Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 6 ottobre 2024

Dizionario della Musica Anglicana. Benjamin Cooke

Benjamin Cooke (1734-1793) è stato un compositore, organista e maestro di cappella inglese, noto per il suo contributo alla musica sacra nel XVIII secolo. Nato a Londra, Cooke mostrò un precoce talento musicale, studiando inizialmente con suo padre, che era un noto violoncellista, e successivamente con John Travers, organista della cattedrale di St. Paul's. Già a quattordici anni, Cooke divenne assistente di Travers e si immerse nell’ambiente musicale londinese.

Nel 1757, a soli 23 anni, Cooke fu nominato maestro del coro della prestigiosa Cattedrale di Westminster, posizione che mantenne per tutta la vita. In questo ruolo, influenzò significativamente la musica corale inglese, ampliando il repertorio e formando generazioni di cantori. Parallelamente, divenne organista presso St Martin-in-the-Fields, dove ebbe un ruolo centrale nella vita musicale della chiesa.

Cooke fu anche un membro attivo dell'Academy of Ancient Music, un'importante istituzione che promuoveva la musica barocca e antica. Durante la sua carriera, Cooke compose un'ampia gamma di opere sacre, tra cui inni, servizi religiosi e pezzi per organo. La sua musica è caratterizzata da una fusione di stile barocco e classico, con un forte senso della melodia e una sofisticata padronanza della polifonia.

Tra le sue opere più famose:

1. Anthem "O be joyful in the Lord" - Un inno basato sul Salmo 100, che dimostra l'abilità di Cooke nella scrittura corale con un uso sofisticato della polifonia e delle strutture armoniche.

2. Evening Service in B flat - Un esempio della sua scrittura per il servizio serale anglicano, con una splendida partitura per coro e organo, che riflette la sua capacità di bilanciare voci e accompagnamento.

3. Ode for St Cecilia's Day - Composta in onore di Santa Cecilia, patrona della musica, questa ode rappresenta una delle sue opere più ambiziose, con un tessuto musicale ricco e una profonda espressività testuale.
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Bruno e la pace che il mondo non conosce

I cattolici d'occidente celebrano oggi la memoria di Bruno, fondatore dell'Ordine certosino.

Nel 1101 muore nel romitorio di Serra, in Calabria, Bruno, fondatore della Certosa. Nato a Colonia intorno al 1030, egli aveva dapprima compiuto gli studi nella celebre scuola cattedrale di Reims, fino a diventarne in giovanissima età scholasticus, cioè maestro di teologia.

Dopo aver posto mano alla stesura di un commento sui Salmi e averne intrapreso un altro sulle epistole paoline, Bruno visse anni difficili al servizio del vescovo Manasse, notoriamente simoniaco. Maturato un certo disgusto per la mondanità della chiesa di quel tempo, Bruno rifiutò, alla deposizione di Manasse, l'elezione ad arcivescovo di Reims, e iniziò a pensare a una forma di vita conforme al suo desiderio di ricerca del Signore nella solitudine e nel silenzio.

Dopo un tempo trascorso vicino a Molesme, decise infine di ritirarsi nei pressi di Grenoble, sul massiccio della Chartreuse, da cui prenderà il nome l'Ordine certosino, dando così inizio a una forma di vita fortemente eremitica.

Chiamato da papa Urbano II, suo antico discepolo, Bruno dovette lasciare i propri compagni per recarsi a Roma al suo servizio. Ma di fronte ai dissidi tra il pontefice e l'impero, egli prese la decisione di ritirarsi definitivamente in Calabria, dando vita all'eremo di Serra.

Animo vigilante, uomo di desideri e di amore ardente per il Signore, egli poté così dedicarsi all'ascolto della parola di Dio e all'attesa del suo Regno nella preghiera. È la preghiera, secondo Bruno, che porta l'uomo a consolidare la propria umanità nella lotta che silenziosamente ha luogo nel cuore, giorno dopo giorno.

Tracce di lettura

Io abito in un eremo, da ogni lato molto distante dalle abitazioni degli uomini, nelle lontane regioni della Calabria insieme a dei fratelli che conducono vita monastica - alcuni dei quali sono ben istruiti - e che, perseverando con saldezza nei loro posti di sentinella nelle cose di Dio, attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito appena busserà.
Quanta utilità e gioia divina, poi, la solitudine e il silenzio dell'eremo apportino a coloro che li amano, lo sanno solo coloro che ne hanno fatto l'esperienza. Qui, infatti, agli uomini forti è consentito ritornare in se stessi e abitare con se stessi quanto a loro piace, coltivare assiduamente i germogli delle virtù e cibarsi con beatitudine dei frutti del paradiso. Qui si acquista quell'occhio dal cui sereno sguardo d'amore è colpito lo Sposo e attraverso il quale, se senza macchia e puro, si vede Dio. Qui si celebra una tranquillità solerte e si gusta il riposo mediante un quieto agire. Qui Dio dispensa ai suoi atleti, per la fatica della lotta, la ricompensa desiderata, cioè quella pace che il mondo non conosce, e la gioia nello Spirito santo. (Bruno, Lettera a Rodolfo il Verde 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose


Coraggio, alzati

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DICIANNOVESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, poiché senza di te non siamo capaci di compiacerti; concedi, misericordioso, ai nostri cuori, di essere guidati dal tuo Santo Spirito. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 4,17-32; Mt 9,1-8

La vita nella fede è una esperienza di rinascita e di guarigione radicale. L'aspetto di rinascita, predicato da Gesù nel dialogo notturno con Nicodemo è approfondito da Paolo nella sua lettera agli Efesini, nell'ottica di una esortazione che va oltre il senso semplicemente morale del discorso, facendosi descrizione di ciò che Dio opera nel credente.

Il passo del Vangelo di Matteo, che in maniera più sintetica dei paralleli di Marco e di Luca descrive la guarigione del paralitico, offre una lettura dell'esperienza cui conduce l'incontro con Cristo, il quale ha autorità di rimettere i peccati sulla terra, sanando radicalmente la nostra natura umana.

La sottolineatura della capacità di Gesù di rimettere i peccati in terra indica la chiara proclamazione della sua natura divina. Fino ad allora, infatti, i credenti israeliti avevano confidato in una remissione dei peccati in cielo, da parte di Dio, che solo poteva operarla efficacemente.

Mentre i profeti, i discepoli e gli apostoli operarono i miracoli nel nome e per l'autorità di Dio, Gesù non ha bisogno di chiedere a Dio il potere di farli; egli compie i miracoli nel suo proprio nome.

Il racconto ci fa intendere che molti dei presenti non mancano di individuare la potenza divina in questo miracolo, ma gli sfugge il fatto che Cristo stesso l'ha operato nel proprio nome: "Io ti dico" riferiscono i passi paralleli di Marco e Luca. È in questo "Io", in questa formula indicativa, che si esprime la novità radicale del messaggio evangelico. Gesù non è semplicemente un profeta, un riformatore religioso, un guaritore. Egli è il Dio con noi, l'Emmanuele annunciato dai profeti dell'Antico Testamento.

Gesù comanda al paralitico non solo di alzarsi in piedi ma anche di tornare a casa sua portando via il suo lettino. Il segno della malattia che lo ha costretto per lungo tempo all'immobilità, rimane come testimonianza della radicale svolta che l'incontro di Cristo ha determinato nella sua vita. Gesù rimette i nostri peccati ma non cancella in noi il ricordo di essi, affinché possiamo avere sempre davanti ai nostri occhi il prevalere della sua grazia sul peccato. 

Esaminando il racconto di questo miracolo non bisogna sorvolare sul ruolo importante degli amici, che intercedono per il paralitico (nel passo parallelo di Marco e Luca fino ad arrampicarsi sul tetto della casa in cui sta predicando Gesù, per aprire un varco e calare l'amico al centro della stanza). La carità fraterna ha un ruolo importante nel muovere a compassione Gesù.

Paolo esorta "nel nome del Signore" (Ef 4,17), ovvero con autorità, con l'autorità che deriva da Cristo stesso e dal suo vangelo, a non camminare nella vanità della propria mente; letteralmente "nella vacuità ed estranei alla vita di Dio". La vita "pagana" è vita che si aggrappa a ciò che è vuoto, impermanente e che offusca la ragione. L'estraneità alla vita di Dio non è semplicemente il non condurre una vita da "persone per bene", ma il privarsi di un'esistenza vissuta in pienezza.

La vita di Dio è la vita - come dice Teodoro di Beza - qua Deus vivit in suis (che Dio vive in se stesso); la vita spirituale accende nei credenti la vita stessa di Dio. La vita di Dio, insomma non è semplicemente la vita onesta e virtuosa, ma è la vita che viene dall'alto, la rinascita per opera dello Spirito Santo, che porta con sé il germe della pace, della gioia, dell'eternità.

Paolo ci esorta a essere rinnovati "per rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio". Questa identità nuova, questo rinnovamento non solo della personalità ma dell'intera natura umana, non è opera dell'uomo: è una creazione, un'opera di Dio (Ef 4,24).

Gesù viene in nostro soccorso, e ci consente di levarci dal nostro giaciglio, di lasciarci guarire, rinnovare, creare a immagine di Dio.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 4 ottobre 2024

Francesco d'Assisi e la fedeltà al vangelo "sine glossa"

La sera del 3 ottobre 1226 muore alla Porziuncola Francesco d'Assisi, fondatore dell'Ordine dei frati minori. Nato ad Assisi nel 1182 da una famiglia della nascente borghesia, dopo una giovinezza segnata dagli agi e dall'adesione all'ideale cavalleresco, Francesco operò per circostanze misteriose un'improvvisa conversione che lo portò in breve tempo a ricercare una vita appartata di preghiera e di servizio ai poveri e ai lebbrosi. 
Attirati a sé i primi fratelli, egli comprese che soltanto nella sottomissione reciproca, nella povertà di cuore e nella concreta spoliazione materiale sarebbe stato possibile per lui e i suoi compagni porsi sulle tracce di Cristo, il quale da ricco che era aveva tuttavia scelto di farsi povero per amore degli uomini. La radicalità evangelica di Francesco ebbe un impatto enorme sulla chiesa del suo tempo, fortemente bisognosa di testimoni che la riconducessero sulle vie del Signore. In pochi anni i «minori» divennero migliaia, ed egli fu costretto a dare loro una regola riconosciuta dall'autorità ecclesiastica. Desideroso tuttavia di vivere con maggiore libertà la propria vocazione personalissima, Francesco nominò negli ultimi anni della sua vita un vicario alla guida dell'Ordine che aveva fondato. La sua fedeltà al vangelo «sine glossa», l'amore per la povertà personale e comunitaria, l'obbedienza a tutte le creature, e la pace trovata unicamente nella fiducia posta nell'infinita misericordia di Dio, hanno fatto di Francesco un appello costante e universale per la chiesa di ogni tempo. La sua santità è riconosciuta ben al di là delle chiese d'occidente, come testimonia la presenza di sue icone in diverse chiese ortodosse.
Francesco morì a soli 44 anni, in quella pace creaturale che aveva sempre amato e cantato nelle sue lodi al Signore.

Tracce di lettura

Dio onnipotente, eterno, giusto e misericordioso concedi a noi miseri di fare, a causa di te stesso, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che a te piace, affinché, interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito santo, possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e, per tua sola grazia, giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nell'Unità semplice vivi e regni e sei glorificato, Dio onnipotente per tutti i secoli dei secoli.
(Francesco, Lettera all'Ordine 50-52)

Restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da lui. E lo stesso altissimo e sommo, solo e vero Dio abbia e gli siano resi e riceva tutti gli onori e la reverenza, tutte le lodi e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché suo è ogni bene ed egli solo è buono.
(Francesco, Regola non bollata 17,17-18)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Francesco d'Assisi, Icona di Bose

Fermati 1 minuto. Una colpevole indifferenza

Lettura

Luca 10,13-16

13 Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, già da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. 14 Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. 15 E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata! 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato».

Commento

Il monito di Gesù si rivolge in questo passo evangelico a tre città della Galilea; un invito a pentirsi, accompagnato da un severo giudizio per coloro che, dopo avere ascoltato la sua predicazione non l'hanno accolta. Non si tratta di una ostilità aperta al suo messaggio, in effetti non riportata da nessuno dei Vangeli, ma di quella indifferenza che è più colpevole dell'ignoranza. 

Aver avuto il privilegio di ascoltare il mesaggio di salvezza e non averlo accolto apre le porte degli inferi (cfr. At 2,27.31), luogo contrapporto al "cielo" nello stesso versetto (v. 15). Gesù ci insegna che l'intensità della punizione finale, sarà proporzionata ai privilegi religiosi, ed ai mezzi di grazia goduti dagli uomini, e da loro volontariamente rigettati. 

Se Corazin, Betsàida e Cafarnao rappresentano il luogo in cui il Signore aveva iniziato la sua predicazione e compiuto i suoi miracoli, Tiro e Sidone erano due città fenice sul mare e costituivano un importante snodo commerciale in cui si riversava l'opulenza asiatica. Queste erano dunque considerate città dissolute. 

Gesù esprime un solenne avvertimento a tutti quelli che ascoltano le sue parole. Coloro che in ogni tempo godono dell'istruzione religiosa odono predicare il vangelo, e vivono in un ambiente atto a condurli a Cristo, senza però abbracciarlo, rassomigliano a quelle città. Così l'invio dei settandadue discepoli si conclude con questo avvertimento, la costatazione di uno stato di peccato più che una maledizione, e la solenne affermazione che chi respingerà la predicazione dei discepoli respingerà Cristo stesso e il Padre dal quale egli proviene. 

Il vangelo ci chiama a scegliere con responsabilità e saggezza dove collocarci nella geografia dello spirito, a non disprezzare con l'indifferenza e le preoccupazioni del mondo, l'opportunità ricevuta di essere annoverati tra i figli adottivi di Dio.

Preghiera

Signore, che ci hai ammonito ricordando che l'indifferenza verso la tua parola di vita è peggio dell'ignoranza; concedici di accogliere il vangelo della salvezza, per partecipare con te alla gloria celeste. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 3 ottobre 2024

Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), teologo biblico medievale

di Leonardo De Chirico, Loci communes, 3 ottobre 2024

Nel 2024 non ricorre solo il 750 anniversario della morte di Tommaso d’Aquino (1225-1274), ma anche di Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), il principale teologo francescano del medioevo. Mentre il domenicano Tommaso incarna le istanze della teologia scolastica, il francescano Bonaventura dà voce all’afflato “spirituale” della teologia.

Tra le sue opere principali Itinerarium mentis in Deum[1] e Collationes in Hexaëmeron,[2] il Breviloquium è l’opera più sistematica di Bonaventura, una sorta di compendio della sua teologia.[3] Scritta nel 1257 e composta da settantadue capitoli preceduti da un prologo, in essa si trovano diversi elementi teologicamente degni di menzione.

Innanzi tutto, la struttura denota una significativa sottolineatura che, invece, è assente nelle Sentenze di Pietro Lombardo ed anche nella Somma teologica di Tommaso. Si tratta del Prologo dove Bonaventura disegna una robusta teologia della Scrittura come fondamento della fede. Per Bonaventura, “la verità della Sacra Scrittura è da Dio, tratta di Dio, è secondo Dio, ed è per Dio affinché meritatamente questa scienza appaia essere unica, ordinata e non immeritatamente chiamata teologia”. Della Scrittura si decantano l’ampiezza (Antico e Nuovo Testamento), la lunghezza (dal principio del mondo fino al giorno del giudizio), l’altezza (le gerarchie sotto il cielo nella chiesa, in cielo nelle schiere angeliche e sopra il cielo nell’ordine della Trinità), la profondità (i livelli di significato: letterale, allegorico, morale e anagogico) e il modo di procedere (narrativo, precettivo, proibitivo, esortativo, predicativo, promissivo, deprecativo, laudativo).

A questa presentazione della Scrittura segue un capitolo su come esporla nella predicazione. In questo abbozzo di omiletica medievale, Bonaventura suggerisce di seguire le linee presentate da Agostino nel De doctrina christiana: attenzione al senso letterale, interpretazione della Scrittura tramite la Scrittura; dove la Bibbia ha significati letterali e spirituali, dare conto di entrambi. Come si evince, si tratta della presentazione di una teologia della Scrittura dai tratti nitidamente evangelici.

Per Bonaventura, il Verbo ispirato abita nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo ma la sua rivelazione è pienamente normativa solo nella Scrittura. Solo la Scrittura è dotata di autorità suprema. Le altre autorità (santi, padri, concili, rivelazioni interiori, ragione) sono subordinate alla Scrittura e sono valide solo in quanto concordano con la Scrittura.

La Scrittura va interpretata in riferimento a Cristo e nello Spirito Santo. “Un passo della Scrittura dipende da un altro, anzi mille passi riguardano uno solo”. La lettura della Scrittura deve essere prolungata dalla meditazione, dalla preghiera e dalla contemplazione (infatti la Scrittura non è solo vera, ma anche bella … “non solo capisco, ma il mio cuore si accende”).

Ecco il ritratto del teologo secondo Bonaventura: “Nessuno creda che gli sia sufficiente la lettura senza la compunzione, la riflessione senza la devozione, la ricerca senza lo slancio dell’ammirazione, la prudenza senza la capacità di abbandonarsi alla gioia, l'attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non sorretto dalla grazia divina”[4].

Rispetto alla visione ottimista di Tommaso circa le facoltà noetiche della creatura peccatrice toccate ma non disabilitate, Bonaventura percepisce più nitidamente la radicalità delle conseguenze del peccato che, pur non estirpando il “pensiero dell’eternità”, lo torce e contorce al punto da renderlo irriconoscibile se la grazia non interviene. La vita umana è caratterizzata da un incessante cercare e non trovare, indagare e non capire, volere e non riuscire, respingere e continuare ad essere attratti. La via di uscita dalla inquietudo è soltanto la grazia. Si capisce come alcuni studiosi abbiano collegato Bonaventura non solo retrospettivamente ad Agostino ma anche proletticamente ai Riformatori del XVI secolo: infatti, “la scarsa fiducia nell’intelletto umano collega il pessimismo agostiniano di Bonaventura a quello dei Riformatori”.[5]

Rimanendo più attaccato al pensiero agostiniano e collegato ad una robusta dottrina della Scrittura, Bonaventura non è immune dalle idiosincrasie della teologia medievale soprattutto sul versante sacramentale e mariano.[6]


[1] Itinerario dell’anima a Dio, a cura di L. Mauro, Milano, Bompiani 2002.

[2] Sermoni teologici/1 Collazioni sull’Exameron, a cura di J.G. Bougerol (Opere vol. 6/1), Roma, Città Nuova 1994. Altra edizione: S. Bonaventura, La sapienza cristiana. Le Collationes in Hexaëmeron, a cura di V.C. Bigi, Milano, Jaca Book 1985.

[3] Opuscoli teologici/2 Breviloquio, a cura di L. Mauro (Opere vol. 5/2), Roma, Città Nuova 1996.

[4] Itinerario dell’anima a Dio, Prologo, n. 4, cit., p. 55.

[5] R. Van Nieuwenhove, An Introduction to Medieval Theology, Cambridge, Cambridge University Press 2012, p. 227.

[6] Per una presentazione più ampia del pensiero di Bonaventura, rimando al mio “Letture medievali (XII-XV secolo)”, Studi di teologia N. 70 (2023) pp. 219-226

Pseudo-Dionigi l'Areopagita e la tenebra luminosa del silenzio

Le chiese ortodosse ricordano in questo giorno l'autore del Corpus Areopagiticum, passato alla storia con lo pseudonimo di Dionigi l'Areopagita. Forse per nessun padre della chiesa vi è una così forte discrepanza tra ciò che sappiamo sulla sua vita e l'enorme influsso da lui avuto sulla spiritualità e la teologia successive. Dionigi fu probabilmente un cristiano di origine siriaca che soggiornò a lungo ad Atene. Fortemente influenzato dagli ultimi filosofi neoplatonici ivi residenti, egli compose una serie di scritti che pose sotto il nome dell'ateniese convertito dalla predicazione di Paolo all'Areopago, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (cf. At 17,34). Nella Gerarchia ecclesiastica e nella Gerarchia celeste, Dionigi indagò l'ordine cosmico al cui vertice vi è unicamente Gesù Cristo, in cielo come nella chiesa militante sulla terra. Nei Nomi divini analizzò gli attributi che la Scrittura riferisce a Dio, in cerca di ciò che gli uomini possono provare a dire su Dio a partire dalla rivelazione, seguendo una teologia «positiva». Ma Dionigi fu soprattutto un grande cantore della teologia «negativa», secondo la quale si può giungere a Dio soltanto dicendo ciò che non può essergli attribuito, ovvero entrando nella «tenebra più che luminosa del silenzio» e della non conoscenza di Dio, che sola conduce al mistero ineffabile della Triunità divina.

Tracce di lettura

Trinità sovraessenziale, oltremodo divina e oltremodo buona, custode della divina sapienza dei cristiani, portaci non solo al di là di ogni luce, ma al di là della stessa inconoscenza fino alla più alta vetta delle mistiche Scritture, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra più che luminosa del silenzio.
È nel silenzio infatti che s'imparano i segreti di questa tenebra della quale troppo poco è dire che brilla della luce più abbagliante in seno alla più nera oscurità, e che, pur rimanendo perfettamente intangibile e invisibile, riempie di splendori più belli della bellezza le intelligenze che sanno chiudere gli occhi. Questa la mia preghiera. (Dionigi l'Areopagita, Teologia mistica 1,1)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Inviati a predicare con un bagaglio leggero

Lettura

Luca 10,1-12

1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. 6 Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. 8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. 10 Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11 Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. 12 Io vi dico che in quel giorno Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città.

Commento

La sequela di Gesù è strettamente legata alla missione evangelizzatrice. Essere scelti da lui significa essere scelti per preparare il terreno alla sua stessa azione salvifica. Egli "designò" i settanta, verbo che indica una formula solenne con cui Gesù, in veste messianica e regale conferisce il mandato ai discepoli. 

In alcuni manoscritti i discepoli sono settanta, in altri, pure autorevoli, sono settantadue. Il numero settanta può essere un richiamo ai settanta uomini radunati da Mosè, sui quali scese lo Spirito di Dio (Num 11,24-25); settanta erano anche i membri del sinedrio. Il numero settantadue è invece il numero delle nazioni dell'umanità secondo il libro della Genesi (Gen 10, nella versione greca dei LXX).

I discepoli sono inviati a due a due; così l'uno può essere di conforto all'altro e forse anche per maggior sicurezza lungo il viaggio. L'annuncio portato da una coppia di discepoli richiama anche il dovere deuteronomico di stabilire il giudizio sulla base di due o tre testimoni (Dt 19,15; richiamato in Mt 18,16; 2 Cor 13,1; Eb 10,28). L'immagine dell'agnello contrapposto al lupo è indice di una predicazione fatta con mitezza, che esporrà i discepoli alla malvagità degli empi. 

L'urgenza della predicazione è testimoniata dalla necessità di pregare affinché altri "operai" possano essere mandati nella "messe". Inoltre i discepoli dovranno viaggiare senza bagaglio - niente borsa, né un secondo paio di sandali - e non fermarsi lungo la strada, neppure per salutare (il saluto comportava nel mondo semitico l'intrattenersi nella conversazione con la persona salutata).

I discepoli sono chiamati a non girovagare di casa in casa e la richiesta di "stabilità" è superiore alle stesse prescrizioni della legge sui cibi puri e impuri: potranno mangiare qualsiasi cosa gli sarà messa davanti. Compito dei discepoli è anche quello di prendersi cura dei malati e di predicare la prossimità del regno di Dio.

Gesù chiede di invocare la pace in qualunque casa i discepoli entreranno: chi accoglierà loro accoglierà egli stesso (Lc 10,16). Chi non li accoglie si espone a un giudizio peggiore a quello di Sodoma - che era il simbolo della città inospitale per quanto descritto nel libro della Genesi (Gen 19,4-5). Se vi sarà "un figlio della pace" la pace resterà su di lui, altrimenti tornerà sui discepoli. 

Nella misura in cui la Chiesa si allontana dal modello di discepolato richiesto da Gesù la messe diventa sterile, la predicazione inefficace, i discepoli vegono più facilmente rifiutati, perché agli occhi del mondo risultano incoerenti con quanto predicato.

Per questo il discepolato, che il vangelo impronta alla sobrietà e al totale affidamento alla provvidenza, deve mettersi al riparo da quella forza "addomesticatrice" che costituisce un pericolo sempre in agguato. Una continua opera di vigilanza e di riforma è necessaria affinché i discepoli operino in conformità al dettato evangelico.

Preghiera

Donaci Signore il tuo Spirito, affinché possiamo annunciare con semplicità e schiettezza la parola del vangelo, nell'attesa della tua manifestazione a tutte le genti. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 2 ottobre 2024

Fermati 1 minuto. L'aratore che si volge indietro

Lettura

Luca 9,57-62

57 Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». 58 Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». 59 A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre». 60 Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va' e annunzia il regno di Dio». 61 Un altro disse: «Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa». 62 Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

Commento

In questo brano, che ha un parallelo in Matteo (Mt 8,18-22), l'evangelista Luca ci riferisce tre modi diversi di porsi verso la sequela di Gesù. 

Il primo protagonista che entra in scena è un "volontario", che avvicina il Signore mentre questi è per la strada. Matteo ci riferisce che si trattava di uno scriba, dunque di una persona abituata a vivere nell'agiatezza. Nell'offerta precipitosa di sé egli sembra non rendersi conto dei costi del discepolato che, lungi dall'offrire una posizione sociale elevata e sicurezze economiche, espone all'incertezza e a grandi sacrifici. 

Tutta l'attività di Cristo sarà quasi sempre fraintesa dai dottori della legge, i quali si attendevano un Messia che avrebbe instaurato un regno terreno forte e prospero. Per questo egli si scontrerà spesso con l'incomprensione predicando il vangelo e ancora più nell'evento della sua passione. Dal Figlio di Dio, dal Figlio dell'uomo, per utilizzare una espressione messianica (cfr. Dn 7,13-14) che Cristo spesso applica a sé, ci si aspettava una manifestazione di potenza e gloria.

Il secondo aspirante discepolo è un giovane, chiamato direttamente da Gesù («Seguimi»; v. 59). Costui è desideroso di accogliere l'invito ma desidera prima occuparsi del padre, rimandando il discepolato dopo la morte di questi. Le parole del giovane sono infatti un semitismo che non indica certamente la celebrazione del funerale del padre - se fose morto quel giorno il giovane non si sarebbe trovato neanche lì dove stava, essendo obbligatorio per la legge ebraica a celebrare i funerali il giorno stesso della morte - ma significava l'occuparsi del padre anziano fino alla sua  morte. Il giovane dunque, aspettava la morte del padre, e probabilmente anche di riceverne l'eredità. Chiaramente un simile approccio al discepolato non può che trovare la riprovazione del Signore. 

Il terzo "candidato" si offre a Gesù ma chiede di potersi prima congedare dai suoi parenti. Gesù capisce che il cuore di quest'uomo è ancora diviso tra il mondo e le esigenze del regno di Dio: l'aratore che non guarda avanti mentre ara non può che tracciare solchi storti. 

Le parole di questa pagina evangelica non riguardano soltanto chi si consacra a un ministero particolare nella chiesa, ma ogni battezzato, che in quanto tale è rivestito del ministero sacerdotale, regale e profetico di Cristo. Questi non può trovarci esitanti. Accogliere il vangelo significa scoprire in esso la gioia nella semplicità e novità di vita, in cui l'apostolo si rimette completamente nelle mani del Padre celeste.

Preghiera

Rimuovi, Signore, dalle nostre vite e dai nostri cuori, quanto si frappone alla tua grazia e rendici predicatori del regno, non per spirito mercenario ma per amore del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 1 ottobre 2024

Fermati 1 minuto. Sottrarsi alle logiche del mondo

Lettura

Luca 9,51-56

51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme 52 e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55 Ma Gesù si voltò e li rimproverò. 56 E si avviarono verso un altro villaggio.

Commento

Come già all'inizio del ministero in Galilea, anche il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che conclude la sua parabola terrena, comincia con un rifiuto, da parte dei Samaritani.

Ma si tratta solo in apparenza di una parabola discendente, perché il rifiuto, la passione e la morte di Gesù segnano il principio della sua "assunzione", come suggerisce il verbo greco analèmpis (sollevamento, innalzamento), utilizzato per indicare il suo "essere tolto" dal mondo.

La risolutezza con cui Gesù si dirige verso Gerusalemme, letteralmente "indurendo il suo volto" (gr. prosòpon estèrisen) richiama la stessa espressione semitica utilizzata nel libro di Isaia per descrivere l'atteggiamento del servo sofferente: "rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,7).

I messaggeri inviati da Gesù hanno il compito di trovare un posto per dormire e qualcosa da mangiare a Gerusalemme, dove Gesù celebrerà la Pasqua. Il rifiuto espresso dai samaritani è motivato dal fatto che Gesù "era diretto verso Gerusalemme", città per la quale essi nutrivano un'antica ostilità. I samaritani, abitanti di una regione centrale della Palestina, si erano mescolati in tempi lontani con le popolazioni importate in quella terra dagli assiri e avevano elaborato un culto ibrido tra giudaismo e paganesimo, con un suo tempio nel monte Gerizim; per questo, al ritorno degli ebrei dall'esilio babilonese (VI sec. a. C.) furono da questi respinti come "impuri".

Il linguaggio di Giacomo e Giovanni (v. 55) richiama il secondo libro dei Re, in cui Elia per due volte invoca il fuodo dal cielo per distruggere i suoi avversari (2 Re 1,10.12). Il rimprovero di Gesù è reso con la parola greca epitìmesen, che indica il "vincere con un comando", minacciare, richiamando i suoi esorcismi, in quanto i due discepoli si oppongono al suo cammino verso la croce proponendogli una visione trionfalistica del messianismo. 

Di fronte al rifiuto dei samaritani Gesù sceglie semplicemente di cambiare strada. A volte la migliore testimonianza nei confronti dell'ostilità del mondo al messaggio evangelico è di sottrarsi alle sue logiche, alla sua influenza - evèrtere, più che sovvertire -, perseverando sulla via che conduce al compimento della volontà del Padre.

Preghiera

Guidaci, Signore, sulle vie della mitezza, affinché anche i tuoi nemici possano diventare per noi campo di missione, mediante la predicazione del tuo vangelo con le parole e con la testimonianza di vita. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona