Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 27 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. La parola che scioglie i nostri lacci

Lettura

Luca 13,10-17

10 Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. 11 C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. 12 Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità», 13 e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. 14 Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato». 15 Il Signore replicò: «Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16 E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?». 17 Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

Commento

Siamo nella sinagoga, in giorno di sabato. Gesù sta insegnando ma si interrompe. Ha notato una donna sofferente. Da diciotto anni è curva e non può raddrizzarsi in alcun modo. Eppure non ha smesso di comportarsi da "figlia di Abramo", recandosi alla sinagoga per osservare il giorno del Signore. Non chiede nulla. È Gesù a prendere l'iniziativa, e anche lui non chiede nulla alla donna. Luca ci informa che l'infermità è provocata da Satana ("posseduta da uno spirito di infermità", gr. pneuma echousa asthenias). Sappiamo dal libro di Giobbe che ciò è possibile perché anche questi patì una malattia causata dall'angelo accusatore. 

Gesù agisce in maniera diversa rispetto ai suoi esorcismi. Non sgrida alcun demone, ma si limita a imporre le mani e pronunciare la sua parola di liberazione. La parola di Dio, come afferma la Lettera agli ebrei, "è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla" (Eb 4,12). Così la parola di Dio penetra nell'anima e nel corpo di questa donna e scioglie la sua schiena ricurva. 

Il miracolo compiuto da Gesù suscita la riprovazione da parte dei capi della sinagoga. Non hanno il coraggio di attaccarlo direttamente ma si rivolgono ai presenti. Il Signore, che conosce i cuori, li accusa di ipocrisia, perché le loro critiche non prendono le mosse dallo zelo per l'amore di Dio ma dall'invidia. Gesù evidenzia il modo in cui hanno pervertito la legge, piegandola al proprio egoismo. In giorno di sabato infatti, non trascurano di occuparsi del proprio bestiame, ma vorrebbero rifiutare a questa donna, sorella della loro stessa stirpe, figlia di Dio, creata a sua immagine e somiglianza, di riacquistare quella posizione eretta che distingue l'essere umano dagli animali. 

La chiamata di Gesù scioglie l'uomo dalla casistica delle norme religiose per collocarlo nel vero sabato di Dio, che è manifestazione della sua gloria e della sua azione salvifica.

Preghiera

Signore, tu rialzi dalla polvere il misero e  manifesti la tua gloria nella nostra debolezza. Ti benediciamo e ti glorifichiamo perché hai liberato le nostre anime dai lacci del peccato e ci hai donato la promessa della risurrezione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 26 ottobre 2025

Coraggio, alzati

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA VENTESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

O Dio, poiché senza di te non siamo capaci di compiacerti; concedi, misericordioso, ai nostri cuori, di essere guidati dal tuo Santo Spirito. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 4,17-32; Mt 9,1-8

La vita nella fede è un'esperienza di rinascita e di guarigione radicale. L'aspetto di rinascita, predicato da Gesù nel dialogo notturno con Nicodemo, è approfondito da Paolo nella sua lettera agli Efesini, nell'ottica di una esortazione che va oltre il senso semplicemente morale del discorso, facendosi descrizione di ciò che Dio opera nel credente.

Il passo del Vangelo di Matteo, che in maniera più sintetica dei paralleli di Marco e di Luca descrive la guarigione del paralitico, offre una lettura dell'esperienza cui conduce l'incontro con Cristo, il quale ha autorità di rimettere i peccati sulla terra, sanando radicalmente la nostra natura umana.

La sottolineatura della capacità di Gesù di rimettere i peccati in terra indica la chiara proclamazione della sua natura messianica. Fino ad allora, infatti, i credenti israeliti avevano confidato in una remissione dei peccati in cielo, da parte di Dio, che solo poteva operarla efficacemente.

Il racconto ci fa intendere che molti dei presenti non mancano di individuare la potenza divina in questo miracolo, ma gli sfugge il fatto che Cristo stesso l'ha operato nel proprio nome: "Io ti dico" riferiscono i passi paralleli di Marco e Luca. È in questo "Io", in questa formula indicativa, che si esprime la novità radicale del messaggio evangelico. Gesù non è semplicemente un profeta, un riformatore religioso, un guaritore, ma il Messia pienamente investito di autorità divina, l'Emmanuele annunciato dai profeti dell'Antico Testamento.

Gesù comanda al paralitico non solo di alzarsi in piedi ma anche di tornare a casa sua portando via il suo lettino. Il segno della malattia che lo ha costretto per lungo tempo all'immobilità, rimane come testimonianza della radicale svolta che l'incontro di Cristo ha determinato nella sua vita. Gesù rimette i nostri peccati ma non cancella in noi il ricordo di essi, affinché possiamo avere sempre davanti ai nostri occhi il prevalere della sua grazia sul peccato. 

Esaminando il racconto di questo miracolo, non bisogna sorvolare sul ruolo importante degli amici, che intercedono per il paralitico (nel passo parallelo di Marco e Luca fino ad arrampicarsi sul tetto della casa in cui sta predicando Gesù, per aprire un varco e calare il malato al centro della stanza). La carità fraterna ha un ruolo importante nel muovere a compassione Gesù.

Paolo esorta "nel nome del Signore" (Ef 4,17), ovvero con autorità, con l'autorità che deriva da Cristo stesso e dal suo vangelo, a non camminare nella vanità della propria mente; letteralmente "nella vacuità ed estranei alla vita di Dio". La vita "pagana" è vita che si aggrappa a ciò che è vuoto, impermanente e che offusca la ragione. L'estraneità alla vita di Dio non è semplicemente il non condurre una vita da "persone per bene", ma il privarsi di un'esistenza vissuta in pienezza.

La vita di Dio è la vita - come dice Teodoro di Beza - qua Deus vivit in suis (che Dio vive in se stesso); la vita spirituale accende nei credenti la vita stessa di Dio. La vita di Dio non è semplicemente la vita onesta e virtuosa, ma è la vita che viene dall'alto, la rinascita per opera dello Spirito Santo, che porta con sé il germe della pace, della gioia, dell'eternità.

Paolo ci esorta a essere rinnovati "per rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio". Questa identità nuova, questo rinnovamento non solo della personalità ma dell'intera natura umana, non è opera dell'uomo: è una creazione, un'opera di Dio (Ef 4,24).

Gesù viene in nostro soccorso, e ci consente di levarci dal nostro giaciglio, di lasciarci guarire, rinnovare, creare a immagine di Dio.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 25 ottobre 2025

Dizionario della Musica Anglicana. Gwendolen Avril Coleridge-Taylor

Gwendolen Avril Coleridge-Taylor (1903-1998) rappresenta una figura affascinante e poco conosciuta nella storia della musica britannica del Novecento. Figlia del celebre compositore Samuel Coleridge-Taylor, uno dei primi compositori di colore a ottenere riconoscimento internazionale, Avril dovette costruire la propria identità artistica all'ombra di un padre morto quando lei aveva appena nove anni, ma la cui fama continuava a brillare intensamente.

Nata a Croydon, nel Surrey, Avril mostrò fin da bambina un talento musicale straordinario. Studiò pianoforte e composizione al Trinity College of Music di Londra, dove si diplomò con onore. La sua formazione fu profondamente influenzata dall'eredità paterna: Samuel Coleridge-Taylor era stato acclamato per opere come "Hiawatha's Wedding Feast", che fondevano elementi della tradizione classica europea con influenze afroamericane e spirituals.

Come compositrice, Avril sviluppò uno stile personale che rispettava la tradizione romantica inglese pur cercando una voce propria. Il suo catalogo include musica da camera, composizioni per pianoforte, lavori orchestrali e numerose canzoni. Particolarmente apprezzate furono le sue miniature per pianoforte e i suoi arrangiamenti di spirituals, che dimostravano sensibilità melodica e raffinatezza armonica.

Oltre all'attività compositiva, Avril fu una dedicata direttrice d'orchestra e pedagoga. Fondò e diresse la Coleridge-Taylor Society, dedicata alla preservazione e promozione della musica del padre, dirigendo esecuzioni delle sue opere per decenni. Questo ruolo, pur essendo un omaggio filiale, ebbe l'effetto collaterale di mettere in secondo piano la sua stessa produzione creativa.

La carriera di Avril Coleridge-Taylor solleva questioni importanti sulla condizione delle donne compositrici nel Novecento e sul peso delle aspettative familiari. Nonostante il suo talento, rimase sempre "la figlia di" piuttosto che essere riconosciuta pienamente per i propri meriti. La sua lunga vita le permise di assistere a cambiamenti epocali nella musica e nella società, ma il pieno riconoscimento del suo lavoro rimane ancora da realizzare, rappresentando un capitolo della storia musicale britannica che merita maggiore attenzione e studio.

Composizioni principali

Tra le opere più significative di Gwendolen Avril Coleridge-Taylor si ricordano:

  • Sussex Landscape (1944) - suite orchestrale
  • Ceremonial March - composizione per orchestra
  • Four African Dances - per pianoforte
  • Three Silhouettes - pezzi caratteristici per pianoforte
  • Numerosi arrangiamenti di spirituals e canzoni popolari afroamericane
  • Christmas Overture - lavoro orchestrale
  • Varie canzoni da camera su testi di poeti inglesi
  • Musica da camera per diverse formazioni strumentali

Fermati 1 minuto. Il cento per uno

Lettura

Matteo 13,1-9

1 Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. 2 Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia.
3 Egli parlò loro di molte cose in parabole.
E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4 E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. 5 Un'altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c'era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. 6 Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. 7 Un'altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. 8 Un'altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. 9 Chi ha orecchi intenda».

Commento

Con la parabola del seminatore Gesù esemplifica il modo in cui la parola di Dio viene respinta, trova ostacoli, ma anche viene accolta e porta frutto, diffondendosi ovunque. Mentre il monte è il luogo privilegiato da Gesù per la preghiera e la formazione dei discepoli, la costa del mare di Galilea, ovvero il lago di Genesaret, è il luogo in cui i Vangeli presentano il Signore intento ad ammaestrare le folle.

Il verbo greco usato per indicare il riunirsi delle persone intorno a lui è synago, con un richiamo alla sinagoga; forse perché gli ascoltatori sono ebrei, o perché quella che Gesù forma con la sua predicazione è la nuova sinagoga dei credenti nel vangelo. 

Gesù predica su una barca, quasi a significare che il suo messaggio è rivolto a Israele, ma questi guarda verso il mare, da dove il vangelo prenderà il largo verso le terre dei gentili. Con questo discorso iniziano le sette parabole (il seminatore, la zizzania, il granello di senape, il lievito, il tesoro nascosto, le perle preziose, la rete gettata in mare) che servono a esemplificare il modo in cui il regno di Dio si fa strada o incontra resistenze sul camino degli uomini.

L'uso di parabole - comune nel giudaismo del tempo - serve a Gesù per coinvolgere e provocare chi ascolta, facendogli applicare ciò che dice alla concretezza della vita spirituale. Attraverso esempi e paragoni così vicini all'esperienza quotidiana di ciascuno, Gesù scuote e invita a cambiare mentalità e comportamenti, perché la parola di Dio penetri nell'anima e diventi lievito di vita. 

L'ascolto che porta frutto è incontro spirituale con la persona di Gesù. Ma la Parola necessita di un cuore umile, di un humus, un terreno morbido, dove il seme possa trovare riparo e nutrimento. Il rendimento di una semina era solitamente di otto a uno, dieci a uno in casi eccezionali; la crescita fino al cento per uno che Gesù descrive è incredibilmente grande. Brani della letteratura sia ebraica sia cristiana riferiscono di raccolti eccezionalmente abbondanti nell'era messianica.

Sebbene questa parabola sia riportata in tutti e tre i Vangeli sinottici, solo Luca e Matteo spiegano che il seme è la parola di Dio. Una parola che non è solo aria che risuona, ma che è Gesù stesso, Verbo generato dal padre e incarnato nel seno di Maria, parola fattasi "seme", che incontra la durezza di chi lo disprezza tra quelli della sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua (Mc 6,4); che incontra i rovi di chi flagellerà il suo corpo e gli coronerà il capo di spine; che dovrà morire ed essere sepolto per generare frutti di vita eterna. Un frutto così grande da sfamare tutti coloro che hanno fame non di pane, ma d'ascoltare la parola del Signore (Am 8,11). 

Il seminatore sparge a piene mani il suo seme in tutte le direzioni, attendendo un raccolto abbondante. Nonostante i fallimenti dovuti all'opposizione e all'indifferenza, l'annuncio del regno di Dio avrà un'efficacia duratura ed estesa.

Preghiera

Crea in noi, Signore, un cuore umile e pronto a ricevere la tua parola; irriga i solchi, spiana le zolle, effondi la pioggia del tuo Spirito; affinché possano abbondare i frutti della tua grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Il teologo luterano Philipp Nicolai e la difesa della presenza reale di Cristo nella Santa Cena

«Non solo i Greci, ma anche i Russi, i Georgiani, gli Armeni, i Giudei [l'autore si riferisce probabilmente ai cristiani di origine giudaica, ndt], gli etiopi [copti, ndt] credono che Cristo sia realmente presente, con il suo Corpo e il suo Sangue [nelle specie eucaristica, ndt]» - Philipp Nicolai, Historia deß Reichs Christi

Philipp Nikolai (1556-1608) fu un pastore luterano, teologo e poeta la cui vita rispecchiò le turbolenze della Germania del suo tempo. Nato a Mengeringhausen e morto ad Amburgo, attraversò guerre, pestilenze e aspre lotte religiose tra luterani e calvinisti.

Dotato di talento precoce per poesia e musica, si fece notare già da giovane con il poemetto teologico Certamen cervorum cum columbis. Dopo gli studi a Erfurt e Wittenberg, esercitò il ministero pastorale in diverse città, distinguendosi come strenuo difensore dell'ortodossia luterana, soprattutto sulla dottrina della presenza reale nell'Eucaristia.

Le devastazioni della guerra spagnola e della peste in Vestfalia lo segnarono profondamente: nei suoi Commentariorum de regno Christi (1597) arrivò persino a predire la fine del mondo per il 1670. Ma la sua eredità più duratura non furono i trattati teologici, bensì due inni che divennero tra i più amati della tradizione luterana: Wie schön leuchtet der Morgenstern ("Come splende radiosa la stella del mattino") e Wachet auf, ruft uns die Stimme ("Svegliatevi, ci chiama la voce"), capolavori di poesia devozionale che continuano a essere cantati ancora oggi.

La sua memoria ricorre il 25 ottobre in alcune chiese luterane, in altre il 26 ottobre.

Philipp Nicolai (1556-1608)

giovedì 23 ottobre 2025

La morte sul rogo di Eloy Pruystinck: un radicale dimenticato della Riforma

Il 23 ottobre 1544, un predicatore di strada di nome Eloy Pruystinck venne arso al rogo ad Anversa, in Belgio, concludendo così una delle carriere più lunghe e controverse della Riforma radicale.

Negli annali storici, Eloy è generalmente catalogato come "libertino spirituale", "spiritualizzatore" o "spiritualista". Tuttavia, la Global Anabaptist Mennonite Encyclopedia Online (GAMEO) riconosce che, per un certo periodo, Eloy fu effettivamente un leader anabattista, sebbene le sue dottrine lo allontanassero progressivamente dall'ortodossia del movimento.

Eloy rappresentava senza dubbio una delle figure più radicali dell'intera Riforma. Le sue tesi teologiche erano così avanzate da risultare scandalose persino per i suoi contemporanei più progressisti. Sosteneva che ogni essere umano possedesse lo Spirito Santo, indipendentemente dalla fede o dall'appartenenza religiosa, e identificava audacemente questo Spirito con le capacità razionali dell'essere umano, anticipando temi che sarebbero diventati centrali nell'Illuminismo. Rigettava completamente l'esistenza dell'inferno e proclamava con convinzione che tutti gli esseri umani avrebbero goduto della vita eterna, una visione universalista che sfidava tanto la dottrina cattolica quanto quella delle chiese protestanti emergenti.

È probabile che Eloy fosse in contatto con David Joris, figura carismatica dell'anabattismo olandese, e possibilmente con Hans Denck, noto per le sue tendenze mistiche e spiritualiste. Al culmine della sua influenza, Pruystinck contava migliaia di seguaci ad Anversa, Amsterdam e oltre, creando una rete clandestina di credenti che sfidava apertamente le autorità religiose costituite.

Attivo dagli anni Venti del Cinquecento fino alla sua esecuzione nel 1544, Eloy vantava una carriera straordinariamente lunga rispetto alla maggior parte dei leader anabattisti, spesso martirizzati dopo pochi anni di predicazione. Nel luglio 1544 venne catturato e imprigionato. Tentò disperatamente di salvare la vita abiurando le proprie convinzioni, una strategia che gli aveva già salvato la vita nel 1526, permettendogli di continuare a predicare per altri diciotto anni. Ma questa volta le autorità furono inflessibili: il 23 ottobre 1544, Eloy Pruystinck morì tra le fiamme, portando con sé una visione teologica troppo audace per il suo tempo.

Fermati 1 minuto. Come fuoco sulla terra

Lettura

Luca 12,49-53

49 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! 50 C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! 51 Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. 52 D'ora innanzi in una casa di cinque persone 53 si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Commento

Gesù, come uomo, è pienamente consapevole delle sofferenze che lo attendono nella sua passione, ma la sua volontà umana è intimamente unita a quella del Padre, così l'attesa del "battesimo" che dovrà ricevere diviene angoscia finché non sia compiuto. 

Il baptismós, propriamente l'“immersione” nei dolori della passione, sarà segno di scandalo per molti (Rm 9,33) e gli stessi discepoli, in un primo momento, non coglieranno il significato profondo di quell'evento. In esso Gesù si rivela segno di contraddizione «per la rovina e la resurrezione di molti» (Lc 2,34). 

L'atteggiamento di accoglienza o di rifiuto verso il mistero pasquale determina il nostro essere o non essere partecipi della morte e resurrezione del Cristo. A stabilire l'appartenenza al suo "popolo" non è più una discendenza o comunanza di sangue, ma la fede nel suo sangue redentore. 

Adempimento del giudizio di Dio verso l'umanità, la croce, sulla quale sono stati inchiodati i nostri peccati, è il luogo di riconciliazione di tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra (Col 1,20).

Le parole di Gesù, che vorrebbe già vedere il mondo bruciare della sua carità (v. 49) costituiscono un esempio per ogni discepolo, un invito ad aspirare ai carismi più grandi (1 Cor 12,31), a desiderare quella perfezione che si compie nell'adempimento della volontà di Dio, del suo progetto sulla nostra vita.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, noi riconosciamo in te il Figlio di Dio, che si è fatto pietra di scandalo nella morte di croce. Concedici di essere edificati su di te come tempio del Dio vivente. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Ambrogio di Optina. Un abisso di carità

Le chiese ortodosse ricordano oggi Ambrogio, forse il più grande degli starcy di Optina.

Uomo di vivo ingegno, Aleksandr Michajlovič Grenkov (nome di battesimo del futuro starec) era stato costretto fin dalla giovinezza a ridurre notevolmente le attività a cui pure si sentiva portato, a causa dell'estrema instabilità della sua salute. Indirizzato dal proprio padre spirituale alla vita monastica nell'eremo di Optina, Ambrogio fece conoscenza degli altri due grandi starcy di quel monastero: Leonida (1763-1841) e Macario (1788-1860), dei quali divenne discepolo. 

Inizialmente fu monaco addetto alla cucina e, in seguito, Lettore di sacre scritture. Pochi anni più tardi fu consacrato ierodiacono con il nome di Ambrosius, in onore di Sant'Ambrogio, vescovo di Milano. Successivamente alla sua consacrazione si ammalò gravemente, tanto che, anche una volta guarito, rimase infermo e impossibilitato per la debolezza che lo perseguitava a celebrare la liturgia. Da allora si dedicò alla preghiera interiore e alla traduzione dei testi patristici. Quando il reverendo Macario morì nel settembre del 1860 Ambrogio diventò monaco superiore del monastero.

Attraverso la sofferenza assunta nella preghiera, Ambrogio imparò a conoscere se stesso e a scoprire nel profondo del suo cuore i segreti della natura umana e il cammino verso la riconciliazione con Dio. Convinto che la potenza di Dio si rivela soprattutto nella debolezza, egli divenne un padre spirituale di grande dolcezza, e impiegò il proprio discernimento non per giudicare gli altri, ma per con-soffrire con loro. Amava ripetere, parafrasando l'apostolo Paolo: «È la bontà di Dio che ci spinge alla conversione».

Divenuto padre spirituale del monastero alla morte di Macario, Ambrogio si adoperò per promuovere l'impegno di tutti i cristiani a sostegno degli ultimi e degli emarginati del suo tempo. La sua figura ispirò ampiamente la letteratura russa, da Dostoevskij a Tolstoj, e di lui fu detto: «Da Ambrogio un insondabile abisso di carità si effonde su ogni uomo». Morì la sera del 10 ottobre 1891, e sulla sua lapide i discepoli posero a suggello della sua vita: «Mi sono fatto debole con i deboli per guadagnare i deboli. Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ogni uomo».

Tracce di lettura

Tu preghi sempre il Signore perché ti dia l'umiltà. Ma come si può ottenere l'umiltà conducendo una vita così comoda? Se nessuno ti toccasse e tu restassi tranquilla, come potresti riconoscere la tua cattiveria? Come potresti vedere i tuoi vizi? Ti affliggi perché, secondo te, tutti cercano di umiliarti. Se cercano di abbassarti, significa che vogliono renderti umile: e sei tu stessa che chiedi a Dio l'umiltà. Perché allora affliggerti per le persone? Ti lamenti per l'ingiustizia della gente che ti circonda, per il loro atteggiamento verso di te. Ma se aspiri a regnare con Gesù Cristo, allora guarda a lui, come si è comportato con i nemici che lo circondavano: Giuda, Anna, Caifa, gli scribi e i farisei che volevano la sua morte. Egli non si lamentò dei nemici che agivano ingiustamente verso di lui, ma in tutte le terribili sofferenze inflittegli vedeva solamente la volontà del Padre, che aveva deciso di seguire e che seguì fino all'ultimo respiro. Egli vedeva che questi agivano ciecamente, per ignoranza, e perciò non li odiava ma pregava: «Signore, perdonali perché non sanno quello che fanno».
(Ambrogio di Optina, Lettere)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Ambrogio di Optina (1812-1891)

Johannes Zwick e la Concordia di Wittemberg

Le chiese luterane celebrano oggi la memoria di Johannes Zwick, riformatore della città di Costanza (1496 circa - 1542). Luterano, divenne poi (dal 1522) amico e seguace di Huldrych Zwingli, con il quale intervenne alla disputa di Zurigo (1523). Dal 1527 alla morte operò a Costanza con Ambrosius Blarer per la diffusione della Riforma. Si occupò dei problemi dell'organizzazione ecclesiastica ed ebbe particolari cure per la gioventù, per la quale scrisse catechismi, preghiere e inni sacri.
Come seguace dell'Ultima Cena di Huldrych Zwingli fu l'unico ecclesiastico di Costanza a seguire la Concordia di Wittenberg del 1536.

La Concordia di Wittemberg, fu un concordato religioso firmato fra teologi Riformati e Luterani il 29 maggio 1536 come tentativo di risoluzione delle loro differenze rispetto alla presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo nell'Eucaristia. Esso era considerato un documento fondamentale del luteranesimo ma venne successivamente respinto dai riformati.
Fra i firmatari dei riformati vi era Martin Bucer, Wolfgang Fabricius Capito, Matthäus Alber, Martin Frecht, Jakob Otter e Wolfgang Musculus. Fra i luterani firmarono Martin Lutero, Filippo Melantone, Johannes Bugenhagen, Justus Jonas, Caspar Cruciger, Justus Menius, Friedrich Myconius, Urban Rhegius, Georg Burkhardt. Questo documento definì la dottrina della presenza reale del corpo e sangue di Cristo nell'Eucaristia come unione sacramentale.

Anche il fratello Konrad (m. 1557) contribuì, a Costanza, all'organizzazione della Chiesa riformata, aderendo poi all'anabattismo.

Johannes Zwick (1496-1542)

martedì 21 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Un'attesa laboriosa

Lettura

Luca 12,35-38

35 Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; 36 siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. 37 Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!

Commento

Parlando della fine dei tempi e del ritorno di Gesù, Luca sottolinea per i suoi lettori l'importanza di seguire fedelmente le sue istruzioni nel periodo che precede la parusìa (il ritorno glorioso di Cristo).

Essendo le vesti degli ebrei molto ampie, quando si mettevano in viaggio, lavoravano o andavano in guerra usavano portare cinture per muoversi più liberamente. La cintura ai fianchi (v. 35) diventa così simbolo dell'operosità del discepolo di Gesù. 

La veste stretta ai fianchi era anche l'abbigliamento prescritto per la cena pasquale, in previsione dell'esodo nel deserto, verso il quale il popolo di Dio stava per partire (Es 12,11). Non a caso Gesù pronuncia queste parole nell'imminenza della sua passione, dopo aver indurito il suo volto per cammianare verso Gerusalemme (Lc 9,51). Siamo chiamati anche noi ad attraversare il deserto delle prove che attendono ogni credente in questa vita, ad essere associati all'evento pasquale rappresentato dalla passione di Cristo, perchè «certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo» (2 Tim 2,11-12).

Le vesti cinte ai fianchi ci consentono di procedere speditamente, senza sostare nelle nostre fragili sicurezze, e ci impediscono di inciampare nel peccato. Mediante la fede possiamo così superare gli intralci delle nostre barriere mentali.

Le lampade accese rappresentano l'essere in vigile attesa, mediante la fede e la custodia del cuore. Attendere svegli, nelle notti della prova, costa fatica, occorre pazienza, per evitare l'intorpidimento.

Gesù bussa alla nostra porta ogni giorno («Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me»; Ap 3,20) e ogni giorno va da noi accolto con gratitudine, stupore e un'esistenza laboriosa. Il tempo dell'attesa diventa così tempo fecondo e gravido di speranza.

Le parole di Gesù evidenziano la nostra responsabilità personale nell'accoglierlo o nel rifiutarlo. Non è lui ad aprire la porta ma il servo stesso sceglie se aprirgli o rifiutarlo, quand'egli arriva e bussa. Siamo chiamati ad aprire «subito» (v. 36) al Signore quando viene a visitarci, nel corso della nostra vita o al momento della nostra morte.

Gesù annuncia una beatitudine per coloro che lo troveranno svegli al suo ritorno (v. 37). Il padrone che si cinge le vesti è immagine di Dio che si fa servo dell'uomo (cfr. Lc 22,27; Gv 13,1-20; Fil 2,6-8; Ap 19,9). Gesù afferma che «il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti» (Mt 20,28). Ma quando tornerà troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 20 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Solo l'amore resta

Lettura

Luca 12,13-21

13 Uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni». 16 Disse poi una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. 17 Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? 18 E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19 Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. 20 Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? 21 Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».

Commento

Essendo considerato un "maestro" Gesù è chiamato a dirimere non solo questioni religiose, ma anche civili. Egli rifiuta questo ruolo, non perché non abbia il potere di giudicare ma perché rifiuta di essere arbitro di dispute meramente terrene. 

Gesù va alla radice del problema condannado la cupidigia e presentando una parabola. Il protagonista di quest'ultima è un uomo il cui lavoro è stato benedetto da Dio con un abbondante raccolto. Il suo desiderio è un po' quello che abbiamo tutti: godersi il prorpio benessere con una vita gioiosa e tranquilla. Ciò che gli viene rimproverato non è il modo in cui si è arricchito, del tutto onesto, ma la totale assenza di Dio e dei bisogni del prossimo dalla sua prospettiva esistenziale. 

Ogni interesse dell'uomo della parabola è rivolto a sé e ai suoi beni; ha accumulato ricchezze in terra ma non è arricchito davanti a Dio. La povertà della sua vita interiore, incapace di innalzare uno sguardo di gratitudine al cielo e di gioire nella condivisione della sua ricchezza materiale, sarà palesata dal sopraggiungere improvviso della morte, che lo separerà definitivamente da quanto ha accumulato nel granaio. 

Gesù condanna ogni forma di cupidigia «perché anche se uno è nell'abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni» (v. 15). L'uomo descritto da Gesù fa dipendere la propria sicurezza e felicità dalle ricchezze terrene, ne diventa schiavo, incapace di arricchirle di senso nella condivisione. Ma la carità necessita di un "altro" come destinatario del proprio amore, mentre l'uomo arricchito è chiuso in un monologo con se stesso. Di lui possiamo dire con il salmista: "come ombra è l'uomo che passa; solo un soffio che si agita, accumula ricchezze e non sa chi le raccolga" (Sal 39,7). 

I nostri beni, di qualsiasi natura, possono diventare una barriera verso Dio e verso il prossimo, ma liberati dalla nostra cupidigia possono essere messi al servizio di ciò che è forte come la morte (Ct 8,6): l'amore.

Preghiera

Il tuo Spirito, Signore, riempia i nostri cuori di gratitudine per i beni che ci elargisci e ci renda generosi nel condividerli con il nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 19 ottobre 2025

Fedele è Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DICIANNOVESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Signore, ti supplichiamo, concedi al tuo popolo la grazia di superare le tentazioni del mondo, della carne e del demonio; e di seguire con mente e cuore puri te, che sei l’unico Dio. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Cor 1,4-8; Mt 22,34-46

Commento

Amare Dio con tutto il cuore, l'anima e la mente e il prossimo come noi stessi. Così Gesù riassume i 613 precetti presenti nella Torah. Questo comandamento bipartito, che rappresenta le due facce della stessa medaglia, è non solo un sommario, ma il vertice stesso della legge mosaica.

Dio va amato al di sopra di ogni altra cosa, e in tal modo è fugato il peccato più grande: quello dell'idolatria, che ci svilisce facendoci ripiegare su cose morte, incapaci di appagare completamente il nostro cuore. E proprio perché il nostro cuore può essere colmato solo da Dio, questi va amato con la nostra persona nella sua interezza, con tutte le nostre potenze e affetti. Il cuore indica soprattutto la forza e la volontà dell'uomo. Dio ci chiede di amarlo perché i nostri cuori ne sono capaci; non ci impone una cosa che non possiamo fare, che non è alla nostra portata. Al tempo stesso la sua grazia opera in noi per portare a compimento il precetto, ma senza esercitare violenza sulla nostra libertà.

La seconda parte del comandamento è simile alla prima (Mt 22,39): Ama il tuo prossimo come te stesso. Se l'amore supremo verso Dio sintetizza la prima tavola della legge, l'amore verso il prossimo è un sommario della seconda tavola. Dio ama il mio prossimo: come posso amare Dio se anche io non amo il mio fratello? Così infatti ammonisce l'apostolo Giovanni: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1 Gv 4,20-21).

Se l'amore per Dio deve essere al di sopra di ogni altra cosa, la norma che ci è posta dinnanzi per l'amore del prossimo è quella che è prescritta per l'amore di noi stessi. Amare noi stessi infinitamente ci è proibito perché non è compatibile con l'amore supremo dovuto a Dio. Ma anche amare il prossimo meno di noi stessi ci è proibito, perché rappresenterebbe un venir meno della fede nel corpo mistico di Cristo, del quale ciascuno di noi è membro.

Chi è il nostro prossimo? Nel passo parallelo del Vangelo di Luca, al capitolo 10, Gesù risponde alla domanda del fariseo con la parabola del buon samaritano. Il mio prossimo è colui che si trova nel bisogno e con il quale la mia strada si incrocia, al di là di ogni pregiudizio identitario o di false priorità.

Gesù non solo ci insegna a comprendere il senso ultimo della Legge, egli la porta a compimento sulla sua stessa carne, facendosi libro aperto sulla croce, per illuminare e guidare l'umanità verso la salvezza. E vi è un intimo legame tra il suo ruolo profetico e quello sacerdotale, nella misura in cui non solo egli ci mostra la strada da percorrere, ma ci guida e ci accompagna in essa, in quanto Figlio di Dio, il solo che possa riscattare l'umanità, rendendola capace di adempiere un comandamento così sublime.

Dio stesso, dunque, opera in noi, vivificando la sua Chiesa con il dono dello Spirito. Per questo Paolo coltiva un rapporto di intima comunione con Dio, in un continuo rendimento di grazie (1 Cor 1,4). Al di là dei difetti e delle mancanze, presenti in ogni comunità cristiana, Paolo sa discernere quanto di buono Dio opera in essa, riconoscendo l'abbondanza di doni e di carismi che Cristo stesso diffonde nel suo corpo mistico (1 Cor 1,5).

I frutti della grazia nella vita dei cristiani sono la migliore prova, per i credenti e per gli increduli, della verità del vangelo. Una vita consacrata a Dio è di per se stessa una testimonianza vivente dell'opera dello Spirito Santo.

Paolo descrive una tensione escatologica verso il ritorno di Cristo, che richiama il perfezionamento definitivo della Chiesa e la testimonianza ultima della fedeltà di Dio nei nostri confronti: "non vi manca alcun dono mentre aspettate la manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo, il quale vi confermerà fino alla fine, affinché siate irreprensibili nel giorno del nostro Signore Gesù Cristo" (1 Cor 1,8). È Dio che ci rende immacolati, che ci dona una veste nuova, per presentarci davanti a lui nell'ultimo giorno.  Così assicura l'Apostolo, proseguendo la sua lettera ai Corinzi: "Fedele è Dio dal quale siete stati chiamati" (1 Cor 1,9).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 17 ottobre 2025

Paolo di Tamma. Deporre la vita per amore

Il 17 del mese di bābah, la Chiesa copta ricorda il monaco Paolo di Tamma, «sette volte suicida per amore di Dio».
Originario di Tamma, nella provincia di Asyūṭ, Paolo trascorse buona parte della sua vita facendo l'eremita sulla montagna di al-Ašmūnayn, assieme a un discepolo di nome Ezechiele che fu poi il suo biografo. Le Vite ci raccontano dei numerosi viaggi durante i quali Paolo ebbe modo di conoscere i più noti monaci della regione.
Ciò che tuttavia colpisce nei racconti tradizionali sul monaco di Tamma è che il suo desiderio di essere con il Signore era tale che Paolo si tolse la vita per sei volte per amore di Cristo, e ogni volta questi gliela ridonò. Al termine di queste ripetute «follie», egli avrebbe voluto, secondo il suo biografo, seguire le orme di Cristo morto per i peccatori, ma il Signore gli disse che le dimostrazioni d'amore che aveva fornito erano più che sufficienti.
Le versioni moderne del Sinassario copto hanno eliminato questi racconti, forse perché inspiegabili, o addirittura scandalosi. Tuttavia dietro a questa vicenda altamente inusuale, si cela la convinzione che tra Dio e l'uomo la vera comunione può giungere soltanto attraverso un continuo e reciproco deporre e ridonare la vita l'uno per amore dell'altro.
Paolo morì il 7 di bābah di un anno imprecisato del IV sec., ed è sepolto nel monastero di Anba Bishoi, accanto a Bishoi di Scete, al quale era legato da un'amicizia che li rese inseparabili nella vita come nella morte.

Tracce di lettura

Ai tuoi pensieri non dare riposo finché il riposo non nasca per te senza il riposo. Lasciali morti, vivendo nelle cose di Dio. Infinito è Dio. Non vi è misura a un saggio che sta nella sua cella. La misura di un sapiente che sta nella sua cella è il Signore.
(Paolo di Tamma, Epistola 3, 44 e 47)

Stando nella tua cella, figlio mio, non essere come gli ipocriti. Non affaticarti a pregare, e sarai udito. Stando nel dolore, attendi la quiete.
(Paolo di Tamma, Opera senza titolo 102-104)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 16 ottobre 2025

Fermati 1 minuto. Cristo, parola attuale

Lettura

Luca 11,47-54

47 Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48 Così voi date testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri. 49 Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; 50 perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall'inizio del mondo, 51 dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l'altare e il santuario. Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52 Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l'avete impedito». 53 Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo ostilmente e a farlo parlare su molti argomenti, 54 tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

Commento

L'incapacità di accogliere la parola profetica, rende responsabili "in solido" i farisei con i loro padri che perseguitarono e uccisero gli inviati di Dio. Anziché aprirsi all'appello alla conversione i farisei si chiudono nella celebrazione "monumentale" del passato: costruendo tombe ai profeti, attestano una religiosità esteriore, che non sa riconoscere il farsi attuale del loro messaggio nella predicazione e nella vita di Cristo.

Anche nella storia del cristianesimo, in alcuni momenti, l'"autorità ecclesiastica", non solo ha trascurato lo spirito profetico del vangelo, ma ha impedito al popolo di comprendere le Scritture e di coltivare attraverso di esse una relazione diretta con Dio. 

Cristo è la Sapienza stessa, che mette le proprie parole sulla bocca dei profeti di ogni tempo e che è venuta nel mondo per illuminare ogni uomo. Quella "lucerna che illumina con il suo bagliore" (Lc 11,36) di cui parla Gesù proprio subito prima di questa invettiva contro i farisei e i dottori della legge. 

Considerare attuale la parola dei profeti e la voce del Cristo-Sapienza significa innanzitutto considerarle rivolte a noi. È facile, infatti, sentirsi "giusti" lodando Dio e i suoi messaggeri, ma è più difficile lasciarsi trasformare dalla sua Parola. Quest'ultimo è il fine della vera religione, il superamento (non il rinnegamento) della religione stessa - intesa come insieme di norme e di riti - nell'incontro con Dio che ci interpella personalmente e ci chiama ad essere simili a lui. 

Tale incontro si realizza anche nel riconoscimento dei poveri, dei sofferenti, degli ultimi, essi stessi segno profetico di Dio, immagine del volto di Cristo, il quale afferma: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40).

Preghiera

Signore, la tua grazia ci conceda non solo di celebrarti ma anche di accoglierti come luce capace di trasformare le nostre vite e di risplendere nel mondo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Nicholas Ridley e Hugh Latimer, riformatori della Chiesa d'Inghilterra

Il 16 ottobre la Chiesa anglicana celebra la memoria di Nicholas Ridley e Hugh Latimer.

Nicholas Ridely (Newcastle-upon-Tyne 1500 circa - Oxford 1555) compì gli studi a Cambridge, a Parigi e a Lovanio. Favorevole alle idee della Riforma, nel 1537 venne nominato cappellano da Thomas Cranmer, arcivescovo di Canterbury, con il quale collaborò poi alla compilazione del Prayer Book e alla riforma del culto. Nominato master di Pembroke (1540), canonico di Canterbury (1541) e quindi vescovo di Rochester (1547), nel 1550 fece parte della commissione che giudicò i vescovi Stephen Gardiner e Edmund Bonner; a quest'ultimo succedette come vescovo di Londra. Sostenne apertamente la candidatura di Lady Jane Grey alla successione; quando, alla morte di Edoardo VI (1553), salì al trono la cattolica Maria Tudor, Ridley fu imprigionato nella Torre di Londra e quindi processato a Oxford insieme con Cranmer e Hugh Latimer. Condannato per eresia, morì sul rogo.

Nicholas Ridley

Hugh Latimer (Thurcaston, Leicestershire, 1485 circa - Oxford 1555), Baccelliere in teologia nel 1524, presto si venne accostando alla Riforma attraverso la polemica contro gli abusi e la corruzione ecclesiastica. Colto e brillante, egli era nel 1525 già famoso e ricercato predicatore. Dal 1535 Latimer, nominato vescovo di Worcester, fu con Thomas Cranmer e Thomas Cromwell il principale consigliere del re in materia ecclesiastica, ma, accostatosi sempre più alla teologia luterana, nel 1539 si dimise dal vescovato. Nel 1546 fu imprigionato nella Torre di Londra; liberato all'ascesa al trono di Edoardo VI, nel 1548 era predicatore a corte. Intanto il suo protestantesimo diventava più rigoroso e la sua polemica contro la transustanziazione destò clamori nel clero. Insieme a Nicholas Ridley e Thomas Cranmer egli era ormai la personalità più eminente della Riforma inglese; e con essi, all'ascesa al trono di Maria Tudor, fu mandato a Oxford a discutere sulla Messa dinanzi ai teologi dell'università (1554). Per le sue posizioni in materia di teologia eucaristica fu dunque condannato come eretico e perì sul rogo il 16 ottobre 1555, insieme a Nicholas Ridley.

Hugh Latimer

- Fonte: Enciclopedia Treccani

mercoledì 15 ottobre 2025

La mente e la via diretta alla realtà: la pratica dei kōan nello Zen

Introduzione: Il problema del linguaggio nella trasmissione del Dharma

La pratica buddista, specialmente quando viene trapiantata dal contesto orientale a quello occidentale, si trova di fronte a una sfida fondamentale: come trasmettere insegnamenti che hanno origine in una matrice culturale, linguistica e filosofica profondamente diversa? Non si tratta semplicemente di tradurre parole da una lingua all'altra, ma di attraversare abissi concettuali che separano visioni del mondo radicalmente differenti.

Il linguaggio non è mai neutro. Ogni termine porta con sé strati di significato sedimentati nel tempo, connotazioni culturali, associazioni psicologiche e filosofiche. Quando parliamo di concetti fondamentali come "assenza di io" (anātman) o "assenza di ego", utilizziamo categorie che in Occidente hanno una storia propria, spesso incompatibile con l'intuizione originaria degli insegnamenti orientali. L'Occidente ha costruito la propria identità filosofica e psicologica attorno alla centralità dell'io: dal cogito cartesiano all'inconscio freudiano, dalla fenomenologia husserliana all'esistenzialismo sartriano. Parlare di "assenza di io" in questo contesto rischia di generare fraintendimenti: si potrebbe intendere una negazione patologica dell'identità, una dissociazione psicologica, o persino un nichilismo esistenziale.

Da qui nasce l'urgenza di un'analisi continua e di una precisazione del linguaggio. Non possiamo semplicemente accettare le traduzioni convenzionali; dobbiamo interrogarle, metterle in discussione, esplorarne le implicazioni. Prendiamo ad esempio il termine giapponese Shin (心), che può essere reso come "cuore", "spirito", "mente" o "essenza". Ciascuna di queste traduzioni orienta la comprensione in direzioni diverse. Se traduciamo il concetto di trasmissione Ishin Denshin (以心伝心) come "da cuore a cuore", evochiamo un'intimità emotiva, una relazione affettiva tra maestro e discepolo; se invece optiamo per "da spirito a spirito", ci spostiamo verso una dimensione più universale, meno personalistica, più vicina all'idea di natura di Buddha che trascende le individualità.

Questa ambiguità non è necessariamente un difetto da correggere, ma una caratteristica intrinseca del linguaggio quando si confronta con l'ineffabile. Le tradizioni orientali hanno sempre riconosciuto i limiti del linguaggio concettuale (prapañca nel buddhismo, vikalpa nel vedanta). Le parole possono indicare la luna, ma non sono la luna. Finché non raggiungiamo una comprensione diretta ed esperienziale, dobbiamo mantenere una certa sospensione del giudizio, considerando questi termini come approssimazioni provvisorie, tenendoli idealmente "tra virgolette" nella nostra mente.

Le due menti: la dualità provvisoria come strumento pedagogico

Nella tradizione Zen, in particolare nel lignaggio Rinzai che enfatizza la pratica dei kōan, si opera una distinzione metodologica tra due modalità della mente: la mente relativa (o ordinaria) e la mente assoluta. È fondamentale comprendere che questa distinzione è di natura pedagogica e provvisoria, non ontologica. Non esistono letteralmente due menti separate; piuttosto, si tratta di due modi di funzionamento della stessa consapevolezza.

La mente relativa è ciò che comunemente identifichiamo come il nostro "io". È il complesso psicofisico che pensa, decide, prova emozioni, percepisce sensazioni, forma giudizi, crea narrazioni. Questa mente opera secondo schemi, abitudini, condizionamenti. È la mente che dice "io voglio", "io penso", "io sono". È costruita attraverso la memoria, l'esperienza, l'educazione, la cultura. Funziona attraverso la discriminazione: separa il sé dal non-sé, il piacevole dallo spiacevole, il giusto dallo sbagliato.

Questa mente relativa non è intrinsecamente problematica. È necessaria per navigare il mondo fenomenico, per svolgere le attività quotidiane, per interagire con gli altri. Il problema sorge quando ci identifichiamo esclusivamente con essa, quando dimentichiamo che essa è solo una modalità parziale della consapevolezza, quando la scambiamo per la totalità di ciò che siamo.

La mente relativa opera attraverso la ripetizione. Le emozioni frequentemente sperimentate si cristallizzano in sentimenti stabili; i sentimenti danno origine a schemi di pensiero; i pensieri generano azioni; le azioni rinforzano le emozioni. Si crea così un circolo vizioso, un loop autoreferenziale che si perpetua automaticamente. Questo meccanismo è ciò che nel buddhismo viene chiamato saṃsāra, il ciclo della sofferenza.

Il Buddha individuò la radice della sofferenza (duḥkha) in questa visione individualista, egoica, separativa. Quando ci identifichiamo rigidamente con il nostro "io", inevitabilmente entriamo in conflitto con il mondo. Cerchiamo di piegare la realtà ai nostri desideri, di controllare ciò che è incontrollabile, di permanentizzare ciò che è impermanente. E poiché tutti gli altri esseri fanno lo stesso, ciascuno dal proprio punto di vista limitato, nascono conflitti, frustrazioni, sofferenze.

La mente assoluta, al contrario, è la consapevolezza non-duale, non-discriminante. È la natura di Buddha (buddha-dhātu, busshō 仏性), la capacità innata di illuminazione che tutti gli esseri possiedono. Non è qualcosa che deve essere acquisito o creato; è sempre presente, ma oscurato dalle nuvole della mente condizionata. È come il sole che è sempre lì, anche quando è coperto dalle nuvole.

Nella mente assoluta non c'è separazione tra soggetto e oggetto, tra sé e altro, tra interno ed esterno. C'è solo l'esperienza diretta, non mediata dal pensiero discorsivo. È la dimensione del suññatā (vacuità), non nel senso di nullità, ma nel senso di assenza di natura intrinseca separata. È la dimensione dell'interdipendenza (pratītyasamutpāda), dove ogni fenomeno esiste solo in relazione a tutti gli altri fenomeni.

Le due pratiche meditative: shikantaza e kōan

Nel lignaggio Zen esistono due approcci meditativi principali, apparentemente diversi ma complementari: la meditazione silenziosa (shikantaza, "solo sedere") e la pratica dei kōan.

La meditazione silenziosa, particolarmente enfatizzata nella scuola Sōtō fondata da Dōgen Zenji, è una pratica di pura presenza. Non c'è oggetto di meditazione, non c'è visualizzazione, non c'è mantra, non c'è nemmeno un'osservazione distaccata. È semplicemente essere, senza aggiungere nulla. Nella sua purezza ideale, non c'è nemmeno un osservatore che osserva: l'esperienza e la consapevolezza dell'esperienza sono una cosa sola. È la pratica della non-dualità diretta.

Dōgen descriveva questa pratica come shinjin datsuraku (身心脱落), "caduta di corpo e mente". Non si tratta di negare il corpo o la mente, ma di lasciar andare l'attaccamento all'idea di un sé sostanziale e separato. È praticare l'illuminazione stessa, non come uno scopo futuro da raggiungere, ma come realtà presente da manifestare.

La pratica dei kōan, invece, enfatizzata nella scuola Rinzai fondata da Eisai, utilizza un approccio apparentemente opposto. Anziché il silenzio vuoto, si lavora intensamente con un paradosso, una domanda, una storia enigmatica. Ma l'obiettivo ultimo è lo stesso: rompere l'identificazione con la mente ordinaria e aprire l'esperienza della mente assoluta.

È importante comprendere che queste due pratiche non sono in contraddizione. Sono come due porte diverse che conducono alla stessa stanza. La meditazione silenziosa opera attraverso il lasciare andare, il non-afferrare; la pratica dei kōan opera attraverso un'intensificazione che porta a un punto di rottura. Entrambe mirano a trascendere il funzionamento abituale della mente discriminante.

La natura e la struttura del kōan

Il termine kōan (公案) letteralmente significa "caso pubblico" o "documento ufficiale". Originariamente, nel contesto giuridico cinese, indicava un precedente legale utilizzato per stabilire la giurisprudenza. Nel contesto Zen, un kōan è un "caso" spirituale, spesso un dialogo o un'interazione tra un maestro e un discepolo, o un'affermazione paradossale, che viene utilizzato come strumento per catalizzare il risveglio.

I kōan hanno diverse forme. Alcuni sono domande apparentemente semplici ma impossibili da rispondere razionalmente, come il celebre "Qual è il suono di una sola mano?" (Sekishu no onjō 隻手の音声) di Hakuin. Altri sono storie di incontri tra maestri e discepoli, come i numerosi dialoghi raccolti nella Mumonkan (無門関, "La porta senza porta") o nel Hekiganroku (碧巌録, "La raccolta della scogliera azzurra"). Altri ancora sono affermazioni paradossali o gesti enigmatici.

Ciò che accomuna tutti i kōan è la loro resistenza alla comprensione concettuale. Non possono essere "risolti" attraverso il pensiero logico o l'analisi intellettuale. Sono progettati per creare un impasse nella mente ordinaria, per portarla a un punto morto dove deve arrendersi.

Il kōan funziona su tre livelli interconnessi:

1. Conoscenza della mente ordinaria

Il primo livello di lavoro con un kōan consiste nel prendere consapevolezza del funzionamento della propria mente ordinaria. Quando ci viene assegnato un kōan e cominciamo a lavorarci, inevitabilmente la nostra mente cerca di "risolverlo" usando gli strumenti abituali: l'analisi logica, l'associazione di idee, la ricerca di analogie, il ricorso alla memoria, la costruzione di ipotesi.

Ma il kōan è specificamente costruito per resistere a tutti questi approcci. Più cerchiamo di afferrarlo con la mente concettuale, più ci sfugge. È come cercare di afferrare l'acqua con le mani aperte: più stringiamo, più scivola via.

Questo processo di frustrazione è cruciale. Attraverso di esso, cominciamo a vedere direttamente come funziona la nostra mente: come reitera continuamente gli stessi schemi, come si attacca alle proprie interpretazioni, come cerca di ridurre il mistero a qualcosa di conosciuto e familiare, come cerca di mantenere il controllo.

Il kōan diventa uno specchio che riflette le nostre abitudini mentali. Vediamo la nostra tendenza a categorizzare, a giudicare, a concettualizzare. Vediamo come la mente non riesce a stare con l'incertezza, con il non-sapere, con l'ambiguità. Deve sempre avere una risposta, una spiegazione, una soluzione.

Questa consapevolezza è già di per sé trasformativa. Quando vediamo chiaramente la prigione in cui siamo rinchiusi, abbiamo già fatto il primo passo verso la libertà. Come disse il Buddha, la consapevolezza è l'inizio della liberazione.

2. Uscire dai limiti

Il secondo livello è quello della trascendenza. Dopo aver riconosciuto i limiti della mente ordinaria, dopo aver visto chiaramente le sbarre della prigione concettuale, diventa possibile andare oltre.

Questo "andare oltre" non è un processo graduale di miglioramento. Non è che comprendiamo sempre meglio fino a quando finalmente "capiamo". È piuttosto un salto, una discontinuità, una rottura. Nel linguaggio Zen, questo momento viene chiamato kenshō (見性, "vedere la propria natura") o satori (悟り, "risveglio").

È il momento in cui la mente ordinaria, portata al suo limite estremo, improvvisamente collassa o si apre. È come quando soffiamo in un palloncino: può espandersi fino a un certo punto, ma poi inevitabilmente scoppia. Non si trasforma gradualmente in qualcos'altro; c'è una rottura qualitativa.

In questo momento, c'è un'esperienza diretta della realtà non mediata dal pensiero concettuale. Non c'è più un soggetto separato che guarda un oggetto; c'è solo l'esperienza stessa, nella sua immediatezza e totalità. La distinzione tra sé e altro, tra interno ed esterno, tra osservatore e osservato, temporaneamente collassa.

Questa esperienza non può essere adeguatamente descritta a parole, proprio perché trascende il linguaggio concettuale. Coloro che l'hanno vissuta usano metafore e paradossi per indicarla: "vedere il proprio volto originale prima che i genitori nascessero", "il fondo del secchio che cede", "il risveglio da un sogno", "il ritorno a casa".

È importante sottolineare che questo non è uno stato mistico o soprannaturale. È, secondo lo Zen, la nostra condizione naturale e originaria, semplicemente non oscurata dalle costruzioni mentali. È vedere le cose come sono, tathātā (真如, shinnyo in giapponese), "tale-ità" o "cosità".

3. Vivere la realizzazione

Il terzo livello, e forse il più importante, è l'integrazione della realizzazione nella vita quotidiana. Nel linguaggio Zen, questo viene espresso con il detto: "Prima del risveglio, montagne sono montagne e fiumi sono fiumi. Al momento del risveglio, montagne non sono più montagne e fiumi non sono più fiumi. Dopo il risveglio, montagne sono di nuovo montagne e fiumi sono di nuovo fiumi."

Questo enigmatico detto esprime il percorso completo. Inizialmente, vediamo il mondo attraverso gli occhi della mente ordinaria, con tutte le sue divisioni e concettualizzazioni. Poi, nel momento del risveglio, queste categorie crollano e vediamo l'interdipendenza e la vacuità di tutti i fenomeni. Ma il percorso non finisce qui. Dopo il risveglio, ritorniamo al mondo fenomenico, ma ora con occhi diversi. Le montagne sono ancora montagne, ma non sono più separate da noi; i fiumi sono ancora fiumi, ma fluiscono attraverso di noi come noi fluiamo attraverso loro.

La realizzazione deve permeare ogni aspetto della vita. Non è qualcosa di speciale o separato, riservato a momenti di meditazione formale. È essere pienamente presente in ogni attività: camminare, mangiare, lavorare, parlare, dormire. È ciò che i Maestri Zen chiamano "praticare lo Zen nei mercati e nelle case da tè".

Questa integrazione non è automatica. Il kenshō iniziale, per quanto profondo, è solo l'inizio. È come aprire per un momento le imposte di una stanza buia e vedere la luce del sole. Ma poi le imposte si richiudono, e dobbiamo lavorare per tenerle aperte, per stabilizzare la realizzazione, per permetterle di trasformare gradualmente tutti gli aspetti della nostra vita.

Questo è il lavoro dei kōan successivi al primo risveglio. Nel sistema tradizionale Rinzai, ci sono collezioni di kōan organizzate in sequenze progressive. Dopo il kenshō iniziale, si continua a lavorare con kōan sempre più sottili, che esplorano diversi aspetti della realizzazione, che la approfondiscono, che la testano in situazioni diverse.

La domanda come risposta: il paradosso dell'indagine

Uno degli insegnamenti più profondi e controintuitivi della pratica dei kōan è che la domanda è già la risposta. Questo rovescia completamente il nostro approccio ordinario all'indagine.

Nella vita ordinaria, quando abbiamo una domanda, cerchiamo una risposta fuori di essa. La domanda è vista come un'espressione di ignoranza, e la risposta come qualcosa di separato che deve essere acquisito. C'è una distanza, una separazione tra domanda e risposta.

Ma lo Zen ci invita a guardare più a fondo. Perché poniamo una particolare domanda? Da dove nasce quella domanda? Chi è che sta chiedendo?

Prendiamo la classica domanda esistenziale: "Qual è il significato della vita?" La maggior parte delle persone cerca la risposta in filosofie, religioni, libri, insegnanti. Ma lo Zen ci chiede di tornare alla domanda stessa. Perché stai ponendo questa domanda? Cosa nella tua esperienza ti ha portato a formularla? Qual è il presupposto nascosto in essa?

Quando indaghiamo a fondo, scopriamo che la domanda stessa contiene già certi presupposti. La domanda "Qual è il significato della vita?" presuppone che la vita debba avere un significato, che questo significato sia qualcosa di separato dalla vita stessa, che possa essere catturato in una formula o definizione. Ma sono questi presupposti validi?

Inoltre, la domanda nasce sempre dalla mente ordinaria, con i suoi atti discriminanti. È ancora l'io che decide cosa è importante chiedere, cosa vale la pena investigare. È ancora la mente condizionata che opera attraverso categorie di significato e non-significato, importante e non-importante.

Quando vediamo chiaramente questo, quando vediamo che la domanda stessa è un prodotto delle nostre costruzioni mentali, qualcosa si scioglie. Non è che otteniamo una risposta alla domanda; è che la domanda stessa si dissolve. E nella sua dissoluzione, c'è una comprensione più profonda di quella che qualsiasi risposta concettuale potrebbe fornire.

Questo è ciò che il Maestro Zen Dōgen intendeva quando disse: "Studiare il buddhismo è studiare il sé. Studiare il sé è dimenticare il sé. Dimenticare il sé è essere illuminati da tutte le cose."

L'indagine, se condotta profondamente, non conduce a un accumulo di conoscenze, ma a una dissoluzione dell'indagatore stesso. E in quella dissoluzione c'è la vera comprensione.

Musutoku: la pratica senza spirito di guadagno

Un aspetto cruciale della pratica Zen, particolarmente rilevante nel lavoro con i kōan, è il concetto di musutoku (無所得), letteralmente "nessun ottenimento" o "non-acquisizione".

La mente ordinaria è sempre orientata al risultato. Facciamo le cose per ottenere qualcosa: lavoriamo per guadagnare denaro, mangiamo per saziarci, studiamo per acquisire conoscenze. Siamo costantemente proiettati verso il futuro, verso un obiettivo da raggiungere.

Questa mentalità si insinua anche nella pratica spirituale. Meditiamo per ottenere calma, pratichiamo per raggiungere l'illuminazione, lavoriamo sui kōan per avere il satori. Ma questa stessa orientazione al risultato è parte del problema, non della soluzione.

Quando pratichiamo con spirito di ottenimento, rafforziamo esattamente quella struttura egoica che stiamo cercando di trascendere. C'è ancora un "io" che vuole ottenere qualcosa, che misura i progressi, che si frustra se i risultati non arrivano, che si inorgoglisce se arrivano.

Musutoku significa praticare per la pratica stessa, non per ottenere qualcosa. Quando beviamo, beviamo semplicemente; non beviamo "per" dissetarci. La dissetazione può avvenire come conseguenza naturale, ma non è l'obiettivo che divide l'atto dal suo scopo.

Questo può sembrare un sottile gioco di parole, ma la differenza è profonda. Quando beviamo semplicemente, siamo completamente presenti nell'atto di bere: il sentire il bicchiere nella mano, il movimento del braccio, il contatto del liquido con le labbra, la sensazione di freschezza in bocca. C'è solo l'esperienza diretta, momento per momento.

Quando invece beviamo "per" dissetarci, siamo mentalmente proiettati verso il risultato futuro. Non siamo realmente presenti nell'atto; siamo già nella sensazione immaginata di non avere più sete. E così perdiamo l'unica cosa che è reale: questo momento presente.

Lo stesso vale per la pratica dei kōan. Se lavoriamo sul kōan "per" avere il satori, siamo già fuori strada. Il satori non è qualcosa che può essere ottenuto dall'io, perché il satori è esattamente la dissoluzione dell'illusione dell'io. È come cercare di addormentarsi sforzandosi: più ci proviamo, più restiamo svegli.

Musutoku non significa non avere direzione o intenzione. C'è certamente una direzione nella pratica Zen, un movimento verso la liberazione. Ma questa direzione non deve diventare un obiettivo da afferrare, un'acquisizione futura che nega la pienezza del presente.

Il Maestro Zen Suzuki Shunryū espresse questo paradosso magnificamente: "Non devi fare altro sforzo, basta che tu sieda. Ma devi sedere seriamente, come se la tua vita dipendesse da questo. Ma anche se siedi come se la tua vita dipendesse da questo, non devi aspettarti nulla."

Ishin denshin: la trasmissione da cuore a cuore

La pratica Zen è essenzialmente esperienziale, non intellettuale. Per questo motivo, la relazione diretta tra maestro e discepolo è assolutamente centrale. Questa relazione viene descritta con l'espressione Ishin Denshin (以心伝心), che può essere tradotta come "trasmissione da mente a mente", "da cuore a cuore" o "da spirito a spirito".

Come abbiamo visto, la scelta della traduzione non è neutra. Se diciamo "da cuore a cuore", enfatizziamo l'aspetto affettivo e relazionale; se diciamo "da spirito a spirito", ci spostiamo verso una dimensione più universale. Forse la traduzione più accurata è "da mente a mente", intendendo qui "mente" non nel senso della mente concettuale, ma della mente assoluta, della natura di Buddha.

Questa trasmissione non avviene attraverso le parole o i concetti. Le parole possono indicare, suggerire, provocare, ma non possono trasmettere direttamente la realizzazione. La realizzazione può essere solo riconosciuta da chi già la possiede, almeno in qualche misura.

Questo crea una situazione paradossale: come può qualcuno che non ha realizzato riconoscere la realizzazione in un altro? Come può un cieco scegliere una guida vedente tra una folla di ciechi che proclamano di vedere?

Qui entra in gioco la fiducia. Il discepolo deve sviluppare una fiducia profonda nel maestro, basata non su prove esteriori o su autorità istituzionali, ma su un riconoscimento intuitivo. Questa fiducia non è cieca credulità; è piuttosto una risonanza, un sentire che il maestro parla da un luogo di autenticità, da un'esperienza diretta.

Allo stesso tempo, il maestro deve guadagnarsi questa fiducia attraverso l'incarnazione vivente degli insegnamenti, attraverso la dimostrazione non di perfezione ma di genuinità. Un vero maestro Zen non pretende di essere perfetto o al di là dell'umano; manifesta semplicemente una libertà interiore, una capacità di rispondere alle situazioni con spontaneità e appropriatezza, senza essere intrappolato nelle reazioni egocentriche.

Il maestro ha un ruolo cruciale nell'assegnare i kōan. Non c'è un curriculum fisso uguale per tutti; il kōan deve essere scelto ad personam, in base alla situazione specifica del praticante in quel particolare momento del suo percorso. Un kōan che è perfetto per una persona in una certa fase può essere completamente inappropriato per un'altra persona o per la stessa persona in un momento diverso.

Questa personalizzazione richiede che il maestro conosca intimamente il discepolo, che comprenda profondamente dove si trova nel suo percorso, quali sono i suoi ostacoli specifici, quali sono le sue resistenze. Richiede anche che il maestro abbia una comprensione esperienziale dei kōan stessi, non solo intellettuale.

L'incontro formale tra maestro e discepolo, chiamato dokusan (独参) nel Rinzai Zen o sanzen (参禅) nel Soto Zen, è il momento in cui questa trasmissione si verifica più direttamente. In questi incontri privati, il discepolo presenta la sua comprensione del kōan al maestro.

Il maestro non sta cercando una risposta "corretta" nel senso convenzionale. Non c'è una formula da memorizzare. Il maestro sta verificando se c'è stata una vera penetrazione, un'esperienza diretta, o se si tratta solo di comprensione concettuale. I maestri Zen hanno sviluppato nei secoli metodi sofisticati per distinguere tra realizzazione autentica e imitazione intellettuale.

A volte la risposta può essere silenziosa, un gesto, uno sguardo. A volte può essere un'azione fisica, come girare le spalle e uscire dalla stanza. A volte può essere una risposta verbale paradossale. Ciò che conta non è la forma esterna, ma se proviene dalla mente ordinaria o dalla mente risvegliata.

Questa relazione maestro-discepolo può sembrare elitaria o autoritaria agli occhi occidentali moderni, abituati all'egualitarismo e all'autonomia individuale. Ma è importante comprendere che il maestro Zen non esercita un'autorità esterna; è piuttosto uno specchio che riflette al discepolo la sua propria natura di Buddha. Come disse il Maestro Linji: "Se incontri il Buddha, uccidi il Buddha. Se incontri un patriarca, uccidi il patriarca." Questo insegnamento sconvolgente significa che non dobbiamo attaccarci a nessuna figura di autorità esterna, nemmeno al Buddha stesso. L'obiettivo è realizzare la propria intrinseca libertà.

L'insegnamento nel paradosso: il kōan dell'albero

Consideriamo ora un kōan particolarmente ricco e stratificato, che illustra magnificamente come l'insegnamento Zen operi attraverso il paradosso:

"È come un uomo su un albero appeso a un ramo con una sola bocca. Le sue mani non arrivano al tronco, e con le mani non riesce ad afferrare nessun ramo. Neppure con i piedi riesce ad appoggiarsi ai rami sotto. Sotto l'albero arriva un altro uomo e gli chiede: Qual è il significato della venuta del patriarca da Ovest?" (cioè, qual è l'essenza dell'insegnamento buddista, o il significato della vita spirituale).

La situazione è paradossale: il maestro è in una posizione di estrema vulnerabilità, letteralmente appeso per i denti. Se apre la bocca per rispondere, cade e muore. Se non risponde, tradisce la compassione che dovrebbe essere al cuore dell'insegnamento buddista, lasciando il richiedente nell'ignoranza.

Ma questo è precisamente il punto. Il kōan ci pone di fronte a una situazione impossibile per la mente dualistica. La mente ordinaria cerca sempre di risolvere i problemi attraverso la scelta tra alternative: o rispondo o non rispondo, o vivo o muoio, o insegno o sto zitto. Ma la realtà non è sempre conforme a queste dicotomie.

Il maestro, rimanendo in quella condizione impossibile, sta già insegnando. Il suo essere lì, appeso, in quello stato di totale vulnerabilità e presenza, è l'insegnamento. Non c'è bisogno di parole. Anzi, qualsiasi parola aggiunta sarebbe una distrazione dall'insegnamento diretto che sta avvenendo.

Questo kōan ci insegna diverse cose simultaneamente:

Primo, ci mostra che la vera trasmissione non avviene attraverso le parole. L'insegnamento più profondo è non-verbale, è una dimostrazione diretta. Come disse Bodhidharma quando arrivò in Cina: "Una trasmissione speciale al di fuori delle scritture, non basata su parole e lettere, che punta direttamente alla mente umana, permettendo di vedere la propria natura e realizzare la buddhità."

Secondo, ci confronta con i nostri stessi attaccamenti. Quando leggiamo questo kōan, la nostra mente cerca immediatamente una "soluzione". Vogliamo salvare il maestro. Vogliamo che risponda alla domanda. Vogliamo che la situazione si risolva in un modo che ci faccia sentire confortevoli. Ma questa stessa necessità di risolvere, di sistemare, di rendere le cose comode e sicure, è parte del problema.

Terzo, ci mostra che la pratica autentica richiede la disponibilità a morire. Non necessariamente una morte fisica, ma la morte dell'io, la morte dei propri attaccamenti e certezze. Il maestro appeso all'albero ha già lasciato andare tutto. È in una posizione in cui non può fare affidamento su nulla se non sulla pura presenza. Questa è la posizione di chi ha veramente realizzato.

Il simbolismo dell'albero è ricco. L'albero è l'Albero della Vita, l'axis mundi che connette cielo e terra, l'albero della conoscenza, l'albero del Bodhi sotto cui Buddha si illuminò. Ha un tronco unico ma radici multiple che si estendono in profondità nel terreno, invisibili. Le radici rappresentano gli anni di pratica, le innumerevoli connessioni e interdipendenze che sostengono ogni manifestazione.

L'impossibilità del maestro di toccare l'albero se non con la bocca è significativa. La bocca è l'organo della parola, della definizione, del discorso. Ma qui la bocca non parla; semplicemente tiene, sostiene. Questo simboleggia l'impossibilità fondamentale di catturare la natura di Buddha in una definizione verbale. Qualsiasi cosa venga definita è già separata, limitata, ridotta. La natura di Buddha non è un oggetto che può essere afferrato concettualmente; è la stessa soggettività che cerca di afferrarla, è il processo stesso del cercare.

Quarto, il kōan ci mostra la vera compassione. Il maestro non abbandona la sua posizione per dare una risposta facile. Potrebbe lasciarsi cadere, dire qualche parola rassicurante, soddisfare la domanda del richiedente. Ma questo sarebbe una falsa compassione. La vera compassione non è dare alle persone ciò che vogliono, ma condurle a ciò di cui hanno bisogno. E ciò di cui il richiedente ha bisogno non è una risposta concettuale al suo kōan, ma un confronto diretto con l'inadeguatezza delle sue domande stesse.

Quinto, e forse più profondamente, il kōan ci rivela che la natura di Buddha è questa stessa condizione di vulnerabilità totale, di esposizione completa, di presenza incondizionata. Non è qualcosa di speciale o protetto, non è uno stato elevato al di sopra della vita ordinaria. È essere completamente presenti anche quando si è in punto di morte, anche quando non c'è via d'uscita, anche quando ogni sicurezza è stata strappata via.

Il continuo mettere in discussione: la via dell'indagine radicale

Uno degli insegnamenti più rivoluzionari del Buddha, spesso dimenticato o frainteso, è il suo invito all'indagine critica indipendente. Nel famoso discorso ai Kalama (Kālāma Sutta), il Buddha disse:

"Non credete in qualcosa semplicemente perché ne avete sentito parlare. Non credete nelle tradizioni perché sono state tramandate per generazioni. Non credete in qualcosa perché è stato detto e ripetuto da molti. Non credete in qualcosa semplicemente perché si trova scritto nei vostri libri religiosi. Non credete in qualcosa solo sull'autorità dei vostri maestri e anziani. Ma dopo osservazione e analisi, quando scoprite che qualcosa è d'accordo con la ragione ed è favorevole al bene e beneficio di tutti, allora accettatelo e vivete secondo esso."

Questo insegnamento è straordinariamente radicale, specialmente nel contesto religioso. Il Buddha non chiede fede cieca, non richiede sottomissione all'autorità, non impone dogmi. Chiede invece che ciascuno verifichi direttamente, attraverso la propria esperienza, la validità degli insegnamenti.

Lo Zen ha preso questo principio e lo ha portato alle sue conseguenze più estreme. L'intero impianto della pratica dei kōan è costruito su questo fondamento: non accettare nulla sulla fiducia, mettere tutto in discussione, indagare radicalmente.

Questa indagine radicale non è un processo intellettuale astratto. Non si tratta di filosofare o dibattere. Si tratta di portare la domanda nella propria esperienza vissuta, di lasciare che la domanda penetri in ogni fibra del proprio essere, di non essere soddisfatti di risposte superficiali o convenzionali.

Il kōan è uno strumento per questo tipo di indagine. Prende ciò che consideriamo scontato—le nostre categorie, le nostre certezze, i nostri modi abituali di pensare—e lo mette radicalmente in discussione. Non permette alla mente di riposare in una "zona di comfort" concettuale.

Questa messa in discussione continua non è fine a se stessa. Non si tratta di scetticismo fine o di relativismo nichilista. Si tratta piuttosto di non permettere che la comprensione viva si cristallizzi in credenze morte, di non lasciare che l'esperienza diretta si solidifichi in dogma.

Il Maestro Zen Linji disse: "Se incontri il Buddha per strada, uccidilo." Questo insegnamento shock significa che non dobbiamo attaccarci nemmeno al Buddha, nemmeno agli insegnamenti più sacri. Nel momento in cui trasformiamo il Buddha in un'icona da adorare, in un'autorità esterna a cui sottometterci, abbiamo perso lo spirito dell'insegnamento. Il Buddha non voleva adoratori, ma esseri risvegliati.

Questa attitudine critica si applica anche alla pratica stessa. Non dobbiamo praticare meccanicamente, seguendo forme esteriori senza comprensione. Dobbiamo continuamente chiederci: Perché sto praticando? Cosa sto veramente facendo? Questa pratica sta portando a maggiore libertà o a nuove forme di intrappolamento?

È facile trasformare lo Zen stesso in un nuovo ego, in una nuova identità. Diventiamo "praticanti Zen", ci identifichiamo con la pratica, sviluppiamo un senso di superiorità spirituale. Ma questo è esattamente l'opposto di ciò che la pratica dovrebbe fare. Come disse il Maestro Shunryū Suzuki: "Lo zen è la pratica di dimenticare lo zen."

La messa in discussione continua include anche i nostri concetti di velocità e progresso. La mente ordinaria vuole misurare, comparare, valutare: "Sto progredendo? Sono più vicino all'illuminazione? Quanto ci vorrà ancora?" Ma questi stessi concetti—progresso, velocità, distanza—sono prodotti della mente discriminante.

Nel momento presente, che è l'unico momento reale, non c'è progresso o regresso, velocità o lentezza. Queste sono categorie temporali che la mente sovrappone all'esperienza immediata. Quando sediamo in meditazione, non stiamo andando da nessuna parte. Non stiamo "progredendo" verso l'illuminazione. Stiamo semplicemente sedendo, completamente presenti qui e ora.

Questo non significa che non ci sia una direzione nella pratica, o che tutte le esperienze siano equivalenti. Ma la direzione non è lineare, il cambiamento non è progressivo nel senso ordinario. È più come un cambio di prospettiva improvviso: un momento vediamo il mondo in un modo, e il momento successivo—senza che nulla di esterno sia cambiato—tutto appare diverso.

La vacuità del tempo e dello spazio

Uno degli aspetti più radicali e difficili da comprendere della pratica dei kōan è il suo tentativo di far crollare i nostri concetti più fondamentali di tempo e spazio. Questi non sono considerati strutture assolute della realtà, ma costruzioni della mente concettuale.

Nel pensiero buddhista, particolarmente nella filosofia Mādhyamika, il tempo è visto come una convenzione utile ma ultimamente vuota di esistenza intrinseca. Il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora, e il presente—nel momento in cui cerchiamo di afferrarlo—è già diventato passato. Dov'è dunque il tempo?

Allo stesso modo, lo spazio è visto come relazionale piuttosto che assoluto. Qualcosa è "qui" solo in relazione a qualcosa che è "là". Ma dove finisce "qui" e inizia "là"? Quando spostiamo il punto di riferimento, cambiano tutte le relazioni spaziali.

La pratica dei kōan attacca direttamente questi concetti. Un kōan famoso chiede: "Qual è il tuo volto originale prima che i tuoi genitori nascessero?" Questo kōan ci spinge a concepire un "noi" che precede la nostra nascita fisica, che esiste al di fuori della linearità temporale. Non si tratta di credere in una reincarnazione o in un'anima eterna; si tratta di vedere attraverso la costruzione mentale di un "io" limitato alla storia personale.

Un altro kōan chiede: "Quando le diecimila cose ritornano all'Uno, dove ritorna l'Uno?" Questo interroga la nostra tendenza a postulare una fonte ultima, un fondamento assoluto. Ma se tutto ritorna all'Uno, cosa c'è dietro l'Uno? E se l'Uno stesso è vuoto, cosa significa "ritornare"?

Questi kōan non cercano di stabilire una nuova metafisica, un nuovo sistema di credenze sul tempo e lo spazio. Cercano piuttosto di liberarci da tutte le concettualizzazioni, di mostrarci che i nostri modi abituali di pensare tempo e spazio sono costruzioni, utili in certi contesti ma non ultimamente reali.

Quando meditiamo profondamente, quando siamo completamente presenti, c'è un senso in cui il tempo si dissolve. Non è che diventiamo inconsapevoli del tempo nel senso dell'orologio; è piuttosto che la qualità dell'esperienza cambia. Non siamo più divisi tra passato (memoria) e futuro (anticipazione), con il presente ridotto a un punto infinitesimale tra i due. C'è invece una pienezza del presente, una presenza che non è definita dalla sua relazione con il non-presente.

Questo ha implicazioni pratiche profonde. Quando viviamo costantemente proiettati nel futuro o ancorati al passato, perdiamo il contatto con la vitalità del momento presente. La vita diventa un mezzo per raggiungere qualche fine futuro, piuttosto che un fine in sé stessa. Mangiamo pensando al prossimo impegno, lavoriamo pensando al fine settimana, viviamo pensando alla pensione.

Ma la vita accade solo nel presente. Il passato esiste solo come memoria presente, il futuro solo come anticipazione presente. Quando comprendiamo questo profondamente, non concettualmente ma esperienzialmente, c'è una liberazione. Non siamo più trascinati dal flusso del tempo; ci muoviamo con esso, in esso, come esso.

L'apertura alla totalità: dal piccolo io all'essere universale

L'obiettivo ultimo della pratica dei kōan, e della pratica Zen in generale, è descritto come un "cambiamento di coscienza dalla nostra piccola visione ordinaria all'apertura verso la totalità". Ma cosa significa questo concretamente?

La nostra esperienza ordinaria è caratterizzata da una forte sensazione di essere un "io" separato, un punto di vista individuale separato dal resto dell'universo. Ci sentiamo "qui dentro", guardando "là fuori" a un mondo esterno. Questa sensazione è così immediata e convincente che raramente la mettiamo in discussione.

Ma quando indaghiamo più attentamente questa sensazione di separazione, quando cerchiamo questo "io" che presumibilmente esiste, diventa sfuggente. Dove esattamente si trova l'io? Nel corpo? Nel cervello? Nei pensieri? Nei sentimenti? Nelle memorie?

Il corpo è un processo in costante cambiamento. Le cellule muoiono e si rinnovano, gli atomi vengono scambiati con l'ambiente. Non c'è una sostanza stabile che possiamo indicare e dire "questo è io".

I pensieri vengono e vanno. Non scegliamo i nostri pensieri; appaiono spontaneamente. Se io fossi i miei pensieri, quale pensiero sarei? Quello di adesso, o quello di un momento fa, o quello che arriverà tra un momento?

Le emozioni sono ancora più fluide. Cambiano di momento in momento, influenzate da innumerevoli fattori interni ed esterni. Non possiamo essere le nostre emozioni, perché le osserviamo cambiare.

Le memorie sono notoriamente instabili e ricostruttive. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, lo ricreiamo leggermente diverso. Non c'è un "io" stabile nascosto nelle memorie.

Quando cerchiamo onestamente questo "io", non lo troviamo come entità separata e sostanziale. Troviamo invece un processo, un flusso continuo di esperienze interconnesse. Questo è ciò che il Buddha intendeva con anātman, "non-io" o "assenza di un sé sostanziale".

Ma questa comprensione può essere fraintesa. Non significa che non esistiamo affatto, che siamo illusioni o nulla. Significa piuttosto che non esistiamo nel modo in cui pensavamo di esistere—come entità separate e indipendenti.

Nella visione buddhista dell'interdipendenza (pratītyasamutpāda), ogni cosa esiste solo in relazione a tutte le altre cose. Non possiamo separare ciò che chiamiamo "io" dall'ambiente, dalle altre persone, dalla storia, dalla cultura, dal linguaggio. Siamo nodi in una rete infinita di relazioni.

Questa non è solo una teoria filosofica; può essere vissuta direttamente. Nei momenti di profonda presenza, nei momenti di kenshō o satori, c'è un'esperienza diretta di questa interconnessione. I confini che normalmente percepiamo tra "io" e "altro" diventano permeabili, trasparenti, o addirittura scompaiono completamente.

In questi momenti, c'è un senso profondo di intimità con tutte le cose. Non è che diventiamo tutt'uno con l'universo in qualche senso mistico vago; è piuttosto che vediamo chiaramente che non siamo mai stati separati. La separazione era un'interpretazione, una costruzione mentale sovrapposta all'esperienza diretta.

Questa realizzazione non comporta la perdita dell'individualità in qualche collettivo indifferenziato. Dopo il satori, continuiamo ad avere un corpo particolare, una storia particolare, una prospettiva particolare. Ma questa particolarità non è più vissuta come separazione. È più come un'onda che si riconosce come unica nella sua forma, ma non separata dall'oceano.

Questa apertura alla totalità ha implicazioni etiche profonde. Quando vediamo veramente che non siamo separati dagli altri, quando comprendiamo esperienzialmente la nostra interconnessione, la compassione nasce naturalmente. Non è più qualcosa che dobbiamo coltivare deliberatamente, come una virtù morale; è semplicemente la risposta naturale alla percezione diretta della realtà.

Se vedo un altro essere soffrire, e riconosco che quell'essere non è fondamentalmente separato da me, come potrei non rispondere con compassione? Non è questione di dovere morale, ma di semplice coerenza con la visione della realtà.

Allo stesso modo, quando vediamo la nostra interdipendenza con l'ambiente naturale, quando comprendiamo che non siamo separati dalla terra, dall'aria, dall'acqua, nasce naturalmente un senso di responsabilità ecologica. Non è più "proteggere l'ambiente" come qualcosa di esterno a noi; è riconoscere che l'ambiente è parte di ciò che siamo.

La pratica continua: integrare il risveglio nella vita quotidiana

Uno dei fraintendimenti più comuni sulla pratica Zen è che l'illuminazione sia un evento finale, un traguardo da raggiungere dopo il quale la pratica non è più necessaria. Questo è profondamente fuorviante.

Il kenshō iniziale, per quanto profondo e trasformativo, è solo l'inizio del vero percorso. È come aprire gli occhi per la prima volta: vediamo la luce, ma dobbiamo ancora imparare a vedere chiaramente, a orientarci, a muoverci in questo nuovo paesaggio.

La pratica dopo il kenshō è in molti modi più importante della pratica prima di esso. Prima del risveglio, c'è una certa eccitazione, un senso di scoperta, una spinta motivazionale. Dopo il risveglio iniziale, quando l'eccitazione si calma, comincia il vero lavoro: integrare la realizzazione in ogni aspetto della vita.

Questo è il significato del terzo livello della pratica dei kōan menzionato prima: vivere la realizzazione. Non è sufficiente avere un'esperienza di satori nella sala di meditazione. Quella realizzazione deve permeare il modo in cui lavoriamo, il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, il modo in cui affrontiamo le sfide, il modo in cui rispondiamo alle emozioni difficili.

Questo processo di integrazione non è rapido o facile. I nostri condizionamenti, le nostre abitudini mentali ed emotive, sono stati rafforzati per decenni. Non scompaiono semplicemente perché abbiamo avuto un'esperienza di risveglio. Continuano a manifestarsi, spesso in modi sottili.

È qui che la pratica continua dei kōan diventa cruciale. Ogni nuovo kōan esplora un aspetto diverso della realizzazione, lo approfondisce, lo chiarifica, lo testa in contesti diversi. È come pulire uno specchio: il primo kenshō ci mostra che lo specchio è lì, ma poi dobbiamo continuare a pulirlo per rimuovere gli strati di polvere accumulati.

Nella tradizione Rinzai, ci sono centinaia di kōan organizzati in categorie progressive. Ci sono kōan che esplorano la natura dell'io, kōan che esplorano la relazione tra forma e vuoto, kōan che lavorano sull'espressione della realizzazione nell'azione, kōan che testano la comprensione in situazioni paradossali.

Lavorare attraverso queste collezioni di kōan può richiedere molti anni, o anche decenni. Ma non si tratta di un accumulo progressivo di conoscenza. Ogni kōan, quando viene veramente penetrato, rivela lo stesso mistero centrale da una prospettiva leggermente diversa. È come guardare un diamante da angolazioni diverse: è sempre lo stesso diamante, ma ogni prospettiva rivela facce diverse.

La pratica quotidiana è essenziale. Non si tratta solo di sessioni formali di meditazione, anche se quelle sono importanti. Si tratta di portare lo spirito della pratica—la presenza, l'attenzione, la consapevolezza—in ogni attività.

Quando laviamo i piatti, stiamo solo lavando i piatti, o la nostra mente sta vagando altrove? Quando parliamo con qualcuno, siamo veramente presenti nella conversazione, o stiamo già formulando la nostra risposta mentre l'altro sta ancora parlando? Quando camminiamo, sentiamo veramente il contatto dei piedi con la terra, o siamo persi nei pensieri?

Queste possono sembrare cose piccole, ma sono esattamente dove la pratica si svolge nella vita quotidiana. Come disse Dōgen: "Seguire la Via è solo una questione quotidiana di mangiare cibi semplici, bere tè, godersi la brezza fresca."

La pratica non è separata dalla vita. Non pratichiamo per poter poi vivere; pratichiamo mentre viviamo. Ogni momento offre un'opportunità per essere presenti, per vedere chiaramente, per rispondere con saggezza e compassione.

Conclusione: la via senza via

La pratica dei kōan nello Zen è paradossale fin nel suo nucleo. Utilizziamo la mente per andare oltre la mente. Utilizziamo le parole per indicare ciò che è al di là delle parole. Pratichiamo per realizzare ciò che è sempre già presente.

Questi paradossi non sono errori logici da correggere; sono caratteristiche essenziali della pratica. Riflettono la natura paradossale della realtà stessa, che non si conforma alle nostre categorie dualistiche di essere e non-essere, sé e altro, sacro e profano.

Il cammino Zen è stato descritto come "una via senza via". Non c'è un percorso fisso, non ci sono tappe predeterminate, non c'è una destinazione finale separata dal viaggio. Come disse il poeta Antonio Machado: "Viandante, non c'è cammino, il cammino si fa camminando."

Ogni praticante deve trovare il proprio cammino, deve penetrare i kōan con la propria esperienza diretta. Non ci sono scorciatoie, non ci sono formule magiche. C'è solo l'impegno sincero, la pratica continua, l'apertura all'ignoto.

E in definitiva, ciò che scopriamo non è qualcosa di nuovo o esotico. È semplicemente ciò che è sempre stato qui, nascosto in piena vista. Come disse il Maestro Zen Qingyuan Weixin:

"Prima di studiare lo Zen, le montagne erano montagne e i fiumi erano fiumi.
Quando cominciai a studiare lo Zen, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi.
Ma ora che ho compreso lo Zen, le montagne sono di nuovo montagne e i fiumi sono di nuovo fiumi."

Questo ritorno all'ordinario, ma con occhi trasformati, è forse il segno più autentico della realizzazione. Non cerchiamo esperienze mistiche straordinarie o stati alterati di coscienza. Cerchiamo semplicemente di vedere chiaramente ciò che è, di essere pienamente presenti a questa vita così com'è, in tutta la sua straordinaria ordinarietà.

La pratica dei kōan ci insegna che non c'è nulla da ottenere, nessun luogo dove andare, nessuno stato speciale da raggiungere. E tuttavia, finché non abbiamo realizzato questo profondamente, finché non abbiamo fatto nostro questo non-ottenimento, dobbiamo continuare a praticare.

È questo il paradosso finale: dobbiamo fare ogni sforzo per realizzare che non c'è nulla da fare, dobbiamo praticare intensamente per comprendere che non c'è nessuno che pratica. E quando finalmente comprendiamo questo, quando finalmente "arriviamo", scopriamo di non essere mai andati da nessuna parte. Siamo sempre stati a casa.

- Rev. Dr. Luca Vona