Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 7 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Gesù consacra il tempo della sosta

Lettura

Luca 10,38-42

38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

Commento

Lungo il cammino Gesù decide di fare una sosta a casa di Marta e Maria, sorelle del suo amico Lazzaro. Le due donne mostrano atteggiamenti contrapposti, ma entrambi importanti nella Chiesa: Marta, con il suo servizio attivo mostra la diakonìa, il prendersi cura del Signore, presente in ogni persona bisognosa; Maria è l'esemplare della discepola dedita all'ascolto di Dio. Degna di nota è la posizione assunta da quest'ultima, seduta davanti a Gesù, tipica del discepolo e a quei tempi del tutto inusuale per una donna. 

Il Signore non rimprovera a Marta il suo servizio, ma il suo essere "tutta presa"; letteralmente "assorbita" (gr. periestàto) per il grande servizio. Gesù consacra il tempo della sosta, dedicato al suo ascolto. Se non esita di compiere miracoli e guarigioni in giorno di sabato, al tempo stesso porta la sacralità del riposo sabbatico nel quotidiano. Non c'è attività così importante che possa distoglierci da una pausa per ascoltare la sua parola. 

Gesù rimprovera a Marta di preoccuparsi e agitarsi per troppe cose. Innanzitutto, qualsiasi opera di servizio deve essere da noi svolta con una azione quieta: con le mani dobbiamo servire, ma con le orecchie dobbiamo ascoltare la voce del Cristo.

Quando Gesù vuole essere accolto nelle nostre vite non ci chiede di "strafare". L'apostolato, il servizio di Cristo nel nostro prossimo, non può schiacciare e annullare lo spazio indispensabile riservato alla contemplazione, e alla lode di Dio, vero nutrimento e ristoro dell'anima.

Cammino e sosta, scandiscono la vita di Gesù, come una melodia in cui le pause sono importanti quanto le note. Egli ci esorta alla semplificazione della nostra vita esteriore ed interiore; ci libera dagli affanni chiamandoci alla semplicità e alla gioia del discepolato, che è sapiente equilibrio tra il fare e l'ascoltare, il servizio e l'adorazione: faremo così una cosa senza trascurare l'altra, compiendo "la giustizia e l'amore di Dio" (Lc 11,42).

Preghiera

Signore, noi ti adoriamo, in ascolto, seduti ai tuoi piedi. La tua parola alimenti in noi l'amore contemplativo e l'ardore per la vita apostolica; senza che mai perdiamo l'attenzione verso la tua presenza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 6 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Chiamati ad essere prossimo

Lettura

Luca 10,25-37

25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 28 E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30 Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37 Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

Commento

La parabola del buon samaritano ci insegna che né la conoscenza della legge né il culto liturgico sono sufficienti per ottenere la salvezza: è infatti necessario passare dal "discorso su Dio" e dall'adorazione di Dio alla concreta pratica di vita, mettendo a frutto i talenti che egli ci ha dato: quei talenti che il samaritano compassionevole lascia all'albergatore affinché si prenda cura dell'uomo ferito.

Se per i dottori della legge il "prossimo" era colui che apparteneva a Israele o lo straniero che abitava tra gli ebrei, insomma il prossimo era colui che si trovava "vicino" ad Israele, Gesù ribalta questa impostazione teologica, affermando che prossimo deve essere ogni credente verso chi ha bisogno, a prescindere dalla su etnìa, religione e cultura: infatti sull'identità dell'uomo ferito non ci viene detto nulla. In tale ottica anche un samaritano, che era considerato dagli ebrei un eretico idolatra, può diventare con la sua compassione prossimo di chi è nel bisogno, prossimo dell'uomo che è immagine di Dio, adempiendo il grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo... e il prossimo tuo...».

Chi, se non Cristo stesso, è colui che senza badare a chi siamo, cosa ci meritiamo, si prende cura delle nostre ferite? Sul suo esempio siamo chiamati a passare dal "cosa c'è scritto" della legge al "fa'" del suo comandamento. Non perché siamo capaci, da noi stessi, di compiere opere tali da meritarci la nostra giustificazione; ma perché la sua grazia ci dona i talenti per farle.

Al contempo siamo anche il locandiere, al quale il Signore chiede di prendersi cura di colui che è nel bisogno, pagandogli i due denari e promettendogli di rifondere al suo ritorno il "di più" che spenderà. La Chiesa è chiamata ad essere luogo di compassione e misericordia.

Preghieria

Signore Gesù Cristo, che purifichi le ferite dela nostra anima con il tuo sangue e ci ridoni vigore con l'olio della tua grazia, fa' che siamo sempre solleciti verso coloro che sono nella necessità. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Bruno e la pace che il mondo non conosce

I cattolici d'occidente celebrano oggi la memoria di Bruno, fondatore dell'Ordine certosino.

Nel 1101 muore nel romitorio di Serra, in Calabria, Bruno, fondatore della Certosa. Nato a Colonia intorno al 1030, egli aveva dapprima compiuto gli studi nella celebre scuola cattedrale di Reims, fino a diventarne in giovanissima età scholasticus, cioè maestro di teologia.

Dopo aver posto mano alla stesura di un commento sui Salmi e averne intrapreso un altro sulle epistole paoline, Bruno visse anni difficili al servizio del vescovo Manasse, notoriamente simoniaco. Maturato un certo disgusto per la mondanità della chiesa di quel tempo, Bruno rifiutò, alla deposizione di Manasse, l'elezione ad arcivescovo di Reims, e iniziò a pensare a una forma di vita conforme al suo desiderio di ricerca del Signore nella solitudine e nel silenzio.

Dopo un tempo trascorso vicino a Molesme, decise infine di ritirarsi nei pressi di Grenoble, sul massiccio della Chartreuse, da cui prenderà il nome l'Ordine certosino, dando così inizio a una forma di vita fortemente eremitica.

Chiamato da papa Urbano II, suo antico discepolo, Bruno dovette lasciare i propri compagni per recarsi a Roma al suo servizio. Ma di fronte ai dissidi tra il pontefice e l'impero, egli prese la decisione di ritirarsi definitivamente in Calabria, dando vita all'eremo di Serra.

Animo vigilante, uomo di desideri e di amore ardente per il Signore, egli poté così dedicarsi all'ascolto della parola di Dio e all'attesa del suo Regno nella preghiera. È la preghiera, secondo Bruno, che porta l'uomo a consolidare la propria umanità nella lotta che silenziosamente ha luogo nel cuore, giorno dopo giorno.

Tracce di lettura

Io abito in un eremo, da ogni lato molto distante dalle abitazioni degli uomini, nelle lontane regioni della Calabria insieme a dei fratelli che conducono vita monastica - alcuni dei quali sono ben istruiti - e che, perseverando con saldezza nei loro posti di sentinella nelle cose di Dio, attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena busserà.
Quanta utilità e gioia divina, poi, la solitudine e il silenzio dell'eremo apportino a coloro che li amano, lo sanno solo coloro che ne hanno fatto l'esperienza. Qui, infatti, agli uomini forti è consentito ritornare in se stessi e abitare con se stessi quanto a loro piace, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e cibarsi con beatitudine dei frutti del paradiso. Qui si acquista quell'occhio dal cui sereno sguardo d'amore è colpito lo Sposo e attraverso il quale, se senza macchia e puro, si vede Dio. Qui si celebra una tranquillità solerte e si gusta il riposo mediante un quieto agire. Qui Dio dispensa ai suoi atleti, per la fatica della lotta, la ricompensa desiderata, cioè quella pace che il mondo non conosce, e la gioia nello Spirito santo. (Bruno, Lettera a Rodolfo il Verde 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


domenica 5 ottobre 2025

Per mezzo della fede, radicati nell'amore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SEDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo, possa la tua continua pietà purificare e difendere la tua Chiesa; e poiché essa non può essere al sicuro senza il tuo soccorso, preservala sempre con il tuo aiuto e la tua bontà. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 3,13-21; Lc 7,11-17

Commento

Due folle si incontrano: l'una è quella dei discepoli di Gesù e del suo vasto seguito, l'altra quella del funerale dell'unico figlio di una vedova. Nella società patriarcale di quel contesto storico-geografico le vedove erano una categoria particolarmente vulnerabile; possiamo immaginare, dunque, la tragedia per questa donna, di aver perso l'unico figlio maschio. 

Gesù "ne ebbe compassione"; con una traduzione più accurata del verbo greco splanchnizomai, possiamo dire "ne fu commosso nelle viscere". Lo stesso verbo è utilizzato da Luca nella parabola del buon samaritano e in quella del figliol prodigo. Gesù, che si commosse fino a prorompere in pianto davanti alla tomba dell'amico Lazzaro, comprende la nostra miseria di creature soggette alla morte a causa del peccato (cfr. Rm 5,12-14) e compie in questa occasione un gesto che per la legge ebraica rendeva impuri. 

Egli non solo non contrae alcuna impurità ma è anche in grado di ridonare la vita a ciò che si è avviato verso la corruzione. Un gesto semplice e una parola efficace: "Giovinetto, dico a te, alzati!" - quell'"alzati" che nel verbo originale greco egheiro descriverà nello stesso Vangelo di Luca il mistero pasquale. 

Gesù non teme di toccare con mano la nostra miseria. Troppe volte la religione inculca un senso di impurità in chi vorrebbe avvicinarsi ad essa, provocandone il rifiuto. Per paura di perdere consensi, d'altra parte, alcune chiese rimuovono la parola "peccato" dal proprio lessico, disconoscendo che nell'uomo vi è una tendenza al male, all'egoismo, alla prevaricazione. 

Il vangelo ci istruisce sul fatto che tutti abbiamo peccato ma la fede in Cristo ci consente di morire al peccato per risorgere nella grazia. Come i testimoni del giovane riportato in vita possiamo veramente dire "Dio ha visitato il suo popolo". 

"Per mezzo della fede... radicati nell'amore" conosceremo, afferma Paolo (Ef 3,17-19), la misura dell'amore di Cristo, e saremo "ripieni della pienezza di Dio". Dio che può fare molto di più di quel che possiamo aspettarci (Ef 3,20) ha mandato il suo Figlio a restaurare la sua immagine nell'uomo; non ci concede solo di vincere la morte, ma di partecipare alla sua stessa vita divina.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 3 ottobre 2025

La teologia del silenzio di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

La ricerca del divino e dell'ultima realtà ha prodotto, nelle diverse tradizioni spirituali dell'umanità, approcci apparentemente paradossali: il silenzio come linguaggio più eloquente, la negazione come affermazione suprema, il vuoto come pienezza ultima. Due figure emblematiche di questa via negativa emergono da contesti culturali distanti: Dionigi Pseudo-Areopagita, teologo cristiano del V-VI secolo, e la tradizione del Buddhismo Zen con il suo concetto di śūnyatā (vuoto). Nonostante le profonde differenze teologiche e filosofiche, questi due approcci condividono una comune intuizione: l'ineffabilità dell'assoluto e l'inadeguatezza del linguaggio concettuale nel cogliere l'ultima realtà.

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita

Il contesto e l'opera

Dionigi Areopagita, la cui vera identità rimane avvolta nel mistero, produsse un corpus di scritti che avrebbe profondamente influenzato la mistica cristiana orientale e occidentale. Le sue opere principali - "I nomi divini", "La teologia mistica", "La gerarchia celeste" e "La gerarchia ecclesiastica" - elaborano una teologia che si muove su due livelli complementari: la via affermativa (catafatica) e la via negativa (apofatica).

La via negativa

Al centro del pensiero dionisiano sta la convinzione che Dio trascenda radicalmente ogni categoria dell'essere e del pensiero umano. La teologia apofatica procede quindi per negazioni successive: Dio non è buono, non è sapiente, non è essere, non è vita - non nel senso che gli manchino queste qualità, ma perché le trascende infinitamente. Come scrive Dionigi nella "Teologia mistica": "Procedendo verso l'alto, diciamo che Egli non è anima, né mente, né ha immaginazione o opinione o ragione o intellezione, né è ragione o intellezione, né si può dire o pensare".

Questo processo di negazione non è nichilismo, ma riconoscimento dell'inadeguatezza del linguaggio umano di fronte all'assoluto trascendente. Dio è "super-essenziale", oltre ogni determinazione. Le affermazioni catafatiche (Dio è buono, Dio è sapiente) rimangono valide come simboli che ci orientano verso il divino, ma devono essere trascese nella contemplazione mistica.

La tenebra luminosa

Un'immagine centrale in Dionigi è quella della "tenebra luminosa" o "tenebra divina". Mosè che sale sul Sinai e penetra nella nube oscura dove dimora Dio diventa il paradigma dell'esperienza mistica: "Allora Mosè si libera da tutto ciò che vede e da coloro che vedono ed entra nella tenebra veramente mistica dell'ignoranza; qui fa tacere ogni conoscenza positiva, sfugge interamente a ogni presa e a ogni visione, perché appartiene totalmente a Colui che è al di là di tutto".

Questa oscurità non è assenza di luce, ma eccesso di luminosità che abbaglia la mente discorsiva. È l'esperienza dell'unione mistica che trascende la dualità soggetto-oggetto, un'esperienza che può essere vissuta ma non adeguatamente descritta.

L'influenza sulla mistica cristiana

L'influenza di Dionigi sulla mistica cristiana è stata immensa. Attraverso Giovanni Scoto Eriugena nel IX secolo, il pensiero dionisiano penetrò in Occidente, influenzando figure come Meister Eckhart, Giovanni della Croce con la sua "notte oscura dell'anima", e la tradizione contemplativa della "Nube della non-conoscenza". In Oriente, la sua teologia apofatica divenne parte integrante della spiritualità ortodossa, dalla Filocalia agli esicasti del Monte Athos.

Il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen

Le radici nella filosofia Madhyamaka

Il concetto di śūnyatā (vuoto) nel Buddhismo Zen affonda le sue radici nella filosofia Madhyamaka di Nāgārjuna (II-III secolo). Śūnyatā non indica il nulla nichilistico, ma l'assenza di esistenza intrinseca, indipendente e permanente in tutti i fenomeni. Ogni cosa esiste in relazione, in dipendenza da cause e condizioni, priva di un'essenza fissa e sostanziale.

Nāgārjuna, attraverso la sua dialettica delle "quattro negazioni" (catuṣkoṭi), decostruisce sistematicamente ogni posizione metafisica: la realtà ultima non è, non non-è, non è sia essere che non-essere, né è né essere né non-essere. Questa logica tetralemmatica dissolve ogni tentativo della mente concettuale di afferrare l'assoluto.

Lo Zen e la realizzazione diretta

Il Buddhismo Zen, sviluppatosi in Cina (Chan) e poi in Giappone, radicalizza l'approccio alla śūnyatā enfatizzando l'esperienza diretta oltre le parole e i concetti. Il famoso verso attribuito a Bodhidharma recita: "Una trasmissione speciale al di fuori delle scritture, non dipendente da parole e lettere, che punta direttamente alla mente umana, permettendo di vedere nella propria natura e raggiungere la buddhità".

Il vuoto nello Zen non è un concetto da comprendere intellettualmente, ma una realtà da realizzare attraverso la pratica meditativa (zazen) e l'illuminazione improvvisa (satori o kenshō). È la percezione diretta della natura vuota di tutti i fenomeni, incluso il sé, che libera dall'attaccamento e dalla sofferenza.

Il Paradosso della Forma e del Vuoto

Il celebre Sutra del cuore condensa questa visione nella formula: "La forma è vuoto, il vuoto è forma; la forma non è altro che vuoto, il vuoto non è altro che forma". Questo non è dualismo, ma la comprensione non-duale che la vacuità dei fenomeni non li nega ma ne costituisce la vera natura. I fenomeni non possiedono esistenza sostanziale, eppure appaiono e funzionano nel mondo relativo delle cause e condizioni.

Nel Buddhismo Zen, questa comprensione si traduce in un'affermazione radicale dell'ordinario: "Prima dell'illuminazione: tagliare legna, portare acqua. Dopo l'illuminazione: tagliare legna, portare acqua". Il sacro non è altro dal profano; il nirvana non è separato dal samsara. La realizzazione del vuoto non ci porta fuori dal mondo, ma trasforma il nostro modo di essere nel mondo.

I Kōan come Pedagogia del Vuoto

Una caratteristica distintiva dello Zen Rinzai è l'uso dei kōan, enigmi che sfidano la logica razionale e costringono la mente a trascendere il pensiero dualista. Domande come "Qual è il suono di una mano sola?" o "Mostrami il tuo volto originale prima che i tuoi genitori nascano" non ammettono risposte concettuali. Servono a cortocircuitare il pensiero discriminante e a precipitare l'esperienza diretta della vacuità.

Convergenze e risonanze

L'ineffabilità dell'Assoluto

Sia Dionigi che lo Zen condividono una profonda diffidenza verso il linguaggio concettuale quando si tratta dell'ultima realtà. Per Dionigi, Dio è al di là di ogni nome e predicato; per lo Zen, la natura di Buddha non può essere catturata dalle parole. Entrambi riconoscono che il linguaggio, nato dalla dualità soggetto-oggetto, è intrinsecamente inadeguato a esprimere ciò che trascende tale dualità.

Questa comune enfasi sull'apofatismo non è mero agnosticismo: è il riconoscimento che l'esperienza dell'assoluto supera le capacità della ragione discorsiva. Come afferma Dionigi nella "Teologia mistica", si devono abbandonare i sensi e le operazioni dell'intelletto per unirsi al divino. Similmente, lo Zen insiste che "se incontri il Buddha per strada, uccidilo" - un modo provocatorio per dire che qualsiasi concetto o immagine del risveglio deve essere trasceso.

La via della negazione

Entrambe le tradizioni impiegano strategie negative per indicare l'assoluto. Le negazioni successive di Dionigi ("né questo né quello") trovano un parallelo nel metodo di Nāgārjuna e nei kōan dello Zen che demoliscono sistematicamente ogni posizione concettuale. Questa negazione non è fine a se stessa, ma strumento di purificazione della mente dalle sue costruzioni e attaccamenti.

Tuttavia, c'è una differenza significativa: mentre Dionigi procede da affermazioni catafatiche a negazioni apofatiche mantenendo comunque una direzione verso un Dio trascendente personale, lo Zen tende a dissolvere ogni reificazione, inclusa quella di un assoluto separato dal relativo. Il vuoto buddhista è vuoto anche di sé stesso: non è un'entità metafisica ma l'assenza di sostanzialità in tutti i fenomeni.

L'Esperienza trasformativa

Centrale in entrambe le tradizioni è l'idea che la comprensione ultima non sia questione di acquisire nuove informazioni ma di trasformazione esistenziale. L'unione mistica di Dionigi e il satori dello Zen non sono conoscenze "su" qualcosa, ma modi radicalmente nuovi di essere e percepire la realtà.

In Dionigi, questa trasformazione avviene attraverso la contemplazione che culmina nell'henōsis (unione) con il divino. Nello Zen, è la realizzazione improvvisa o graduale della propria natura di Buddha, il riconoscimento che illuminazione e confusione, sacro e profano, non sono due realtà separate ma aspetti della stessa realtà ultima.

Il ruolo del maestro e della tradizione

Entrambe le tradizioni riconoscono l'importanza della guida spirituale. Dionigi parla delle gerarchie celesti ed ecclesiastiche come mediazioni necessarie; lo Zen enfatizza la trasmissione diretta da maestro a discepolo (ishin-denshin). Nonostante l'enfasi sull'ineffabile, entrambi riconoscono che la realizzazione spirituale avviene all'interno di comunità di pratica e attraverso la trasmissione vivente.

Divergenze fondamentali

Teismo e non-teismo

La differenza più radicale sta nella natura dell'assoluto. Per Dionigi, nonostante tutta la via negativa, Dio rimane un essere supremo personale, creatore trascendente che si rivela attraverso la creazione e l'incarnazione di Cristo. La teologia apofatica cristiana afferma che Dio è al di là dell'essere, ma non nega che sia il fondamento personale di ogni esistenza.

Il Buddhismo Zen, invece, non postula alcun Dio creatore o assoluto personale. La śūnyatā non è un'entità divina ma la natura ultima di tutti i fenomeni. Il Buddhismo evita consapevolmente le speculazioni metafisiche su un'origine prima o un creatore, concentrandosi invece sulla liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione della natura vuota dell'io e dei fenomeni.

Creazione vs. originazione dipendente

Per Dionigi e il cristianesimo, il mondo è creato ex nihilo da Dio e mantiene una distinzione ontologica tra Creatore e creato, anche se la creazione partecipa dell'essere divino. Nel Buddhismo, la dottrina del pratītyasamutpāda (originazione dipendente) nega qualsiasi creazione assoluta: ogni fenomeno sorge in dipendenza da cause e condizioni, in una rete infinita di interdipendenza senza inizio primo.

Il ruolo della grazia e dello sforzo

Nella mistica cristiana dionisiana, l'unione con Dio è ultimamente un dono della grazia divina. L'ascesi e la contemplazione preparano l'anima, ma l'henōsis è opera di Dio che si dona al mistico. Nello Zen, invece, l'illuminazione dipende dallo sforzo personale nella pratica (jiriki, "potere proprio"), anche se alcune scuole buddhiste, come la Terra Pura, enfatizzano il "potere altro" (tariki).

Persona e non-sé

Il cristianismo, anche nella sua mistica più radicale, mantiene l'identità personale dell'anima anche nell'unione con Dio. Meister Eckhart può parlare della "nascita di Dio nell'anima", ma l'anima mantiene la sua identità di fronte a Dio. Il Buddhismo, invece, nega l'ātman (sé permanente) come illusione fondamentale. L'anattā (non-sé) è una delle tre caratteristiche dell'esistenza, e la realizzazione buddhista include il riconoscimento che non esiste un'anima sostanziale, permanente e indipendente.

Implicazioni filosofiche e spirituali

Epistemologia mistica

Entrambe le tradizioni sfidano l'epistemologia razionalista occidentale che privilegia il pensiero concettuale e la conoscenza proposizionale. Propongono invece forme di conoscenza non-duale, contemplativa o meditativa, che trascendono la separazione soggetto-oggetto. Questa epistemologia mistica ha influenzato profondamente la fenomenologia contemporanea e gli studi sulla coscienza.

La docta ignorantia (dotta ignoranza) di Niccolò Cusano, influenzato da Dionigi, e il "non-sapere" (wu-wei) del Buddhismo Zen suggeriscono che la saggezza ultima comporti un disimparare, uno svuotamento delle certezze concettuali piuttosto che un accumulo di conoscenze. Questo ha profonde implicazioni per come concepiamo l'educazione spirituale e la maturità intellettuale.

Etica e compassione

Interessante è notare come entrambe le tradizioni, pur enfatizzando il trascendente o il vuoto, non conducano al quietismo ma a un'etica dell'azione compassionevole. In Dionigi, l'amore (agape) è centrale: il movimento estatico verso Dio si riflette nell'amore per il prossimo. Nello Zen e nel Buddhismo Mahāyāna più ampiamente, la realizzazione della vacuità genera spontaneamente compassione (karuṇā): riconoscendo che tutti gli esseri sono vuoti di esistenza intrinseca e interconnessi, sorge naturalmente il desiderio di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza.

Linguaggio e paradosso

Entrambe le tradizioni hanno sviluppato sofisticate strategie linguistiche per parlare dell'ineffabile. Dionigi usa il linguaggio simbolico e la via della negazione; lo Zen impiega paradossi, ossimori, poesia e gesti non verbali. Questo riconosce che, sebbene il linguaggio sia inadeguato, è l'unico strumento che abbiamo. Il linguaggio deve quindi essere usato abilmente per puntare oltre se stesso, come un dito che indica la luna senza essere la luna.

Dialogo interreligioso contemporaneo

Nel contesto del pluralismo religioso contemporaneo, il confronto tra la teologia apofatica cristiana e il concetto buddhista di vuoto offre terreno fertile per il dialogo. Pensatori come Thomas Merton, che praticò lo Zen pur rimanendo monaco cristiano, hanno dimostrato che è possibile un arricchimento reciproco senza sincretismo superficiale.

Teologi come John Cobb Jr. hanno esplorato come il processo filosofico possa mediare tra buddhismo e cristianesimo. Altri, come Masao Abe e la Scuola di Kyoto, hanno cercato di pensare insieme śūnyatā e kenōsis (svuotamento) cristologica, vedendo in entrambi un movimento di auto-svuotamento che apre alla trasformazione.

Tuttavia, è importante mantenere l'onestà intellettuale: le convergenze, per quanto profonde, non devono oscurare le differenze reali. Il rischio del dialogo interreligioso è talvolta quello di creare un "minimo comune denominatore" che impoverisce entrambe le tradizioni. Una vera convergenza rispetta le particolarità: il Dio personale e trascendente del cristianesimo non è riducibile alla śūnyatā buddhista, e viceversa.

Due vie, una saggezza?

La teologia apofatica di Dionigi Pseudo-Areopagita e il concetto di vuoto nel Buddhismo Zen rappresentano due delle più raffinate articolazioni dell'esperienza mistica dell'umanità. Nonostante le profonde differenze teologiche, ontologiche ed epistemologiche, entrambe condividono un'intuizione fondamentale: l'ultima realtà trascende le categorie del pensiero concettuale e può essere realizzata solo attraverso una trasformazione radicale della coscienza.

Dionigi ci invita a salire nella tenebra luminosa dove Dio dimora oltre ogni nome e concetto. Lo Zen ci chiama a realizzare il vuoto in ogni forma, a vedere attraverso l'illusione del sé separato e riconoscere la nostra natura originale. Entrambi i percorsi richiedono coraggio: il coraggio di abbandonare le certezze concettuali, di morire alle nostre costruzioni mentali, di aprirci a una realtà che eccede infinitamente la nostra comprensione.

In un'epoca caratterizzata dal nichilismo da un lato e dal fondamentalismo dall'altro, queste tradizioni apofatiche offrono una terza via: né il rifiuto cinico di ogni verità ultima, né l'attaccamento dogmatico a formulazioni concettuali, ma un'umile apertura al mistero che ci trascende. Sia la tenebra luminosa di Dionigi che il vuoto luminoso dello Zen ci insegnano che l'apofasi - il silenzio davanti all'ineffabile - non è resa o agnosticismo, ma la forma più alta di saggezza.

Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein concludeva il suo "Tractatus" con le parole: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Ma questo silenzio non è vuoto di significato; è gravido di presenza. Forse è in questo silenzio eloquente, in questa negazione affermativa, che Oriente e Occidente, Dionigi e lo Zen, si incontrano veramente - non nelle parole che pronunciamo, ma nella profondità indicibile verso cui entrambi ci conducono.

- Rev. Dr. Luca Vona

Fermati 1 minuto. Una colpevole indifferenza

Lettura

Luca 10,13-16

13 Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. 14 Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. 15 E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata! 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».

Commento

Il monito di Gesù si rivolge in questo passo evangelico a tre città della Galilea; un invito a pentirsi, accompagnato da un severo giudizio per coloro che, dopo avere ascoltato la sua predicazione non l'hanno accolta. Non si tratta di una ostilità aperta al suo messaggio, in effetti non riportata da nessuno dei Vangeli, ma di quella indifferenza che è più colpevole dell'ignoranza. 

Aver avuto il privilegio di ascoltare il mesaggio di salvezza e non averlo accolto apre le porte degli inferi (cfr. At 2,27.31), luogo contrapporto al "cielo" nello stesso versetto (v. 15). Gesù ci insegna che l'intensità della punizione finale, sarà proporzionata ai privilegi religiosi, ed ai mezzi di grazia goduti dagli uomini, e da loro volontariamente rigettati. 

Se Corazin, Betsàida e Cafarnao rappresentano il luogo in cui il Signore aveva iniziato la sua predicazione e compiuto i suoi miracoli, Tiro e Sidone erano due città fenice sul mare e costituivano un importante snodo commerciale in cui si riversava l'opulenza asiatica. Queste erano dunque considerate città dissolute. 

Gesù esprime un solenne avvertimento a tutti quelli che ascoltano le sue parole. Coloro che in ogni tempo godono dell'istruzione religiosa odono predicare il vangelo, e vivono in un ambiente atto a condurli a Cristo, senza però abbracciarlo, rassomigliano a quelle città. Così l'invio dei settandadue discepoli si conclude con questo avvertimento, la costatazione di uno stato di peccato più che una maledizione, e la solenne affermazione che chi respingerà la predicazione dei discepoli respingerà Cristo stesso e il Padre dal quale egli proviene. 

Il vangelo ci chiama a scegliere con responsabilità e saggezza dove collocarci nella geografia dello spirito, a non disprezzare con l'indifferenza e le preoccupazioni del mondo, l'opportunità ricevuta di essere annoverati tra i figli adottivi di Dio.

Preghiera

Signore, che ci hai ammonito ricordando che l'indifferenza verso la tua parola di vita è peggio dell'ignoranza; concedici di accogliere il vangelo della salvezza, per partecipare con te alla gloria celeste. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Pseudo_Dionigi l'Areopagita e la tenebra luminosa del silenzio

Le chiese ortodosse ricordano in questo giorno l'autore del Corpus Areopagiticum, passato alla storia con lo pseudonimo di Dionigi l'Areopagita. Forse per nessun padre della chiesa vi è una così forte discrepanza tra ciò che sappiamo sulla sua vita e l'enorme influsso da lui avuto sulla spiritualità e la teologia successive. Dionigi fu probabilmente un cristiano di origine siriaca che soggiornò a lungo ad Atene. Fortemente influenzato dagli ultimi filosofi neoplatonici ivi residenti, egli compose una serie di scritti che pose sotto il nome dell'ateniese convertito dalla predicazione di Paolo all'Areopago, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (cf. At 17,34). Nella Gerarchia ecclesiastica e nella Gerarchia celeste, Dionigi indagò l'ordine cosmico al cui vertice vi è unicamente Gesù Cristo, in cielo come nella chiesa militante sulla terra. Nei Nomi divini analizzò gli attributi che la Scrittura riferisce a Dio, in cerca di ciò che gli uomini possono provare a dire su Dio a partire dalla rivelazione, seguendo una teologia «positiva». Ma Dionigi fu soprattutto un grande cantore della teologia «negativa», secondo la quale si può giungere a Dio soltanto dicendo ciò che non può essergli attribuito, ovvero entrando nella «tenebra più che luminosa del silenzio» e della non conoscenza di Dio, che sola conduce al mistero ineffabile della Triunità divina.

Tracce di lettura

Trinità sovraessenziale, oltremodo divina e oltremodo buona, custode della divina sapienza dei cristiani, portaci non solo al di là di ogni luce, ma al di là della stessa inconoscenza fino alla più alta vetta delle mistiche Scritture, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra più che luminosa del silenzio.
È nel silenzio infatti che s'imparano i segreti di questa tenebra della quale troppo poco è dire che brilla della luce più abbagliante in seno alla più nera oscurità, e che, pur rimanendo perfettamente intangibile e invisibile, riempie di splendori più belli della bellezza le intelligenze che sanno chiudere gli occhi. Questa la mia preghiera. (Dionigi l'Areopagita, Teologia mistica 1,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 2 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Un'alleanza benedetta da Dio

Lettura

Marco 10,1-12

1 Partito di là, si recò nel territorio della Giudea e oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava, come era solito fare. 2 E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». 3 Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4 Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». 5 Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6 Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; 7 per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. 8 Sicché non sono più due, ma una sola carne. 9 L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». 10 Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: 11 «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; 12 se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

Commento

In tutti e tre i Vangeli sinottici questo è il primo contatto di Gesù con la "folla" della Giudea. La folla gli va incontro spontaneamente come in Galilea (Mc 4,1; 5,24).

Il dibattito tra Gesù e i farisei sull'abolizione del divorzio, indica la volontà di questi ultimi di screditarlo pubblicamente e sarà un motivo di controversia tra giudei e cristiani nel primo secolo. La legge mosaica consentiva il ripudio della moglie nel caso fosse intervenuto "qualcosa di vergognoso" (Dt 24,1), ma doveva avvenire tramite il rilascio di un attestato scritto, per salvaguardare la donna dall'accusa di adulterio. 

Gesù dichiara che la legge mosaica permette il divorzio solo "per la durezza del vostro cuore" (v. 5), indicata con il termine greco sklerokardia, che indica nel Nuovo Testamento l'incapacità dell'essere umano di comprendere e attuare il piano di Dio (cfr. Mt 19,8; Mc 16,14). 

Nel Vangelo di Matteo Gesù fa un'eccezione al divieto assoluto di divorzio, indicata con il termine greco pornéia; questo è stato interpretato da alcuni come "concubinato", che indica i rapporti illegittimi tra consanguinei; altri interpretano il termine con il significato di "adulterio".

Citando il libro della Genesi (1,27; 2,24) Gesù proclama che fin dall'inizio il matrimonio è stabilito come patto eterno (vv. 6-8) e continua in questo senso con l'ammonizione "l'uomo non separi ciò che Dio ha congiunto" (v. 9). L'uomo e la donna diventano "una carne sola" agli occhi di Dio. Il matrimonio non è presentato come un'invenzione umana, ma come un'istituzione divina.

Il Signore è paziente e misericordioso nei confronti delle nostre fragilità e nel custodire il patto con il suo popolo. La sua clemenza deve essere presa a modello dell'alleanza tra l'uomo e la donna, benedetta da Dio. Siamo chiamati a superare una visione consumistica delle relazioni, coltivando la libertà nella responsabilità. La fede e la piena adesione a Cristo ci otterrano la fedeltà, dono di Dio.

Preghiera

Santifica e vivifica con il tuo Spirito, Signore, le nostre relazioni; affinché possiamo imparare da te, che sei mite e umile di cuore, a essere fedeli al piano che hai stabilito dai tempi antichi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona