della resa totale
Riconoscendo che il difficile sentiero del bhakti-yoga richiede sforzo prolungato, disciplina e capacità intellettuali, Ramānuja offre un'alternativa accessibile a tutti: Prapatti o Śaraṇāgati (resa, abbandono). Questa via consiste nella completa auto-consegna (ātma-nikṣepa) ai piedi del Signore, affidandosi interamente alla sua grazia (kṛpā) per la salvezza.
Prapatti comprende sei componenti:
- Ānukūlya-saṅkalpa: risoluzione di fare ciò che piace a Dio.
- Prātikūlya-varjana: evitare ciò che dispiace a Dio.
- Mahā-viśvāsa: fede suprema che Dio proteggerà.
- Goptṛtva-varaṇa: scelta di Dio come unico protettore.
- Kārpaṇya: riconoscimento umile della propria impotenza.
- Ātma-nikṣepa: atto finale di auto-consegna.
Significativamente, prapatti può essere compiuta in un singolo momento di sincerità assoluta, rendendola accessibile persino a chi si trova in punto di morte. Ramānuja enfatizza che prapatti non è un percorso "inferiore", ma semplicemente più diretto, poiché riconosce esplicitamente la verità che la mokṣa dipende interamente dalla grazia divina, non dagli sforzi umani.
Il ruolo della grazia (Kṛpā) e di Śrī-Lakṣmī
Nell'economia della salvezza, la grazia divina gioca un ruolo indispensabile. Sebbene il karma buono e la devozione sincera siano necessari, essi non "causano" meccanicamente la liberazione. Piuttosto, dispongono il devoto a ricevere la grazia (prasāda) di Dio, che è l'agente effettivo della mokṣa.
Crucialmente, Ramānuja introduce Śrī-Lakṣmī, la consorte eterna di Viṣṇu, come puruṣa-kāra (mediatrice). Śrī incarna la compassione materna (karuṇā) di Dio e intercede presso Viṣṇu per conto dei peccatori, addolcendo la giustizia con la misericordia.
Riforma sociale e eredità storica
La filosofia di Ramānuja non rimase confinata alle aule accademiche o ai circoli intellettuali, ma si tradusse in un programma radicale di riforma sociale che sfidò le strutture più radicate della società indiana medievale.
La battaglia contro il sistema delle caste
Nel contesto dell'ortodossia brahmanica dell'India medievale, dove la rigidità del varṇa-āśrama-dharma (sistema delle caste) era considerata sacra e inviolabile, Ramānuja proclamò un messaggio rivoluzionario: la possibilità di salvezza è universale, non limitata dalla nascita ma determinata dalla devozione sincera (bhakti). Egli fondò questa convinzione su argomenti sia teologici che scritturali:
- Brahman risiede come antaryāmin in ogni essere, indipendentemente dalla casta; di conseguenza, tutti gli esseri umani partecipano della dignità divina.
- Le scritture Vaiṣṇava, specialmente la Bhagavad Gītā (9.32), dichiarano esplicitamente che anche donne e śūdra possono raggiungere la liberazione suprema.
- Diversi Āḻvār, i poeti-santi venerati nella tradizione Śrī Vaiṣṇava, provenivano da caste non-brahmaniche, dimostrando che la grazia divina trascende le barriere sociali.
Le azioni concrete di Ramānuja furono audaci:
- Accettò come discepolo e venerò Kañcīpūrṇa (Tirukkacchi Nambi), un devoto di bassa casta, riconoscendone la superiorità spirituale.
- Istituì pratiche rivoluzionarie nei templi sotto la sua autorità, inclusa l'apertura delle porte a tutte le caste in giorni specifici.
- Coniò il termine Tirukulattār ("membri della famiglia divina") per coloro che l'ortodossia definiva "intoccabili", restituendo loro dignità teologica.
- Promosse persone basandosi sul merito spirituale e sulla devozione piuttosto che sulla nascita.
L'episodio del mantra universale
Un episodio celebre nella tradizione agiografica illustra il radicalismo spirituale di Ramānuja. Il suo maestro, Tirukkōṭṭiyūr Nambi, inizialmente rifiutò di rivelargli il sacro aṣṭākṣara-mantra ("Oṃ Namo Nārāyaṇāya"), richiedendo diciotto viaggi da Srirangam a Tirukkōṭṭiyūr (circa 200 km). Quando finalmente lo ricevette, con l'avvertimento che divulgarlo ad altri lo avrebbe condannato all'inferno, Ramānuja salì immediatamente sul tetto del tempio e proclamò il mantra a tutta la folla, dichiarando:
"Se la mia dannazione eterna può liberare innumerevoli anime, accetto volentieri questo destino."
Questo gesto simbolizza il mahā-karuṇā (grande compassione) che pervade la teologia di Ramānuja: la salvezza universale vale qualsiasi sacrificio personale.
Persecuzione e esilio
Le riforme di Ramānuja suscitarono l'opposizione feroce dei brahmani ortodossi e del potere politico. Il re Chola Kulottunga I (che regnò 1070-1122), devoto di Śiva, perseguitò i Vaiṣṇava e tentò di costringere Ramānuja a firmare una professione di fede śaivita. Ramānuja rifiutò e fu costretto all'esilio per quasi vent'anni (tradizionalmente 1096-1116) in Karnataka, alla corte Hoysala di Mysore, dove continuò la sua opera di predicazione e riforma.
Durante l'esilio, uno dei suoi discepoli principali, Kūrattāḻvāṉ (Kuresa), fu accecato per ordine reale per aver rifiutato di rinnegare Viṣṇu. Questa persecuzione, lungi dal soffocare il movimento, ne rafforzò la coesione e la determinazione.
Eredità e influenza
Ramānuja morì a Srirangam all'età venerabile di 120 anni (secondo la tradizione), lasciando dietro di sé una comunità trasformata. La sua influenza fu immensa e multiforme:
- Filosofica: il Viśiṣṭādvaita divenne uno dei tre pilastri del Vedanta, insieme all'Advaita di Śaṅkara e al Dvaita (dualismo) di Madhva. Influenzò pensatori successivi come Veṅkaṭanātha (Vedānta Deśika) e Pillai Lokācārya, che fondarono sub-scuole distinte.
- Religiosa: Ramānuja fornì una fondazione teologica sofisticata al movimento bhakti, che si diffuse poi in tutta l'India settentrionale attraverso figure come Rāmānanda, Kabīr, Mīrābāī, e culminò nei movimenti bhakti bengalesi guidati da Caitanya Mahāprabhu.
- Sociale: le sue riforme prepararono il terreno per successivi riformatori come Basava, Ramananda e, in epoca moderna, figure come Narayana Guru e B.R. Ambedkar nella loro lotta contro l'intoccabilità.
- Liturgica: stabilì la ubhaya-vedānta (doppio Vedanta), legittimando gli inni tamil degli Āḻvār accanto alle scritture sanscrite nel culto templare, un'innovazione radicale che elevò la letteratura vernacolare devozionale allo status di rivelazione.
La rilevanza contemporanea del Viśiṣṭādvaita
Nel panorama filosofico moderno, il pensiero di Ramānuja offre risorse preziose per diverse questioni:
- Filosofia della religione: il Viśiṣṭādvaita offre un modello sofisticato di teismo panenteistico, dove Dio trascende il mondo pur includendolo nella sua natura. Questo anticipa concezioni moderne come la teologia del processo.
- Etica ambientale: se il mondo è realmente il corpo di Dio, esso merita rispetto intrinseco, fondando un'etica ecologica su basi metafisiche.
- Pluralismo religioso: l'enfasi di Ramānuja sull'accessibilità universale della grazia e sulla molteplicità delle forme divine può supportare approcci inclusivi al dialogo interreligioso.
- Filosofia della mente: il modello śarīra-śarīrin offre un'alternativa interessante al dualismo cartesiano e al materialismo riduzionista, proponendo un'emergentismo teistico dove la coscienza pervade la realtà a livelli differenti.
- Giustizia sociale: la critica di Ramānuja alle gerarchie ingiuste e la sua enfasi sulla dignità universale rimangono profeticamente rilevanti nelle lotte contemporanee contro discriminazione e oppressione.
Conclusione: la metafora dell'oceano divino
Se la metafisica di Śaṅkara può essere paragonata a un cristallo perfetto, trasparente e indifferenziato, dove ogni apparente molteplicità è solo rifrazione della luce unica, il Viśiṣṭādvaita di Ramānuja assomiglia a un oceano vivente.
Questo oceano è una realtà singola e indivisibile—non esistono "due oceani"—eppure pulsa di vita differenziata: onde che si sollevano e ricadono, correnti che si intrecciano, creature marine che nuotano nelle sue profondità, gocce di pioggia che lo arricchiscono. Ogni onda è realmente distinta dalle altre nella forma e nel movimento, ogni goccia possiede una sua identità transitoria, eppure tutte sono inseparabilmente acqua, tutte condividono la medesima natura salina, tutte dipendono per l'esistenza dal corpo oceanico totale che le contiene e le sostiene.
L'oceano non è diminuito dal movimento delle onde né accresciuto dalle gocce di pioggia; rimane se stesso, maestoso e immutabile nella sua essenza, anche mentre danza eternamente nelle sue manifestazioni. Le onde non sono illusioni proiettate sull'acqua ferma, ma espressioni autentiche della natura dinamica dell'oceano stesso. Quando un'onda ritorna all'oceano, non scompare nel nulla, ma realizza pienamente la sua natura oceanica pur conservando un punto di prospettiva unico da cui contemplare la magnificenza del tutto.
Così, per Ramānuja, Brahman è l'oceano divino infinito, i jīva sono le gocce coscienti che lo abitano, e il mondo materiale è il letto e la superficie attraverso cui l'oceano si manifesta. La liberazione non è l'evaporazione dell'individualità, ma il ritorno gioioso alla piena coscienza della propria natura oceanica—un ritorno che è insieme realizzazione e relazione, conoscenza e amore, unità e comunione.
In questo senso, il Viśiṣṭādvaita di Ramānuja offre una visione della realtà che onora simultaneamente l'aspirazione mistica all'unione con l'Assoluto e l'esperienza esistenziale della relazione personale con il divino, costruendo un ponte filosofico tra il trascendente e l'immanente, tra l'eternità e il tempo, tra la verità e l'amore.
- Rev. Dr. Luca Vona