Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

domenica 30 giugno 2024

La rete dalle maglie ben salde

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUINTA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedi, O Signore, ti supplichiamo, che il corso di questo mondo possa essere pacificamente ordinato dalla tua provvidenza, affinché la tua Chiesa possa servirti con gioia. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 3,8-15; Lc 5,1-11

Commento

La fama di Gesù come maestro si diffonde, al punto tale che una grande folla, nei pressi del lago di Genèsaret, gli si stringe attorno. La gente trova in lui qualcosa di più rispetto a ciò che potevano offrire i dottori della legge. Così testimonia anche Pietro che lo chiama "Maestro", termine che qui nel Vangelo di Luca è restituito non con il termine didaskalos, ma con espistàtes, cioè colui che non si limita a impartire lezioni e insegnamenti, ma che testimonia e si fa guida con la propria vita.

Pietro mette davanti a Gesù le proprie mani vuote, dopo la lunga notte in cui si è affaticato con i propri compagni nella pesca. Gesù accoglie questa professione di impotenza e al contempo di fede - «sulla tua parola getterò le reti» - trasformando la povertà in abbondanza ("presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano").

Lo stupore di Simon Pietro e dei suoi compagni, Giacomo e Giovanni, è tale da portarli immediatamente a lasciare tutto per seguire Gesù. La nuova missione cui il Signore li chiama non annulla la loro identità, ma la perfeziona e ne espande la portata: da pescatori di pesci diventeranno pescatori di uomini.

Così anche quando agisce in noi, la grazia, rispetta ciò che siamo, le nostre capacità, le nostre attitudini; ma ci chiama a mettere tutto al servizio di una missione più ampia, quella dell'evangelizzazione.

Le caratteristiche di questa rete sono spiegate nella prima lettera di Pietro che evidenzia la necessità della concordia - affinché le maglie siano ben salde tra loro - e della partecipazione alle gioie e ai dolori gli uni degli altri, della compassione, del patire insieme, come un unico corpo. Ferventi nel bene, saremo capaci di raccogliere gli uomini intorno a Cristo.

La lettera di Pietro cita poi il salmo 34, di carattere sapienziale, che esorta alla custodia delle labbra - trattenendole da parole di malvagità e inganno - e a perseguire il bene cercando la pace, al fine di "vedere giorni felici". Nella nuova prospettiva evangelica questa promessa si allarga dall'individuo alla Chiesa e al mondo intero, assumendo un tono escatologico, rinviando cioè agli "ultimi tempi", quando i semi del regno germoglieranno frutti di giustizia, nell'attesa del compimento della storia.

L'orizzonte di un mondo finalmente restaurato può apparire difficile da scorgere. I tentativi umani di affrettarne la venuta sono sempre stati disastrosi. Il suo continuo sottrarsi alla nostra portata ci chiama a coltivare una fede come quella di Pietro dopo la lunga notte di infruttuosa fatica, animata dalla speranza e da una carità operosa. Lo Spirito di Dio ci guida con il suo soffio; a noi è chiesto soltanto di confidare nella parola del Signore, spiegando le vele, per prendere il largo e gettare le reti.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 28 giugno 2024

Paolo Giustiniani e la vita eremitica come predicazione senza parole

Il 28 giugno del 1528 si spegne sul monte Soratte Paolo Giustiniani, monaco e fondatore degli eremiti camaldolesi di Monte Corona.
Nato nel 1476 nella ricca famiglia veneziana dei Giustiniani, il giovane Tommaso fu formato alla scuola dei più grandi umanisti italiani del tempo. Ritiratosi sull'isola di Murano per approfondire nella quiete la propria ricerca filosofica, Tommaso venne a contatto con i monaci camaldolesi e la sua vita subì una svolta repentina e radicale. Entrato nel 1510 assieme a due compagni veneziani nell'eremo di Camaldoli, Tommaso assunse il nuovo nome di Paolo, e cominciò presto con uno di loro, l'amico Pietro Quirini, a invocare una profonda riforma della chiesa, fino a scrivere un dettagliato Libello sull'argomento, indirizzato a papa Leone X.
Ma lo scontento di Giustiniani non si limitò alla situazione globale della chiesa; egli serbò per tutta la vita la convinzione che la vita eremitica potesse costituire una silenziosa e misteriosa memoria dell'amore di Dio per gli uomini, una «predicazione senza parole». Desideroso di dedicarsi totalmente all'intimità con Dio, egli abbandonò l'ambiente camaldolese e diede vita nel 1520 nei pressi di Ancona alla «compagnia degli eremiti di san Romualdo», oggi noti con il nome di eremiti camaldolesi di Monte Corona.
Giustiniani seppe tenere unite grazie alla sua grande cultura un'austerità quasi parossistica e una notevole finezza spirituale. I suoi insegnamenti sulla vita spirituale ci sono giunti attraverso una preziosa serie di opere capaci di parlare, a dispetto della loro netta impronta eremitica, a ogni cristiano in cerca del radicalismo evangelico.

Tracce di lettura

Come la nave, che solca il mare, dietro a sé non lascia traccia alcuna del percorso fatto, così la nostra anima, condotta dallo Spirito divino, attraversando l'immenso mare e l'abisso delle contemplazioni divine, non dovrebbe vedere, se si volta indietro, per quale strada sia passata, né come a quel dato punto sia giunta.
Se tu avessi considerato tutto questo, carissimo fratello in Cristo, probabilmente non avresti domandato né a me né ad altri che ti fosse suggerito un modo di pregare; ma ti saresti completamente abbandonato, invece, allo Spirito divino, senza pretendere di conoscere né la via, né come ti guida.
Allora tieni a mente che nelle tue orazioni, quando cioè sei in preghiera, il metodo migliore è quello di non avere nessun metodo e che la forma migliore è quella di non avere alcuna forma. Poiché l'orazione nasce da quello Spirito che nei suoi doni è generoso, abbondante e vario, così vari e diversi e quasi infiniti sono i modi e le forme che essa ha.
(Paolo Giustiniani, Trattato sulla preghiera)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Ireneo di Lione e la riconciliazione di ogni creatura in Cristo

Gli anglicani, i Cattolici d'occidente, i luterani e i maroniti fanno memoria oggi di Ireneo vescovo di Lione (+ 202) e forse martire durante la persecuzione di Settimio Severo.
Originario dell'Asia Minore, di famiglia pagana, Ireneo fu discepolo di Policarpo di Smirne, che gli trasmise ciò che a sua volta aveva appreso dagli apostoli.
Nel 177 era presbitero nelle giovani chiese di Lione e di Vienne durante la persecuzione che colpì quelle comunità, e fu chiamato a succedere al vescovo Potino, morto martire in quell'anno. Come pastore Ireneo esercitò un'intensa attività missionaria tra le popolazioni della Gallia, correggendone le deviazioni dalla fede apostolica e rappacificando le chiese già allora segnate dalla divisione e dalle controversie.
Partendo dalla Scrittura, letta nella sua totalità e unità e interpretata alla luce del canone di verità rappresentato dalla predicazione degli apostoli, Ireneo narrò con grande passione l'esperienza di fede della chiesa, che si tramanda di generazione in generazione come un deposito che ringiovanisce.
Per Ireneo la fede cristiana è la fede in un Padre buono, che non ha abbandonato l'uomo, sua creatura, ma che ha continuato a parlargli e a prepararlo alla salvezza recata dall'incarnazione del Figlio.
Ireneo testimoniò nei suoi scritti, che sono anche i primi esempi di teologia cristiana, la bontà delle realtà create e dell'uomo, immagine e somiglianza di Dio, chiamato a diventare la gloria di Dio sulla terra. Prima di morire si adoperò per riconciliare le chiese d'oriente e d'occidente, divise sulla data di celebrazione della Pasqua, dando un ulteriore segno della propria totale dedizione alla riconciliazione. La riconciliazione di ogni creatura, ricapitolata in Cristo, del resto, era per Ireneo il cuore del lieto annuncio cristiano.

Tracce di lettura

Coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore. Allo stesso modo, coloro che contemplano Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica!
Perciò il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi economie, mostrando Dio agli uomini e presentando l'uomo a Dio: salvaguardando l'invisibilità del Padre affinché l'uomo non divenisse disprezzatore di Dio e avesse sempre un punto verso il quale progredire, ma nello stesso tempo mostrando Dio visibile agli uomini per mezzo delle molte economie, affinché l'uomo, privo totalmente di Dio, non cessasse di esistere.
Infatti la gloria di Dio è l'uomo vivente, e la vita dell'uomo è la manifestazione di Dio. Ora se la manifestazione di Dio che avviene attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, molto più la manifestazione del Padre mediante il Verbo darà la vita a coloro che contemplano Dio
(Ireneo di Lione, Contro le eresie 4,20,5-7).



Ireneo di Lione (+ ca 202), vetrata di Lucien Bégule (1901), Chiesa di S. Ireneo, Lione

Fermati 1 minuto. La comunione ritrovata

Lettura

Matteo 8,1-4

1 Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. 2 Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi a lui dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi». 3 E Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii sanato». E subito la sua lebbra scomparve. 4 Poi Gesù gli disse: «Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va' a mostrarti al sacerdote e presenta l'offerta prescritta da Mosè, e ciò serva come testimonianza per loro».

Commento

Sotto il termine di lebbra, nell'Antico Testamento, venivano indicati diversi tipi di lesioni e imperfezioni sia della pelle umana che di stoffe, pelli o pareti domestiche. Essendo considerata la lebbra uno dei sintomi più gravi dell'impurità e tale perciò da comportare l'esclusione dalla comunità ebraica il lebbroso chiede a Gesù non semplicemente di essere guarito ma di purificarlo (gr. katharizai). Toccandolo, e contravvenendo in questo modo alle prescrizioni giudaiche (Lv 5,3), Gesù lo restituisce alla vita sociale. Il fine della legge è infatti il bene dell'uomo (Mc 2,27).

Mentre nel successivo miracolo descritto da Matteo, quello per la guarigione del servo del centurione, Gesù opera a distanza, nel caso del lebbroso questi necessita di un contatto fisico, che gli era stato negato durante la sua infermità.

Il lebbroso non ha alcun dubbio sulla capacità di Gesù di guarirlo, ma solo sulla sua volontà: "Signore, se tu vuoi puoi sanarmi" (v. 2).

L'intimazione al lebbroso di non dire ad alcuno della sua guarigione è dovuta alla necessità di Gesù, in questa fase del suo ministero, di non attirare l'ostilità delle autorità religiose e di non attirare l'attenzione delle folle sui suoi miracoli, ma sul contenuto della sua predicazione. Ma è anche la testimonianza per noi che ci sono miracoli che Dio compie nelle nostre vite che devono restare nel segreto del nostro rapporto intimo con lui.

Gesù invita il lebbroso sanato a far comprovare al sacerdote l'avvenuta guarigione e a suggellarla con l'offerta prescritta (Lv 14,1-33).

Anche noi siamo chiamati a riconoscere il nostro bisogno di guarigione da quelle lacerazioni che ci allontanano dalla comunione con Dio e con il prossimo; e per questo come il lebbroso dobbiamo compiere un atto di fede nella potenza di Cristo, affidandoci alla sua libertà, che non può che volere il nostro bene.

Preghiera

Signore Gesù, stendi la tua mano sulle nostre piaghe; affinché restituiti alla salute dell'anima e del corpo possiamo lodarti e ritrovare la comunione fraterna con il nostro prossimo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 27 giugno 2024

Fermati 1 minuto. Dare solidità alla parola

Lettura

Matteo 7,21-27

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? 23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. 24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. 26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

Commento

La parabola dell'uomo stolto e dell'uomo saggio, conclude il "Discorso della montagna", nel quale è racchiusa l'essenza del vangelo. Gesù spiega come riconoscere il vero credente. La fede che non porta frutto è incredulità. 

Ma i frutti della fede non consistono nel compiere opere soprannaturali, miracoli e profezie, che presi di per sé non hanno alcun valore. Neanche la lode e la supplica - "Signore! Signore!" (v. 21) - contano qualcosa senza la conversione. Il vero frutto della fede consiste nel compiere la volontà di Dio, mossi dalla carità. 

Come afferma l'apostolo Paolo "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna" (1 Cor 13,1). Quando riconosciamo Cristo solo a parole non siamo tanto diversi da coloro che lo dileggiavano esclamando sotto la croce "Salve! Re dei giudei!" (Gv 19,3). 

La grazia e la carità conducono gli uomini alla salvezza senza che compiano miracoli, mentre il compiere miracoli non ha mai salvato nessuno senza la grazia e la carità. Solo chi costruisce sulla salda roccia che è Cristo e non chi confida in se stesso può resistere alle prove della fede, che saranno tante in questa vita: "Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16,33).

Non è abbastanza ascoltare le parole del Vangelo, comprenderle, ricordarle, ripeterle e disputare su di esse. Dobbiamo essere capaci di "dare solidità" alla parola, facendoci costruttori della chiesa di Cristo e affidando le sue fondamenta non alla sabbia della nostra umana povertà ma alla roccia della sua grazia.

Preghiera

Signore, donaci la beatitudine di essere tra coloro che ascoltano la tua parola e la osservano, per essere pietre vive nell'edificio della tua chiesa. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 26 giugno 2024

Mari, disseminatore di comunità cristiane in oriente

Il secondo venerdì d'estate, la chiesa caldea e quella assira ricordano mar Mari, apostolo della Siria, della Mesopotamia e della Persia.
Le fonti che narrano la vita di Mari, discepolo di Addai, che sarebbe stato il primo dei settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, sono tardive e contraddittorie. Con esse ciò che si vuole tuttavia ricordare e affermare è l'origine antichissima delle chiese siro-orientali.
Secondo la tradizione, Mari fu scelto da Addai per continuare la sua missione evangelizzatrice nell'oriente, risalente all'apostolo Tommaso. Ricevuto tale mandato, egli percorse la Mesopotamia orientale, spingendosi a predicare sino ai contrafforti dell'altopiano dell'Iran e fondando oltre 300 comunità cristiane.
A lui si deve la fondazione delle sedi episcopali di Nisibi, di Kaškar e l'evangelizzazione della regione di Seleucia-Ctesifonte.
Ad Addai e Mari è attribuita una delle più antiche anafore eucaristiche, tuttora in uso nelle liturgie siro-orientali.
I due apostoli sono ricordati insieme in varie regioni orientali, in date che variano da una zona all'altra; la festa più importante è forse quella che si celebra in Iraq e in Kurdistan il 5 di agosto, con una ricca liturgia propria.

L'Anafora di Addai e Mari

L'anafora di Addai e Mari è un'antica preghiera eucaristica cristiana, caratteristica della Chiesa d'Oriente.

Attribuita dalla tradizione a Taddeo di Edessa e Mari, discepoli di san Tommaso apostolo e santi del I secolo, risale al III secolo secondo la maggioranza degli studiosi.

Ha la peculiarità di non contenere in modo coerente e ad litteram le parole dell'istituzione dell'eucaristia da parte di Gesù Cristo ("Questo è il mio corpo", "questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza..."). Sono presenti invece "in modo eucologico disseminato, ossia integrate nelle preghiere di rendimento di grazie, di lode e di intercessione". Si riportano tre passaggi interessanti: "[...] abbiamo ricevuto per tradizione l'esempio che viene da te, rallegrandoci, glorificando, esaltando, facendo memoria e celebrando questo mistero grande e terribile [...] nella memoria del corpo e del sangue del tuo Cristo, che noi offriamo a te sull'altare puro e santo, come tu ci hai insegnato, [...] sacramento vivificante e divino che io posso amministrare al tuo popolo, il gregge del tuo pascolo".

Nel 2001 la Chiesa cattolica ha riconosciuto la validità dell'anafora di Addai e Mari - sostenuta da una tradizione ininterrotta risalente all'epoca post-apostolica - nel contesto della possibilità di intercomunione, in caso di necessità pastorale, tra i fedeli della Chiesa assira d'Oriente e la Chiesa cattolica caldea.

Monastero di Bose - Preghiera - Page #176
Addai e Mari (I-II sec.)

Fermati 1 minuto. I frutti buoni della fede

Lettura

Matteo 7,15-20

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. 16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? 17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. 20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

Commento

I discepoli di Gesù che dichiaravano di parlare in nome di Dio erano chiamati profeti (cfr. Mt 10,4; 23,34). Come nell'Antico Testamento, accanto ai profeti veri, ci sono però quelli falsi: la differenza sta nella qualità dei loro "frutti" (v. 16), cioè nella bontà o nella malvagità delle loro azioni.

I falsi profeti sono coloro che propongono la via larga, che conduce a perdizione (Mt 7,13-14). Gesù insegna che non tutti coloro che dichiarano di far parte della comunità dei credenti sono tali. Alcuni sono come lupi tra le pecore, case che appaiono simili ma hanno differenti fondamenta (Mt 7,21-27), zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24), vergini stolte tra le sagge (Mt 25,1-13), servi malvagi tra i buoni (Mt 25,14-30).

Il punto di riferimento per giudicare i profeti e i loro frutti sono le Scritture. Nessuna forma di gerarchia, nella Chiesa, può porsi al di sopra della loro autorità.

I frutti buoni sono la testimonianza di una fede viva ed efficace. Come ammonisce l'apostolo Giacomo "Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede" (Gc 2,18).

Ma se le buone opere sono espressione della fede, questa richiede di essere pazientemente coltivata, proprio come un albero "che darà frutto a suo tempo" (Sal 1,3). Non temiamo, dunque, la prova dell'inverno, la necessaria potatura per migliorare la crescita; attendiamo con speranza, davanti ai rami ancora spogli, l'apparire dei primi germogli; gustiamo e condividiamo, finalmente, i frutti, quando questi saranno giunti a piena maturazione.

Preghiera

Signore, vieni e visita la tua Chiesa, albero che la tua destra ha piantato; vivificalo con la tua grazia e insegnaci a prendercene cura. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 25 giugno 2024

Massimo di Torino. Nessuno diceva propria qualche cosa

La Chiesa cattolica d'Occidente celebra oggi la memoria liturgica di Massimo di Torino, vescovo e padre della Chiesa. Di lui si hanno scarsissime notizie. Nato sicuramente nel IV secolo in un'imprecisata provincia settentrionale italiana dell'impero romano, viene storicamente considerato il fondatore della Archidiocesis Taurinensis. Già discepolo di sant'Eusebio di Vercelli e di sant'Ambrogio da Milano, guidò la diocesi della allora Julia Augusta Taurinorum tra il 390 e il 420, nel difficile periodo delle invasioni barbariche.
Il suo impegno si concentrò prevalentemente sulla lotta contro la pratica della simonìa e del paganesimo. A tal proposito è ricordato per aver fatto erigere, probabilmente sui resti di un precedente tempio pagano, una piccola chiesa dedicata a Sant'Andrea dai cui resti, nel XII secolo, sorse la celebre chiesa della Consolata.
Massimo divenne inoltre conosciuto per i suoi numerosi sermoni, oggi raggruppati in un'edizione critica curata da A. Mutzenbecher. Nelle sue omelìe, tra l'altro, accennò sovente ai primi martiri di Torino, i santi Avventore, Ottavio e Solutore le cui reliquie sono conservate a Torino. La data della morte è incerta: viene fissata intorno al 420. Secondo la cronotassi dell'Arcidiocesi di Torino il suo successore fu il vescovo Massimo II.
Alcune sue reliquie sono conservate nella basilica di San Massimo a Collegno, alle porte di Torino, una delle più antiche chiese cristiane del Piemonte che, molto probabilmente, fu sede vescovile dello stesso Massimo. Per lungo tempo si è creduto che la chiesa ospitasse anche la tomba del protovescovo ma ripetuti scavi archeologici effettuati nel XIX secolo hanno smentito questa ipotesi. Sempre nel XIX secolo la municipalità di Torino gli intitolò una via del centro storico e l'arcidiocesi gli dedicò una chiesa, in essa ubicata e consacrata nel 1853.
A lui è dedicata la chiesa ortodossa di San Massimo ai piedi della collina torinese.

Tracce di lettura

Al tempo degli apostoli fu così grande la dedizione del popolo cristiano, che nessuno diceva sua la propria casa, nessuno rivendicava come propria qualche cosa, come afferma san Luca quando dice: «E nessuno diceva suo proprio qualcosa di ciò che possedeva, ma tutto era loro comune. Nessuno tra essi era nel bisogno». Beato dunque il popolo, che mentre ha molti ricchi in Cristo, non ha alcun bisognoso nel mondo e che, mentre pensa alle ricchezze eterne, allontana dai fratelli la povertà temporale.
(Massimo di Torino,  Sermoni 17).

- Fonti: Wikipedia; Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Maximus Taurinensis.JPG
Massimo di Torino (?-420)

Fermati 1 minuto. Il decentramento necessario

Lettura

Matteo 7,6.12-14

6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; 14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

Commento

I maiali e i cani sono considerati animali impuri dagli ebrei. Il principio per cui le cose sante non vanno date ai cani (v. 6) è la ragione per cui Gesù non compie miracoli per coloro che non credono (Mt 13,58). Ciò non contraddice l'amore per i nemici e la preghiera per i persecutori (Mt 5,44). Le cose sante e le perle rappresentano il principio di correzione fraterna, dopo che il discepolo ha rimosso "la trave" dal proprio occhio. Non dobbiamo astenerci dal predicare il vangelo anche ai malvagi e agli uomini profani, come attesta la predicazione di Gesù ai pubblicani e ai peccatori, ma di fronte a un cuore indurito il discepolo è esortato a scuotere la polvere dai propri piedi e rivolgersi altrove (Mt 10,14).

"Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (v. 12) è la "Regola d'oro", presente prima di Cristo nei testi rabbinici, così come nei testi sacri induisti e buddhisti. Spesso in queste fonti è presente nella sua forma negativa "Non fare agli altri ciò che non faresti a te stesso". Privilegiando la forma positiva Gesù sottolinea che questo comandamento rappresenta un sommario e l'essenza dei principi etici contenuti nella Legge mosaica e negli scitti profetici.

Anche la metafora delle "due vie" - una che conduce alla vita, l'altra alla morte - ricorre nella filosofia e mella mitologia pagana (es. Ercole al bivio) e nell'Antico testamento (cfr. nel Sal 1; Dt 30,15). In questo contesto assume un orientamento escatologico. La porta stretta e la via angusta sono difficili da attraversare perché rappresentano la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo.

Tutti possiamo entrare nella vita, ma si tratta di un percorso esigente, che richiede impegno, abnegazione, rinuncia al proprio egoismo, il decentramento necessario per assumere la prospettiva dell'altro da sé.

Preghiera

Guidaci, Signore, sulla via della vita e rendici testimoni fedeli della tua Parola, mediante la rigenerazione nella tua morte e risurrezione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 24 giugno 2024

Nascita di Giovanni il Battista, frutto della promessa

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la natività di Giovanni il Battista, profeta e precursore del Signore.

Figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta la sterile, Giovanni è frutto della promessa di Dio e annuncia i tempi messianici in cui la sterile diventa madre gioiosa di figli e la lingua dei muti si scioglie nella lode profetica. Con lui rivive la profezia e si fa più urgente il richiamo alla conversione rivolto da Dio al suo popolo.

Secondo la parola dell'angelo, Giovanni venne con lo spirito e la forza di Elia per preparare al Signore un popolo ben disposto. Egli visse nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele e lì, nella solitudine e nel silenzio, nell'ascesi e nella preghiera, si preparò alla sua missione.
Insieme a Gesù, il Battista è l'unico personaggio di cui il Nuovo Testamento narri la nascita, ed è l'unico santo celebrato dalla chiesa antica con più feste durante l'anno.

Quando nel IV secolo la nascita di Gesù venne fissata nel solstizio d'inverno, quella di Giovanni venne posta nel solstizio d'estate per rispettare la lettera del racconto evangelico. La coincidenza con il solstizio d'estate e l'inizio dell'accorciarsi delle giornate è stata vista dai padri come una conferma delle parole di Giovanni e della sua testimonianza al Cristo: «Egli deve crescere e io invece diminuire».
Asceta vissuto nel deserto, Giovanni è diventato ben presto il modello del monachesimo nascente ed è sempre stato venerato con particolare amore dai monaci, che nell'ascesi, nel silenzio, nella preghiera e nell'assiduità alle Scritture cercano di predisporre ogni cosa per poter accogliere Dio nelle loro vite.

Tracce di lettura

Annunciazione, concepimento, santificazione e nascita di Giovanni ci sono presentate in parallelo ad annunciazione, nascita, consacrazione di Gesù, e con questi dittici dei capitoli 1 e 2 del suo vangelo, con questi eventi della preistoria di Giovanni e di Gesù, Luca ci mostra che anche nell'infanzia Giovanni è stato il precursore del Messia ... Poi il silenzio del vangelo su Giovanni come su Gesù: Giovanni vivrà nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele, Gesù vivrà soggetto a Maria e Giuseppe a Nazaret. Per entrambi è il nascondimento, la crescita, la preparazione alla missione, al dies ostensionis ad Israel.
(E. Bianchi, Amici del Signore).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. La migliore versione di noi stessi

Lettura

Luca 1,57-66.80

57 Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58 I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei. 59 All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. 60 Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61 Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62 Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65 Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66 Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui. 80 Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

Commento

Il più grande conforto che possiamo avere dai nostri figli è di metterli nelle mani di Dio. Per questo la circoncisione, che è stata sostituita, nella nuova alleanza, dal battesimo cristiano, diviene occasione di gioia più grande della stessa nascita. 

L'usanza giudaica era quella di dare nome al bambino proprio in occasione della circoncisione, così come Abramo ricevette un nome nuovo dopo aver sancito l'alleanza con Dio mediante questo segno esteriore. Il Signore, infatti, chiama per nome coloro che sono affidati a lui, il che significa che non è solo genericamente il Dio del popolo dei salvati, ma il Padre di ciascuno di noi, che così possiamo chiamarlo in virtù del rapporto personale e filiale che abbiamo con lui. 

Questo rapporto, insito in un "nome nuovo", unico, che ci viene attribuito è ben rappresentato dal contenzioso tra Elisabbetta e gli amici e parenti giunti per assistere alla circoncisione di Giovanni. Questi suggeriscono di chiamarlo Zaccaria, come il padre, ma lei si oppone e mossa dallo Spirito Santo afferma risolutamente che si chiamerà Giovanni.

Comunicando con Zaccaria mediante segni, i vicini e parenti ottengono anche da lui la risposta scritta che il bambino dovrà chiamarsi Giovanni. Muto e sordo, Zaccaria non può fare a meno di esprimere la volontà di Dio. Quando lo Spirito parla sa come farsi sentire. Così affermerà Gesù, quando i farisei rimprovereranno la folla esultante al suo ingresso a Gerusalemme: "se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19,40). 

Compiuta la volontà di Dio sul bambino la lingua di Zaccaria si scioglie in un canto di lode. Giovanni susciterà meraviglia e la sua fama si spargerà per le regioni circostanti fin dall'infanzia, anticipando quella che otterrà con l'inizio del suo ministero profetico, quando folle di peccatori verranno a lui in cerca di conversione. Ci si sarebbe aspettato di vedere Giovanni sacerdote come suo padre. Ma i piani di Dio per lui erano altri. Egli sarebbe diventato un profeta. Il più grande dei profeti.

Dio ci ama nella nostra specificità e ha un piano di salvezza e di santità particolari per ognuno di noi. Chiediamogli la grazia per imparare ad essere la migliore versione di noi stessi, piuttosto che la brutta copia di qualche santo.

Preghiera

O Dio, che ci chiami per nome, rivelaci la tua volontà ed effondi su di noi il tuo Spirito, affinché possiamo portarla a compimento a lode del tuo Nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 23 giugno 2024

Tutto il mondo creato è in travaglio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, protezione di tutti coloro che confidano in te, senza il quale non c’è nulla di forte, nulla di santo; accresci e moltiplica su di noi la tua misericordia; affinché con te come guida e governatore, possiamo passare attraverso le cose temporali senza perdere le cose eterne. Concedici questo, o Padre celeste, per l’amore di Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Rm 8,18-23; Lc 6,36-42

Commento

Gesù ci comanda di essere misericordiosi come il Padre (Lc 6,36) e di perdonare il nostro prossimo, perché noi per primi siamo stati perdonati. Nessuno di noi può pensare di non avere avuto bisogno e di non avere continuamente bisogno del perdono di Dio.

Come afferma San Paolo nella Lettera ai Romani, citando i Salmi (Sal 14,3 e 53,1-3): “non c’è alcun giusto, neppure uno” (Rm 3,10). Per questo nella preghiera che ci ha insegnato Gesù chiediamo al Padre di rimetere i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Il comandamento della misericordia scandalizza, perché ci è più facile pensare a una giustizia di Dio strettamente retributiva, che punisce i peccatori e premia i giusti. È più facile pensare di esserci meritati un premio da parte di Dio, piuttosto che pensare alla gratuità della salvezza. Una gratuità che lungi dall’istigarci all’irresponsabilità ci esorta alla riconoscenza e dunque alla rettitudine come risposta al bene che Dio ci ha mostrato per primo e come imitazione del suo agire nel mondo.

Fu proprio nel predicare la misericordia di Dio che Gesù incontrò le maggiori contestazioni e ostilità. Anche perché la sua predicazione non si fermava alle parole, ma si concretizzava in gesti che determinavano una rottura con le pratiche legalistiche del tempo: egli guarisce di sabato, tocca i lebbrosi mosso da compassione, mangia con le prostitute e i pubblici peccatori.

Siamo tutti feriti dal peccato; e anche il nostro occhio è ferito dal peccato. per questo spesso non sappiamo vedere le cose come le vede Dio. Nella misura in cui saremo in grado di comprendere quanto siamo noi per primi bisognosi del perdono del Padre saremo capaci di donare perdono e misericordia al nostro prossimo e mostrarci compassionevoli verso l’intera creazione, che geme attendendo la manifestazione dei figli di Dio (Rm 8,19). 

La perfezione non è solo qualcosa da cui siamo decaduti e che ricordiamo con nostalgia, ma una mèta cui la coscienza tende come in una visione profetica, animata dalla speranza e guidata dallo Spirito.

Il messaggio evangelico ci dona la buona notizia che il Signore fa nuove tutte le cose, restaurando in noi la sua immagine e chiamandoci a curare le ferite di ogni uomo.

Cristo ci chiede di operare attivamente per riportare nel mondo pace e riconciliazione, tra l'uomo e Dio, tra uomo e uomo e tra l'uomo e l'intera realtà creata.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 22 giugno 2024

John Fisher e Thomas More, martiri riabilitati dalla Chiesa d'Inghilterra

In questo giorno, nel 1535, muore decapitato dopo essere stato rinchiuso nella torre di Londra John Fisher, professore all'università di Cambridge e vescovo di Rochester.
Nato nel 1469, Fisher fu un umanista e un teologo molto apprezzato. Di lui Erasmo diceva: «Non c'è uomo più colto né vescovo più santo». Pastore in una delle più piccole e povere diocesi d'Inghilterra, Fisher amò e servì con ogni cura il piccolo gregge che gli era stato affidato.

John Fisher - Wikipedia
John Fisher (1469-1535)

Sempre a Londra, due settimane dopo John Fisher, il 6 luglio 1535 sale sul patibolo sir Thomas More.
Nato nella capitale inglese il 6 febbraio 1478, dopo gli studi di diritto e un periodo di discernimento di quattro anni trascorso in una certosa, Thomas si era avviato alla carriera politica, fino a diventare deputato nel 1504. Grande amico di Erasmo, che lo definì «modello per l'Europa cristiana», Thomas, un gradino dopo l'altro, era asceso fino alla carica di Gran cancelliere del sovrano d'Inghilterra.

Thomas More (1478-1535)

La fedeltà di More e Fisher al re trovò però un ostacolo nei passi intrapresi da quest'ultimo per divorziare e trasmettere i diritti di successione ai figli della seconda moglie, Anna Bolena. L'atto decisivo, tuttavia, al quale entrambi rifiutarono di sottomettersi e che pagarono con il martirio, è l'Atto di supremazia, nel quale il re veniva riconosciuto come capo supremo sulla terra della chiesa d'Inghilterra.
Gli scritti dal carcere dei due martiri inglesi, soprattutto le lettere di Thomas More, sono tra le più alte testimonianze della spiritualità cristiana. Nutriti da un dialogo costante con il Signore nell'intimo della coscienza, More e Fisher mostrarono fino all'ultimo grande carità e misericordia verso i loro persecutori.
La testimonianza estrema al vangelo resa da More e Fisher è ricordata anche dalla Chiesa d'Inghilterra, che ne celebra la memoria il 6 di luglio.

Tracce di lettura

Finché sarò su questa terra, la mia condotta non potrà che dar modo al re di persuadersi a pensare il contrario di quel che pensa ora: di più non posso, se non rimettere tutto nelle mani di Colui, nel timore del cui sfavore, nella difesa dell'anima mia guidata dalla mia coscienza (senza rimproveri o biasimi per quella di nessun altro) io soffro e sopporto questo tormento. Io lo supplico di condurmi, quando a Lui piacerà, lontano dall'afflizione del tempo presente nella sua felicità eterna del cielo, e nel frattempo di dare a me e a voi a me cari la grazia di rifugiarci, devotamente prostrati, nel ricordo di quell'amara agonia che il nostro Salvatore patì sul monte degli Ulivi prima della sua passione. E se faremo questo con amore, credo proprio che vi troveremo gran conforto e consolazione.
(Thomas More, Lettera 59 a Margaret Roper)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

giovedì 20 giugno 2024

Nicola Cabasilas e la vita in Cristo

Le chiese ortodosse ricordano oggi Nicola Cabasilas, teologo laico autore di alcuni fra i più importanti trattati spirituali del cristianesimo bizantino.
Nicola era nato a Tessalonica attorno al 1322, in una importante famiglia della borghesia tessalonicese. Educato alla preghiera del cuore presso un discepolo di Gregorio Palamas, egli ricevette un'eccellente formazione giuridica e letteraria nella scuola di filosofia di Costantinopoli, tanto da essere stimato uno dei massimi umanisti bizantini.
Trovatosi a vivere in un periodo di gravi tensioni politiche ed ecclesiali, Nicola ebbe spesso una parte importante nei tentativi di ricomposizione delle beghe di corte e poi delle controversie sorte attorno agli insegnamenti degli esicasti athoniti.
Autore di importanti trattati sulla giustizia sociale e contro l'usura, con l'elezione di Callisto I a patriarca di Costantinopoli, che sembrò favorire tempi migliori nel mondo bizantino, Cabasilas decise di ritirarsi dall'impegno pubblico, e mise al servizio dei suoi contemporanei la propria profonda maturità umana e spirituale. Nella quiete e nel silenzio, egli scrisse L'interpretazione della santa liturgia e La vita in Cristo, veri e propri manuali di spiritualità accessibili al cristiano comune, chiamato a santificarsi nella vita di ogni giorno grazie ai sacramenti e alla preghiera, mediante i quali, secondo Cabasilas, ogni credente può accogliere Cristo nel proprio cuore.
Nicola si spense tra il 1391 e il 1397 senza lasciare alcuna testimonianza riguardo agli ultimi anni della sua vita.
La sua canonizzazione da parte del patriarcato di Costantinopoli risale solo al 1983.

Tracce di lettura

La grazia infonde la carità vera nell'anima degli iniziati ai misteri: quale sia poi la sua operazione in loro e quale esperienza doni, lo sanno coloro che l'hanno conosciuta.
In linea di massima si può dire che la grazia infonde nell'anima la percezione dei beni divini: dando a gustare grandi cose, ne fa sperare di ancora più grandi e, fondandosi sui beni già ora presenti, ispira ferma fede in quelli ancora invisibili.
La nostra parte invece è di custodire la carità. Non basta semplicemente incominciare ad amare e accogliere in sé questa passione: bisogna conservarla e alimentarne il fuoco perché duri. Ora restare nell'amore, nel quale è ogni beatitudine, significa appunto restare in Dio e possederlo dimorante in noi: «Chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui»; ma questo si realizza, e l'amore è ben radicato nella nostra volontà, quando vi giungiamo mediante l'osservanza dei comandi e delle leggi dell'Amato ...
Perciò il Salvatore dice: «Se osserverete i miei comandi, rimarrete nel mio amore». La vita beata è frutto di questo amore. L'amore infatti concentra la volontà dispersa da ogni dove, la distacca da tutte le altre cose e dallo stesso io volente, per farla aderire al Cristo solo.
(Nicola Cabasilas, La vita in Cristo 7,6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Gesù maestro di preghiera. Commento al Padre nostro

Lettura

Matteo 6,7-15

7 Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. 8 Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. 9 Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
10 venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
14 Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Commento

Prima di offrirci un modello perfetto di preghiera con il "Padre nostro" Gesù ci esorta a essere parsimoniosi nelle parole da utilizzare. Il rapporto con Dio deve essere filiale, e quindi improntato a semplicità di cuore. Lo sproloquiare (gr. battalogeo, chicchierare) può essere riferito all'abitudine dei pagani di recitare una lunga lista di nomi divini. Nella nostra preghiera dobbiamo stare attenti a comprendere quel che diciamo e a dire solo ciò che scaturisce dal profondo del nostro cuore.

Eviteremo dunque la ripetizione di formule senza prestare attenzione, ma ciò non costituisce una proibizione contro la preghiera insistente, alla quale ci esorta, ad esempio, la parabola dell'amico importuno (Lc 11,5-8). Gesù stesso prega ripetendo le stesse parole nell'orto degli ulivi: "lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole" (Mt 26,44). Non è dunque condannata la ripetizione di parole ma la vana ripetizione. Neanche è condannata la preghiera che si protrae a lungo. Gesù prega tutta la notte (Lc 6,2) ed esorta i suoi discepoli a pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1).

La preghiera del Padre nostro comprende tutte le nostre reali necessità e tutto ciò che è legittimo chiedere. Era entrata sicuramente a far parte della liturgia già al tempo in cui Matteo scrive, ma lungi dal rappresentare una semplice formula è un modello di brevità, semplicità e completezza, che dovrebbe ispirare ogni altra preghiera. Delle sei petizioni tre sono rivolte a Dio e tre riguardano le necessità dell'uomo. Gesù ci esorta infatti a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, perché tutte le altre cose ci saranno date in aggiunta (Mt 6,33). 
Le richieste per le necessità umane sono tutte rivolte al plurale, a indicare che dobbiamo pregare gli uni per gli altri, in un vincolo di comunione.

Le prime parole della preghiera rivelano la natura intima di Dio: Egli è padre; e noi possiamo chiamarlo Padre perché in Cristo abbiamo ricevuto lo spirito di adozione a figli. Lo Spirito stesso intercede nella nostra preghiera, con gemiti inesprimibili (Rm 8,26), gridando "Abbà, Padre" (Gal 4,6).

Il primo atto della preghiera è un atto di adorazione: "sia santificato il tuo nome" (v. 9). Tutte le altre richieste devono essere subordinate a questa e devono avere come unico scopo questa. Santificare (gr. hagiazo) il nome di Dio può essere inteso come un atto di ossequio e obbedienza; ma è anche una invocazione affinché Dio santifichi il suo stesso nome, manifestando la sua potenza e la sua gloria con l'avvento del suo regno. Nella supplica che segue (v. 10) si chiede infatti che il regno, predicato da Cristo e dai suoi apostoli, giunga a compimento sulla terra, così come è realizzato perfettamente in cielo.

"Sia fatta la tua volontà" esprime la necessità che ogni richiesta sia sottomessa ai piani e alla gloria di Dio. Con questa invocazione chiediamo che in questo mondo, deturpato dal maligno, prevalga la volontà di Dio, che lo rende simile al Cielo.

Gesù ci invita a chiedere al Padre che ci doni il pane quotidiano (v. 11). Non che ce lo venda, né che ce lo presti, ma che ce lo dia per la sua misericordia. La nostra sopravvivenza, materiale e spirituale, dipende dalla grazia di Dio.
L'aggettivo greco epiousios viene comunemente tradotto con "quotidiano", a indicare il nutrimento materiale essenziale per il nostro sostentamento. Ma il termine potrebbe anche essere reso con "futuro", assumendo una connotazione escatologica e venendo a significare il pane del giorno che verrà, il pane del regno, tanto desiderato e ora urgentemente atteso ("dacci oggi"). Con queste parole chiediamo dunque anche il pane che nutre il nostro spirito, il pane sacramentale e la grazia di Dio, con cui riceviamo Cristo, il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51).

La richiesta di rimettere, letteralmente "lasciar andare", i debiti (v. 12), ovvero i peccati contratti verso Dio, è correlata al perdono nel giudizio finale. Chiediamo di essere perdonati come noi perdoniamo ai nostri debitori, non comportandoci come il servo al quale fu condonato molto dal suo padrone ma che non ebbe pietà del suo conservo (Mt 18,21-35).

Gesù ci esorta a chiedere di non essere introdotti nella tentazione (v. 13); questo il senso traslato della parola greca eisphero, che significa "portar dentro" Tenendo conto quanto afferma Giacomo nella sua lettera, dove è detto che "Dio non tenta nessuno al male" (Gc 1,13) si arriva alla conclusione che non è Dio l'agente attivo della tentazione, sebbene l'esempio di Giobbe dimostra che egli può mettere l'uomo alla prova esponendolo all'azione di Satana. Ciò che si chiede al Padre è di essere preservati dalle tentazioni, che qui possono essere riferite sia ai peccati che alle più generali prove della fede. Nel contesto escatologico dominante di questo passo il senso potrebbe essere anche quello di chiedere a Dio di risparmiare ai discepoli le prove e le persecuzioni che precedono la fine dei tempi. 

Il termine greco hò poneròs indica il male, da cui si chiede di essere liberati; è chiaramente maschile e sta a indicare il Maligno, a causa del quale il peccato e la morte sono entrati nel mondo.

Esortandoci a perdonare per essere perdonati (vv. 14-15), Gesù non condiziona la nostra giustificazione alle nostre opere. La grazia che ci è stata accordata dal sangue di Cristo e che trova espressione nel segno sacramentale del Battesimo ci ha purificati completamente dal peccato, ma qui siamo invitati a chiedere a Dio e concedere al nostro prossimo una remissione dei peccati quotidiani, come un lavacro parziale: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo" (Gv 13,10). Con le parole a commento della sua preghiera (v. 14) Gesù attesta che egli è venuto nel mondo non solo per riconciliarci con il Padre ma anche per riconciliarci l'un l'altro.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, insegnaci a pregare; perché possiamo crescere in santità e sapienza in un continuo dialogo con il nostro Padre che è nei Cieli. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 19 giugno 2024

Romualdo e il monachesimo integrale

La singolarissima vicenda umana e spirituale di Romualdo, animatore dell'eremitismo nell'Italia centrale e settentrionale all'alba del secondo millennio, è stata tramandata dalla Vita dei cinque fratelli del suo amico Bruno di Querfurt, ma soprattutto dalla Vita del beato Romualdo scritta pochi anni dopo la morte di Romualdo da Pier Damiani.
Romualdo nacque a Ravenna verso la metà del X secolo, da una famiglia nobile. Dopo tre anni di vita benedettina abbandonò il monastero ravennate di Sant'Apollinare in Classe con il proposito di ritrovare la solitudine e il rigore del monachesimo egiziano testimoniato dalle Vite dei padri e dalle Conferenze di Cassiano. Ispirandosi a questi testi, con alcuni compagni egli cercò di mettere in pratica i principi di un'ascesi più ordinata rispetto a quella dei solitari del suo tempo, basandola sul lavoro manuale, il totale distacco dal mondo, la stabilità nella cella, la familiarità con la Scrittura, le veglie e il digiuno.
Uomo di lacrime e di preghiera, Romualdo unì al rigore dell'insegnamento un'anima appassionata, capace di grande calore umano e di intenso affetto. Egli visse circa dieci anni nei pressi del monastero di San Michele di Cuxa, nei Pirenei, dando vita ad una colonia di eremiti. Tornato in Italia, Romualdo fu chiamato a riformare la vita monastica e a fondare numerosi eremi, incontrando incomprensioni e ostilità.
Delle sue numerose fondazioni sono sopravvissute fino a oggi con alterne vicende quelle di Camaldoli e di Fonte Avellana.
La congregazione camaldolese coniuga la dimensione comunitaria e quella solitaria, espressa, architettonicamente, dalla presenza sia dell'eremo sia del monastero. Questa comunione di vita comunitaria ed eremitica è espressa anche nello stemma, formato da due colombe che si abbeverano a un solo calice. Il cenobio, dotato di una sua autonomia, può costituire una tappa di preparazione alla vita eremitica. L'Ordine prevede anche, per chi ne senta la vocazione, l'aspetto missionario di evangelizzazione presso le genti. Quest'ultimo aspetto conferisce oggi all'Ordine camaldolese una grande apertura al dialogo ecumenico e interreligioso.
Romualdo morì nel silenzio e nella solitudine con Dio, cui aveva sempre anelato e che aveva inseguito attraverso mille peripezie, nel monastero di Val di Castro, il 19 giugno del 1027.

Tracce di lettura

Siedi nella tua cella come in paradiso; scaccia dalla memoria il mondo intero e gettalo dietro le spalle, vigila sui tuoi pensieri come il buon pescatore vigila sui pesci. Unica via, il salterio: non distaccartene mai. Se non puoi giungere a tutto, dato che sei qui pieno di fervore novizio, cerca di penetrarne il senso spirituale almeno in alcuni punti, e quando leggendo comincerai a distrarti non smettere, ma correggiti subito cercando il senso di quel che hai davanti.
Poniti anzitutto alla presenza di Dio con timore e tremore; annullati totalmente e siedi come un pulcino contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo nonché di procurarsene.
(parole di Romualdo in Bruno di Querfurt, Vita dei cinque fratelli 32)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Icona di GIOVANNI MEZZALIRA, tempera all’uovo su tavola telata e gessata, cm 30 x 40
San Romualdo (+ 1027)

Fermati 1 minuto. Quale mèta rincorriamo?

Lettura

Matteo 6,19-23

19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; 20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. 21 Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
22 La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; 23 ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

Commento

L'accumulo di tesori "in cielo" (v. 20) ha a che fare con l'utilizzo dei beni terreni guidati da spirito di carità e condivisione.

Agire cristianamente nell'amministrare i beni terreni significa praticare l'elemosina, digiunare e vivere con sobrietà confidando in Dio nella preghiera, come raccomandato da Gesù stesso (Mt 6,1-18).
Se la manna stessa, cibo disceso dal cielo, messa in serbo per il giorno successivo "fece i vermi e si imputridì" (Es 16,20), il cristiano nel suo esodo verso la vita eterna non deve preoccuparsi di accumuare ricchezze. Anche le grazie spirituali che riceviamo da Dio non devono portarci a confidare su una "scorta di meriti", perché quotidianamente dobbiamo alimentare la nostra fede, rendendola efficace nella carità.

Gli uomini pongono il proprio cuore là dove è il loro tesoro (Mt 6,19-21) e allo stesso modo fissano i loro occhi in ciò che desiderano di più (vv. 22-23). Un occhio puro ama posarsi sui beni celesti e rende limpido il nostro intero essere. Un desiderio disordinato dei beni terreni è rappresentato da Gesù con l'analogia dell'occhio malvagio, nel quale non può entrare alcuna luce e che farà giacere tutto l'uomo nelle tenebre.

La luce che è tenebra (v. 23) è da intendersi come espressione di una religiosità esteriore, ipocrita: una  mosca morta rovina l'olio del profumiere (Eccl 10,1). Per questo l'occhio malvagio rappresenta anche la cattiva intenzione nelle azioni dell'uomo, per malizia o per colpevole ignoranza.

Tutte le realtà terrene sono caratterizzate dall'impermanenza e dall'incapacità di colmare il desiderio di bene presente nel cuore dell'uomo, il quale trasformandole in idoli non potrà che andare incontro alla delusione.

Gesù ci chiama a fare chiarezza su quale mèta stiamo rincorrendo, qual è il fine che abbiamo scelto per la nostra vita, ciò che la riempie di senso, invitando la nostra anima a scegliere "la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10,42).

Preghiera

Donaci, Signore, la saggezza di scegliere la via del vangelo, per rendere la nostra fede operosa e far fruttare i doni del tuo Spirito. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 18 giugno 2024

“Non è un luogo di culto”. La Corte di Cassazione ribalta le precedenti sentenze

Dalla chiesa Breccia di Roma riceviamo questo comunicato:
 
“In modo del tutto inaspettato, la Corte di Cassazione ha deciso di annullare le due precedenti sentenze a noi favorevoli e di chiudere definitivamente il caso a nostro sfavore. Ha stabilito che il nostro non è un locale di culto perché, dopo averlo acquistato, non sono state fatte “modifiche strutturali” per farlo diventare tale.  Il ragionamento sotteso è tornato indietro rispetto a quello delle due precedenti corti che, al contrario, avevano riconosciuto il principio che è la comunità di fede a stabilire l’adeguatezza dei propri luoghi di culto. Evidentemente, la Corte di Cassazione è ancora dentro uno schema di pensiero che prevede che i luoghi di culto debbano avere “delle caratteristiche oggettive”, forse pensando alle chiese cattoliche con altari, statue, cappelle, ecc.
 
E’ chiaro che si tratta di una sentenza gravemente ingiusta e discriminatoria. E’ ideologica e pregiudiziale. Per quanto riguarda il sistema italiano di giustizia, purtroppo questa è la sentenza finale. Ora dovremo pagare le spese giudiziarie e gli arretrati delle imposte sugli immobili commerciali per 5-6 anni arretrati. Inoltre, ogni anno dovremmo pagare le imposte sulla nostra proprietà come se fosse un locale commerciale.
 
Queste sono alcune richieste di preghiera:
1.        È evidente che sia in corso una battaglia spirituale. Sappiamo che dove c’è il progresso dell’evangelo, lì anche infierisce la battaglia. Abbiamo la conferma di essere al posto giusto e di stare facendo la cosa giusta: tenendo alta la parola di Dio a Roma, pregando per una riforma secondo l’evangelo. Il Signore ha già vinto e vincerà e siamo più determinati che mai ad andare avanti nell’opera di Dio.
2.        Dal punto economico, la sentenza ci mette di fronte alla necessità di reperire 50.000 euro per il pagamento degli arretrati. Sappiamo che Dio provvede e confidiamo in Lui.
3.        Stiamo esplorando alcune possibilità per cosa fare ora: un ricorso alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo e/o alcuni cambiamenti “strutturali” nel nostro locale per rifare la domanda per essere riconosciuti come locale di culto. Abbiamo bisogno della saggezza di Dio per discernere la sua volontà.
 
In tutto il nostro disappunto, ringraziamo il Signore per il privilegio di servirlo come “breccia” dell’evangelo a Roma. Grazie per le preghiere.”
 
Per approfondire il caso, si possono leggere gli articoli su: Evangelical Focus (inglese), Evangelicals Now (inglese), Christianity Today (inglese, francese e portoghese), World Magazine (inglese), Cvandaag e Reformatorisch Dagblad (olandse), Loci Communes (italiano).

- Ideaitalia, 18 giugno 2024

Fermati 1 minuto. Supplemento di amore

Lettura

Matteo 5,43-48

43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Commento

La prima parte del comandamento citato da Gesù, l'amore per il prossimo, è contenuta nella legge mosaica (Lv 19,18). Sebbene l'odio verso i malvagi nell'Antico Testamento sia considerato giusto (Sal 139,19-22), non c'è propriamente un comandamento che prescriva di odiare i propri nemici. Inoltre va rilevato che la parola "odiare" in ambito semitico non ha la connotazione estremamente negativa acquisita nel nostro linguaggio. 

Gesù estende ai nemici il comandamento dell'amore e invita i suoi discepoli a imitare l'esempio del Padre, che concede i suoi doni sia ai buoni che ai cattivi. Un cenno all'amore per i nemici è contenuto nell'Antico Testamento, nel libro dei Proverbi (Prov 25,21).

I pubblicani vengono assurti a simbolo del "nemico" di Israele per eccellenza. Erano infatti gli esattori delle tasse al servizio dei romani e perciò particolarmente odiati. Matteo era stato uno di loro, prima di diventare discepolo di Gesù.

L'esortazione di Gesù a non limitarsi ad amare i propri fratelli (v. 47) mette in guardia da ogni settarismo, che era proprio delle diverse correnti ebraiche e rischia di essere replicato nella Chiesa. Un atteggiamento stigmatizzato anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: "Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli (...) che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: 'Io sono di Paolo', 'Io invece sono di Apollo', 'E io di Cefa', E io di Cristo!'" (1 Cor 1,12). I cristiani dovrebbero dunque evitare che le differenze denominazionali diventino fonte di divisione nella Chiesa.

Ai discepoli di Gesù è richiesto un supplemento di amore, che li renda capaci di dare a tutti più degli altri; questo è il distintivo del loro essere cristiani.

Gesù ci insegna che la pratica del vangelo è più che semplice umanesimo. Lo sforzo che richiede per vincere la tendenza retributiva della nostra natura e imitare il Padre nella sua benevolenza può giungere a compimento solo con l'assistenza della grazia santificante, effusa dallo Spirito.

Preghiera

Rendici capaci, Signore, di un amore senza condizioni; come tu per primo ci hai amato, donandoci tutto te stesso nell'opera della redenzione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 17 giugno 2024

Fermati 1 minuto. La perfezione della giustizia, frutto della grazia

Lettura

Matteo 5,38-42

38 Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; 39 ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; 40 e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41 E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. 42 Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.

Commento

Gesù cita la legge del taglione, applicata nel mondo antico, secondo la quale si infligge al responsabile di una lesione personale la stessa lesione da lui provocata alla vittima. Questa legge (Es 21,24; Dt 19,21; Lv 24,20) ha lo sopo di moderare la vendetta, nel senso di non assegnare una lesione superiore al male ricevuto. Per offese meno gravi, come le ingiurie, era permesso un risarcimento pecuniario.

Gesù proibisce ogni forma di riparazione compensativa, non per una passività fine a se stessa, bensì per un atteggiamento tendente a indurre il nemico a cambiare e a vivere secondo giustizia.

Non opporsi al malvagio significa qui non reagire a chi ci fa del male contraccambiandolo sul piano personale o perseguendolo sul piano giudiziario. Una simile predisposizione al perdono può nascere dalla consapevolezza di essere stati noi per primi perdonati e giustificati da Dio per le nostre mancanze.

Questo atteggiamento riguarda la sfera personale e non la lotta contro azioni criminali (Rm 13,4) o aggressioni militari.

Solo il primo dei cinque esempi portati da Gesù riguarda direttamente la riparazione di un torto subito; gli altri invece mettono in evidenza la liberalità del comportamento cristiano. 

Non reagire alle offese attesta il rimettere a Dio il giudizio. Ma la perfezione della nuova legge è espressa dalla preghiera per i propri nemici (Mt 5,44), di cui Gesù stesso dà testimonianza sulla croce: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). Solo la grazia santificante può renderci capaci di giungere a un grado così alto di perfezione.

Dare il mantello (lunga veste esterna) era un sacrificio più grande che non dare la tunica (veste interna). Inteso anche nella sua dimensione spirituale questo atto significa coprire sotto il manto della misericordia le mancanze del prossimo.

Compiere due miglia con chi chiede di accompagnarlo per uno indica la disponibilità a prestare il proprio tempo e il proprio sostegno a chi ne ha bisogno. Deviare dalla propria strada per accompagnare il nostro prossimo sulla sua è spesso un sacrificio che ci costa grande fatica, perché il tempo è spesso quanto di più prezioso abbiamo a disposizione. Gesù risorto, sulla via di Emmaus, si farà compagno dei due discepoli lungo il loro cammino, confortandoli dalla tristezza e spiegandogli le Scritture.

Gesù invita poi alla generosità; chiedere di dare un prestito a chi ne ha bisogno equivale a imitare la stessa magnanimità di Dio, il quale ci ha dato la vita, i beni della creazione, i nostri talenti personali, e ci soccorre con la sua grazia. Un mondo in cui ciascuno applicasse la stessa giustizia di Dio, riguardo la quale Gesù afferma "chiedete e vi sarà dato" (Lc 11,9), sarebbe un mondo giusto e solidale. Un mondo che applicasse il suo comandamento di amarci gli uni gli altri come egli ha amato noi (Gv 15,12) camminerebbe sulle vie della pace (Lc 1,79).

Preghiera

Porta a perfezione la nostra giustizia, signore, affinché facendoci tuoi imitatori possiamo contribuire all'avvento del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 15 giugno 2024

Il buon pastore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA TERZA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Signore, ti supplichiamo di ascoltarci nella tua misericordia; tu che ci hai donato un ardente desiderio di pregare, concedici che attraverso il tuo aiuto, possiamo essere difesi e confortati in ogni pericolo e avversità; per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Pt 5,5-11; Lc 15,1-10

Commento

L’iconografia del buon pastore o, più precisamente del “bel” pastore (il termine greco è, infatti, kalòs), apparteneva al mondo greco e romano prima dell’avvento del cristianesimo ed era considerata di buon auspicio per i defunti.

Ma l’immagine di Dio come pastore di Israele, che mostra il proprio amore per la pecora perduta è ben presente nella religiosità ebraica, e in particolare nella letteratura profetica. Così in Ezechiele leggiamo: "Dice il Signore, Dio: 'Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre'" (Ez 34,11-12). E poi vi è il ben noto salmo 23, utilizzato tradizionalmente anche nell’ambito del rito delle esequie: "Il Signore è il mio pastore" (Sal 23,1).

Il protagonista della parabola del buon pastore si comporta in modo paradossale, sfidando la comune logica umana: chi lascerebbe novantanove pecore per andare a cercarne una sola che si è smarrita, senza la certezza di ritrovarla, e con il rischio di perdere l’intero gregge?

Dio non ragiona con mentalità di profitto, semplicemente in termini di costi e benefici. Il suo amore per noi è amore non solo dell’umanità nel suo insieme, ma per la nostra individualità. Per questo si fa carico di venirci a cercare, se anche fossimo gli unici dispersi del suo gregge.

Egli non ci abbandona e non sta neanche nell’ovile ad aspettare il nostro ritorno, ma ci viene incontro, si affatica nella ricerca e quando ci ha trovati aggiunge fatica a fatica portandoci sulle sue spalle. Troviamo così in quest'immagine la passione del Dio incarnato per l'umanità. 

Dio ci chiede la stessa sollecitudine verso il fratello più debole, nella consapevolezza che tutti siamo preziosi ai suoi occhi e che egli è venuto perché nulla vada disperso.

Umiliamoci, dunque, sotto la potente mano di Dio, come ci ammonisce l’apostolo Pietro (1 Pt 5,6); perché se ci lasciamo trovare, la sua mano ci raggiunge, non per castigarci, ma come mano tesa, che ci offre il suo soccorso e il suo conforto, in ogni pericolo e avversità.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 13 giugno 2024

Fermati 1 minuto. La strada giusta per presentarsi a Dio

Lettura

Matteo 5,20-26

20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono.
25 Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all'ultimo spicciolo!

Commento

Gli scribi e i farisei erano gli insegnanti della legge e avevano fama di essere grandi osservanti della stessa. Gesù ci chiede di "superarli" non limitandoci a un'obbedienza puramente esteriore, ma ricercando il rigore della carità. Egli parla con l'autorità di un legislatore e non di un semplice interprete o commentatore della legge - "io vi dico" (v. 20), non "così dice il Signore" - e approfondisce i precetti consegnati da Dio sul Sinai, portandoli a pieno compimento. Sul Calvario, appeso alla croce, fisserà su di essa la legge suprema dell'amore.

Gesù considera la collera e le ingiurie - che a seconda del loro grado di gravità venivano condannate (anche a morte) da parte di un tribunale locale o del sinedrio - meritevoli della Geenna, la valle di Hinnom, posta a sud di Gerusalemme, maledetta dal re Giosia (perché sede del culto di Moloch, cui venivano offerti sacrifici umani) e destinata a immondezzaio della città. Poiché nella Geenna ardeva continuamente il fuoco, nei Vangeli è presa a simbolo dell'Inferno. 

Il rigore cui richiama Gesù ci fa comprendere quanto sia difficile per l'uomo adempiere in pienezza i suoi precetti. L'unica giustizia dalla quale il peccatore può essere giustificato è la perfetta giustizia di Cristo, imputata a nostra salvezza mediante la fede in lui. Questo non ci esime, tuttavia, dall'impegno sulla via della santificazione, che la grazia ci spinge a percorrere. 

Gesù ci invita a sanare immediatamente le nostre relazioni quando entriamo in contesa con qualcuno e stabilisce il primato dei rapporti fraterni rispetto allo stesso culto sacrificale presso il tempio, cuore della religiosità ebraica. La strada per presentarci innanzi a Dio in adorazione passa attraverso la riconciliazione con il nostro prossimo.

Preghiera

Insegnaci a guardare a te, Signore, che sei mite e umile di cuore; affinché fissando lo sguardo sulla tua passione possiamo imparare a offrire il perdono ai nostri nemici. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona