Le chiese cattolica, anglicana, luterana e veterocattolica celebrano oggi la memoria di Perpetua e Felicita, giovani martiri cristiane a Cartagine nell'anno 203.
Perpetua e Felicita facevano parte di un gruppo di catecumeni imprigionati a Cartagine durante la persecuzione di Settimio Severo. La loro Passio è uno dei testi più commoventi dell'antichità cristiana. Essa ci rivela la consapevolezza con cui i martiri si preparavano a ricevere la morte: secondo la loro stessa testimonianza, infatti, la fonte della loro forza e della loro fierezza non era altro che il Cristo che viveva e soffriva con loro e in loro.
Perpetua, giovane di famiglia patrizia, era madre di un bambino ancora in fasce quando fu arrestata. Felicita, invece, che era una schiava, era incinta. Tre giorni prima del martirio Felicita diede alla luce una bambina e mentre soffriva nel travaglio del parto, un carceriere le disse: «Se ora soffri così, cosa farai quando sarai gettata alle fiere?». Ma essa rispose: «Adesso sono io che soffro, ma là sarà un altro a soffrire per me dentro di me, perché anch'io ora soffro per lui».
Perpetua, a sua volta, quando ricevette il battesimo in carcere scrisse: «Lo Spirito di Dio mi ha ispirato di impetrare dall'acqua nient'altro che la saldezza della carne nelle sofferenze del martirio». Morirono martiri a Cartagine nel 203. La loro popolarità fu subito enorme, e i loro nomi aprono l'elenco dei martiri nominati nel Canone romano.
Il racconto della Passio di Perpetua e Felicita
La Passio che racconta del martirio è ritenuta dagli studiosi immediatamente successiva agli eventi. Un tempo attribuita a Tertulliano è, invece, oggi attribuita ad un cristiano anonimo della comunità di Cartagine.
Il racconto si compone di tre parti. La prima è una relazione fatta forse da un diacono o da un notaio della Chiesa di Cartagine sui compagni di prigionia e di martirio della santa; la seconda, che è quella scritta dalla stessa martire Perpetua, contiene il suo diario durante la prigionia; la terza espone il racconto del suo martirio, fatto da quello stesso che scrisse la prima parte. E questa ultima parte si chiude con la testimonianza preziosa che la seconda parte fu scritta di propria mano dalla stessa Perpetua. In questa descrizione viene narrato tutto ciò che accadde dal momento della cattura di lei e degli altri cristiani fino al giorno del martirio; e contiene il racconto delle visioni da lei avute durante la sua prigionia.
Nella prima di queste visioni, dopo la solita formula et ostensum est mihi hoc, Perpetua ci racconta di avere visto una scala lunga fino al cielo, attorniata da armi diverse e custodita da un dragone. Essa non aveva coraggio di salire, ma Satiro, suo compagno, le fece animo e subito salì e giunse in un bellissimo giardino, dove vide un vecchio venerando con capelli del tutto bianchi, che stava mungendo. Appena che la vide, le fece cenno di avvicinarsi, e poi che essa si fu avvicinata, il vecchio le diede un pezzetto di latte coagulato (sicit buccella) che essa ricevette a mani giunte sulle labbra, mentre tutti gli altri personaggi che si trovavano in quel giardino dicevano: Amen. Dopo di che Perpetua dice di essersi svegliata e di esserle rimasta in bocca una dolcezza che mai aveva provato. Queste ultime parole contengono una allusione evidente all'Eucaristia.
«Dopo alcuni giorni da questa visione, -prosegue essa a dire -, mentre stavamo tutti a pregare, sfuggì dalle mie labbra il nome di Dinocrate, nome di mio fratello minore morto da poco all'età di sette anni per un cancro sulla faccia. Io, prosegue, mi meravigliai come fino allora non mi fossi mai ricordata di lui e me ne pentii, e tutti insieme ci ponemmo a pregare per lui. Poco dopo ebbi un'altra visione: e vidi Dinocrate che usciva da un luogo tenebroso, tutto pallido in volto con sopra una terribile ferita che lo deformava. Egli era tutto mesto ed abbattuto, e andava qua e là vagando inquieto come chi soffre una gran pena. Fra me e lui v'era una profonda divisione, cosicché io non poteva aiutarlo in nessun modo. In quello stesso luogo dove egli stava vi era pure una fontana e pareva che Dinocrate avesse un'ardente sete poiché cercava di bere ma non poteva, perché l'orlo della vasca era molto alto ed egli invece piccolo di statura. Allora capii che egli si trovava in luogo di pena. E così mi svegliai e pensai subito al fratello che soffriva, ma confidai che le mie preghiere fossero a lui di sollievo; e subito ci ponemmo a pregare per lui sino a quando ci portarono all'anfiteatro in una nuova prigione per aspettare il giorno in cui si celebrava la festa di Geta figlio dell'imperatore». La terza visione avvenne dopo alcuni giorni dall'altra ed è la seguente: «Mi si presentò dinanzi il medesimo luogo dell'altra volta, però interamente trasformato, risplendente di luce e in ameno giardino; e Dinocrate allegro e contento che saltava qua e là vestito di candide vesti. La fontana di quel giardino aveva l'orlo molto abbassato e in essa Dinocrate continuamente si rinfrescava (et vidi Dinocratem refrigerantem), mentre sul margine della fontana stessa vi era una fiale d'oro ripiena di acqua. Allora, conclude Perpetua, mi ridestai e compresi che Dinocrate era stato tolto dalla pena e che godeva la beatitudine eterna».
Certamente in tutta l'antica letteratura cristiana non abbiamo un altro documento che parli più chiaramente della fede in uno stato ultraterreno di espiazione, delle preghiere per il suffragio delle anime dei defunti e della validità di queste preghiere.
Per approfondire: Le preghiere per i defunti dalle catacombe alla teologia evangelica