Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 31 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Beata colei che ha creduto

Lettura

Luca 1,39-56

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».
46 Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre».
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Commento

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Maria si mette in viaggio "in fretta" (v. 39) verso la casa delle cugina Elisabetta. La fretta di Maria indica la sua pronta disponibilità al disegno di Dio e il suo farsi annunciatrice di salvezza, lei che per prima ha ricevuto l'annuncio del vangelo. 

Maria, divenuta dimora di Dio, compie un viaggio verso la montagna che ricorda quello dell'arca dell'alleanza (2 Sam 6,1-15) e le parole che Davide pronunciò davanti a questa riecheggiano in quelle di Elisabetta: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (v. 43). Elisabetta riconosce Gesù come Signore prima ancora della sua nascita, sorpresa dal sussulto del bambino che porta nel grembo alla voce del saluto di Maria. 

Nel racconto della visitazione Maria appare come vera teòfora, portatrice di Dio, capace di raggiungere coloro che attendono la salvezza e di comunicare il Cristo. Elisabetta è invece il modello, tra i figli di Israele, di chi sa scorgere l'adempimento delle promesse messianiche. Così, dopo il saluto di Maria, Elisabetta viene colmata dallo Spirito santo e benedice la cugina e il frutto del suo grembo. 

La comprensione, da parte di Elisabetta, degli eventi divini che si stanno compiendo, è straordinaria e solo la grazia illuminante può permetterle di oltrepassare la cortina di mistero che li custodisce. La sua dichiarazione di umiltà dimostra che coloro che sono ricolmi dello Spirito Santo non hanno considerazione dei propri "meriti", ma una grande stima del favore ricevuto da Dio. 

Il viaggio di Maria ci insegna che quando la grazia opera nei nostri cuori desideriamo prontamente condividerla. La missionarietà del credente può assumere svariate forme, ma è sempre il segno di una fede autentica. Nell'attesa del Signore che viene siamo chiamati dallo Spirito a farci annunciatori del vangelo, solerti, anche quando il viaggio verso la montagna è faticoso.

L'inno di lode noto dalla sua prima parola della versione latina come Magnificat utilizza ampiamente il cantico che Anna innalzò a Dio per aver ricevuto in dono il figlio Samuele, nonostante la sua sterilità.(1 Sam 2,1-10) e per tre quinti riprende altri passi dell'Antico Testamento. Può essere stato un inno giudeo-cristiano ritenuto da Luca adatto alla situazione e in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia in Dio, coloro che nella letteratura biblica vengono definiti in ebraico anawim, e che Gesù proclama beati (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata". 

Dio è glorificato nel cantico per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio (v. 51) non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Questo è il senso del Magnificat: il Signore è fedele e copre con la sua misericordia le infedeltà del suo popolo e di tutti quelli che lo temono (v. 50). Per sempre.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 30 maggio 2024

I martiri del regime ustascia (1941-1945)

Nel maggio del 1941, le milizie nazionaliste croate allestiscono il lager di Jasenovac, nel quale verranno uccisi tra il 1941 e il 1945 centinaia di migliaia di internati, in gran parte serbi ed ebrei.
In quello stesso periodo, il regime ustascia del dittatore Ante Pavelić, appoggiato da Hitler e da Mussolini e ben visto da una parte della gerarchia cattolica, conduce al massacro cinquantamila ebrei, settecentomila ortodossi serbi, e perfino qualche cattolico sloveno, distruggendo pressoché tutte le sinagoghe della Croazia e duecentonovantanove chiese ortodosse.
Il Patriarcato ortodosso serbo pagò un prezzo altissimo alla furia devastatrice degli ustascia: sei vescovi, oltre trecento preti e duecentoventidue religiosi persero la vita in quel breve arco di tempo. Nella sola eparchia ortodossa di Plaski, rimasero in vita non più di cinque presbiteri su centotrentasette. I capi religiosi, i rabbini da una parte e i metropoliti dall'altra, furono costretti a patire in pubblico, da vivi e da morti, efferatezze inenarrabili.
Tra i principali collaboratori del regime antiumano di Pavelić vi furono perfino alcuni religiosi cattolici. Pochi furono i loro vescovi che levarono la voce in favore degli ebrei, quasi nessuno lo fece per difendere i serbi.
Il martirio della Chiesa serba e degli ebrei croati, certo motivato anzitutto dagli odi nazionalistici a lungo alimentati in quelle terre di confine, deve essere un monito a ricordare come le fedi religiose debbano in ogni tempo vigilare sulla strumentalizzazione di cui possono essere fatte oggetto, e i cui esiti nella storia sono stati sempre devastanti. Ma ogni cristiano è chiamato a verificare quanto sia compatibile la fede di Cristo con qualsiasi ideologia che non sappia riconoscere la dignità e l'inviolabilità della vita di ogni uomo.

Tracce di lettura

Quando ti trovi nelle gole di Prebilovci, fra i teschi dei serbi ammassati senza pietà dagli ustascia, allora riaffiora l'eterna domanda di Giobbe, in modo ossessivo, perché noi siamo incapaci di dare una risposta a tale domanda. A quale dio della morte sono stati sacrificati quei martiri, e a quale dio dell'amore, della giustizia, della misericordia, se il nostro Dio è un dio onnipotente?
Se Cristo non esistesse, se non ci fossero stati la sua venuta e il suo martirio, allora questa domanda sarebbe destinata a rimanere senza risposta, con tutto il non senso che essa racchiude. All'indomani del pogrom di Kraljevo del 1942, guidato dalle truppe hitleriane, quando le famiglie dei fucilati vennero per dar loro sepoltura, una delle vittime chiese al prete che si trovava in quel luogo: «Padre, dov'era Dio ieri mentre mio figlio veniva fucilato?». Il prete condusse allora quel padre di famiglia nella chiesa, e mostrandogli il crocifisso gli rispose: «Ecco dov'era».
Cristo ha perdonato mentre si trovava sulla croce. E noi, come possiamo perdonare? Non vi è altra via se non quella che consiste nel ricercare nelle profondità del nostro cuore quelle scintille d'amore che non cessano mai di ardere in ogni cristiano, e che il Cristo è venuto a ravvivare con il suo insegnamento e la sua vita.
(Pavle, patriarca di Serbia)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Gettare via il mantello

Lettura

Marco 10,46-52

46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». 50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51 Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

Commento

Protagonista di questa porzione di Vangelo è Bartimèo, un nome che significa "figlio di Timeo" e che quindi ci dice solo di chi è figlio; l'altra cosa che viene detta è che egli è cieco. Privato di una vera e propria identità egli è così semplicemente "il cieco". La sua persona è identificata con la sua malattia. 

Anche noi a volte siamo vittime o responsabili verso gli altri di questo "riduzionismo", che semplifica le relazioni ingabbiando le persone in uno sterotipo ma impedisce di vedere la ricchezza che vi sta dietro. Spesso siamo noi stessi prigionieri di quel mantello che ci siamo cuciti addosso.

Gesù viene ad aprire i nostri occhi per renderci capaci di ammirare la bellezza delle opere di Dio che si esprime anche nella diversità e unicità di ogni sua creatura.

La cecità di Bartimèo lo rende improduttivo ed egli può mantenersi solo chiedendo l'elemosina. Finché non siamo toccati dalla grazia possiamo solo accontentarci di beni che soddisfano le esigenze più immediate, ma non possono donarci la libertà dei figli di Dio.

La preghiera "gridata" di Bartimèo (vv. 47-48) esprime l'angoscia nel tentativo di colmare la distanza tra l'uomo e Dio, ma è anche come il gemito di un neonato, che non lascia indifferente chi lo ha generato alla vita.

Bartimèo chiama Gesù "mio maestro" (v. 51) e confessa la sua fede in lui come "figlio di Davide" (47-48), il Messia atteso da Israele. Solo assumendo Cristo come guida potremo incamminarci verso l'orizzonte di un asservimento da ogni schiavitù.

Quando il Signore ci chiama è per aprire i nostri occhi alla contemplazione della sua gloria: nel creato, nella storia della salvezza e nelle nostre vite. Il balzo di Bartimèo verso Gesù (v. 50) rappresenta la fede capace di colmare la distanza tra il nostro stato di infermità spirituale e la pienezza della grazia che ci chiama. A volte credere di poter superare ciò che ci limita non è facile come compiere un piccolo passo ma nella parola di salvezza che ci raggiunge troviamo il coraggio e la forza per il cambiamento.

Riacquistata la vista Bartimèo abbandona il mantello (v. 50) che probabilmente utilizzava per raccogliere le elemosine. In questo gesto è raffigurata l'emancipazione dal ruolo nel quale chi gli intimava di tacere (v. 48) lo voleva tenere costretto.

Bartimèo diventa immagine del catecumeno nell'itinerario verso il battesimo, mistero dell'iniziazione cristiana che i primi credenti chiamavano "illuminazione" (photismòs). La sua fede coraggiosa e tenace non solo gli ha procurato la guarigione, ma gli ottiene anche di diventare discepolo di Gesù. Con lui si incammina verso Gerusalemme (v. 52), per partecipare al suo mistero di salvezza.

Preghiera

Signore Gesù, noi ti riconosciamo come nostro maestro e liberatore; apri i nostri occhi alla fede, affinché possiamo contemplare e proclamare le grandi opere che hai compiuto per noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 29 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Il "premio" immeritato

Lettura

Marco 10,32-45

32 Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: 33 «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, 34 lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà».
35 E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». 36 Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: 37 «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38 Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». 39 E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
41 All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. 43 Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, 44 e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. 45 Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Commento

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, verso la Croce, e cammina coraggiosamente davanti a un gruppo di discepoli, che lo seguono pieni di stupore e timore (v. 32). Presi in disparte i Dodici, gli rivela l'ora buia che si approssima, che non sarà però l'ultima parola delle forze avverse al vangelo: il destino ultimo è infatti la risurrezione.

Proprio nel momento di questa rivelazione così forte da parte di Gesù, che attesta anche la volontà di confortare e infondere coraggio, emerge la richiesta di due discepoli.

Nel Vangelo di Marco, Giacomo e Giovanni chiedono direttamente a Gesù di poter sedere l'uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra nel regno dei cieli, mentre nel Vangelo di Matteo la richiesta è avanzata dalla madre, forse per il timore di risultare poco umili nei confronti degli altri apostoli. In entrambi i casi gli altri dieci esprimono il loro sdegno, mostrando con ciò di porsi più o meno sullo stesso piano, quello del ripiegamento sui propri interessi egoistici; la risposta di Gesù, infatti, suona come una ammonizione verso tutti loro.

Chi di noi non vorrebbe la garanzia di un posto privilegiato accanto a Gesù? Forse saremmo anche disposti ad accettare le tribolazioni di questa vita, a "bere il calice" del Signore, come Giacomo e Giovanni professano di essere disposti a fare (v. 38). Allora la beatitudine eterna ci appare come un "premio" che ci spetta di diritto, magari a scapito di altri, che riteniamo meno "meritevoli". 

In tal modo sfugge il senso profondo della salvezza: il suo essere un dono gratuito da parte del Padre, in virtù del riscatto operato dal Figlio. Se noi partiamo da questo presupposto, allora l'atteggiamento che ne consegue non può che essere di profonda umiltà: innanzitutto verso Dio, che ci ha sciolti dalle catene di questo mondo, affrancandoci dal peccato e dalla morte.

Le catene di questo mondo sono l'asservimento a una logica di prevaricazione l'uno sull'altro, un continuo sentirsi in competizione che ci angustia, ci affanna, ci rende schiavi delle nostre ambizioni disordinate. 

Ma l'atteggiamento di umiltà che scaturisce dal sentirsi salvati per grazia deve caratterizzare anche le relazioni con il nostro prossimo. Che cosa meritiamo più di lui davanti a colui che ci ha riscattato a prezzo del suo sangue? 

La risposta di Gesù alla richiesta di un posto privilegiato nel regno a venire crea così un singolare paradosso: tra la schiavitù alle logiche del mondo e lo spirito di servizio, il farci "servi" - per utilizzare le parole stesse di Gesù - dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. 

Nella Chiesa non c'è spazio per la volontà di dominio; ogni autorità va esercitata sul modello di Gesù, come servizio agli altri e non per interesse personale. Il Vangelo ci chiama a conformarci al Figlio prediletto, nel quale il Padre si è compiaciuto (Mt 3,17), il Figlio che è venuto nel mondo per servire e non per essere servito (Mt 20,28).

Preghiera

Aiutaci a comprendere, Signore, che regnare con te è porci al servizio della tua Parola, che proclama la libertà dai lacci della morte e del peccato. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 28 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Un cuore libero per ricevere il centuplo

Lettura

Marco 10,28-31

28 Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29 Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31 E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Commento

Nel pensiero giudaico il benessere terreno è considerato una benedizione di Dio, un premio per i giusti. Lo stesso Giobbe, che viene privato di tutto ciò che gli è più caro (i propri figli, i propri possedimenti, la propria salute) vede benedetti i suoi ultimi anni da Dio (Gb 42,12) e arrivando a centoquarant'anni, "morì vecchio e sazio di giorni" (Gb 42,17).

Ma cosa giova a coloro che hanno seguito il consiglio dato da Gesù al giovane ricco, di lasciare tutto per seguirlo? «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19:27) chiede Pietro a Gesù con la sua ruvida franchezza.

Gesù promette di donare il centuplo fin da questa vita e la vita eterna nel tempo della "rigenerazione". Le sue parole non sono un invito ad abbandonare amici e parenti nelle loro necessità, ma a porre le esigenze del Regno al primo posto, per guadagnare ogni uomo alla fede e vivere il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Egli ci esorta a vivere con libertà il nostro rapporto con i beni terreni per godere dei frutti dello Spirito.

Le persecuzioni accompagneranno le benedizioni del Signore per i suoi fedeli (v. 30). Ma i problemi e le difficoltà incontrati nel mondo a causa del vangelo possono diventare essi stessi fonte di benedizione, aiuto a maturare nella fede; saremo come rami potati nella giusta stagione, per portare frutti più abbondanti.

Preghiera

Tutto quello che abbiamo, Signore, appartiene a te; ma tu ci chiedi di non presentarci alla tua presenza a mani vuote. Donaci un cuore libero per ricevere in abbondanza le tue benedizioni. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 27 maggio 2024

Paul Gerhardt, padre dell'innografia luterana

Nel 1676 muore a Lübben, in Germania, il pastore Paul Gerhardt, forse il massimo poeta dell'ortodossia luterana.
Nato nel 1607 a Gräfenhainichen, in Sassonia, Paul compì gli studi di teologia a Wittenberg, dove rimase dieci anni. Divenuto precettore a Berlino, nel 1651 egli fu eletto pastore a Mittenwalde. Tornato a Berlino e nominato diacono alla chiesa di San Nicola, Gerhardt esercitò per un decennio il proprio ministero dedicandosi alla composizione di poesie e inni religiosi.
Nelle sue opere, egli volle unire un fedele ascolto della Scrittura a un'osservanza rigorosa dei principi della fede luterana, e soprattutto a una forte attenzione alle esigenze della devozione popolare. Ispirandosi ai grandi inni medievali e alle opere dei mistici, egli propose una poesia semplice e profonda, capace di toccare l'intimo dei cuori senza incorrere negli eccessi in cui finiranno per scivolare alcuni pietisti tedeschi mossi da analoghe intenzioni. I suoi inni più celebri, musicati da Johann Sebastian Bach, si diffonderanno in tutte le chiese del mondo, ben al di là dei confini confessionali della chiesa luterana tedesca.
Nel 1668, Gerhardt perse il posto di pastore, poiché si rifiutava di sottoscrivere gli editti di tolleranza di Federico Guglielmo di Brandeburgo, dietro ai quali vedeva una negazione della professione di fede di Concordia. Con molta pace, egli si ritirò a Lübben, dove negli ultimi anni della sua vita fu poi reintegrato nel corpo pastorale.

Tracce di lettura

O capo insanguinato
coperto di piaghe e disonore,
o capo attorcigliato
da una corona di spine,
o capo ormai redento
che irradia ovunque onore,
a te rivolgo il mio saluto,
volto irriso del Signore.
O volto di bellezza
che ogni creatura timorosa
verrà per giudicare,
quanto sei stato sfigurato!
Quanto sei fragile e sfinito!
Tu che irradiasti
una luce incomparabile,
chi ti ha ridotto in questo stato?
(Paul Gerhardt, Inno "O capo insanguinato").

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Giovanni Calvino. "La preghiera è il principale esercizio della fede"

Nel 1564 muore all'età di cinquantaquattro anni Giovanni Calvino, riformatore della chiesa di Ginevra.
Calvino era nato a Noyon, in Picardia, nel 1509. Indirizzato a una carriera ecclesiastica, fu inviato a Parigi, ma agli studi teologici preferì quelli di diritto, che portò a termine a Orléans.
Avvicinatosi alle idee della riforma protestante, egli cominciò a scrivere l'Istituzione della religione cristiana, che continuerà a rivedere e perfezionare fino al 1560, sia nella versione latina che in quella francese.
Di passaggio a Ginevra, Calvino fu invitato da Guillaume Farel a collaborare nell'organizzazione della locale chiesa riformata. Egli si dedicò allora anima e corpo all'opera riformatrice, componendo per la chiesa di Ginevra un ordinamento giuridico, liturgico e spirituale, e redigendo un catechismo. Era infatti convinto che soltanto una riforma reale della vita e dei costumi potesse far interiorizzare ai ginevrini il ritorno alla fede delle prime comunità apostoliche che i riformatori si proponevano di attuare.
La teologia di Calvino, scaturita interamente dalle sue predicazioni fondate su un'esegesi della Scrittura letta nella sua totalità, si diffuse rapidamente in tutta l'Europa; egli infatti era riuscito a integrare il fondamentale principio luterano della giustificazione mediante la fede, da un lato con la valorizzazione dell'aspetto visibile della fede e della comunità ecclesiali, dall'altro con una rinnovata attenzione all'azione interiore dello Spirito nel cuore dei credenti.
La tensione sempre viva fra interiorità ed esteriorità consentirà alla riforma calviniana un atteggiamento di sostanziale disponibilità al dialogo con le istituzioni e una certa adattabilità ai diversi contesti culturali in cui la tradizione riformata verrà accolta.

Tracce di lettura

Poiché la fede ci insegna che tutto il bene di cui abbiamo bisogno e non troviamo in noi stessi, è in Dio e nel suo Figlio, nostro signore Gesù Cristo al quale il Padre ha affidato la pienezza delle sue benedizioni affinché tutti vi attingiamo come da una fonte traboccante, ne deriva che dobbiamo cercare in lui e chiedere a lui con preghiere e orazioni quel che sappiamo esservi.
Per mezzo della preghiera abbiamo dunque accesso alle ricchezze che Dio ci dà. La preghiera è il principale esercizio della fede. Esso ci è necessario anzitutto affinché il nostro cuore sia infiammato dall'ardente desiderio di cercare sempre Dio, di amarlo e di onorarlo. Poi, perché il nostro cuore non sia mosso da alcun desiderio di cui non osiamo subito farlo testimone, come accade invece quando esponiamo davanti ai suoi occhi l'intero nostro sentire e, per così dire, gli apriamo il nostro cuore. Inoltre, perché siamo pronti a ricevere i suoi benefici con vera riconoscenza e con rendimento di grazie, in quanto la preghiera ci ricorda che provengono dalla sua mano. Ancora, perché godiamo con maggior piacere i beni che ci dà, comprendendo che li abbiamo ottenuti con le nostre preghiere. Infine, affinché la sua provvidenza riceva conferma e ratifica nei nostri cuori attraverso quel che di fatto sperimentiamo secondo la nostra limitata capacità.
(Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana 3,20,3)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Farsi piccoli per passare dalla cruna dell'ago

Lettura

Marco 10,17-27

17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». 18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
23 Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!». 24 I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: «Figlioli, com'è difficile entrare nel regno di Dio! 25 È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26 Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: «E chi mai si può salvare?». 27 Ma Gesù, guardandoli, disse: «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio».

Commento

Mentre Gesù sta per mettersi in viaggio verso Gerusalemme, dove si compirà il suo atto di consacrazione per l'umanità, viene raggiunto da un uomo che corre verso di lui e si mette in ginocchio pregando di poterlo seguire. Questi dettagli riportati da Marco fanno comprendere l'entusiasmo di quest'uomo, che Luca e Matteo ci dicono essere giovane (Mt 19,20) e "un notabile" (Lc 18,18), probabilmente un capo della sinagoga.

Gesù riserva il termine "buono" a Dio, fonte di ogni bontà (cfr. Mt 19,17). Egli non nega la propria divinità, ma implicitamente la afferma, chiedendo al giovane di interrogarsi sul perché lo riconosce come buono. Se riconosciamo la bontà di Gesù e quindi la sua natura divina, dobbiamo essere pronti a riconoscere anche l'autorità della sua parola e l'entità della sua chiamata.

Di fronte alla richiesta dell'uomo ricco su cosa fare per avere la vita eterna Gesù menziona i comandamenti della seconda tavola della legge, relativi al comportamento da tenere verso il prossimo. "Non frodare" è un'aggiunta al decalogo, presente solo nel Vangelo di Marco. Potrebbe essere un'allusione al comandamento "Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" (Es 20,17).

L'uomo ricco, che dichiara di aver osservato tutti i comandamenti, è un buon ebreo è può essere considerato simbolo dell'Israele fedele a Dio. Ma il messaggio del vangelo chiede di superare il semplice legalismo, per donarsi integralmente al Signore. La vita eterna che Gesù propone è qualcosa di più di quella che l'uomo ricco ricerca (v. 17). Non si tratta solo di un'illimitata estensione temporale, ma di una infinita differenza qualitativa, determinata dalla piena comunione con Dio.

Gesù lo fissa negli occhi (v. 21); Marco si sofferma spesso sul suo sguardo (cfr. 3,5.34; 5,32; 10,23; 11,11), che in questo caso esprime una grande compassione per questo giovane che sente come un'inquietudine, un bisogno di "andare oltre" l'osservanza dei comandamenti fino allora praticata.

Il giovane ricco rinuncia a seguire Gesù "perché aveva molti beni" (v. 22).Questa annotazione finale di Marco richiama la parabola del seminatore (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15) dove il seme caduto tra le spine non porta frutto per la seduzione della ricchezza.

L'Antico Testamento presenta un aspetto ambivalente della ricchezza e dei beni materiali: da un lato vengono visti come segno del favore divino (Gb 1,10; Sal 128,1-2; Is 3,10). Perciò le parole di Gesù provocano stupore tra i discepoli (v. 24), perché in apparente contraddizione con questo modo di considerare la benevolenza di Dio. Sempre nell'Antico Testamento, la ricchezza è presentata come tentazione idolatrica. Gesù, che richiede ai suoi discepoli la radicalità del dono di sé, predilige questa interpretazione. 

La ricchezza, il potere e il prestigio sono considerati un ostacolo per il Regno, poiché generando una falsa sicurezza invischiano il cuore nel possesso delle cose, mentre invece la propria fiducia va riposta interamente in Dio e la propria vita messa al servizio dei bisognosi.

Quanto sia difficile per il ricco rinunciare all'esclusività dei propri interessi e passare per la "porta stretta" della vita è ben sintetizzato dall'immagine iperbolica del cammello che non può passare per la più piccola delle aperture (la cruna di un ago). Il raggiungimento della salvezza, che va oltre le capacità umane, dipende dalla bontà di Dio che la concede.

Se vogliamo conoscere la volontà di Dio sulla nostra vita dobbiamo affrettarci a consultarlo mettendoci umilmente e con cuore aperto alla sua presenza, come il giovane che gli si inginocchiò innanzi; ma diversamente da questi, siamo pronti ad accogliere le esigenze del vangelo? Chi ama fino in fondo va oltre il quieto conformismo religioso e trova in ogni cosa un'occasione per crescere nell'amore.

Forse come il diligente protagonista di questa narrazione evangelica anche noi ci sentiamo già "a posto con Dio", a un passo dalla vita eterna. Scrupolosi nell'evitare grandi mancanze verso di lui e verso il prossimo, pensiamo che egli ci richieda solo più qualcosa di superfluo per giungere alla perfezione cristiana. Ma siamo come cammelli davanti alla cruna di un ago. Se vogliamo passare per la porta della vita dobbiamo "diminuire", farci umili per lasciare operare in noi la grazia di Dio.

Preghiera

Soccorrici con la tua grazia, Signore, e santificaci con il tuo Spirito; affinché possiamo crescere in generosità, riconoscendo che ogni ricchezza che ci hai donato appartiene ai poveri. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 25 maggio 2024

Dizionario della Musica Anglicana. Anthony Caesar

Anthony Caesar (1924-2018) è stato un compositore, organista e presbitero britannico noto per il suo contributo alla musica sacra e corale. Nato a Chingford, Essex, Caesar ha studiato alla Forest School e successivamente al Royal College of Music, dove ha affinato le sue competenze musicali. Ordinato sacerdote anglicano nel 1952, ha svolto gran parte della sua carriera combinando i suoi doveri clericali con quelli musicali.

Caesar è stato Organista e Maestro di Coro alla Cattedrale di Winchester dal 1970 al 1984. Durante il suo mandato, ha composto numerose opere sacre, tra cui inni, anthems e cantate. La sua musica è caratterizzata da un forte senso della melodia e dell'armonia, spesso influenzata dalla tradizione musicale inglese.

Nel 1984, è stato nominato Precentor di Westminster Abbey, un ruolo che ha mantenuto fino al suo ritiro nel 1991. La sua musica è ancora eseguita regolarmente nelle chiese anglicane e cattedrali, mantenendo viva la sua eredità nel panorama della musica sacra.

Anthony Caesar è ricordato non solo per le sue composizioni, ma anche per il suo impegno nel promuovere la musica liturgica e nel formare giovani musicisti. La sua combinazione di talento musicale e dedizione religiosa ha lasciato un'impronta duratura nella tradizione musicale inglese.

Tra le sue composizioni ecclesiastiche più famose:

  1. "O for a Closer Walk with God" - Un anthem molto apprezzato per la sua bellezza melodica e il suo profondo significato spirituale.
  2. "Bless the Lord, O My Soul" - Un altro anthem che mostra la sua abilità nel creare musica coinvolgente e spiritualmente edificante.
  3. "A Song of Praise" - Questo pezzo è rinomato per la sua maestosità e il suo utilizzo nelle celebrazioni liturgiche.
  4. "The Souls of the Righteous" - Un anthem spesso eseguito in servizi commemorativi e funebri, noto per la sua commovente espressività.
  5. "Magnificat and Nunc Dimittis in C" - Parte del repertorio di molti cori ecclesiastici, questi cantici mostrano l'abilità di Caesar nel setting di testi liturgici tradizionali in modo vibrante e accessibile.


Il vento soffia dove vuole

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai donato a noi, tuoi servi, la grazia di riconoscere, mediante la confessione della vera fede, la gloria dell’eterna Trinità e di adorare la sua unità nel potere della Maestà Divina; ti supplichiamo di custodirci in questa fede e di difenderci da ogni avversità; tu che vivi e regni, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Ap 4,1-11; Gv 3,1-15

Commento

Nella conversazione notturna con l’amico Nicodemo Gesù ci lascia un insegnamento sul suo modo di intendere l’impegno religioso, lontano dal semplice senso di appartenenza o dalla fedeltà legalistica alla lettera dei testi sacri. Il vento soffia (Gv 3,8), ma occorre dispiegare le vele della fede per lasciarci guidare dallo Spirito.

La direzione dalla quale e verso la quale si muove lo Spirito non è prevedibile, è capace di sorprenderci sempre. Per questo occorre essere dei navigatori attenti alle sue sollecitazioni, in modo da sapere da quale direzione prendere il vento. La nostra traversata si compie sotto la spinta di una fonte di energia che non può essere accumulata e conservata. È dunque necessaria una nostra apertura allo Spirito qui ed ora, in ogni momento, che si manifesta nella meditazione assidua della Parola di Dio. La nostra docilità alla sua azione non può venire meno, se non vogliamo esporci alle correnti e andare alla deriva.

Nel lungo periodo liturgico che dalla domenica dopo Pentecoste fino all'Avvento viene chiamato, secondo una antica tradizione, "tempo della Trinità" viene riassunto il principio e al tempo stesso il fine ultimo della creazione, la ragione per cui siamo stati creati e ciò che costituirà la nostra vita quando avremo combattuto la buona battaglia e preservato la fede fino alla fine: la vita nella Trinità, la partecipazione al mistero di un Dio unico ma non solitario, un Dio in tre persone, che chiama l'uomo a partecipare a quest'intima relazione.

Ma occorre rinascere dall'alto, dall'acqua e dallo Spirito Santo. Occorre lasciarsi rigenerare da Dio, per vedere il mondo con occhi sempre nuovi, per ascoltare e gustare tutte le cose con la meraviglia di un bambino da poco venuto alla luce.

Tutto è straordinario per chi accoglie il dono dello Spirito. La vita del cristiano non ha mai nulla di ordinario nel senso peggiorativo del termine. La noia, la monotonia, il vuoto, sono sensazioni lontane dalla vita di chi possiede Cristo e, in lui, l'intera Trinità divina. Chi ha fede non ha bisogno di stordire i sensi con emozioni sempre nuove. La fede rende la vita quotidiana luogo di incontro con Dio, in cui diventiamo destinatari e al tempo stesso dispensatori delle sue benedizioni.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 24 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Un'alleanza benedetta da Dio

Lettura

Marco 10,1-12

1 Partito di là, si recò nel territorio della Giudea e oltre il Giordano. La folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli l'ammaestrava, come era solito fare. 2 E avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, gli domandarono: «È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?». 3 Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4 Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». 5 Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6 Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; 7 per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. 8 Sicché non sono più due, ma una sola carne. 9 L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto». 10 Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: 11 «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio contro di lei; 12 se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».

Commento

In tutti e tre i Vangeli sinottici questo è il primo contatto di Gesù con la "folla" della Giudea. La folla gli va incontro spontaneamente come in Galilea (Mc 4,1; 5,24).

Il dibattito tra Gesù e i farisei sull'abolizione del divorzio, indica la volontà di questi ultimi di screditarlo pubblicamente e sarà un motivo di controversia tra giudei e cristiani nel primo secolo. La legge mosaica consentiva il ripudio della moglie nel caso fosse intervenuto "qualcosa di vergognoso" (Dt 24,1), ma doveva avvenire tramite il rilascio di un attestato scritto, per salvaguardare la donna dall'accusa di adulterio. 

Gesù dichiara che la legge mosaica permette il divorzio solo "per la durezza del vostro cuore" (v. 5), indicata con il termine greco sklerokardia, che indica nel Nuovo testamento l'incapacità dell'essere umano di comprendere e attuare il piano di Dio (cfr. Mt 19,8; Mc 16,14). 

Nel Vangelo di Matteo Gesù fa un'eccezione al divieto assoluto di divorzio, indicata con il termine greco pornéia; questo è stato intepretato da alcuni come "concubinato", che indica i rapporti illegittimi tra consanguinei; altri intepretano il termine con il significato di "adulterio".

Citando il libro della Genesi (1,27; 2,24) Gesù proclama che fin dall'inizio il matrimonio è stabilito come patto eterno (vv. 6-8) e continua in questo senso con l'ammonizione "l'uomo non separi ciò che Dio ha congiunto" (v. 9). L'uomo e la donna diventano "una carne sola" agli occhi di Dio. Il matrimonio non è presentato come un'invenzione umana, ma come un'istituzione divina.

Il Signore è paziente e misericordioso nei confronti delle nostre fragilità e nel custodire il patto con il suo popolo. La sua clemenza deve essere presa a modello dell'alleanza tra l'uomo e la donna, benedetta da Dio. Siamo chiamati a superare una visione consumistica delle relazioni, coltivando la libertà nella responsabilità. La fede e la piena adesione a Cristo ci otterrano la fedeltà, dono di Dio.

Preghiera

Santifica e vivifica con il tuo Spirito, Signore, le nostre relazioni; affinché possiamo imparare da te, che sei mite e umile di cuore, a essere fedeli al piano che hai stabilito dai tempi antichi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 22 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Uniti e operosi sotto lo stesso nome

Lettura

Marco 9,38-40

38 Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri». 39 Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. 40 Chi non è contro di noi è per noi.

Commento

Presi dalla discussione su chi sia il più grande (Mc 9,33-37) i discepoli, che poco prima si sono mostrati incapaci di esorcizzare l'epilettico indemoniato (Mc 9,14-29), per bocca di Giovanni pongono a Gesù una domanda che manifesta un atteggiamento escludente nei confronti di un uomo che scaccia efficacemente i demoni nel nome di Gesù, pur non essendo "dei loro" (v. 38).

L'episodio riportato da Marco è probabilmente anche un'eco delle questioni che si pongono i primi cristiani in circostanze simili, in relazione al riconoscimento della vera identità degli inviati di Dio.

Gesù esorta i discepoli a non ostacolare chi opera nel suo nome. Se un albero si riconosce dai frutti (Mt 7,16-20) il vero discepolo accoglie l'amore ovunque esso fiorisca. Anche le chiese particolari sono chiamate a superare gli atteggiamenti settari, coltivando piuttosto il senso di comunione tra coloro che operano nel nome di Gesù. 

L'unica chiesa di Cristo supera i confini visibili stabiliti dalle reciproche scomuniche. L'apostolo Paolo saprà cogliere questo mistero: "Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene" (Fil 1,18).

La risposta data da Gesù a Giovanni si completa con l'affermazione speculare riportata dal Vangelo di Matteo: "Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde" (Mt 12,30). Non c'è spazio per posizioni di neutralità nei confronti di Gesù.

Soltanto non illudiamoci di poter costringere nei rivoli angusti di una religiosità elitaria l'infinita grandezza e libertà dello Spirito di Cristo.

Preghiera

Dona alla tua chiesa, Signore, lo spirito di unità e concordia; affinché possiamo essere radunati nel tuo nome e portare frutti di salvezza. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 21 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Abbassarsi per ascendere

Lettura

Marco 9,30-37

30 Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31 Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà». 32 Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni.
33 Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». 34 Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. 35 Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti». 36 E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro:
37 «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Commento

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, un itinerario non solo geografico ma spirituale come dichiara il secondo annuncio della passione. Le sue parole attestano che è Dio stesso che lo consegna nelle mani di coloro che lo uccideranno. Perciò tutto ciò che accadrà al "Figlio dell'uomo" (la morte e la risurrezione) rientra nel piano provvidenziale stabilito da Dio per il bene di tutti.

I discepoli continuano a non capire la dimensione di sofferenza cui è destinato il Cristo (v. 32) e non osano fare domande, forse per il precedente rimprovero rivolto da Gesù a Pietro che cercava di dissuaderlo dalla sua missione redentrice (Mc 8,33). Marco, dopo ognuno dei tre annunci della passione fa rilevare questa incapacità a comprendere (cfr. Mc 8,31-33; 10,32-34.35-44).

Proprio mentre Gesù parla del suo apparente fallimento i discepoli iniziano a fare progetti di grandezza, discutendo su chi fosse il più grande tra loro (v. 34). Questa è la logica del mondo, che fin dall'infanzia ci insegna a sgomitare per essere migliori, anche prevaricando sugli altri.

I bambini - grandi nell'affidamento, nella gioia, nella spontaneità - sono il simbolo di cui Gesù si serve per sottolineare che i discepoli sono chiamati a svolgere con umiltà la loro missione (v. 35), sull'esempio di Gesù che non è venuto per essere servito ma per servire (Mc 10,45). La volontà di mettersi al servizio del prossimo determina la posizione assunta nel regno di Dio. La nostra ascesa verso il cielo avviene nella misura in cui ci abbassiamo nell'esercizio della carità.

La consacrazione di Gesù nel suo abbassamento fino alla morte di croce dimostra l'amore assoluto di Dio, che si fa prossimo a ogni uomo, anche nelle pagine più buie dell'esistenza, per accompagnarlo verso la gloria della risurrezione.

Preghiera

Donaci lo spirito di umiltà, Signore, affinché possiamo fare spazio al nostro prossimo e renderci simili a te nel dono gratuito di noi stessi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 20 maggio 2024

Fermati 1 minuto. La Chiesa, generata sotto la croce

Lettura

Giovanni 19,25-34

25 Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. 26 Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». 27 Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.
28 Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete». 29 Vi era lì un vaso pieno d'aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. 30 E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». E, chinato il capo, spirò.
31 Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. 32 Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme con lui. 33 Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34 ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.

Commento

La figura di Maria, che appare in maniera discreta nei Vangeli e solo in quello di Giovanni figura sotto la croce, era stata presente durante il primo miracolo di Gesù alle nozze in Cana di Galilea. In quella occasione aveva portato all'attenzione del figlio la mancanza di vino per i commensali, ricevendo l'enigmatica risposta: "'Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora'" (Gv 2,4). 

La trasformazione dell'acqua in vino non è un miracolo di guarigione o liberazione, ma con esso Gesù sembra prefigurare in maniera incruenta il dono del suo sangue per la vita dei peccatori riconciliati.

Quell'"ora" che è un "non ancora" a Cana, scocca nel momento culminante della passione, in cui Maria diventa madre dei credenti - personificati da Giovanni - e al tempo stesso oggetto di sollecitudine del discepolo.

Maria sotto la croce è stata assurta a simbolo della Chiesa e come colei che intercede per gli uomini presso il Figlio; eppure nella loro semplicità le parole evangeliche ci mostrano il Figlio che intercede per Maria e la affida al discepolo che egli amava. 

Una madre è degna senz'altro di essere onorata - "Onora tuo padre e tua madre" (Es 20,12) - e al tempo stesso un figlio, quale viene definito Giovanni in rapporto a Maria, è oggetto delle sollecitudini materne. 

Se Maria rappresenta la Chiesa, questa è affidata ai credenti, affinché se ne prendano cura. Ma al tempo stesso essi sono figli della Chiesa, dalla quale hanno ricevuto la dottrina degli apostoli, per mezzo del vangelo. 

La Chiesa non è una istituzione umana, ma la comunità dei redenti dalla sete di anime di Cristo.

Preghiera

Noi ti lodiamo, Padre celeste, per averci donato la tua Parola vivente, rivestita di un vero corpo nel grembo di Maria; il tuo Spirito ci guidi sempre nell'amore alla tua Chiesa, generata dal sangue del tuo Figlio. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Nil Sorskij, riformatore del monachesimo russo

La chiesa russa ricorda oggi Nil Sorskij (Nilo di Sora), monaco e animatore della rinascita esicasta nella Russia del XV secolo.
D'origine aristocratica, Nil Majkov era nato a Mosca nel 1433, ed entrò molto giovane nel monastero di San Cirillo del Lago Bianco, dove fu discepolo dello starec Paisij Jaroslavov. Appresi i rudimenti dell'esicasmo, Nil si recò al monte Athos e a Costantinopoli per approfondire la propria ricerca spirituale accanto ai grandi maestri dell'epoca. Egli rimase a lungo alla Santa Montagna, dove apprese l'arte della preghiera continua e del discernimento spirituale.
Tornato sul Lago Bianco, dopo un periodo di vita solitaria Nil si stabilì sulle rive del fiume Sora, non lontano dal suo monastero, organizzandovi una nuova forma di vita monastica, a metà strada tra quella cenobitica e quella eremitica, sull'esempio delle skiti dell'Athos. Nil mostrò sempre grande umanità verso i propri discepoli, che amava chiamare «miei signori e fratelli». La sua disponibilità ad aprire l'orecchio del cuore a Dio e al prossimo gli consentirono di imparare a riconoscere il proprio peccato e l'inesauribile misericordia di Dio, e di divenire testimone credibile di tale amore misericordioso. Nil Sorskij è per tutti i monaci russi un venerabile esempio di mitezza e di sobrietà evangeliche.
Convinto di dover contribuire alla nascita di un monachesimo più povero e meno mondano rispetto a quello dominante nei grandi centri monastici del suo tempo, Nil non esitò negli ultimi anni della sua vita a porsi a capo di un vero e proprio movimento di riforma che con parresia favorì il ritorno di molti monasteri a uno stile di vita radicalmente evangelico.
Nil Sorskij morì il 20 maggio del 1508.

Tracce di lettura

I santi padri, lottando con il corpo, coltivavano anche spiritualmente la vigna del loro cuore e, dopo aver purificato in tal modo la mente dalle passioni, trovavano il Signore e acquistavano l'intelligenza spirituale. E a noi che siamo consumati dal fuoco delle passioni essi hanno comandato di attingere l'acqua viva alla fonte della divina Scrittura, la quale può estinguere le passioni che ci consumano e mostrarci la vera intelligenza.
Per questo anch'io, grande peccatore e uomo privo di senno, ho raccolto alcune cose dalla sacra Scrittura e da quello che ci hanno detto i santi padri, e le ho scritte per conservarne il ricordo, perché io pure, incurante e pigro, le possa compiere.
(Nil Sorskij, Prologo della Regola)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Nil Sorskij (1433-1508)

sabato 18 maggio 2024

Se uno mi ama... noi verremo a lui

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI PENTECOSTE

Colletta

O Dio, che in questo tempo hai istruito i cuori dei tuoi fedeli, inviando loro la luce dello Spirito Santo; concedici, attraverso lo stesso Spirito di avere un retto giudizio in tutte le cose, e di rallegrarci sempre del suo conforto; per i meriti di Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

At 2,1-11; Gv 14,15-31

Nel racconto della Pentecoste riportato dagli Atti degli Apostoli vediamo che il luogo in cui viene donato lo Spirito Santo è l'assemblea dei credenti riunita in preghiera, primizia della Chiesa. Gesù lo aveva promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). 

La preghiera che ci apre al dono dello Spirito è dunque preghiera comunitaria; e la preghiera più importante compiuta nel nome di Gesù è l'azione liturgica. 

Gesù ci esorta a chiedere con coraggio il dono più grande: Dio stesso, la sua potenza - ("come vento impetuoso" (At 2,2) -, la sua sapienza - "vi insegnerà ogni cosa" (Gv 14,26) -, la sua eloquenza - "li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue!" (At 2,11).

Il Padre avrebbe potuto effondere il suo Spirito su un solo credente, su un solo profeta, ma decide di dividerlo in diverse lingue di fuoco, conferendo a ciascun discepolo un carisma differente.
Nessuno, tra i credenti, può insuperbirsi, pensando di essere l'unico indispensabile: chi opera, infatti, è Dio, e ogni carisma conferito dallo Spirito, non è che un "ministero", un ufficio per il bene dell'intero corpo ecclesiale.

L'eloquenza conferita dallo Spirito non è la tendenza a parlarci addosso, ad essere sordi verso le culture che si esprimono in una lingua differente dalla nostra. Riconosciamo che è lo Spirito che opera nella Chiesa quando anche "quelli di fuori" comprendono la nostra predicazione su Cristo: "E tutti stupivano e si meravigliavano, e si dicevano l'un l'altro: 'Come mai li udiamo parlare nella nostra lingua natìa?'" (At 2,7-8). La Chiesa è realtà sacramentale aperta al mondo.

Se è vero che il dono dello Spirito Santo è fatto per il bene dell'intero corpo di Cristo è anche vero che si tratta di una epifania che investe la persona del credente, una esperienza intima e diretta del Dio trinitario; è Dio stesso che viene a inabitare la nostra anima: "Conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me, e io in voi" (Gv 14,20); "Se uno mi ama... noi verremo a lui" (Gv 14,23).

L'incontro con Cristo, nelle Scritture e nei sacramenti, ci trasforma, per grazia, a sua immagine, cosicché quando il Padre si china su di noi, non vede più noi ma il suo Figlio, e ci dona lo Spirito senza misura: "furono tutti ripieni dello Spirito Santo" (At 2,4).

Per ricevere tale dono Gesù ci esorta a osservare i suoi comandamenti: "Se mi amate, osservate i miei comandamenti" (Gv 14,15); "Chi ha i miei comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manfesterò a lui" (Gv 14,21).
Non deve mai venir meno, dunque, al di là delle nostre miserie, il desiderio della santificazione, intesa come obbedienza al vangelo, per opera della grazia di Dio.

"Perciò vi dico: chiedete" (Lc 11,9), esorta Gesù. Non lasciamoci vincere dal torpore, dalla rassegnazione, dalla mediocrità. Osiamo chiedere il dono più grande: una nuova Pentecoste per noi, per la Chiesa e per l'intera umanità.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 17 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Dal voler bene al dono di sé

Lettura

Giovanni 21,15-19

15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». 19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

Commento

Nell'epilogo del Vangelo di Giovanni assistiamo alla riabilitazione della figura di Pietro. Gesù gli chiede una triplice professione di amore, a riparazione del suo triplice rinnegamento. La sezione presenta l'utilizzo di due sinonimi del verbo "amare": filéo agapáo; la prima indica il voler bene di Pietro a Gesù; la seconda esprime il dono totale di sé.

Il nome che Gesù utilizza per riferirsi a Pietro non è Cefa ("roccia") ma «Simone, figlio di Giona»; l'attenzione è posta non sul carisma che gli era stato affidato, ma sulla sua fallibile umanità. Gesù interpella la nostra debolezza perché l'umiltà è il primo passo per trovare la riconciliazione.

Gesù non chiede a Pietro quanto ha pianto il suo rinnegamento, quanto ha fatto penitenza, ma quanto egli lo ama. Solo l'amore rende accettabile ogni espressione di pentimento. A chi ha molto amato sarà molto perdonato (Lc 7,47).

Gesù accompagna la triplice domanda a Pietro con l'esortazione a occuparsi dei suoi agnelli e delle sue pecore. 

Il ruolo di nutrire il gregge era affidato usualmente a un sottoposto del pastore, in questo caso viene a indicare la devozione nel servizio al Signore. Il primo dovere di coloro che Gesù pone a guida della sua Chiesa è di insegnare la parola di Dio. L'amore verso Cristo si dimostra prendendosi cura del popolo che egli si è acquistato per mezzo del suo sangue.

Due volte Gesù chiede a Pietro se lo ama (con il verbo agapáo), se è capace del dono totale di sé. Ma egli, memore della sua caduta, non se la sente di promettere qualcosa che va oltre le proprie capacità e professa semplicemente la sua filìa, il suo umano voler bene a Gesù. La terza volta Gesù si pone al suo livello e gli chiede proprio se gli vuole bene (con il verbo filéo ); è allora che lo accoglie per quello che egli è, con i suoi limiti, le sue fragilità confessate apertamente. Proprio su di queste si innesterà la grazia soprannaturale rendendo capace Pietro di compiere il suo ministero, fino alla testimonianza estrema con il dono della vita.

Gesù rinnova a Pietro l'esortazione che fu rivolta agli apostoli al principio della loro chiamata: «Seguimi!» (v. 19). Pietro non è respinto per essere venuto meno alla sua fedeltà durante la passione, ma è riconfermato nella fede e nell'amore, affinché anch'egli possa confermare a sua volta i suoi fratelli. Solo l'umile consapevolezza di essere peccatori riconciliati può renderci buoni ministri del vangelo.

Preghiera

Vieni in soccorso, Signore, alla fragilità del nostro amore, per renderci capaci di donare generosamente le nostre vite nella testimonianza del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 16 maggio 2024

Fermati 1 minuto. "Voglio che siano con me"

Lettura

Giovanni 17,20-26

20 Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; 21 perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
22 E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. 23 Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
24 Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.
25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. 26 E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Commento

Gesù non prega solo per i Dodici, o per i settantadue discepoli, per gli uomini e le donne che lo hanno seguito durante la sua vita terrena, ma la sua intercessione abbraccia i credenti di ogni tempo (v. 20), tutti coloro che crederanno per la parola trasmessa dai suoi discepoli. Le Scritture del Nuovo Testamento e il ministero della predicazione sono stati stabiliti nella Chiesa per generare gli uomini alla fede.

L'unità per la quale prega Gesù è la comunione dei santi, di coloro che sono santificati dallo Spirito, in cielo e sulla terra, in ogni tempo e in ogni latitudine.

La pienezza dell'unità richiesta da Gesù al Padre per la sua Chiesa è segno visibile della verità della testimonianza: «perché il mondo creda» (v. 21). Se i credenti sono divisi la loro testimonianza non è credibile. 

La testimonianza data al mondo è fondata anche sul privilegio dei credenti di essere amati dal Padre come egli ha amato Gesù («il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me»; v. 23). Apparirà al mondo che Dio ci ha amati se ci ameremo gli uni gli altri, perché quando l'amore di Dio è effuso nei cuori li trasforma a propria immagine. La nostra capacità di amare è proporzionale alla consapevolezza dell'amore di Dio per noi.

La "preghiera sacerdotale" di Gesù insiste sull'unione del Padre e del Figlio come modello per l'unione tra i discepoli («perché siano come noi una cosa sola»; v. 22). Le divisioni tra i cristiani frantumano il riflesso dell'immagine di Dio nel mondo. Dio è comunione e la comunione tra i credenti è la via che conduce a lui.

Se inizialmente Gesù prega (erotao) per i discepoli e per chi crederà in lui (v. 20), di seguito utilizza il verbo «voglio» (thelo), esprimendo sovranamente la sua volontà, che è anche quella del Padre: «voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (v. 24).

La preghiera che Gesù innalza per ogni credente è la nostra forza nell'adempimento del mandato apostolico, fonte di fermezza e coraggio in mezzo alle difficoltà e ai pericoli che il mondo pone innanzi ai testimoni del vangelo.

Preghiera

Il tuo Spirito, Signore, infonda in noi il desiderio della comunione fraterna e il coraggio di renderti testimonianza, affinché il mondo possa conoscere il tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 15 maggio 2024

Fermati 1 minuto. Consacrati nella verità

Lettura

Giovanni 17,11-19

11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
12 Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. 13 Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14 Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
15 Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18 Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; 19 per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità.

Commento

La morte di Gesù esporrà i discepoli alla tentazione e all'odio del mondo, ma essi saranno custoditi da Dio e potranno sperimentare la stessa unità che rappresenta la vita trinitaria (v. 11).

Gesù chiede al Padre per i suoi discepoli la pienezza della gioia (v. 13). Il credente gioisce in Cristo di una gioia duratura, che non appassice come la gioia che dà il mondo.

Vi è una chiara somiglianza tra la richiesta di Gesù al Padre, in questa preghiera, di custodire i discepoli dal maligno (v. 15) e l'ultima petizione del Padre nostro.

L'idea della consacrazione (v. 17) rappresenta il mettere a parte qualcosa per un uso specifico. I credenti sono messi a parte da Dio per diventare annunciatori del vangelo. La santificazione non comporta l'isolamento dei discepoli dal mondo ma la loro missione verso il mondo. Gesù santifica se stesso (v. 19) compiendo totalmente la volontà del Padre.

I ministri dell'antico patto, i sacerdoti leviti, erano santificati con il sangue di tori e di capri, ma i ministri del vangelo sono consacrati dal sacrificio di Cristo (Ap 5,9-10).

Sapere che Gesù intercede per noi, che siamo presenti nella sua preghiera, ci fa vivere con la consapevolezza di essere custoditi dal suo amore. Custodire è diverso da possedere. Dio non soffoca la nostra libertà, ma ci accompagna, tra le difficoltà del mondo, in una relazione di amore, ponendo il nostro agire nella quotidianità sotto la sua benedizione.

Preghiera

Signore Gesù, incorporati per fede nel tuo sacrificio di salvezza, ci hai resi sacerdoti per il nostro Dio; la nostra vita sia trasformata in un dono prezioso mediante la tua benedizione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Pacomio e l'esperienza radicale del vangelo

Le chiese cattoliche d'Oriente e d'Occidente, la Chiesa Ortodossa e quella Luterana celebrano oggi la memoria del monaco Pacomio.
Nato nell'alto Egitto da genitori pagani nel 292, Pacomio venne per la prima volta a contatto con il cristianesimo nell'incontro con la carità attiva dei cristiani di Tebe, venuti a portare cibo e conforto a un gruppo di giovani reclute, tra le quali c'era anche lui. In quell'occasione Pacomio promise che se fosse sopravvissuto avrebbe servito il genere umano tutti i giorni della sua vita. Congedato dall'esercito, Pacomio si recò a Khenoboskion, ponendosi al servizio della piccola comunità cristiana ivi residente, e chiedendo di essere istruito nella fede. Ricevuto il battesimo, egli maturò il desiderio di essere iniziato alla vita anacoretica. Si rivolse così a un anziano eremita, Palamone, che gli trasmise le pratiche ascetiche ereditate dalla tradizione: digiuno, veglia, preghiera continua, lavoro ed elemosina. Stabilitosi nel villaggio abbandonato di Tabennesi, Pacomio fu ben presto raggiunto da uomini e donne che desideravano vivere vicino a lui e che egli serviva. 
Con pazienza e fatica egli cercò di educare i suoi discepoli alla vita comune, chiedendo che ciascuno si mettesse al servizio degli altri e proponendo come modello la prima comunità di Gerusalemme. L'originalità della comunità pacomiana sta nel fatto che essa non fu un gruppo di eremiti radunati attorno a un padre spirituale, ma una koinonia, una comunità di fratelli, in comunione di preghiera, di lavoro, di vita quotidiana. La vita del monaco era vista a Tabennesi come pieno adempimento delle promesse battesimali, nella fedeltà ai comandamenti di Dio, e la sola vera regola era la Scrittura, che doveva essere imparata a memoria, meditata costantemente per poter ispirare la preghiera. Pacomio morì nel 346 durante un'epidemia di peste, dopo aver assistito sino alla fine le numerose comunità a cui aveva dato vita. È considerato il padre della vita cenobitica.

Tracce di lettura

Se uno si presenta alla porta del monastero desiderando rinunciare al mondo ed essere aggregato al numero dei fratelli, non sarà libero di entrarvi, ma prima di tutto verrà informato il padre del monastero. Resterà fuori davanti alla porta per pochi giorni; gli si insegnerà la preghiera del Signore e quanti salmi riuscirà a imparare, ed egli darà diligentemente prova di sé: si esamini se per caso ha fatto qualcosa di male ed è fuggito all'istante, preso da paura, oppure se è in potere di altri, e ancora se è in grado di rinunciare ai suoi genitori e disprezzare i propri beni. Se lo vedono pronto a tutto, allora gli verranno insegnate anche le altre norme del monastero: quello che deve fare, chi deve servire sia nell'assemblea di tutti i fratelli, sia nella casa a cui deve essere assegnato, sia nel suo posto in refettorio, cosicché, ammaestrato e trovato perfetto in ogni opera buona, sia unito ai fratelli.
(Pacomio, Precetti 49)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

tempera all’uovo su tavola telata e gessata, cm 32 x 40
Pacomio (292-346)