Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 18 agosto 2025

Fermati 1 minuto. L'illusione della ricchezza

Lettura

Matteo 19,16-22

16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». 17 Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». 20 Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». 21 Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». 22 Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.

Commento

Nel passo parallelo del vangelo di Luca (Lc 18,18-23) il giovane di questa parabola è definito "uno dei capi". Si trattava probabilmente, di uno dei capi della sinagoga e, dunque, di un uomo molto ricco. Marco, invece, ci informa che il giovane "corse" da Gesù e "si inginocchiò davanti a lui" (Mc 10,17), a indicare il suo sincero e ardente desiderio di incontrarlo. Sia Marco che Luca riferiscono che nel suo preambolo il giovane chiama Gesù "maestro buono". 

Se in altri passi evangelici vediamo che molti sacerdoti e dottori della legge, avvicinano Gesù per metterlo alla prova e cercare di coglierlo in fallo, in questo caso c'è un autentico desiderio del giovane di sapere cosa deve fare di buono per ottenere la vita eterna. Egli è invitato da Gesù a osservare i comandamenti e, tra questi, sono elencati i cinque che costituivano la seconda tavola della legge, relativi al rispetto e all'amore del prossimo. Probabilmente perché come sacerdote levitico questo capo della sinagoga poteva più facilmente illudersi di osservare quelli relativi all'amore di Dio, come anche noi, d'altra parte possiamo credere di amare Dio per qualche buon sentimento nei suoi confronti e le azioni di culto che gli rendiamo. Più difficile è illudersi sull'amore del prossimo nel momento in cui lo defraudiamo dai suoi beni o desideriamo ciò che gli appartiene. 

Il giovane crede avventatamente di aver rispettato "tutte queste cose", ma non si rende conto della profondità spirituale della legge. Come proclamato da Gesù nel Discorso sul monte, anche solo gli atteggiamenti interiori disordinati costituiscono una violazione della legge: "fu detto agli antichi: Non uccidere... ma io vidico chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,21-22); "fu detto: Non commettere adulterio... ma chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28). 

Il giovane che interpella Gesù non comprende che la nuova giustizia è superiore all'antica e che davvero nessuno, di fronte ad essa può essere detto "buono" se non Dio e il suo "figlio prediletto". Crede di potersi salvare con le proprie opere e per questo chiede a Gesù cosa gli manca ancora per raggiungere la perfezione, presumento di poter compiere un'opera ancora più grande. Ma la perfezione cristiana, consiste in un distacco interiore da ogni ricchezza. A questa perfezione noi tutti siamo chiamati e non solo le persone che svolgono qualche ministero ecclesiastico.

Relegare la chiamata a una totale consacrazione di sé e dei propri beni al Signore a pastori o preti, frati, suore e monache non ha alcun senso cristiano. Il Vangelo è l'unica regola di vita per ogni battezzato e invita tutti a lasciare i molteplici idoli che questo mondo ci mette davanti.

Donare le nostre ricchezze ai poveri significa coltivare un totale distacco del cuore delle cose materiali e persino da quelle spirituali. A cosa gioverebbe infatti dare tutti i nostri beni ai poveri se poi diventiamo preda della vanagloria e ci convinciamo di esserci salvati, non per la grazia che opera in noi e attraverso di noi, ma illudendoci di aver meritato una ricompensa compiendo qualcosa di buono? 

Beati coloro che hanno uno spirito "povero", distaccato, "perché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Ma il giovane ricco non lo comprese e come venne a Gesù correndo, pieno di gioia, così se ne andò, rattristato. Vogliamo andarcene anche noi? (Gv 6,67)

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che hai rinunciato alla tua stessa uguaglianza con Dio per abbassarti fino a noi e guadagnarci la savezza; concedici di rinunciare con gioia a ciò che ci fa sentire ricchi, per poter entrare nel tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Filosseno di Mabbug. La deificazione dell'uomo per mezzo dell'amore

Nel 523 a Filippopoli, in Tracia, termina la sua parabola terrena Filosseno, metropolita di Mabbūg in Siria. Aksenaya, questo il suo originario nome siriaco, era nato attorno alla metà del V secolo a Tahal, in Persia. Frequentata la scuola di Edessa in un periodo di grandi controversie cristologiche e di forti instabilità politiche, il giovane studioso rivelò presto tutte le sue qualità di uomo di azione e di pastore attraverso un'eloquenza e una fecondità letteraria fuori del comune.
Mosso dall'incessante desiderio di conservare intatto il cuore del cristianesimo, che per lui consiste nel fatto che Dio è diventato uomo perché l'uomo diventi Dio, Filosseno scrisse per tutta la vita opere esegetiche, dogmatiche e spirituali a sostegno della sua visione e per convincere i fedeli della diocesi di Edessa, di cui fu fatto vescovo nel 485, e quanti guardavano a lui come a un maestro, a condurre una vita di assimilazione al Cristo sofferente e umiliato attraverso l'acquisizione dell'amore; solo così, egli riteneva, il credente avrebbe potuto prendere parte allo «scambio» fra Dio e l'uomo, offerto dal Cristo salvatore. Perseguitato a più riprese dagli imperatori e dai patriarchi antimonofisiti, Filosseno finì la vita in esilio. È considerato uno dei più grandi dottori della chiesa giacobita.

Tracce di lettura

Ognuno si raffigura Dio a seconda di come vede se stesso. Se è al grado dei peccatori, vede Dio come giudice. Se è salito al secondo grado, quello dei penitenti, Dio si mostra a lui con il perdono. Se è al grado dei misericordiosi, scopre l'abbondanza della misericordia di Dio. Se ha rivestito dolcezza e mansuetudine, gli apparirà la benevolenza di Dio. Se ha acquisito un'intelligenza sapiente, contemplerà l'incomprensibile ricchezza della sapienza divina. Se ha rinunciato alla collera e al furore, se la pace e la calma regnano in lui in ogni momento, è elevato all'inconfondibile purezza di Dio. Se la fede risplende incessantemente nella sua anima, egli guarda in ogni istante l'incomprensibilità delle opere di Dio, e ha la certezza che anche quelle ritenute spiegabili sono al di sopra di qualsiasi spiegazione. Se sale poi al livello dell'amore, giunto in cima a ogni grado vede che Dio non è altro che amore.
Tu lo vedrai come egli è, quando sarai divenuto come lui.
(Filosseno di Mabbūg, Omelie 6)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Innario siriaco

domenica 17 agosto 2025

Dio si affretta per venirci incontro

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA NONA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Concedici, Signore, ti supplichiamo, di pensare e compiere sempre ciò che è giusto; affinché noi, che non possiamo fare nulla di buono senza di te, possiamo essere capaci, per la tua grazia, di vivere secondo la tua volontà; per Gesù Cristo, nostro signore. Amen.

Letture

1 Cor 10,1-13; Lc 15,11-32

Commento

Nel pensiero comune, Dio deve essere buono con i buoni e deve castigare gli empi. Questo pensiero è ben ravvisabile nella letteratura veterotestamentaria, dove compare, però, nel tempo, l’immagine di un Dio che è certamente giusto, ma anche misericordioso, “lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8), che non desidera la morte del peccatore, “ma che si converta e viva” (Ez 33,11).

L’atto compiuto dal figlio protagonista di questa parabola è molto grave: nella società giudaica del tempo, chiedere al padre l’eredità in anticipo significava determinare una rottura irreversibile con lui, considerandolo come morto. Un figlio del genere non avrebbe più potuto sperare nell’aiuto del padre in caso di necessità. Se la richiesta anticipata dell’eredità rendeva il padre come morto per il figlio, al contempo il figlio diveniva come morto per il padre. Gesù, attraverso questo racconto, ci vuole mostrare che il padre che è nei cieli agisce in maniera del tutto differente.

Il figlio che ha chiesto la sua parte di eredità si avvia verso un paese lontano e qui spende tutto quello che ha, riducendosi a pascolare i porci – lui che in casa del padre viveva da signore – e arrivando a desiderare di nutrirsi di  carrube quando in quel paese sopraggiunge una grave carestia.

Sono proprio i morsi della fame a precedere ciò che il Vangelo definisce un “rientrare in sé” del giovane, una conversione che è in un primo momento un atto di introspezione, suscitato dalla frustrazione di un desiderio elementare: “Quanti lavoratori di mio padre hanno pane in abbondanza… io invece muoio di fame!” (Lc 15,17). Non è il senso di colpa a suscitare i primi moti della conversione, ma la fame.

A questo punto il giovane medita di tornare a casa del padre e si prepara un bel discorso di pentimento. Il Vangelo insiste sul verbo “levarsi, sollevarsi”: “mi leverò e andrò da mio padre, e gli dirò…”; “Egli dunque si levò…”. La fame e il desiderio di “sollevarci”, suscitati dallo Spirito stesso di Dio, sono il motore della nostra conversione.

Nel prosieguo della parabola vediamo che il discorso di pentimento che il figlio si è preparato risulta del tutto superfluo. Infatti, “mentre era ancora lontano” suo padre “lo vide e ne ebbe compassione, corse, gli si getto al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Laddove ci aspetteremmo di trovare un padre severo che attende il figlio alla porta, per respingerlo o quanto meno per redarguirlo e chiedergli di umiliarsi per ottenere il perdono, Gesù ci offre l’immagine di un Dio che ci corre incontro, ci anticipa, si affretta, e ci si getta al collo baciandoci, mentre siamo ancora sporchi di letame. 

Quando il giovane dice “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,21), proprio in quel momento il padre, davanti a tutti i servi, vuole dimostrare di averlo ristabilito in ogni sua dignità. Chiede che venga rivestito dell’abito più bello, che gli vengano messi i sandali ai piedi e infine che gli si infili l’anello al dito, simbolo del potere riacquistato. E a scanso di equivoci lo dichiara ad alta voce, davanti a tutti i servi: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita” (Lc 15,24).

Ma c’è una forza dentro di noi, e fuori di noi, che non comprende la misericordia di Dio, la sua compassione; e dunque si adira, giudica e condanna; ci induce inoltre a pensare che la salvezza sia un qualcosa che può essere comprato, meritato, guadagnato. La salvezza può essere desiderata nel momento in cui apriamo gli occhi e prendiamo consapevolezza di quanto penosa sia l’esistenza condotta lontano da Dio, del fatto che siamo nati non per mangiare carrube, ma per sedere alla mensa del Padre. 

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 14 agosto 2025

Fermati 1 minuto. La gioia di essere salvati

Lettura

Matteo 18,21-19,1

18,21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». 22 E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».
19,1 Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano.

Commento

In contrapposizione con il comandamento della Genesi «Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette» (Gen 4,24), volto a contenere il dilagare della violenza, gli ordinamenti di Gesù per i suoi discepoli prevedono una disponibilità illimitata a perdonare il fratello che si pente dei propri peccati. Questo il senso del numero espresso da Gesù: "settana volte sette". 

La parabola presentata nel Vangelo di Matteo risponde esaurientemente alla domanda di Pietro, mostrando la ragione per cui si deve essere sempre disposti al perdono. Dio ci ha condonato per primo ogni debito e poiché noi non abbiamo dal nostro prossimo un diritto al risarcimento superiore a quello che Dio ha nei nostri confronti, ne consegue che siamo chiamati a imitarlo nella sua bontà infinita, condonando a nostra volta tutti i debiti a chi ne fa ammenda.

Dall'entità del patrimonio amministrato dal servo della parabola si comprende che egli è un  ministro di Stato. Si consideri che il valore di un talento, che poteva esere d'oro, d'argento o di bronzo, era molto elevato (seimila denari per un talento d'argento e trenta volte di più per un talento d'oro). La cifra di diecimila talenti è dunque enorme. Il servitore disonesto, che aveva contratto un tale debito, non può sottrarsi allla richiesta di rendiconto del re, proprio come alla nostra coscienza è impossibile sottrarsi al giudizio di Dio. 

Secondo la legge levitica un debitore che non avesse potuto restituire il maltolto poteva essere venduto come schiavo dal creditore e così anche i suoi figli. Gli schiavi potevano poi essere liberati, e quindi veder condonati i propri debiti, nell'anno del Giubileo, che avveniva "ogni sette settimane di anni", ovvero ogni quarantanove anni. La parabola riferisce che il re chiede di vendere il debitore, la moglie e i figli finché questi non abbia saldato il suo debito. L'immagine è dunque quella di un despota orientale che attua una legge più rigorosa di quella giudaica.

Il debitore non contesta la sentenza del re, di fronte alla propria coscienza la trova giusta, per questo si getta a terra supplicando la sua misericordia. La prima reazione del servo disonesto è di fare al re una promessa temeraria, pur di aver salva la vita: «abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa» (v. 26). Certamente non avrebbe potuto adempiere a una promessa simile. Ma la risposta del re supera ogni aspettativa ed egli rimette al servo ogni debito, lasciandolo andare. 

Dio non si fa convincere a usare misericordia dai nostri buoni propositi, non ci tratta secondo i nostri meriti; conosce la nostra miseria e offre da subito ciò di cui abbiamo bisogno: il suo perdono. Ci chiede solo di accogliere questo perdono con riconoscenza. Questo implica esercitare a nostra volta la remissione dei peccati verso i nostri debitori, farci immagine della sua misericordia. Ma nel servo della parabola il timore non lascia spazio all'amore. Mosso unicamente dalla paura di essere punito egli non è riuscito a comprendere la portata della grazia, il suo cuore ha accolto il perdono di Dio con superficialità, senza permettere al vangelo di trasformarlo. Per questo, passato il momento di gratitudine verso il re egli ricade nel mondo e nella sua ottica di inflessibile giustizia, comportandosi da aguzzino verso chi gli doveva restituire una somma irrisoria (cento denari).

Se il cuore del debitore si fosse davvero aperto alla misericordia Dio, questa si sarebbe riversata fino all'esterno e la gioia di essere salvato avrebbe sostenuto in lui un animo generoso (Sal 50,14). Gli amici del conservo, che vanno a riferire tutto al re, dovrebbero farci riflettere sulla moltitudine di preghiere che giungono a Dio da coloro che si vedono negata la misericordia dai loro oppressori.

La conclusione finale della parabola mostra il giusto giudizio di Dio verso coloro che hanno rifiutato la sua grazia. Il debitore è consegnato agli aguzzini finché non avrà restituito tutto, proprio come egli aveva promesso.

Gesù ci chiede di perdonare di cuore, condividendo la gioia della sua misericordia; questa può scaturire dalla consapevolezza di avere un Dio che per primo è disposto a perdonarci, non sette volte, ma settanta volte sette.

Preghiera

Crea in noi, Signore, un cuore puro; sostituisci il cuore di pietra con un cuore di carne, affinché possiamo condividere con i nostri debitori la gioia del tuo perdono. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 13 agosto 2025

Fermati 1 minuto. Una sinfonia di cuori davanti a Dio

Lettura

Matteo 18,15-20

15 Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18 In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. 20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».

Commento

Spesso ci viene proposto un cristianesimo consistente in una totale sospensione del giudizio e legittimazione di ogni errore in nome del principio di "non giudicare"; invece Gesù ci insegna che si può e si deve riprendere il fratello e che la correzione fraterna, quando fatta con umiltà e discrezione è essa stessa un atto di misericordia.

Se il fratello non ascolterà il nostro consiglio allora potremo tornare da lui accompagnati da due o tre amici. Secondo la legge ebraica per dar forza legale ad un'accusa o dimostrare un reclamo, si richiedevano almeno due testimoni (Dt 19,15) e Gesù, per evitare che nella comunità si facessero ingiustizie o si lanciassero false accuse, adotta la medesima regola.

Il terzo passo da compiere, qualora il fratello continui a non volere ravvedersi è il ricorso alla chiesa. Il termine greco ekklesia, che significa "assemblea", ricorre solo due volte nei Vangeli, qui e in Mt 16,18. In questo contesto si riferisce non alla chiesa universale ma all'assemblea locale, che aveva la facoltà di dirimere le questioni disciplinari. A giudicare è dunque non un vescovo o una singola autorità ecclesiastica, ma la congregazione dei credenti (non esisteva monepiscopato nel periodo apostolico).

Significativa, per comprendere la questione dell'autorità nella chiesa, è la ripetizione in questo passo della frase relativa al potere "di sciogliere e di legare" in precedenza pronunciata nei confronti di Pietro (Mt 16,18), ma ora estesa ai discepoli e a tutta la congregazione guidata dallo Spirito e in armonia con la legge di Cristo.

L'importanza delle piccole comunità, che costituivano la realtà della chiesa primitiva è attestata dal passaggio da un discorso disciplinare a quello relativo all'efficacia della preghiera. Gesù parla letteralmente di una "sinfonia" tra "due che si accordano" (gr. duo sinfonèsosin) che suscita l'ascolto da parte di Dio. Il Signore riduce al minimo indispensabile il numero di credenti che possono radunarsi in preghiera e anche qui il numero di due o tre sembra richiamare quello dei testimoni per la correzione del fratello. 

Gesù non vuole proclamare inutile la preghiera individuale, il cui valore aveva apertamente affermato: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). Sottolinea però l'efficacia di una richiesta fatta nella comunione dei cuori, anche quando ridotta al suo minimo denominatore: due persone.

Per la legge giudaica del tempo di Gesù una sinagoga non poteva essere aperta se vi erano meno di dieci persone. Con queste sue parole il Signore afferma che il piccolo numero delle prime comunità cristiane non deve scoraggiare i credenti dal riunirsi in preghiera. Di più, egli promette di essere in mezzo a loro, come mediatore che intercede presso il Padre, anche quando saranno due o tre.

Il Signore non poteva essere più chiaro relativamente alla forma che deve assumere la sua chiesa nell'esercizio della disciplina e nel culto di adorazione a Dio. Non ci propone una o più persone con un potere derivante da un "vicariato". Non c'è bisogno di un vicario perché egli non è vacante dalla sua chiesa, ne è anzi il capo, mentre questa è il suo corpo vivificato dallo Spirito. La comunità, anche la più piccola, può contare sulla presenza del Risorto; egli è con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

Preghiera

O Dio, manda il tuo Spirito, affinché possiamo essere un cuore solo nella tua chiesa. La comunione fraterna, nella fede e nella preghiera, ti renda presente in mezzo a noi. Amen.

Jeremy Taylor. Spendere il tempo per Dio e i soldi per i poveri

Nel 1667 muore in Irlanda Jeremy Taylor, vescovo anglicano di Down e Connor.
Nato nel 1613 in Inghilterra, Taylor compì i suoi studi a Cambridge. Ordinato presbitero nel 1633, egli divenne rettore di Uppingham cinque anni più tardi. Fatto cappellano del re Carlo I, alla morte di quest'ultimo Jeremy partì per l'Irlanda dove fu eletto vescovo di Down e Connor.
Autore di opere polemiche, abituato ad attingere sia alla lettura spirituale della Scrittura che al Book of Common Prayer, Jeremy Taylor è amato e ricordato nella chiesa anglicana soprattutto per i suoi insegnamenti sulla vita interiore, la preghiera e il senso cristiano della morte, caratterizzati, secondo la migliore tradizione anglosassone, dalla concretezza, dall'estrema sobrietà e dalla ricerca di una profonda unità tra l'esperienza religiosa e la vita di ogni giorno.

Tracce di lettura

Sebbene in un primo tempo non sia gradevole pensare a dedicare buona parte del nostro tempo ad atti espliciti di culto o di preghiera, tuttavia diverrà non solo un dovere, ma anche un fatto provvidenziale l'abbandono di ogni attività che ci è possibile lasciare per dedicarci al servizio di Dio e all'opera dello Spirito in noi. Il miglior commerciante è colui che spende il suo tempo per Dio e il suo denaro per i poveri.
(J. Taylor, Il santo vivere).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Nersēs Šnorhali (1102-1173) e la ricerca dell'unità tra le chiese

Nel 1173 muore a Hromklay, in Armenia, Nersēs Šnorhali, monaco e catholicos degli armeni.
Nato nel 1102 presso la fortezza di Covk' da una famiglia di grande tradizione ecclesiale, Nerses entrò giovanissimo nel Monastero Rosso di K'esun assieme al fratello Grigoris. Ordinato presbitero nel 1120, venne assunto da Grigoris, nel frattempo divenuto catholicos, come collaboratore personale, e ricevette dalle sue mani l'ordinazione episcopale qualche anno più tardi.
Uomo di grande affabilità e di notevole cultura, Nerses si conquistò lo pseudonimo di Šnorhali, che indica un insieme equilibrato di dolcezza e amabilità, grazie alle grandi doti acquisite mediante l'ascesi monastica e manifestate per tutta la vita. Egli seppe infatti presiedere all'unità della propria chiesa e nel contempo intessere dialoghi con l'occidente latino e l'oriente bizantino, con cui l'Armenia non aveva più ristabilito la piena comunione dai tempi del concilio di Calcedonia.
Alla morte del fratello, nel 1166, Nersēs gli succedette alla guida della chiesa armena, ed ebbe così modo di condurre in prima persona la preparazione di quel sinodo di riconciliazione che sarà presieduto, dopo la sua morte, da Nersēs di Lambron.
Profondamente convinto che compito fondamentale di un pastore sia quello di servire l'unità della chiesa e fra le chiese, egli non cessò mai di ricordare a tutti come per costruire un'unità duratura siano necessarie una fede autentica e una carità radicata nell'adesione al cammino di abbassamento rivelato nella kenosi del Verbo.

Tracce di lettura

È Paolo a rivelarci come dev'essere un vescovo e come debba comportarsi: «Il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» e via dicendo. Egli deve, con il potere affidatogli, mantenere incrollabili le strutture di quei templi inabitati da Dio che sono i fedeli. Egli è tenuto a dare loro, secondo il comando del Signore, il cibo della Parola al tempo dovuto, giorno dopo giorno.
Quando diciamo che il vescovo dev'essere mite, umile, onesto, ci vengono in mente Mosè e David, che furono autentici pastori del popolo di Israele. Allo stesso modo i nuovi pastori sono chiamati a pascere il gregge con umiltà e pace, comportandosi da pastori, appunto, e non con la pompa e gli eccessi dei principi di questo mondo.
Quando l'Apostolo richiama alla mitezza, egli insegna quell'umiltà che fu data come esempio da Cristo stesso: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore».
(N. Šnorhali, Epistola generale)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

NERSĒS, miniatura armena

Nersēs Šnorhali (1102-1173)

Henri Le Saux: il monaco cristiano che abbracciò l'Advaita

- Autore: Rev. Dr. Luca Vona

Un'esplorazione della vita e del pensiero di Abhishiktananda

Henri Le Saux (1910-1973) rappresenta una delle figure più affascinanti e controverse del dialogo interreligioso del XX secolo. Monaco benedettino francese divenuto sannyasi indù con il nome di Abhishiktananda, la sua vita incarnò una sintesi audace tra cristianesimo e vedanta advaita che continua a ispirare e interrogare credenti di entrambe le tradizioni.

I. Le radici bretoni e la vocazione monastica

Henri Le Saux nacque il 30 agosto 1910 a Saint-Briac-sur-Mer, in Bretagna, in una famiglia profondamente cattolica. Fin dalla giovinezza manifestò una vocazione contemplativa che lo portò, all'età di diciannove anni, ad entrare nell'abbazia benedettina di Sainte-Anne de Kergonan. Qui visse per vent'anni una vita monastica tradizionale, caratterizzata dalla preghiera liturgica, dallo studio e dal lavoro manuale secondo la regola di San Benedetto.

Durante questi anni formativi, Le Saux sviluppò una profonda conoscenza della tradizione mistica cristiana, particolarmente attratto dai Padri del Deserto e dalla spiritualità orientale cristiana. La lettura di Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico e soprattutto dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita lo aprì a una comprensione della teologia negativa che si rivelerà fondamentale per il suo successivo incontro con l'advaita vedanta.

Ma fu l'incontro con gli scritti di Jules Monchanin, sacerdote lionese trasferitosi in India, a segnare definitivamente il destino spirituale di Le Saux. Nelle lettere di Monchanin, che descriveva la ricchezza della spiritualità indù e la possibilità di un dialogo autentico tra cristianesimo e induismo, il giovane monaco bretone intravide la chiamata a un'avventura spirituale che avrebbe trasformato radicalmente la sua vita.

II. L'incontro con l'India: Shantivanam e la nascita di Abhishiktananda

Nel 1948, all'età di trentotto anni, Henri Le Saux partì per l'India con il permesso dei suoi superiori, mosso dal desiderio di fondare una comunità monastica cristiana che potesse incarnare autenticamente la spiritualità indiana. L'incontro con Jules Monchanin fu immediato e fecondo: insieme decisero di stabilirsi sulle rive del fiume Kavery, nel Tamil Nadu, dove fondarono l'ashram di Saccidananda (poi conosciuto come Shantivanam), adottando i nomi indiani di Parama Arubi Anandam (Monchanin) e Abhishiktananda (Le Saux), che significa "la beatitudine dell'Unto", chiaro riferimento cristologico.

L'esperimento di Shantivanam rappresentava molto più di una semplice inculturazione del cristianesimo in terra indiana. Era il tentativo audace di creare una sintesi vivente tra la tradizione monastica benedettina e l'antica saggezza degli ashram indù. I due monaci adottarono il kavi (l'abito ocra dei sannyasi), seguirono un regime alimentare vegetariano, praticarono lo yoga e la meditazione secondo i metodi tradizionali indiani, pur mantenendo la celebrazione dell'Eucaristia come centro della loro vita spirituale.

Tuttavia, l'adattamento alla vita indiana si rivelò più complesso del previsto. Le Saux dovette confrontarsi non solo con le sfide pratiche di un clima tropicale e di una cultura profondamente diversa, ma soprattutto con una crisi spirituale profonda che avrebbe caratterizzato tutta la sua permanenza in India.

III. Gli incontri decisivi: Ramana Maharshi e Swami Gnanananda

Il primo grande shock spirituale Le Saux lo ricevette nel 1949, quando visitò l'ashram di Ramana Maharshi ad Arunachala. L'incontro con il grande maestro, che incarnava la realizzazione dell'Atman-Brahman secondo la tradizione advaitica, fu per il monaco bretone un'esperienza che descrisse come "folgorante". Nella presenza silenziosa di Ramana, Le Saux sperimentò quello che chiamò "il risveglio all'Assoluto", una percezione diretta dell'unità fondamentale di tutto l'essere che trascendeva ogni distinzione tra soggetto e oggetto.

Ma fu l'incontro con Swami Gnanananda, un altro grande maestro dell'advaita vedanta, a segnare definitivamente il percorso spirituale di Le Saux. Gnanananda divenne il suo guru nel senso più tradizionale del termine, guidandolo attraverso gli insegnamenti dell'advaita e aiutandolo a comprendere dall'interno l'esperienza del "Io sono" (Aham Asmi) che costituisce il cuore della realizzazione vedantica.

Questi incontri posero Le Saux di fronte a una sfida esistenziale senza precedenti: come conciliare l'esperienza dell'Assoluto non-duale con la fede cristiana in un Dio personale e trinitario? Come mantenere la fedeltà a Cristo Salvatore quando si sperimenta direttamente l'identità tra Atman e Brahman che rende superflua ogni mediazione?

IV. La tensione feconda: cristianesimo e advaita

Il genio spirituale di Henri Le Saux consistette nel rifiutare ogni soluzione semplicistica a questa tensione. Contrariamente a chi pensava che dovesse scegliere tra cristianesimo e vedanta, o a chi lo accusava di sincretismo, Le Saux mantenne sempre quella che chiamava una "tensione feconda" tra le due tradizioni. Per lui, l'esperienza mistica dell'Assoluto era una realtà che precedeva e trascendeva ogni formulazione dogmatica, pur non negando il valore di queste formulazioni come "dita che indicano la luna".

Nei suoi scritti, particolarmente in Sagesse hindoue, mystique chrétienne (1965) e La Rencontre de l'Hindouisme et du Christianisme (1966), Le Saux sviluppò una teologia mistica che cercava di rendere conto di questa duplice fedeltà. Cristo, per lui, non era più solo il Figlio di Dio incarnato nella storia, ma anche la manifestazione eterna del Sé cosmico (Purusha) che dimora nel cuore di ogni essere umano. La Trinità non era più soltanto la comunione di tre persone divine, ma l'espressione cristiana dell'esperienza advaitica dell'unità nella molteplicità.

Questa posizione lo mise inevitabilmente in conflitto con le autorità ecclesiastiche del suo tempo. Il Sant'Uffizio aprì un'inchiesta sui suoi scritti, e molti vescovi indiani guardavano con sospetto al suo esperimento. Le Saux fu accusato di relativismo religioso, di perdere l'unicità cristiana nell'oceano dell'esperienza mistica orientale. Tuttavia, egli non abbandonò mai la sua identità cristiana, continuando a celebrare l'Eucaristia quotidianamente e a vedere in Cristo il supremo rivelatore dell'Assoluto.

V. L'esperienza delle grotte: l'ascesi estrema

A partire dal 1956, Le Saux iniziò a trascorrere lunghi periodi in solitudine nelle grotte di Arunachala, la montagna sacra associata a Shiva nel Tamil Nadu. Questi ritiri rappresentavano il tentativo di vivere fino in fondo l'esperienza del sannyasi, il rinunciante che abbandona tutto per la ricerca dell'Assoluto. Nelle grotte, Le Saux praticava un'ascesi estrema, vivendo di elemosine, dormendo sulla nuda roccia, dedicando ore alla meditazione silenziosa.

Fu durante questi periodi che egli raggiunse le vette più alte della sua realizzazione spirituale. I suoi diari di questi anni, pubblicati postumi con il titolo La Montée au Fond du Cœur (L'ascesa al fondo del cuore), testimoniano di esperienze mistiche di rara profondità. Le Saux descrive stati di coscienza in cui la distinzione tra sé e l'Assoluto scompariva completamente, momenti di sahaja samadhi (assorbimento naturale) in cui sperimentava quella che i Veda chiamano l'identità tra Atman e Brahman.

Tuttavia, anche in questi momenti di estasi mistica, la tensione con la sua fede cristiana rimaneva viva. Le Saux scriveva: "Cristo mi chiama dal profondo di questo Silenzio che è oltre ogni nome e forma, ma come posso rispondere senza tradire né Cristo né il Silenzio?". Era la sua croce mistica, ma anche la fonte della sua originalità spirituale.

VI. Il maestro spirituale: Marc Chaduc e la trasmissione

Negli ultimi anni della sua vita, Le Saux ebbe la gioia di trasmettere la sua esperienza a un giovane francese, Marc Chaduc, che aveva raggiunto l'India in cerca di autenticità spirituale. Chaduc, che ricevette il nome di Swami Ajatananda, divenne il figlio spirituale di Le Saux e il suo successore nell'esperimento di Shantivanam.

Attraverso la guida di Marc, Le Saux poté sistematizzare il suo insegnamento e chiarire ulteriormente la sua posizione teologica. Insieme esplorarono le possibilità di una "teologia advitica", che potesse rendere conto dell'esperienza dell'Assoluto senza perdere la specificità della rivelazione cristiana. Questa collaborazione produsse alcuni dei testi più maturi di Le Saux, in cui la tensione tra Oriente e Occidente, tra mistica e teologia, trovava espressioni di rara bellezza e profondità.

VII. L'eredità teologica: verso una teologia pluralista

L'opera di Henri Le Saux ha avuto un impatto profondo sullo sviluppo della teologia contemporanea, anticipando molti temi che sarebbero divenuti centrali nel dialogo interreligioso. La sua insistenza sulla priorità dell'esperienza mistica rispetto alle formulazioni dogmatiche ha influenzato teologi come Raimon Panikkar, Bede Griffiths e Jacques Dupuis, che hanno sviluppato ulteriormente le intuizioni di Le Saux in direzione di una "teologia pluralista delle religioni".

Particolarmente significativo è il suo contributo alla comprensione della mistica cristiana. Le Saux ha mostrato come la tradizione mistica cristiana, dalle origini patristiche fino a Meister Eckhart e oltre, contenga elementi che la rendono compatibile con l'esperienza advaitica dell'Uno senza secondo. La sua interpretazione della "nascita del Verbo nell'anima" di Eckhart come equivalente cristiano della realizzazione dell'Atman ha aperto nuove prospettive per la comprensione della mistica occidentale.

Inoltre, il suo lavoro ha contribuito significativamente al processo di "inculturazione" del cristianesimo in Asia. L'ashram di Shantivanam, che continua ancora oggi sotto la guida dei suoi successori, è diventato un modello per comunità cristiane che cercano di incarnare autenticamente la loro fede nel contesto culturale asiatico.

VIII. Questioni interpretative e dibattiti

L'opera di Le Saux ha naturalmente suscitato dibattiti e diverse interpretazioni all'interno delle comunità religiose. Dal lato cristiano, alcuni teologi hanno sollevato questioni sulla compatibilità tra l'esperienza advaitica e la dottrina cristiana tradizionale, interrogandosi su come conciliare l'unità non-duale con la fede trinitaria. Questi interrogativi hanno contribuito a un fecondo dibattito teologico che continua ancora oggi.

Dal lato indù, alcuni maestri tradizionali si sono chiesti se fosse possibile mantenere simultaneamente identità religiose multiple, considerando che la tradizione advaitica classica tende a trascendere ogni forma particolare. Tuttavia, altri maestri hanno riconosciuto nell'esperienza di Le Saux una manifestazione autentica della verità universale che può esprimersi attraverso diverse forme.

Alcuni studiosi hanno anche osservato che il suo approccio privilegiava principalmente la dimensione contemplativa della spiritualità, suggerendo che una sintesi più completa avrebbe potuto includere maggiormente gli aspetti etici e sociali delle tradizioni religiose.

IX. L'attualità del messaggio

Nonostante le critiche, l'attualità del messaggio di Henri Le Saux appare oggi più evidente che mai. In un mondo caratterizzato da crescenti tensioni religiose e da fondamentalismi contrapposti, la sua testimonianza di dialogo autentico tra tradizioni spirituali diverse offre un modello prezioso di convivenza e arricchimento reciproco.

La sua insistenza sulla priorità dell'esperienza spirituale rispetto alle formulazioni dottrinali risuona con la sensibilità contemporanea, sempre più alla ricerca di spiritualità autentiche che trascendano i confini delle religioni istituzionali. Allo stesso tempo, il suo rifiuto di ogni sincretismo facile e la sua fedeltà alle tradizioni che lo avevano formato offrono un antidoto al relativismo spirituale che caratterizza molti movimenti New Age.

Particolarmente significativo è il suo contributo alla comprensione della mistica come dimensione universale dell'esperienza umana. Le Saux ha mostrato come le grandi tradizioni mistiche dell'umanità, pur esprimendosi in linguaggi diversi, convergano verso l'esperienza dell'Assoluto che trascende ogni particolarità culturale. Questa intuizione è di fondamentale importanza per costruire ponti di dialogo in un mondo sempre più interconnesso ma spesso diviso da incomprensioni religiose.

X. Conclusione: il pellegrino dell'Assoluto

Henri Le Saux rimane una figura profetica nel panorama spirituale contemporaneo. La sua vita incarnò la possibilità di un dialogo autentico tra Oriente e Occidente, tra cristianesimo e vedanta, tra fede e esperienza mistica. Non offrì soluzioni prefabbricate, ma piuttosto testimonò la possibilità di vivere creativamente le tensioni spirituali del nostro tempo.

Il suo lascito più prezioso è forse la dimostrazione che la fedeltà alla propria tradizione religiosa non esige la chiusura alle verità che si manifestano in altre forme. Al contrario, l'apertura all'altro può approfondire e arricchire la comprensione della propria fede, portandola a dimensioni di universalità prima insospettate.

Come scriveva negli ultimi anni della sua vita: "Ho scoperto che l'Assoluto non ha religione, ma tutte le religioni possono essere vie verso l'Assoluto". In questa affermazione si condensa l'essenza del suo messaggio: un invito a trascendere le divisioni religiose senza perdere le ricchezze specifiche di ciascuna tradizione, nella ricerca comune di quella Verità che, pur manifestandosi in molteplici forme, rimane eternamente Una.

Henri Le Saux-Abhishiktananda morì a Indore il 7 dicembre 1973, dopo aver passato in India venticinque anni di ricerca spirituale intensa. La sua tomba porta l'iscrizione sanscrita "Saccidananda" (Essere-Coscienza-Beatitudine) e la preghiera cristiana "Jesus Sharanam" (Rifugio in Gesù), sintesi perfetta di una vita che seppe mantenere fino alla fine la tensione feconda tra due grandi tradizioni spirituali dell'umanità.

Il suo esempio continua a ispirare tutti coloro che, nel nostro tempo di dialogo interreligioso e di ricerca spirituale globale, cercano di costruire ponti di comprensione tra le diverse tradizioni dell'umanità, nella convinzione che la Verità sia troppo grande per essere contenuta in una sola forma, ma troppo preziosa per non essere cercata con tutto il cuore.


Bibliografia

Opere di Henri Le Saux/Abhishiktananda

Opere principali:

  • Ermites du Saccidananda. Casterman, Paris 1956.
  • Sagesse hindoue, mystique chrétienne. Du Vedanta à la Trinité. Centurion, Paris 1965.
  • La Rencontre de l'Hindouisme et du Christianisme. Seuil, Paris 1966.
  • Vers l'autre rive. Centurion, Paris 1975.
  • Intériorité et Révélation. Essais théologiques. Présence, Sisteron 1982.
  • La Montée au Fond du Cœur. Le journal intime du moine chrétien-sannyasi hindou. O.E.I.L., Paris 1986.

Edizioni italiane:

  • Saggezza indù, mistica cristiana. Dal Vedanta alla Trinità. Cittadella, Assisi 1997.
  • Diario spirituale di un monaco cristiano-sannyasi indù. Servitium, Sotto il Monte 2008.
  • Verso l'altra riva. Ultimi scritti. Servitium, Sotto il Monte 2012.

Opere postume e raccolte:

  • Prayer. SPCK, London 1974 (trad. it. La preghiera, Gribaudi, Torino 1976).
  • Hindu-Christian Meeting Point. Within the Cave of the Heart. ISPCK, Delhi 1976.
  • The Secret of Arunachala. ISPCK, Delhi 1979.
  • Saccidananda. A Christian Approach to Advaitic Experience. ISPCK, Delhi 1984 (trad. it. Saccidananda. Un approccio cristiano all'esperienza advaita, Servitium, Sotto il Monte 2001).
  • The Eyes of Light. Cistercian Publications, Kalamazoo 1983.
  • Ascent to the Depth of the Heart. The Spiritual Diary (1948-1973). ISPCK, Delhi 1998.
  • Swami Abhishiktananda: Essential Writings, a cura di Shirley du Boulay. Orbis Books, New York 2006.

Studi biografici e critici

In inglese e francese:

  • du Boulay, Shirley. The Cave of the Heart. The Life of Swami Abhishiktananda. Orbis Books, New York 2005.
  • Baumer, Bettina. "Abhishiktananda/Henri Le Saux OSB: His Contribution to Hindu-Christian Studies." Hindu-Christian Studies Bulletin, 8 (1995), pp. 1-8.
  • Kalliath, Anthony. The Word in the Cave. The Experiential Journey of Swami Abhishiktananda to the Point of Hindu-Christian Meeting. Intercultural Publications, New Delhi 1996.
  • Oldmeadow, Harry. A Christian Pilgrim in India. The Spiritual Journey of Swami Abhishiktananda (Henri Le Saux). World Wisdom, Bloomington 2008.
  • Rodhe, Sten. Jules Monchanin, Pioneer in Hindu-Christian Dialogue. ISPCK, Delhi 1993.
  • Stuart, James. Swami Abhishiktananda: His Life Told Through His Letters. ISPCK, Delhi 1995.
  • Davy, Marie-Madeleine. Henri Le Saux, Swami Abhishiktananda: le passeur entre deux rives. Cerf, Paris 1981.
  • Weber, Jacques. L'Inde des Français. Quatre siècles de rencontres religieuses et culturelles. Les Indes Savantes, Paris 2018.

In italiano:

  • Appanah, Arvin. Abhishiktananda: discepolo di Cristo e discepolo di un guru. Queriniana, Brescia 2008.
  • Cozzi, Alberto. "Henri Le Saux (Abhishiktananda): un cristiano alle sorgenti dell'induismo." In Annali di Studi Religiosi, 4 (2003), pp. 179-204.
  • Griffiths, Bede. Il matrimonio tra Oriente e Occidente. Servitium, Sotto il Monte 1987.
  • Hackbarth-Johnson, Christian. "Abhishiktananda (Henri Le Saux): la ricerca dell'Assoluto tra cristianesimo e induismo." Concilium, 39/1 (2003), pp. 124-138.
  • Panikkar, Raimon. Il Cristo sconosciuto dell'Induismo. Vita e Pensiero, Milano 1976.
  • Vannucci, Giovanni. L'esperienza di Dio nell'Oriente cristiano. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1989.
  • Zago, Marcello. "Abhishiktananda: un pioniere del dialogo interreligioso." Studia Missionalia, 52 (2003), pp. 367-391.

Studi sul contesto storico e teologico

Dialogo interreligioso e inculturazione:

  • Amaladoss, Michael. Beyond Inculturation. Can the Many be One? ISPCK, Delhi 1998.
  • Clooney, Francis X. Hindu Wisdom for All God's Children. Orbis Books, New York 1998.
  • D'Costa, Gavin. Christianity and World Religions. Disputed Questions in the Theology of Religions. Wiley-Blackwell, Oxford 2009.
  • Dupuis, Jacques. Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso. Queriniana, Brescia 1997.
  • Neuner, Joseph. Christian Faith and Other Faiths. Christian Literature Society, Madras 1988.
  • Pieris, Aloysius. An Asian Theology of Liberation. Orbis Books, New York 1988.

Vedanta e Advaita:

  • Deutsch, Eliot. Advaita Vedanta: A Philosophical Reconstruction. University of Hawaii Press, Honolulu 1969.
  • Mayeda, Sengaku. A Thousand Teachings: The Upadesasahasri of Sankara. SUNY Press, Albany 1992.
  • Satchidanandendra Saraswati. The Method of the Vedanta. Adhyatma Prakasha Karyalaya, Holenarsipur 1997.
  • Marcaurelle, Roger. Freedom Through Inner Renunciation. Shankara's Philosophy in a New Light. SUNY Press, Albany 2000.

Riviste e periodici specializzati

  • Hindu-Christian Studies Bulletin (Society for Hindu-Christian Studies)
  • Studies in Interreligious Dialogue (Peeters Publishers)
  • Concilium - numeri speciali sul dialogo interreligioso
  • Studia Missionalia (Università Gregoriana, Roma)
  • Gregorianum (Università Gregoriana, Roma)
  • Indian Theological Studies (Dharmaram Publications)
  • Jeevadhara: A Journal of Christian Interpretation (Kottayam)
  • Religion and Society (Christian Institute for the Study of Religion and Society)

martedì 12 agosto 2025

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Lettura

Matteo 18,1-14

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
6 Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
10 Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 11 [È venuto infatti il Figlio dell'uomo a salvare ciò che era perduto].
12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? 13 Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.

Commento

Quante volte i cristiani hanno cercato di stabilire gerarchie nella chiesa terrestre e in quella celeste? Si tratta di una tendenza del tutto carnale, che tende a replicare nelle cose dello spirito quelle del mondo. 

Il Signore ci chiede una conversione radicale: la parola greca strafíte (v. 3) indica un voltarsi, il tornare indietro; è come se la fede dovesse riavvolgere il nastro della nostra vita, fino a farci nascere di nuovo. Quella "nascita dall'alto" di cui parla Gesù a Nidodemo: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). 

Non è confidando in noi stessi, nei nostri sforzi, nella nostre capacità, che otterremo i primi posti nel regno dei cieli. Anzi, Gesù dice che non solo così facendo non otterremo i primi posti ma non vi entreremo affatto, se non acquisteremo verso Dio un senso di abbandono filiale. Certo il bambino cerca di compiacere il proprio Padre, ma non penserebbe mai di poter fare a meno di lui. 

Solo un tale atteggiamento interiore ci libera dagli affanni, dall'invidia e dalle rivalità. Guai, afferma Gesù, a chi ferisce questa ritrovata innocenza, difesa dagli angeli del cielo. Questi appaiono qui come precettori di corte, ai quali è dato accesso in ogni momento alla presenza del sovrano per relazionargli quanto concerne gli affari dei suoi figli.

Non è un caso che all'ammonizione di Gesù segua il paragone del pastore che lascia le novantanove pecore per andare a cercare quella smarrita. Quale padre, consapevole di quanto dipenda da lui la sopravvivenza del proprio figlio, non lo andrebbe a cercare con sollecitudine se questo si smarrisse? 

La fede dona un senso di emancipazione dall'esasperato atteggiamento competitivo nel quale il mondo vorrebbe tenerci schiavi. "Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia" afferma il salmista (Sal 130,2). Il desiderio di prevaricazione cede così il posto alla semplicità; la preoccupazione cede il posto alla gioia.

Preghiera

Donaci, Signore, la semplicità dei piccoli, perché la fede nella tua sollecitudine paterna possa donarci la gioia di essere salvati. Amen.

Zen e śivaismo kashmiro: convergenze e divergenze tra due vie della non-dualità

Un'analisi comparativa tra la tradizione zen giapponese e lo śivaismo del Kashmir

Introduzione

La questione della conciliabilità tra diverse tradizioni contemplative rappresenta una delle sfide più affascinanti della spiritualità contemporanea. Zen e śivaismo kashmiro emergono come due sistemi particolarmente raffinati che, pur sviluppatisi in contesti culturali distanti, presentano convergenze sorprendenti nella loro ricerca della realizzazione ultima. Il presente studio esplora le affinità strutturali tra queste tradizioni, analizzandone le specificità e valutando le possibilità di dialogo autentico.

I. Fondamenti filosofici e cosmologici

1.1 La visione della realtà ultima

Lo śivaismo kashmiro concepisce la realtà ultima attraverso Paramaśiva, che trascende ogni determinazione pur essendo fonte di ogni manifestazione. Questa realtà si articola in Śiva (coscienza pura) e Śakti (energia dinamica creativa). La loro relazione non è dualistica ma rappresenta l'autoconoscenza dinamica della coscienza assoluta attraverso la propria vibrazione (spanda).

Abhinavagupta (950-1016) descrive questa realtà come cidānandaghana, massa compatta di coscienza-beatitudine che si espande nella molteplicità senza perdere unità. La manifestazione del mondo non è una caduta da superare ma līlā (gioco libero) della coscienza che si riflette in infinite modalità.

Lo zen parte dall'intuizione buddhista dell'anātman (non-sé) e della śūnyatā (vacuità), interpretate non-dualisticamente. La natura di Buddha (busho) non è entità sostanziale ma capacità intrinseca di realizzare il risveglio. Dogen chiarisce che "la pratica è illuminazione" (shusho-itto), dissolvendo distinzioni temporali tra non-risveglio e illuminazione.

La realtà zen è caratterizzata dall'interdipendenza (pratītyasamutpāda) di tutti i fenomeni, che sorgono in reciproca dipendenza senza esistenza intrinseca. Questa vacuità non è vuoto nihilistico ma pienezza dinamica dell'essere-così (tathatā) che si manifesta in ogni istante.

1.2 Causalità e manifestazione

Lo śivaismo kashmiro adotta una teoria della causazione che integra trasformazione (pariṇāma) e manifestazione (vivarta). Il mondo fenomenico è trasformazione reale di Śakti che non compromette l'immutabilità di Śiva. Il concetto di ābhāsa (riflesso) è centrale: ogni fenomeno è riflesso della coscienza in se stessa, reale nell'apparizione ma privo di esistenza indipendente.

Lo zen, radicato nella filosofia Mādhyamaka, adotta la originazione interdipendente (pratītyasamutpāda) che dissolve ogni causalità sostanziale. I fenomeni non "sorgono" da una causa ultima ma si co-originano in una rete di relazioni prive di fondamento ontologico fisso.

Entrambe convergono nel rifiutare il dualismo tra manifestazione e Assoluto: per lo śivaismo kashmiro il mondo è Śiva-Śakti manifesto; per lo zen, saṃsāra e nirvāṇa sono "non-due" (advaya).

II. Metodologie contemplative

2.1 Il riconoscimento diretto

Lo śivaismo kashmiro sviluppa tecniche di riconoscimento (pratyabhijñā) che mirano alla realizzazione immediata della propria natura divina. L'auto-riconoscimento (svarūpa-pratyabhijñā) è la tecnica fondamentale: riconoscere che la coscienza investigante è già coscienza di Śiva. Non si tratta di raggiungere uno stato diverso ma di riconoscere ciò che si è sempre stati.

Lo zen sviluppa parallelamente tecniche di intuizione diretta che evitano costruzioni concettuali. Lo shikantaza ("solo sedersi") di Dogen elimina l'orientamento teleologico: non si medita per raggiungere l'illuminazione ma si esprime l'illuminazione attraverso la postura. I koan dissolvono l'attività discorsiva per far emergere la "mente originaria" (honshin).

Huangbo insegnava: "La vostra mente di tutti i giorni - quella è la Via!", risuonando con l'insegnamento kashmiro che la coscienza ordinaria, riconosciuta nella sua vera natura, è già coscienza di Śiva.

2.2 Approccio alle energie sottili

Una differenza significativa emerge nell'approccio al corpo sottile. Lo śivaismo kashmiro sviluppa una scienza sofisticata delle energie sottili (sūkṣmaśarīra) con mappatura di cakra, nāḍī e livelli di prāṇa. Il Vijñānabhairava Tantra presenta 112 dhāraṇā (tecniche di concentrazione) che utilizzano energie corporee, respiro, suoni, visualizzazioni e attività sessuale come porte alla coscienza suprema.

Particolarmente significativa è la tecnica dell'uccāra (pronuncia del suono AUṂ), dove il praticante riconosce la propria identificazione con la vibrazione primordiale che genera l'universo. O la pratica della kumbhaka (ritenzione del respiro), dove nell'intervallo tra inspirazione ed espirazione si sperimenta la coscienza priva di modificazioni (nirvikalpaka-samādhi).

Lo zen adotta un approccio più sobrio, enfatizzando naturalezza (shizen) e non-interferenza con i processi spontanei del corpo-mente. La pratica dello zazen include attenzione a postura e respiro senza elaborate mappature energetiche, privilegiando la semplicità diretta.

III. Estetica e sensibilità spirituale

3.1 Arte e esperienza spirituale

Lo śivaismo kashmiro sviluppa la teoria del rasa (sapore estetico-spirituale). Abhinavagupta dimostra come l'esperienza estetica sia strutturalmente identica a quella spirituale: entrambe comportano la dissoluzione dell'ego e l'identificazione con la coscienza universale. Il sahṛdaya (colui che ha il cuore in sintonia) sperimenta attraverso l'arte la propria natura universale. L'arte diventa sādhana e la bellezza rivelazione del divino.

Lo zen sviluppa un'estetica della semplicità significativa: wabi-sabi (bellezza dell'imperfetto), ma (vuoto significativo), mono no aware (malinconia delle cose). L'arte zen mira a evocare la natura di Buddha attraverso la suggestione piuttosto che con una rappresentazione esplicita.

Un haiku di Bashō illustra perfettamente questa sensibilità:

Furu ike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto

(Antico stagno -
una rana si tuffa
suono dell'acqua)

Entrambi trasformano l'esperienza artistica in veicolo di realizzazione spirituale, ma attraverso sensibilità diverse: lo śivaismo celebra la ricchezza simbolica, lo zen privilegia l'essenzialità evocativa.

3.2 Spazio sacro e architettura contemplativa

Lo śivaismo kashmiro concepisce il tempio come yantra tridimensionale, rappresentazione geometrica dell'universo che facilita l'identificazione con Śiva-Śakti. Il maṇḍala architettonico, con il garbhagṛha (sanctum sanctorum) al centro e le divinità ausiliarie disposte secondo simmetrie precise, ricrea la struttura della coscienza cosmica.

L'architettura zen sviluppa principi di vuoto funzionale e naturalezza essenziale che si esprimono nei giardini secchi (karesansui), nelle sale di meditazione (zendo) e nell'integrazione armoniosa con il paesaggio naturale. Il giardino di rocce del Ryōan-ji, con le sue quindici pietre disposte in gruppi asimmetrici su ghiaia rastrellata, evoca la natura vuota e interdipendente della realtà attraverso minimalismo e suggestione.

IV. Maestri e sviluppi storici

4.1 Figure paradigmatiche

Lo śivaismo kashmiro culmina in Abhinavagupta (950-1016), filosofo, teologo, esteta e yogin che integra tutti gli aspetti della cultura spirituale indiana. Il suo Tantrāloka sistematizza l'intero corpus tantrico, mentre i commentari al Īśvarapratyabhijñā ne chiariscono le implicazioni sottili.

Utpaladeva (900-950) sviluppa la filosofia del Pratyabhijñā ("riconoscimento") che dimostra logicamente l'identità tra la coscienza individuale e quella universale. La sua Īśvarapratyabhijñākārikā rimane un capolavoro della logica mistica indiana.

Lo zen presenta figure di diversa grandezza: Bodhidharma inaugura l'approccio diretto che bypasserebbe scritture e rituali; Huineng (638-713) rivoluziona il buddhismo cinese con l'illuminazione improvvisa (dunwu); Dogen (1200-1253) trasforma lo zen in via che integra pratica e illuminazione. Il suo Shobogenzo esplora la non-dualità attraverso la fenomenologia dell'esperienza meditativa.

4.2 Incontri contemporanei

Il XX secolo vede i primi dialoghi sistematici. Swami Lakshmanjoo (1907-1991), ultimo grande maestro dello śivaismo kashmiro, riconosce affinità con lo zen nell'approccio diretto. D.T. Suzuki (1870-1966) mostra interesse per le tradizioni non-dualistiche indiane.

Maestri come Jean Klein (1916-1998) sviluppano sintesi che integrano elementi kashmiri con sensibilità zen, trascendendo categorie settarie attraverso l'insegnamento dell'"auto-investigazione" che punta al riconoscimento della consapevolezza non-oggettuale.

V. Psicologia della liberazione

5.1 L'individualità illuminata

Entrambe affrontano il paradosso dell'individualità post-illuminazione. Lo śivaismo kashmiro riconosce che il jīvanmukta (liberato vivente) mantiene personalità fenomenica (vyāvahārika-ahaṃkāra) come strumento d'azione spontanea. Il realizzato può assumere qualsiasi ruolo senza identificazione limitante, esprimendo attraverso ogni attività la danza cosmica della coscienza.

Abhinavagupta descrive questo stato come jagadānanda, la beatitudine che pervade l'universo intero. Il jīvanmukta non trascende il mondo ma lo trasfigura, riconoscendo ogni esperienza come modalità della propria auto-contemplazione divina.

Lo zen articola similmente la personalità post-satori come espressione spontanea della natura di Buddha non ostacolata dall'illusione dell'ego. Tuttavia enfatizza maggiormente l'ordinarietà (heijo) del risvegliato: "Prima del satori, tagliare legna e portare acqua. Dopo il satori, tagliare legna e portare acqua".

5.2 Trasmissione spirituale

Lo śivaismo kashmiro attribuisce ruolo centrale al guru come incarnazione di Śiva-Śakti. La relazione guru-discepolo (guru-śiṣya-paramparā) è concepita come identificazione progressiva. Il guru può trasmettere direttamente l'energia spirituale (śaktipāta) attraverso sguardo (dṛṣṭipāta), tocco (sparśapāta), parola (śabdapāta) o presenza (śāṃbhava).

Lo zen sviluppa la trasmissione mente-a-mente (ishin-denshin) che trascende parole e lettere. Il dharma-sigillo (dharma-in) viene trasmesso attraverso riconoscimento diretto della natura di Buddha condivisa. Tuttavia enfatizza maggiormente l'auto-realizzazione (jiriki) rispetto alla dipendenza dalla grazia del maestro.

VI. Convergenze e divergenze fondamentali

6.1 Affinità strutturali

Entrambe le tradizioni condividono una visione dinamica della realtà ultima che le distingue da approcci più statici. Questa dinamicità si esprime attraverso un'enfasi comune sulla spontaneità illuminata, che nello śivaismo kashmiro prende la forma del sahaja (naturalezza spontanea) mentre nello zen si manifesta come shizen (naturalezza). Inoltre, entrambe le tradizioni rigettano dualismi rigidi, preferendo un approccio diretto alla realizzazione che bypassa elaborate costruzioni concettuali.

La trasformazione dell'arte in autentica pratica spirituale rappresenta un'altra convergenza significativa, così come l'integrazione organica tra contemplazione e vita quotidiana. Infine, entrambe le tradizioni celebrano una naturalezza post-illuminazione che trascende ogni artificiosità spirituale.

6.2 Differenze sostanziali

Le divergenze principali emergono innanzitutto nella struttura teologica: lo śivaismo mantiene una dimensione fondamentalmente teistica dove Śiva e Śakti sono riconosciuti come principi personali supremi degni di bhakti (devozione), mentre lo zen rimane essenzialmente non-teistico nella sua orientazione buddhista.

L'approccio alle energie sottili rappresenta un'altra differenza marcata: lo śivaismo sviluppa elaborate mappe del sūkṣmaśarīra (corpo sottile) con tecniche sistematiche per lavorare con cakra, nāḍī e prāṇa, mentre lo zen privilegia una naturalezza più semplice con attenzione sobria alla postura e al respiro.

A livello estetico, emerge il contrasto tra la ricchezza simbolica kashmira - con i suoi elaborati maṇḍala, yantra e iconografia complessa - e il minimalismo zen espresso attraverso ensō, sumi-e e karesansui.

Il ruolo del maestro spirituale rivela un'altra divergenza significativa: la centralità del guru come śaktipāt-dīkṣaka (colui che trasmette l'energia spirituale) nello śivaismo contrasta con l'enfasi zen sull'auto-realizzazione (jiriki), seppur con profondo rispetto per la trasmissione ishin-denshin.

Infine, l'atteggiamento verso emozioni e desideri mostra orientamenti diversi: lo śivaismo tantrico trasforma direttamente le energie emotive in coscienza illuminata, mentre lo zen privilegia equanimità (upekkhā) e non-attaccamento (muryoku).

VII. Possibilità di sintesi

7.1 Livelli di compatibilità

A livello esperienziale, praticanti avanzati di entrambe riferiscono stati di coscienza che trascendono distinzioni dottrinali - momenti di riconoscimento della natura luminosa e spontanea della mente che caratterizza entrambi i percorsi.

A livello metodologico, le pratiche sono spesso complementari. Un praticante zen può beneficiare delle tecniche kashmire di lavoro con l'energia sottile (kuṇḍalinī-yoga, prāṇāyāma, visualizzazione di cakra), mentre un praticante kashmiro può apprezzare la disciplina e semplicità zen (zazen, kinhin, vita monastica essenziale).

A livello filosofico, le differenze rimangono significative ma non incompatibili se viste come linguaggi diversi per intuizioni simili sulla natura non-duale della realtà.

7.2 Mutua fecondazione

Piuttosto che sintesi forzata, è possibile una mutua fecondazione che arricchisca entrambe mantenendo le rispettive specificità. La tradizione zen può integrare comprensioni kashmire dell'energia spirituale senza perdere la sua caratteristica sobrietà. Lo śivaismo kashmiro può apprezzare l'immediatezza zen senza abbandonare la ricchezza delle sue elaborazioni tantriche.

Esempi contemporanei di questa mutua fecondazione includono approcci integrati che combinano shikantaza con la consapevolezza dei cakra, meditazioni che integrano il vuoto zen (śūnyatā) con la pienezza kashmira (pūrṇatā), forme di arte contemplativa che fondono il minimalismo zen con il simbolismo tantrico, e comunità spirituali che onorano entrambe le trasmissioni senza confonderle.

Conclusione

Zen e śivaismo kashmiro mostrano risonanza più naturale e profonda rispetto ad altre possibili sintesi interreligiose. Entrambi privilegiano esperienza diretta (aparokṣa-jñāna) su speculazione (parokṣa-jñāna), spontaneità illuminata (sahaja / shizen) su rigidità dottrinale, celebrazione del presente vivente (vartamāna / ima) su fuga dal mondo.

La loro "conciliabilità" risiede non in sintesi dottrinale ma in dialogo vivente che permette illuminazione reciproca senza compromettere l'integrità di ciascuna tradizione. Come suggeriva Abhinavagupta, la realtà ultima (paramārtha) è abbastanza vasta da manifestarsi attraverso infinite modalità (upāya) - zen e śivaismo kashmiro rappresentano due di queste modalità che, mantenendo specificità, possono illuminarsi a vicenda nel riconoscimento di ciò che siamo sempre stati (svabhāva).

Questa convergenza non elimina le differenze ma le trasforma in complementarità creative, offrendo al ricercatore contemporaneo prospettive multiple sulla stessa verità non-duale (advaya-satya) che costituisce il cuore pulsante di entrambe le tradizioni. Il risultato non è sincretismo superficiale ma dialogo autentico tra due espressioni mature della ricerca umana dell'Assoluto (paramātman / buddhatā).

Bibliografia

Opere fondamentali dello śivaismo kashmiro

Testi primari:

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  • Utpaladeva. Īśvarapratyabhijñākārikā. KSTS, Kashmir 1921.
  • Śiva Sūtra. Con commento di Kṣemarāja. KSTS, Kashmir 1911.
  • Spanda Kārikā. Con commento di Kṣemarāja. KSTS, Kashmir 1913.
  • Vijñānabhairava Tantra. Ed. critica, Motilal Banarsidass, Delhi 1979.

Studi e traduzioni:

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  • Sanderson, Alexis. "Śaivism and the tantric traditions". In The world's religions, Routledge, London 1988.
  • Singh, Jaideva. Spanda-kārikās: the divine creative pulsation. Motilal Banarsidass, Delhi 1980.
  • Torella, Raffaele. The philosophical traditions of Kashmir śaivism. Routledge, London 2020.

In italiano:

  • Gnoli, Raniero. Luce delle sacre scritture (Tantrāloka). UTET, Torino 1972.
  • Silburn, Lilian. La kuṇḍalinī o l'energia del profondo. Adelphi, Milano 1997.
  • Padoux, André. Tantra. Einaudi, Torino 2011.
  • Torella, Raffaele. Il pensiero dell'India: un'introduzione. Carocci, Roma 2008.

Opere fondamentali dello zen

Testi primari:

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  • Mumonkan (La barriera senza porta). Ed. Zenkei Shibayama, Harper & Row, San Francisco 1974.
  • Blue cliff record. Ed. Thomas Cleary, Shambhala, Boston 1992.

Studi classici:

  • Suzuki, D.T. Essays in zen Buddhism, 3 voll. Rider & Co., London 1949-1953.
  • Watts, Alan. The way of zen. Pantheon Books, New York 1957.
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Studi accademici:

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In italiano:

  • Suzuki, D.T. Saggi sul buddhismo zen, 3 voll. Mediterranee, Roma 1975-1985.
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  • Watts, Alan. La via dello zen. Feltrinelli, Milano 1976.
  • Pasqualotto, Giangiorgio. Il buddhismo: i fondamenti storici e dottrinali. Bruno Mondadori, Milano 2003.
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Studi comparativi

In inglese:

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In italiano:

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  • Gnoli, Raniero. La rivelazione del Buddha, 2 voll. Mondadori, Milano 2001-2003.
  • Tucci, Giuseppe. Storia della filosofia indiana. Laterza, Bari 1977.
  • Pensa, Corrado. La tranquilla passione: scritti sulla meditazione di consapevolezza. Mondadori, Milano 1994.

Riviste specializzate

  • Journal of Indian philosophy (Springer)
  • Philosophy East and West (University of Hawaii Press)
  • Buddhist-Christian studies (University of Hawaii Press)
  • Studia religiosa (Italian Journal of Religious Studies)
  • Filosofia e teologia (Dehoniane, Bologna)
  • Paramita: quaderni di buddhismo (Marietti, Torino)