Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

venerdì 17 gennaio 2025

Antonio il Grande e il combattimento spirituale nel deserto

L'itinerario spirituale di Antonio il Grande ci è noto attraverso il racconto della sua vita che ne fece Atanasio, vescovo di Alessandria, in Egitto. Si narra nella Vita che quando Antonio sentì proclamare in chiesa le parole rivolte dal Signore al giovane ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21), "come se la lettura fosse proprio per lui", subito si affrettò a metterlo in pratica. "Abbiamo le scritture e la libertà dataci dal Salvatore", amava ripetere (Vita di Antonio 26,4). Antonio non cerca altro che vivere il vangelo nella libertà da qualsiasi compromesso con la mondanità, nella libertà dalle passioni, frutto di una dura lotta interiore.
Se nei primi passi della vita monastica si fa guidare da un anziano monaco nei pressi del suo villaggio, poi si inoltra nel deserto dove è raggiunto da numerosi discepoli; la fama della sua sapienza spirituale, della sua mitezza, del suo discernimento varca i confini dell'Egitto: i filosofi pagani lo vogliono incontrare per discutere con lui, l'imperatore gli scrive. Assediato dalle folle che gli chiedono un consiglio, una parola di consolazione, di incoraggiamento, Antonio, ormai anziano, pacificato e operatore di pace, si ritira sul monte Qolzum, dove tuttora vi è un monastero a lui dedicato. Attraverso la biografia scritta da Atanasio, definita da Gregorio di Nazianzo, "regola di vita monastica sotto forma di racconto" (Discorso 21,5), Antonio diventa padre dei monaci sia d'oriente che d'occidente.

Tracce di lettura

Disse abba Antonio ad abba Poemen: «Questo è il grande lavoro dell'uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi la tentazione fino all'ultimo respiro».

Disse ancora: «Dal prossimo ci vengono la vita e la morte. Perché se guadagniamo il fratello guadagniamo Dio, ma se scandalizziamo il fratello pecchiamo contro Cristo».

Disse ancora: «Chi dimora nel deserto e cerca la pace è liberato da tre guerre: quella dell'udito, quella della lingua e quella degli occhi. Gliene resta una sola: quella del cuore».

Tre padri avevano l'abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell'anima; uno, invece, taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio gli disse: «Da tanto tempo vieni qui e non mi chiedi niente!». E quello gli rispose: «Mi basta vederti, padre!».

(Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 4.9.11.25.27)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Lasciare andar via

Lettura

Marco 2,1-12

1 Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa 2 e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola.
3 Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. 4 Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. 5 Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati».
6 Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: 7 «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?».
8 Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate così nei vostri cuori? 9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? 10 Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, 11 ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua». 12 Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

Commento

Il miracolo compiuto da Gesù per guarire il paralitico di Cafarnao mostra il ruolo della fede nell'attivare il potere di guarigione del Signore. L'utilizzo del verbo greco aphiemi, "lasciare andar via", indica che la remissione dei peccati operata da Gesù è un atto di liberazione integrale della persona sofferente. 

Come narrato dall'evangelista Marco la remissione dei peccati è attribuita direttamente a Gesù, per questa ragione egli viene accusato di bestemmia. L'accusa contro di lui viene dai dottori della legge e non dal popolo. Spesso proprio coloro che dovrebbero fare da guida confondono la luce con le tenebre.

Gesù non si limita a predicare nella sinagoga, ma utilizza ogni tempo e luogo per ammaestrare le folle e sanare gli ammalati, come una semplice casa, in un giorno feriale. Dall'avvento di Cristo, il regno di Dio è tra noi, il Risorto e lo Spirito che ci ha donato agiscono anche oltre i confini dei luoghi istituzionali di culto. 

Il fatto che il paralitico sia portato su un lettino indica la severità del suo stato di salute; egli è probabilmente tetraplegico. Il modo "rocambolesco" con cui gli amici del paralitico cercano di condurre questi a Gesù attesta non solo la loro fede ma anche la grande compassione per l'amico malato. Il loro gesto testimonia la potenza dell'intercessione dei credenti. 

Gesù rimette i peccati al paralitico anziché compiere un gesto diretto di guarigione, attestando che la radice da cui scaturisce ogni male è il peccato, non necessariamente quello individuale (come dimostra il racconto di Giobbe), ma quello che rende l'umanità responsabile "in solido" e che è entrato nel mondo per opera del Maligno. Gesù cura l'effetto, che è la malattia, allontanando la causa, che è il peccato.

Rimettendo il peccato e compiendo la guarigione con una formula indicativa ("Ti sono rimessi"... "Io ti dico...") Gesù dichiara implicitamente l'autorità ricevuta dal Padre, testimoniata anche dal prodigio dell'immediato recupero della salute del paralitico. 

Il comandamento di allontanarsi con il suo lettuccio all'uomo risanato attesta che, sebbene egli porti con sé il segno della sua pregressa malattia, ha recuperato appieno le sue forze ed è pronto per rimettersi in cammino compiendo la volontà di Dio. Il peccato può lasciare in noi cicatrici profonde, ma per la grazia che ci è donata in Cristo dobbiamo guardarle lasciando andare via il timore, per esprimere amore e gratitudine verso colui che si è preso cura delle nostre ferite.

Preghiera

Rendici, Signore, consapevoli del bisogno di essere da te guariti e liberati dai lacci del peccato; affinché possiamo riprendere, con rinnovato vigore, la corsa verso la gloria del tuo regno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 16 gennaio 2025

Georg Burkhardt, detto Spalatino. Umanista e riformatore in Sassonia

Georg Burckhardt, detto generalmente lo Spalatino dal suo luogo di origine, Spalt (Norimberga), dove nacque il 17 gennaio 1484, fu sacerdote e umanista. Educato a Norimberga e a Erfurt, insieme con Lutero, entrò ben presto in rapporti molto stretti con la corte elettorale di Sassonia, presso la quale fu dapprima precettore dell'elettore Giovanni Federico e dal 1514 cappellano e segretario di Federico il Saggio. Data tale sua posizione servì da intermediario tra l'elettore Federico e Lutero e contribuì non poco al primo affermarsi della Riforma.
Burkhardt contribuì all'introduzione della Riforma e all'organizzazione della Chiesa luterana in Sassonia; partecipò poi alla stesura della Confessione di Augusta del 1530. Scrisse gli Annales reformationis, un elenco di fatti e personaggi della Riforma dal 1463 al 1526 e partecipò su invito di Lutero alla stesura degli Articoli di Smalcalda, sollecitati dal principe elettore di Sassonia, Giovanni Federico I (1532-1547) come risposta alla bolla papale Ad dominici gregis.
Morto Federico, ebbe la confidenza anche dell'elettore Giovanni il Costante, ma dal 1525 si ritirò ad Altenburg, dove svolse il ministero pastorale e morí il 16 gennaio 1545.
Tradusse in latino scritti di Lutero, Melantone, Erasmo, e scrisse una sua autobiografia e le vite degli elettori di Sassonia Federico, Giovanni e Giovanni Federico. Del suo prezioso epistolario la massima parte giace ancora inedita a Weimar.


Lucas Cranach, Ritratto di Georg Spalatino (1509), Lipsia, Museum der Bildenden Künste

Fermati 1 minuto. Non il timore degli schiavi ma la maturità dei figlio di Dio

Lettura

Marco 1,40-45

40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». 41 Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». 42 Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. 43 E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: 44 «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». 45 Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.

Commento

Fino a questo momento Gesù aveva manifestato solo in privato il suo atteggiamento critico nei confronti della legge; ora invece si mette apertamente contro di essa, toccando il lebbroso per sanarlo. Questa "rottura" è possibile perché con lui si inaugura il regno di Dio e la schiavitù della legge è sostituita dal nuovo patto tra Dio e l'uomo nella grazia. 

Inginocchiandosi, il lebbroso mostra la sua umiltà verso Cristo, e proclama la certezza di poter essere guarito, mostrando una fiducia salda, che gli farà ottenere proprio ciò in cui spera. La compassione di Gesù, letteralmente la sua "commozione" (gr. splenchnizomai) si trova solo nei sinottici e indica la sua umanità, immagine perfetta della misericordia divina.

Gesù nel guarire il lebbroso non ha bisogno di rivolgere una preghiera di supplica a Dio ma parla con autorità: «Lo voglio, guarisci!»; ciò testimonia la sua investitura messianica e il suo agire in sinergia con il Padre. Il verbo utilizzato per "guarire" è il greco katharizo, il cui significato proprio è quello di "purificare". L'azione di Cristo non solo guarisce il corpo, ma rigenera lo spirito. 

Una volta guarito il lebbroso Gesù "lo rimandò" (v. 43), perché il tocco della sua mano risanatrice ci restituisce la libertà dei figli di Dio. Dirà Paolo, nella lettera ai Romani: "voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi" (Rm 8,15). La vera religione non è dipendenza psicologica, alienazione, ma maturazione della nostra persona, che si apre a una dimensione di gratitudine verso Dio e generosità verso il prossimo. 

Il comando di Gesù di non dir niente a nessuno è volto ad evitare che la folla e i curiosi siano attratti unicamente dalle sue guarigioni. Ma nonostante questo divieto il lebbroso sanato comincia a "proclamare e divulgare il fatto" (v. 45); è difficile nascondere un evento così clamoroso. D'altra parte anche recandosi al tempio per un sacrificio di ringraziamento il lebbroso sanato avrebbe generato grande stupore, poiché in tutta la Bibbia troviamo solo due casi in cui Dio guarisce un lebbroso (Nm 12,10-15; 2 Re 5,1-14). 

Dopo aver compiuto miracoli e predicato, Gesù torna alla ricerca di luoghi deserti, per dedicarsi alla preghiera. È questo il duplice movimento del Figlio, inviato dal Padre, che si affaccia sul mondo, e al Padre ritorna, per celebrarne la gloria.

Preghiera

Purifica le nostre anime e i nostri corpi Signore, affinché possiamo essere sacrificio a te gradito, proclamando nel mondo la tua lode. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 15 gennaio 2025

Serafino di Sarov. Farsi cosa tra le cose, per ricapitolare l'intera creazione in Dio

Nel 1759 nasce a Kursk, in Russia, Prochor Mošnin, diventato più tardi uno dei più amati monaci russi e canonizzato dal Patriarcato di Mosca il 19 luglio del 1903 con il nome di Serafim di Sarov. Recatosi diciottenne in pellegrinaggio alle Grotte di Kiev, Prochor fu indirizzato dallo starec Dositeo all'eremo di Sarov, dove intraprese con tale convinzione la vita monastica da ricevere alla professione il nome di Serafim, «l'ardente». 
Serafino di Sarov è il santo più amato e venerato, con san Sergio di Radonez, tra tutti i santi russi; egli è una vera e propria «icona della spiritualità russa» (Pavel Evdokimov), una delle sue espressioni più mature e consapevoli. Serafino è il santo serafico, dolce e mite di cuore, uno dei volti più luminosi di tutta la tradizione ortodossa; ma vi è in lui anche un’eccedenza che trascende questa stessa tradizione che lo ha nutrito. Proprio perché egli ne incarna fino in fondo le radici, il suo messaggio ha una portata universale, per tutte le Chiese e per tutti gli uomini.
Prokhor Moshnin, il futuro starec Serafino, nacque a Kursk, nel governatorato di Tambov, il 19 luglio 1759, da una famiglia di mercanti. Il padre Isidoro (Sidor) morì quando Procoro aveva solo tre anni; la madre Agathia gli trasmise una grande eredità di fede e di preghiera. Già le Vite più antiche narrano come a sette anni rimase illeso cadendo dalle impalcature della chiesa, dedicata a san Sergio, che l’impresa di famiglia stava costruendo: la madre vi lesse un intervento miracoloso della Madre di Dio.
Sin da ragazzo, Procoro imparò a leggere assiduamente i Salmi e i Vangeli. A diciassette anni si recò in pellegrinaggio a Kiev, per interrogare e ascoltare il celebre recluso Dosifej, che lo indirizzò all’eremo di Sarov. Il 20 novembre 1779, vigilia della Presentazione al Tempio della Madre di Dio, il giovane Procoro iniziò il suo noviziato, lavorando per obbedienza prima come fornaio, poi come falegname. In questi anni conobbe gli scritti dei Padri sulla vita spirituale e iniziò a praticare la preghiera di Gesù. Fu allora che una misteriosa e lunga malattia lo colpì, costringendolo a letto per diciotto mesi. Al superiore di Sarov, lo starec Pacomio, preoccupato per la vita del giovane, egli confidò: «Ho consegnato me stesso ai veri medici delle anime e dei corpi: il Signore nostro Gesù Cristo e la sua purissima Madre, la benedetta Vergine Maria». E la Madre di Dio visitò il novizio Procoro, risanandolo.
Questo episodio ha un valore emblematico. Molti anni dopo, quando dei briganti assalirono Serafino che si era ritirato nella solitudine della foresta di Sarov, lasciandolo in fin di vita, la Madre di Dio ritornò a manifestarsi a lui, accompagnata dagli apostoli Pietro e Giovanni, ai quali avrebbe detto: «Costui è della nostra stirpe». Come san Sergio di Radonez, come san Francesco di Assisi in Occidente, Serafino appartiene a una particolare “qualità” di testimoni nella storia della Chiesa: alla nuvola degli ermeneuti, dei narratori dell’agape, della dolcezza, della tenerezza; coloro che sperimentano e quindi affermano che Dio è soltanto amore (cfr. 1Gv 4, 8), quelli che conservano le parole nel proprio cuore (Lc 2, 51) piuttosto che predicarle con la bocca, coloro che fanno di ogni giorno un’alba in cui correre pieni di fuoco verso il sepolcro per contemplare la Risurrezione. Maria, la Madre del Signore, Pietro, Giovanni: meravigliosa e bruciante costellazione che attraversa la storia nel segno dell’accoglienza reciproca, nel ridirsi costantemente madre e figlio (cfr. Gv 19, 26-27), nel consumarsi di amore per l’incontro con l’Amato, nel rallegrarsi per la risurrezione di Cristo! Che cosa possono ridire incessantemente questi testimoni dei primi giorni se non che «Cristo è risorto!»? Serafino, anch’egli della stessa stirpe di questi santi agapici, quando incontrava un fratello lo salutava con l’augurio pasquale in ogni tempo dell’anno: «Radost’ moja, Christos voskrese! [Mia gioia, Cristo è risorto!]». Leggendo la sua vita non possiamo che acconsentire alle parole pronunciate dalla Madre di Dio su di lui, non possiamo che cogliere il fiammeggiante tra i fiammeggianti, i serafini neotestamentari che hanno vissuto di amore.
«Il 13 agosto 1786, con l’autorizzazione del Santo Sinodo, Procoro fu tonsurato monaco dal superiore, lo ieromonaco Pacomio, e gli fu imposto il nome di Serafino. Accolto il nuovo nome angelico, egli distolse gli occhi dalle cose vane e, convertitosi con la conversione voluta da Dio, diresse il proprio cammino, nell’attenzione interiore e con la mente immersa nella contemplazione di Dio, verso l’eterno sole di verità, Cristo Dio, il nome del quale egli portava sempre nel cuore e sulle labbra». Così è raccontato l’inizio del cammino monastico di Serafino in una delle prime Vite. Ancora diacono, durante la liturgia ebbe la visione del Cristo veniente nella gloria. Nel 1793 fu ordinato prete dal vescovo di Tambov; dopo la morte del superiore Pacomio nel 1794, chiese al suo successore Isaia il permesso di condurre vita solitaria. Ritiratosi in un’isba nella foresta, che chiamerà «il Piccolo deserto lontano», si diede a una vita ascetica contraddistinta da lunghi digiuni, frequenti veglie e dal lavoro in un orticello da cui traeva il sostentamento. Tornava in monastero solo la domenica per la liturgia comune e per comunicare all’eucaristia.
Teso a rivivere la vita di Cristo, Serafino diede al suo deserto i nomi della terra dell’incarnazione del Signore, per averne una memoria incessante. Un angolo della foresta è chiamato Nazareth, un altro Betania, la cima di una collina è indicata come Monte delle Beatitudini, una grotta è chiamata Getsemani. Ogni settimana leggeva per intero il Nuovo Testamento e le Regole di Pacomio, si esercitava nell’ininterrotta memoria di Dio praticando la preghiera del cuore, apprendeva e metteva in pratica gli scritti dei grandi padri monastici, e soprattutto continuava il suo sforzo di purificazione su cammini spirituali di cui purtroppo molti uomini ignorano l’esistenza.
Ma qui, nel deserto della solitudine e della lotta contro le passioni e i pensieri ispirati dal demonio, Serafino conosce la sua “discesa agli inferi”. Ogni credente sa che prima o poi, nel suo cammino spirituale, interviene un’ora cattiva, di prova, di lotta indicibile e mai raccontabile agli altri. È l’ora in cui Dio sembra consegnare il suo servo alle potenze infernali, a quelle dominanti nascoste che si mostrano coabitanti nell’uomo, così che l’uomo di preghiera si trova gettato in un faccia a faccia spaventoso e disperato con il male. Anche Mosè, servo di Dio, conobbe quest’ora quando «il Signore gli andò incontro e cercò di farlo morire» (Es 4, 24). Ogni cristiano che ha ricevuto un grado di fede elevato e una missione particolare da Dio, prima o poi conosce questa notte oscura, che ci visita nella malattia fisica, o nella malattia psichica, o nell’esperienza del peccato più devastante. È sempre un’ora misteriosa di cui più tardi neanche il protagonista sa riconoscere l’inizio e la fine, come sia avvenuta la discesa e la risalita, la morte e la risurrezione. Battezzato nella morte di Cristo, colui che è impegnato in una reale sequela deve scendere con Lui negli inferi prima di essere nuova creatura. Sovente questa discesa è la garanzia di un’assunzione seria e decisiva della propria vocazione, di una chiara coscienza di sé quale peccatore perdonato, un salvato da Dio.
Serafino aveva già sperimentato questo abitare nell’ombra della morte nella lunga malattia da novizio, ma negli anni del suo apprendistato della vita eremitica vive quella che sarà la sua esperienza ascetica, il suo podvig più radicale. Come gli antichi stiliti del deserto, Serafino trascorre tre anni, mille giorni e mille notti in preghiera, inginocchiato di giorno su una pietra nella sua cella, e di notte sopra una roccia della foresta, le mani levate al cielo, gridando incessantemente: «Signore, abbi pietà di me, peccatore!». Serafino conosce la discesa all’inferno attraverso le degradazioni dell’essere creato, dall’umano all’animale al vegetale fino a farsi cosa tra le cose, roccia e vento, ricapitolando così tutto il passato cosmico, assumendo nel suo corpo e nel suo modo di vivere la preghiera e il gemito di ogni creatura, divenendo così voce e invocazione di misericordia non solo per tutti gli uomini peccatori, ma per la creazione intera, che geme e soffre in attesa della propria redenzione.
Per tre anni, forse tra il 1807 e il 1810, Serafino osserva il silenzio più assoluto. Dio lo ha reso muto, agnello afono come il Cristo nella passione. Che cosa accadde? Perché quest’ascesi estrema, questo totale estraniamento dalla comunità degli uomini? Non lo sapremo mai! Forse quest’assenza di parola è anch’essa, paradossalmente, una profezia: il silenzio è il linguaggio delle realtà inanimate, ma è anche il linguaggio del mondo futuro. Il comportamento di questo eremita doveva però apparire a molti bizzarro o incomprensibile. Il nuovo superiore Nifonte richiama Serafino dal suo “Piccolo deserto lontano” chiedendogli di ritornare a vivere in monastero. Serafino obbedisce, il Signore sembra chiamarlo a una nuova tappa nel suo cammino di trasfigurazione a immagine di Cristo.
Ritornato a Sarov, Serafino visse per alcuni anni in completa reclusione nella sua cella. Un’icona della Madre di Dio, che egli chiama «gioia di tutte le gioie», è la testimone silenziosa della sua preghiera incessante. Sono ormai passati più di trent’anni dalla sua entrata in monastero. Il lungo tempo della preparazione è terminato, la metamorfosi pneumatica si è compiuta, i demoni sono vinti, e Serafino partecipa ormai delle condizioni del Risorto. Nel 1813 attenua il rigore della reclusione e comincia ad accogliere ospiti e pellegrini ai quali dà i suoi consigli, quale starec ormai pervenuto al discernimento, alla pace interiore. Questo rinnovato incontro con i fratelli nella luce mostra che Serafino non aveva fuggito gli uomini, bensì il mondo; disceso agli inferi con Cristo, con il Cristo risorto dai morti può ora annunciare con gioia e autorevolezza la vittoria definitiva di Cristo sulla morte.
La luce ormai ardente non può restare nascosta. Nel 1825, per un’ispirazione della Tutta Santa, la Madre di Dio, Serafino esce dalla sua cella. Inizia qui l’ultima tappa della sua vita, la sua epifania. Serafino risuscitato, rialzato, risollevato dalla potenza di Dio che lo ha chiamato alla divinizzazione, incontra i contadini, i poveri, gli ultimi, di cui si fa padre e pastore. Consola, esorta e guarisce, mostrando l’icona della Madre di Dio «gioia di tutte le gioie», e con gli occhi pieni di Dio saluta ogni volto che incontra riconoscendovi il volto dell’Amato: «Mia gioia, Cristo è risorto!».
Nel suo ministero di padre spirituale Serafino opera il discernimento degli spiriti su quanti gli chiedono una parola di consolazione o di illuminazione, cura e guarisce i sofferenti, ascolta a lungo le confessioni di uomini e donne pieni di vergogna per i loro peccati, mostra di comprendere il loro smarrimento con la tenerezza di una madre, e infiamma tutti di quella carità infinita capace di amare tutte le creature, animate e inanimate, coscienti e incoscienti, intelligenti e sceme, buone e malvagie. «Dio è fuoco che brucia e infiamma il cuore e le viscere», scrive nei suoi Insegnamenti. Folle di pellegrini accorrono a lui: il “misero Serafino” resta però umile e gioioso, rifugiandosi sovente nella foresta per conservare la pace e vivere la santa esichia (bezmolvie), la quiete interiore dell’uomo che sa comunicare con Dio e con i fratelli.
Non poteva essere altrimenti: chi si è fatto stavroforo (portatore della croce) con Cristo, è fatto da Dio pneumatoforo (portatore dello Spirito)! «Fin da ora, già adesso e qui», insiste Serafino, «occorre vivere la gioia del Regno, la comunione con il Signore, occorre acquisire il dono dello Spirito Santo», il Consolatore che fa di ciascuno l’abitazione di Dio. Serafino aveva imparato a farsi obbediente soltanto allo Spirito, che in lui parlava senza ostacoli: «Il primo pensiero che mi si affaccia alla mente, ritengo sia Dio a inviarmelo, così parlo senza sapere che cosa sta succedendo nell’anima del mio interlocutore, ma con la certezza che questa è la volontà di Dio ed è per il suo bene. Ma a volte accade ch’io risponda a una qualche questione senza affidarla alla volontà di Dio, fidandomi della mia ragione, pensando sia possibile risolverla senza ricorrere a Dio. Ma in quei casi commetto sempre degli errori». Così il santo parla candidamente del suo discernimento. Egli non andava dall’uomo a Dio, ma da Dio all’uomo.
Di questa sua docilità allo Spirito Santo ci hanno lasciato una commovente testimonianza le sorelle della “Comunità del Mulino” di Diveevo, la comunità monastica femminile che Serafino aveva seguito dalla fondazione e alla quale aveva preposto come responsabile Elena Manturova, una giovane monaca di Diveevo che lo stesso Serafino aveva preparato sin da ragazza a questo compito. Egli desiderava predisporre tutto per una integrale formazione spirituale e umana per queste giovani in ricerca di un autentico cammino monastico: la sua sapiente e amorevole guida paterna seppe dare alla fragile comunità di sorelle quegli strumenti spirituali che permisero loro di continuare nella fedeltà alla vocazione ricevuta, nonostante le difficoltà e le divisioni, nonostante le prove e le sofferenze, soprattutto dopo la rivoluzione del 1917, quando la comunità fu dispersa e perseguitata.
Oggi il monastero di Diveevo è ricostruito, è ancora meta di fedeli, luogo di preghiera e di invocazione della misericordia di Dio sulla Russia e sul mondo. Quando nel 1991 le reliquie di san Serafino furono ritrovate nel deposito del Museo dell’ateismo (oggi di nuovo la Cattedrale della Madre di Dio di Kazan’ a San Pietroburgo), un’incredibile folla seguì la loro traslazione a Diveevo: lo spirito di amore e di perdono che san Serafino aveva saputo discernere e accogliere nella sua vita si era rivelato ancora una volta più forte dell’odio e della distruzione che gli uomini sono capaci di operare.
Nella trasfigurazione del Signore sul monte Tabor i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni riuscirono a vedere il Cristo trasfigurato poiché erano stati essi stessi trasfigurati in quella medesima luce. Così avvenne anche per san Serafino e per quanti ebbero la grazia di incontrarlo. La trasfigurazione non è evento che si chiude sul trasfigurato, ma è evento che trasfigura quelli che ne sono i testimoni, quelli che sperimentano il privilegium amoris di vivere accanto a Lui, come accanto a Serafino vissero Elena Vasilievna Manturova e suo fratello Michail, le povere orfanelle della Comunità del Mulino e il giovane Nikolaj Motovilov, che san Serafino guarì da una grave paralisi. È a quest’ultimo che il santo si mostrò mentre la luce divina gli trasfigurava il volto. Gli appunti di Motovilov purtroppo andarono perduti con la dispersione degli archivi di Diveevo, ma nel 1903, l’anno della canonizzazione di Serafino, il noto pubblicista Sergej Nilus ne aveva pubblicato una parte col titolo di Dialogo dello starec Serafino con A. N. Motovilov sul fine della vita cristiana. Grazie a questa pubblicazione, ben presto tradotta in tutte le lingue, nel XX secolo il messaggio di san Serafino ebbe una grandissima diffusione anche in Occidente. Il fine della vita cristiana, rivela Serafino al suo amico, è l’acquisizione dello Spirito Santo, quello spirito di amore che Cristo visse fino all’estremo.
Il 2 gennaio 1833, inginocchiato davanti all’icona della Madre di Dio, «gioia di tutte le gioie», Serafino incontrò Colui che egli aveva tanto cercato, il Cristo umile, dolce e misericordioso. Lo Spirito Santo, da lui acquisito con la sua vita monastica, lo aveva guidato, donando sempre alla sua lampada l’olio dell’amore gioioso, frutto dello Spirito. San Serafino non fu mai preoccupato del rigorismo dell’osservanza, non disdegnò mai la tavola dei peccatori, fu un padre materno, sognò e cantò la Risurrezione, non vide mai un fratello all’inferno, non accettò mai che un uomo fosse nella tristezza.
Si narra nei detti dei Padri del deserto che abba Giuseppe di Panefisi ricevette il monaco Lot, che gli chiese: «Abba, io celebro come posso la mia liturgia, faccio digiuno, prego, medito, vivo nel raccoglimento, cerco di essere puro nei pensieri. Che cosa devo fare ancora?». Il vecchio, alzatosi, aprì le braccia verso il cielo e le sue dita divennero come fiamme: «Se vuoi», gli disse, «diventa tutto di fuoco».
Serafino è un monaco diventato tutto di fuoco, fuoco agapico, universale, cosmico. Ora egli, nella comunione dei santi del cielo, accelera la comunione dei santi della terra che guardano a lui come a un testimone dell’amore universale, un ermeneuta dello Spirito Santo.

- Enzo Bianchi, 30Giorni, n. 5, 2009

Serafim di Sarov (1759-1833)

Fermati 1 minuto. I due movimenti del cuore del cristiano

Lettura

Marco 1,29-39

29 E, usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31 Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli. 32 Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33 Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34 Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. 35 Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce 37 e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». 38 Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». 39 E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Commento

Quello compiuto per la suocera di Pietro è il primo miracolo di guarigione di Gesù, che limitandosi a toccare a sollevare la donna prendendola per mano sottolinea la differenza tra il suo modo di agire e i gesti magici dei guaritori. 

Appena liberata dalla febbre la suocera di Pietro si mette a servire Gesù e i suoi discepoli. Quando il Signore sana le nostre infermità scopriamo in noi un rinnovato spirito di diaconìa, la volontà di metterci al servizio dei fratelli e delle sorelle. 

Le folle - "tutta la città" - si accalcano davanti alla porta della casa in cui Gesù si trova, dopo il tramonto del sole, ovvero al termine del riposo sabbatico (v. 32). Gesù guarisce numerosi malati e libera diversi posseduti. Che si tratti di veri e propri casi di possessione diabolica lo si inferisce dal fatto che Gesù ordina ai demòni di tacere (v. 34), cosa che non avrebbe fatto nei confronti di una malattia. Pur riconoscendo la verità che Gesù è il Cristo i demoni la rifiutano. 

Dopo aver beneficato le tante persone accorse a lui Gesù sente il bisogno di una sosta per il suo spirito (v. 35); il ritirarsi in preghiera è uno dei momenti caratteristici della sua vita. Non esistendo deserti nei pressi di Cafarnao, qui la parola eremos è da intendere semplicemente come luogo solitario. Gesù, vero Dio, adorato e glorificato dagli angeli fin dall'eternità, è anche vero uomo e come tale prega il Padre, dedicando a questo servizio la primizia delle ore del giorno. Il suo impegnativo ministero di predicazione e guarigione non gli impedisce di trovare il tempo e il luogo adatto per la preghiera. Egli prega come ci ha insegnato, non ritto nelle piazze come gli ipocriti (Mt 6,5), ma in luogo appartato, nel segreto. 

Nell'affermare la volontà di estendere il proprio ministero ai villaggi circostanti Gesù utilizza il verbo greco exerchomai che è forse da riferirsi in questo passo del Vangelo di Marco non tanto all'uscire di casa, ma al venire dal Padre come suo messaggero. L'urgenza di predicare la buona notizia e la necessità di una intensa vita contemplativa sono il movimento diastolico e sistolico del cuore del cristiano, l'inspirazione e l'espirazione della sua anima, secondo il modello di colui che è venuto dal Padre e ritorna al Padre, dopo aver raccolto una messe abbondante.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che sei venuto a sanare ogni genere di malattie e a liberarci da potere del maligno, concedici di contemplare la tua gloria e di annunciarla con sollecitudine. Amen.

Rev. Dr. Luca Vona

martedì 14 gennaio 2025

George Fox, fondatore del movimento quacchero

La Chiesa luterana fa oggi memoria di George Fox (1624-1691), fondatore della Società degli Amici, meglio conosciuta come movimento quacchero. Nato a Drayton-in-the-Clay, in Inghilterra, Fox crebbe in un contesto puritano che influenzò profondamente la sua spiritualità. Insoddisfatto delle istituzioni religiose del suo tempo, iniziò un viaggio spirituale alla ricerca di una fede autentica e personale. Durante questo percorso, ebbe una serie di esperienze mistiche che lo portarono a credere nella "Luce Interiore", una presenza divina che risiede in ogni persona e guida verso la verità. Questa convinzione spinse Fox a rifiutare le gerarchie ecclesiastiche, i sacramenti istituzionali e le forme rituali, sottolineando invece una relazione diretta con Dio.

Fox viaggiò instancabilmente per predicare il messaggio quacchero, spesso affrontando persecuzioni, arresti e imprigionamenti per il suo rifiuto di conformarsi alle norme religiose e civili. Sfidò le autorità con la sua insistenza sulla libertà di coscienza e l'uguaglianza spirituale di tutte le persone, incluse donne e classi emarginate. Le sue idee furono rivoluzionarie per il tempo e contribuirono a gettare le basi per un movimento che enfatizzava la pace, la giustizia sociale e il rispetto per ogni individuo. George Fox lasciò un'eredità spirituale duratura, che continua a ispirare il movimento quacchero in tutto il mondo.

Tracce di lettura

Ho visto che c'era una luce in tutti, e ho percepito che questa era la vera luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo; e che con questa luce gli uomini possono vedere le loro vie cattive e i loro atti malvagi, e possono venire a conoscere Dio, la cui luce li mostra tutte le cose come realmente sono.

Vidi che c'era un oceano di oscurità e morte, ma un infinito oceano di luce e amore, che scorreva sopra l'oceano di oscurità. In esso vidi l'infinito amore di Dio." (George Fox, Diario)

Fermati 1 minuto. Che è mai questo?

Lettura

Marco 1,21-28

21 Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare. 22 Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. 23 Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: 24 «Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». 25 E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell'uomo». 26 E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27 Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!». 28 La sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea.

Commento

Cafarnao non viene mai nominata nell'Antico Testamento, ma ricorre in tutti e quattro i Vangeli canonici. Era una prospera cittadina di pescatori, a nord-ovest del Mare di Galilea e Gesù ne fece una sorta di quartier generale dopo il suo allontanamento da Nazaret. In questo episodio del Vangelo di Luca, Gesù si reca alla sinagoga della cittadina per insegnare. 

Mentre i sacrifici si potevano offrire solo al tempio di Gerusalemme, nelle sinagoghe ci si riuniva (e ancora oggi gli ebrei praticanti si riuniscono) ogni sabato per pregare e leggere le Scritture. Le sinagoghe nacquero durante l'esilio babilonese dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor,  ma si diffusero in Israele anche dopo la cattività, come luogo di adorazione e di istruzione. 

Durante il culto sabbatico chiunque tra i presenti poteva prendere la parola. L'accento dell'evangelista è posto non solo sulla natura dell'insegnamento di Gesù - "una dottrina nuova" - ma sui suoi effetti, sulla capacità di "colpire" le coscienze; questo il senso del verbo greco ekplessomai, da plege, "colpo", in cui si riassume, in questo contesto, un'esperienza forte, che lascia il segno. La forza autoritativa dell'insegnamento di Gesù è in diretto contrasto con quella degli scribi; questi, infatti, pur esperti delle Scritture, basavano la loro autorità su quella di altri maestri, mentre l'insegnamento di Gesù è diretto, genuino, capace di interpellare la coscienza dei suoi ascoltatori. 

Come cristiani abbiamo alle nostre spalle un tesoro di oltre duemila anni di riflessione teologica, dagli scritti dei Padri della Chiesa alle speculazioni della Scolastica medievale, dai commentari dei riformatori alle più recenti conquiste della filologia e dell'archeologica biblica. Tutto questo ci aiuta ad accostarci alla Parola, accorcia le distanze tra il nostro tempo e il suo, aiutandoci a comprenderne il senso e il contesto; ma tutto ciò preso di per sé non è sufficiente se non si realizza, mediante la Parola, un incontro personale con Cristo. Anche il diavolo dimostrava di conoscere bene le Scritture mentre tentava Gesù nel deserto, e si rivolgeva a lui chiamandolo Figlio di Dio. Ma un conto è riconoscere Gesù, altra cosa è accogliere Gesù. Questo può realizzarsi per noi solo se sappiamo cercare lo Spirito oltre la lettera. 

L'episodio dell'indemoniato nella sinagoga di Cafarnao e altri esorcismi compiuti da Gesù dimostrano che Satana e i suoi demoni si oppongono a lui durante tutto il suo ministero, culminato con la croce. Gesù trionfa sempre sugli inutili sforzi del maligno, dimostrando la sua vittoria ultima con la risurrezione. I demoni sono perfettamente consapevoli che loro e Gesù appartengono a due regni completamente differenti (v. 24). 

L'autorità di Cristo è confermata tanto dalla forza della sua predicazione quanto dai miracoli che l'accompagnano. Questo stretto legame tra le due attività, particolarmente evidente nel Vangelo di Marco, rappresenta l'intimo disegno del suo piano di salvezza, che consiste nella vittoria su Satana e nella liberazione delle anime dal male. 

Lo spirito che tormenta l'indemoniato di Cafarnao - definito "impuro" per la sua natura contraria a Dio -dimostra di sapere da dove viene Gesù e lo riconosce come "santo di Dio". Questo dovrebbe essere sufficiente per tenerci al riparo da ogni concezione "gnostica" del cristianesimo: anche il maligno sa chi è Cristo, ma non sarà il semplice riconoscerlo come tale a donarci la salvezza: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3). 

Il modo in cui Gesù libera l'indemoniato genera stupore nei presenti: nessun "incantesimo", nessuna lunga preghiera; sono per lui sufficienti poche parole, semplici e dirette: «Taci! Esci da quell'uomo». Questa liberazione non si realizza in modo pacifico: lo spirito impuro si allontana dall'uomo "straziandolo e gridando forte" (v. 26). La liberazione dai "demoni" che ci tengono legati alle nostre paure può avvenire per noi in maniera sofferta, ma la Parola di Dio ci salva e ci restituisce a Cristo se sappiamo accoglierla con fede.

Preghiera

Liberaci, Signore, dall'oppressione e da ogni laccio del maligno, affinché restituiti alla libertà dei figli di Dio possiamo gioire per il tuo annuncio di salvezza. Amen.

Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 13 gennaio 2025

Fermati 1 minuto. La circolarità del tempo si è spezzata

Lettura

Marco 1,14-20

14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo». 16 Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17 Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». 18 E subito, lasciate le reti, lo seguirono. 19 Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 20 Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

Commento

"Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). Questa l'essenza del messaggio di Gesù. Il riferimento è al compiersi della promessa messianica contenuta nell'Antico Testamento. 

Con Gesù termina l'epoca della Legge e comincia quella della grazia, ottenuta mediante la fede. Un nuovo patto è suggellato da Dio con l'umanità. Questo è il "vangelo": la buona notizia, che Dio comunica all'uomo attraverso l'opera salvifica di Cristo. 

La vicinanza del regno dei cieli è la vicinanza di Cristo stesso, il quale eserciterà la sovranità di Dio, stabilendo la pace e la giustizia sulla terra e in cielo. Con l'avvento di Gesù, la sua predicazione, morte e risurrezione, siamo entrati nell'era escatologica, nei tempi ultimi; una nuova prospettiva si è aperta all'umanità, rivelando una nuova mèta, verso la quale siamo tutti proiettati. La circolarità del tempo si è spezzata, quella della storia umana e quella delle nostre singole esistenze, che ora trovano nell'annuncio del regno uno scorcio liberante e pieno di senso. 

Gli strumenti che Gesù sceglie per stabilire il suo regno sono umili e considerati di poco conto dal mondo: avrebbe potuto costituire una scuola di teologia; avrebbe potuto radunare un esercito per liberare Israele di suoi dominatori. Invece sceglie uomini comuni, per stabilire il regno mediante la predicazione. 

Gesù sceglie i suoi discepoli non tra i dotti del sinedrio, ma tra i pescatori sulle rive del lago di Tiberiade (che gli ebrei chiamavano "mare di Galilea"). Al momento della loro chiamata questi uomini lasciano tutto: la  famiglia, il  lavoro, i compagni; comincia per loro una vita radicalmente nuova. Eppure non resteranno "a mani vuote"; Gesù promette loro: "Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna" (Mt 19,29). 

Vi è una certa continuità tra quello che i discepoli sono prima della loro chiamata e la loro funzione al servizio di Gesù: erano pescatori di pesci, ora saranno pescatori di uomini. La sequela di Cristo non mortifica la nostra natura, le nostre doti, quel che contraddistingue la nostra personalità. Piuttosto valorizza tutti questi aspetti portandoli a piena maturazione. 

Ecco la "compiutezza" del regno, l'armonia della sua costruzione, che ha Cristo stesso come "pietra d'angolo" e nel quale siamo "edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito." (Ef 2,20-22). La conversione cui ci richiama Gesù diventa occasione per volgere lo sguardo all'interno di noi stessi, dove possiamo trovare la presenza santificante della grazia, capace di restaurare e portare a pienezza la nostra umanità.

Preghiera

Rendici attenti, Signore, alla tua voce che ci chiama dalle profondità del nostro cuore; affinché possiamo obbedirti, partecipando all'instaurazione del tuo regno di pace. Amen.

Rev Dr. Luca Vona

domenica 12 gennaio 2025

Resteremo stupefatti da quel che ha da dirci

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Colletta

Signore, noi ti preghiamo di ricevere misericordioso le preghiere del tuo popolo che ti invoca; fa' che possa percepire e conoscere ciò che deve fare, e avere la grazia e la forza di portarlo a compimento. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture 

Rm 12,1-5; Lc 2,41-50

Commento

L'obbligo per gli ebrei di rispettare le feste religiose comincia a partire dai tredici anni. I dodici anni di Gesù nell'episodio narrato da Luca potrebbero corrispondere all'età in cui Samuele ebbe la chiamata (1 Sam 3), ma non esisteva un vero e proprio dovere, alla sua età, di passare la festa di Pasqua a Gerusalemme. Probabilmente i genitori vi si recavano ogni anno perché molto religiosi. Questo dovrebbe spronarci a compiere "un miglio in più", non relegando la fede a un qualcosa di marginale e occasionale nelle nostre vite. 

Con l'episodio dello smarrimento di Gesù a Gerusalemme, unico nella tradizione dei Vangeli canonici e dove il Signore viene presentato come fanciullo osservante della Legge, si conclude il racconto dell'infanzia del Vangelo di Luca, proprio là dove era iniziato, nel tempio di Gerusalemme, con la circoncisione.

La narrazione mostra la cura di Giuseppe e Maria per l'educazione religiosa di Gesù, ma diviene occasione per un totale ribaltamento di prospettiva: Gesù, smarrito e ritrovato, istruisce i suoi genitori sul proprio dovere di compiere la volontà del Padre celeste. Colui che per la giovane età doveva mostrarsi come semplice discepolo e uditore siede non ai piedi dei dottori ma in mezzo a loro, meravigliati della sua saggezza. 

In Gesù si compiono le parole del salmista: "Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza" (Sal 8,3) I tre giorni della sua sparizione - carichi di apprensione per Giuseppe e Maria - richiamano i tre giorni dell'evento pasquale. Anche la domanda "Perché mi cercavate?" sembra un'eco della domanda rivolta dall'angelo alle donne al sepolcro: "Perché cercate colui che è vivo?" (Lc 24,5). Un invito, dunque, a guardare gli eventi presenti con gli occhi della fede e una preparazione alle cose future. 

Riferendosi a Dio come suo Padre, Gesù fa passare i legami naturali in secondo piano. Un tema che sarà oggetto anche della sua matura predicazione: "Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me" (Mt 10,37). Ma lungi dal recidere i legami familiari la fede è in grado di renderli più profondi, di abbracciare in Cristo il mondo intero con la sua stessa carità. 

La risposta apparentemente dura data da Gesù a sua madre indica che ciò che conta per lui, e che sente come bisogno assoluto, è di adempiere il piano di salvezza affidatogli dal Padre, che si compirà nell'ultima Pasqua a Gerusalemme. Forse Maria avrà ripensato a queste parole sostando sotto la croce del suo figlio. Ma il racconto dello smarrimento di Gesù a Gerusalemme ha un lieto fine. Gesù viene ritrovato, proprio come dopo la pagina buia della crocifissione e morte seguirà la luce della risurrezione. 

Di fronte alle prove della vita e di fronte alle nostre cadute, anche a noi può capitare di smarrire il senso di Cristo; dobbiamo allora tornare al luogo e al momento in cui ne abbiamo perso le tracce, ricordando come e quando lo abbiamo smarrito; cercandolo al centro del nostro cuore, dove dimora la Gerusalemme celeste, la città della pace, il tempio di Dio, resteremo stupefatti da quel che egli ha da dirci.

Rev. Dr. Luca Vona

sabato 11 gennaio 2025

Lambert Beauduin. La liturgia come luogo di ecumenismo

L'11 gennaio del 1960 si spegneva, nel monastero da lui stesso fondato, Lambert Beauduin, monaco benedettino e pioniere del movimento liturgico e di quello ecumenico nella chiesa cattolica. Beauduin era nato a Rousoux-lès-Waremme, presso Liegi in Belgio, nel 1873. Ordinato presbitero a ventisei anni, gli fu assegnata la cura pastorale dei lavoratori. Egli si rese subito conto che era necessaria un'efficace riforma della liturgia cattolica per colmare la distanza creatasi nei secoli fra il culto della chiesa e la vita quotidiana della gente. Nel 1906 Beauduin decise di farsi monaco presso l'abbazia benedettina di Mont-César e, in pochi anni, divenne il riferimento principale del nascente movimento liturgico, attraverso la fondazione di riviste e la stesura di testi capitali per la futura riforma liturgica. Fu attraverso la liturgia che dom Beauduin si accostò all'ecumenismo, divenendo un conoscitore delle chiese d'oriente. Su richiesta di Pio XI, egli diede vita, nel 1925, al Monastero dell'Unione finalizzato a promuovere la piena comunione fra le chiese. Nel 1939 la comunità si trasferirà a Chevetogne dove tuttora vive e opera. Beauduin, tuttavia, intese la ricerca dell'unione secondo il famoso detto: «Le chiese unite a Roma e non assorbite da Roma». Per questa sua visione e per altre posizioni evangeliche assunte in campo liturgico, egli fu condannato dal tribunale ecclesiastico e costretto a un lungo esilio presso l'abbazia benedettina francese di En Calcat e potrà rientrare a Chevetogne soltanto nel 1951. Nonostante la condanna ecclesiastica delle sue posizioni avvenuta nel 1931, papa Giovanni XXIII dichiarò, alle soglie del rinnovamento conciliare, che l'unico vero metodo di lavoro al fine di riunificare le chiese era quello praticato da dom Beauduin.

Tracce di lettura

Simile a una meravigliosa basilica, la liturgia riserva a tutte le anime e a uomini di ogni condizione, ricchezze e splendori infinitamente vari. Sì!, I predicatori la commentino, gli educatori la insegnino, i teologi la consultino, gli uomini d'azione la diffondano, le madri la scandiscano, i bambini la balbettino. Gli asceti apprenderanno alla sua scuola il sacrificio, i cristiani la fraternità e l'obbedienza, gli uomini la vera uguaglianza, le società la concordia. Essa sia la contemplazione del mistico, la pace del monaco, la meditazione del presbitero, l'ispirazione dell'artista, l'attrazione del prodigo. Tutti i cristiani, uniti al loro parroco, al loro vescovo, al Padre comune di tutti i fedeli e pastori, la vivano pienamente, attingano l'autentico spirito cristiano a questa «fonte prima e indispensabile», e realizzino così, vivendo lo spirito della liturgia, l'orazione della prima grande liturgia celebrata da colui che è Sommo sacerdote in eterno: "che tutti siano una sola cosa" (Gv 17,21). Supremo auspicio e suprema speranza.
Il movimento liturgico è questo; è tutto ciò che questo comporta; non è altro che questo.
(Lambert Beauduin, Il culto della chiesa)

venerdì 10 gennaio 2025

Gregorio di Nissa. La bellezza di Dio ne implica il desiderio

Gregorio, nato in Cappadocia attorno al 335, dopo gli studi di retorica e alcuni anni di vita matrimoniale, alla morte della moglie entrò nel monastero sul fiume Iris, fondato dal fratello Basilio. Poco stimato dagli altri due celebri Cappadoci a motivo del suo amore per la retorica e delle sue scarse capacità diplomatiche, egli fu tuttavia eletto per volere di Basilio vescovo di Nissa nel 372, per fronteggiare la crescente ostilità degli ariani. Confermando in un primo tempo i dubbi del fratello a suo riguardo, Gregorio fu deposto e subì l'esilio, perché accusato di aver male amministrato i beni della chiesa affidata alle sue cure pastorali.
Alla morte di Basilio, tuttavia, toccò a lui elaborare teologicamente la fede della grande chiesa. Gregorio divenne così uno dei massimi teologi dell'antichità, sicuramente il più speculativo tra i padri greci del IV secolo, e mostrò grande coraggio e abilità nell'allargare il fronte dei sostenitori del Credo di Nicea e nel contribuire al ristabilimento della pace nella chiesa. La sua sistematizzazione teologica costituisce la base su cui si svilupperanno sia la dottrina ascetica sia la riflessione mistica dell'oriente cristiano. Gregorio morì probabilmente nel 395, ormai ritenuto assieme a Basilio e al Nazianzeno una colonna dell'ortodossia.

Tracce di lettura

La conoscenza di ciò che per natura è bello ne implica il desiderio, e se questa bellezza, come accade per quella di Dio, non ha limiti, essa genera in chi vuole esserne partecipe un desiderio senza fine e che non conosce sosta alcuna. L'anima, alleggerita dal peso delle passioni, sale con volo leggero e rapido verso le cime più alte, ad altezze sempre maggiori, purché nulla intervenga ad arrestare la sua corsa, in forza dell'attrazione che il bene esercita su coloro che lo seguono. Sospinta dal desiderio del cielo, essa si protende fuori da se stessa, come ricorda l'Apostolo (cf. Fil 3,13), sollevandosi verso regioni sempre più eccelse. Riconosciamo perciò che come il grande Mosè, chi cresce sempre di più nell'esperienza spirituale, sale di gradino in gradino senza sostare, poiché trova sempre un altro gradino dopo quello che ha lasciato dietro di sé.
(Gregorio di Nissa, La vita di Mosè 2,224-227.231)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Oggi Gesù passa in mezzo a noi

Lettura

Luca 4,16-30

16 Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
18 Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
19 e predicare un anno di grazia del Signore.
20 Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. 21 Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». 23 Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». 24 Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria. 25 Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
28 All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29 si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.

Commento

Mentre nel Vangelo di Marco il ministero di Gesù si inaugura con l'annuncio del Regno e in quello di Giovanni con il miracolo alle nozze di Cana, nel vangelo di Luca, è a Nazaret, luogo in cui Gesù era cresciuto, che egli proclama l'adempimento delle promesse dell'Antico Testamento. 

La partecipazione al culto del sabato nella sinagoga - pratica osservata regolarmente da Gesù e continuata dai primi cristiani - è l'occasione in cui egli applica su di sé, nell'"oggi" che inaugura gli ultimi tempi, alcune parole del profeta Isaia (Is 61,1-2; 58,6), presentandosi come il Cristo, che ha ricevuto l'unzione dello Spirito Santo. 

Lo scetticismo dei suoi concittadini - «Non è il figlio di Giuseppe?» (v. 22) - è dettato dal fraintendimento della missione di Gesù e dalla loro incapacità di comprendere il senso della profezia. Pur "meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca" (v. 22), si attendono qualche miracolo, sono più interessati al suo potere di guarigione che alla sua Parola. 

Nell'oggi di cui parla Gesù è proclamata invece l'inaugurazione del giubileo spirituale del Signore, venuto a liberare gli oppressi, a evangelizzare i poveri, a guarire i cuori feriti. Il giubileo, prescritto dal Levitico (Lv 25,10) con l'affrancamento degli schiavi e la restituzione dei beni patrimoniali, è qui l'immagine della porta della salvezza, spalancata dal Signore nei tempi ultimi. Dalla meraviglia, gli ascoltatori di Gesù passano presto a una reazione di rabbia omicida, non tanto per il mancato miracolo, quanto per il suo sermone, le cui parole lasciano intendere con gli esempi di Elia ed Eliseo, il rivolgersi della grazia agli stranieri a causa della durezza di cuore di Israele. 

Questo testo iniziale del Vangelo di Luca determina una circolarità con le ultime pagine relative alla passione. Vediamo infatti, in esso, prefigurate numerose immagini di quest'ultima: dalle parole di Gesù «Medico cura te stesso» (v. 23) che richiamano il dileggio da parte dei capi del tempio sotto la croce («Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto»; Lc 23,35), alla sua cacciata fuori della città - così come l'esecuzione della condanna avverrà fuori dalle mura di Gerusalemme; "fin sul ciglio del monte" - che richiama la crocifissione sul Gòlgota. 

Ma l'epilogo di questo episodio e della missione terrena di Gesù non è la croce. Il passaggio - questo uno dei significati della parola "Pasqua" (ebraico: pesach) - dalla morte alla vita, con la risurrezione e l'andarsene salendo al cielo dopo le apparizioni ai suoi discepoli sembrano richiamate dalle ultime parole di questa narrazione: "passando in mezzo a loro se ne andò" (v. 30).

Il Signore passa, nell'oggi del tempo escatologico inaugurato con la sua incarnazione; passa nell'oggi delle nostre vite, con la sua parola di speranza e liberazione. Sta a noi scegliere se seguirlo, se ignorare il suo messaggio o, peggio, opporci ad esso. Chi vediamo in lui? Il semplice figlio del carpentiere o il Messia annunciato dai profeti? Un semplice maestro delle Scritture e un taumaturgo o "il Figlio del Dio vivente?" (Mt 16,16).

Proprio nella ultime pagine del Vangelo di Luca, apparendo ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) Gesù "cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui". Dal principio del suo ministero fino alla sua ascensione egli ci guida alla comprensione del piano salvifico di Dio per noi. La sua parola non è lettera morta ma è viva, animata da quello Spirito che si manifestò durante il battesimo al Giordano e che egli ci ha donato dopo la sua ascensione. Questi ci guiderà alla verità tutta intera (Gv 16,13).

Preghiera

Signore, tu attraversi le nostre vite con la tua parola di salvezza; donaci uno spirito pronto ad accoglieri, affinché possiamo seguirti fedelmente, per giungere alla gloria della risurrezione. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

giovedì 9 gennaio 2025

Giovanni di Scete. Non abbandonare mai il ricordo di Dio

Tra i monaci più amati nel deserto egiziano, ancora ai nostri giorni, vi è senz'altro Giovanni, igumeno di Scete vissuto a cavallo tra il VI e il VII secolo. La chiesa copta, che ne fa oggi memoria, ha inserito da tempo immemorabile il suo nome in tutte e tre le sue anafore eucaristiche: quella di Basilio, quella di Cirillo e quella di Gregorio di Nazianzo. Giovanni, il cui nome di battesimo era Arwat, nacque intorno al 585 nel villaggio egiziano di Gebromenenosin. All'età di diciotto anni entrò nel monastero di San Macario, dove fu ordinato presbitero per diventarne in seguito igumeno. Uomo dal cuore grande e misericordioso, seppe insegnare a moltissimi discepoli la mitezza e l'umiltà evangeliche, a dispetto delle persecuzioni che i cristiani copti dovettero subire sia da parte dei cristiani calcedonesi, sia da parte dei berberi del deserto. Nei lunghi anni passati in esilio, Giovanni imparò, grazie a un'assidua intimità con Dio, a usare misericordia e comprensione con tutti gli uomini, vivendo con tutto il suo essere il comandamento dell'amore.
Egli morì probabilmente nel 675, nel suo monastero di San Macario, dove aveva condotto alla pienezza dell'esperienza monastica un'intera generazione di monaci.

Tracce di lettura

L'opera della preghiera consiste nel non abbandonare mai il ricordo di Dio; invocatelo in ogni tempo, cercatelo continuamente e in ogni luogo, sia che mangiate, sia che beviate, sia che siate in cammino o qualsiasi cosa facciate. Perché pregando in tal modo sarà illuminata la vostra intelligenza, la sofferenza del vostro cuore troverà pace, il desiderio sarà saziato, il Divisore allontanato, il peccato verrà meno e si rinnoverà la vostra anima.
La preghiera, infatti, rende estraneo ogni peccato all'essere umano, come ha insegnato il nostro Salvatore nel vangelo: «Pregate, per non entrare in tentazione».
(Vita di Giovanni di Scete 228-230)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Jan Łaski. La vera chiesa non è definita da mura o edifici

La chiesa luterana ricorda oggi Jan Łaski, noto anche come Johannes a Lasco, riformatore protestante polacco di grande rilievo nel XVI secolo. Nato in una famiglia nobile vicino a Łask, in Polonia, Jan ricevette una formazione umanistica e teologica. Influenzato dal Rinascimento e dall'incontro con Erasmo da Rotterdam, abbracciò una visione critica del cattolicesimo tradizionale, avvicinandosi gradualmente al movimento della Riforma.

Dopo aver lasciato la Polonia a causa di pressioni religiose, Łaski operò principalmente in Europa occidentale, dove divenne una figura chiave nel protestantesimo riformato. Lavorò in stretta collaborazione con leader come Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino, contribuendo alla diffusione delle idee riformate in Paesi Bassi, Inghilterra e Germania. A Londra, guidò una comunità di rifugiati protestanti stranieri, promuovendo una visione di tolleranza religiosa e organizzazione ecclesiastica semplice e biblica.

Łaski era un sostenitore dell'autorità delle Scritture e di una Chiesa priva di gerarchie complesse, incentrata sulla comunità e sulla predicazione. La sua opera maggiore, Forma ac Ratio, rappresenta una guida per l’organizzazione della Chiesa, basata su principi evangelici e su una liturgia essenziale.

Ritornato in Polonia negli ultimi anni della sua vita, Łaski cercò di promuovere la Riforma nella sua patria, ma incontrò resistenze significative da parte della Controriforma cattolica. Nonostante ciò, il suo pensiero influenzò le successive generazioni di riformatori e contribuì al dialogo tra diverse correnti del protestantesimo europeo.

Jan Łaski è ricordato come un ponte tra l'umanesimo cristiano, la Riforma e le aspirazioni di rinnovamento spirituale nella Polonia del XVI secolo e oltre.

Citazioni

"La vera Chiesa di Cristo non è definita da mura o edifici, ma dalla comunità dei fedeli uniti nella purezza della dottrina e nella santità della vita." (Forma ac ratio tota ecclesiastici ministerii)

"Le tradizioni umane non devono oscurare la luce delle Scritture; piuttosto, la Parola di Dio deve essere la nostra guida suprema in tutte le questioni di fede." (Epistola ad Polonos)

"La vera unità cristiana si fonda sulla verità del Vangelo, non su compromessi che

mercoledì 8 gennaio 2025

Giorgio di Choziba. La compassione, frutto dell'umiltà

Nel deserto di Giuda, nel VII secolo, visse la sua travagliata e feconda esperienza monastica Giorgio di Choziba. Originario di Cipro, Giorgio aveva un fratello maggiore, Eraclide, che aveva lasciato prima di lui l'isola per darsi alla vita anacoretica nel deserto palestinese. Alla morte dei genitori, Giorgio decise di seguire lo stesso cammino di Eraclide e lo raggiunse alla laura di Calamon, sulle rive del Giordano. Ma il giovane cipriota non riuscì a sostenere il duro regime della lavra, e il fratello decise di inviarlo nella comunità cenobitica di Choziba, nella gola del Wadi al-Kelt che conduce da Gerico a Gerusalemme, perché si preparasse alle grandi difficoltà del deserto. Ma neanche a Choziba Giorgio riuscì a resistere. Umiliato a più riprese dall'igumeno, finì per fuggire e per fare ritorno a Calamon. Egli seppe tuttavia far tesoro delle umiliazioni patite e divenne un uomo spirituale capace di sostenere spiritualmente i fratelli, con dolcezza e saldezza d'animo. All'arrivo degli invasori arabi e persiani, avvenuto agli inizi del VII secolo, Giorgio fu l'ultimo ad abbandonare il proprio monastero, e fu tra i primi a fare ritorno a Choziba, dove trascorse, ormai ricercato da molti per i suoi doni spirituali, gli ultimi giorni della sua parabola terrena. La laura di Choziba, tuttora esistente, sebbene fondata da un monaco di nome Giovanni, assumerà col tempo il nome di «monastero di San Giorgio», in memoria del monaco cipriota che vi aveva consentito la prosecuzione della vita monastica in tempi avversi.

Tracce di lettura

Ditemi, fratelli: per quale ragione ci siamo ritirati dal mondo dove ci sono ricchezza, gloria e lusso, e siamo venuti in questo deserto dove queste cose non ci sono? Per i nostri peccati e le nostre passioni, in cerca del pentimento, oppure fuggendo i peccatori schiavi delle passioni, ritenendoci esenti dal peccato? Se la risposta è: «Per pentirci, come vittime delle passioni», in tal caso non siamo padroni e arbitri di noi stessi, così da considerarci liberi e ritenerci ormai purificati dalle passioni quando vogliamo noi, ma quando lo vuole il giusto giudice. Se invece siamo venuti qui immuni da passioni e giusti, per sfuggire ai peccatori, e ancora ci vantiamo e calpestiamo il prossimo, abbiamo un veemente accusatore nella figura del pubblicano, schernito dal superbo fariseo, ma giustificato da Dio che scruta i cuori degli uomini.
(Antonio di Choziba, Vita di Giorgio di Choziba 39)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. Alla ricerca di una parola di verità

Lettura

Marco 6,34-44

34 Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. 35 Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; 36 congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». 37 Ma egli rispose: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38 Ma egli replicò loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». E accertatisi, riferirono: «Cinque pani e due pesci». 39 Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. 40 E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. 41 Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. 42 Tutti mangiarono e si sfamarono, 43 e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci. 44 Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.

Commento

L'immagine del gregge senza pastore è ricorrente nell'Antico Testamento per indicare il popolo che vaga senza meta, privo di una guida spirituale ed esposto ai pericoli del mondo. (Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ez 34,5). 

Confusi dalla molteplicità di confessioni e istituzioni ecclesiastiche, divise e spesso in lotta tra loro, i credenti hanno bisogno, come le moltitudini che seguivano Gesù, di cibo solido e sostanzioso, che possono trovare ritornando all'essenziale, alla sua parola di verità. 

Le folle di questo episodio evangelico, dimentiche di nutrirsi per seguire e ascoltare Gesù, attestano magistralmente che «non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La quantità di duecento denari di pane per sfamare i cinquemila uomini (non vengono qui conteggiati le donne e i bambini) corrispondeva a duecento giornate di lavoro. 

La folla in luogo solitario (v. 35) richiama il popolo di Israele radunato nel deserto; ma in questo racconto l'erba verde, un dettaglio che si trova solo nel Vangelo di Marco, indica la stagione primaverile, caratterizzata in Palestina, a differenza dell'estate e dell'inverno, dalla presenza delle piogge. L'immagine viene ad assumere, così, un colore messianico. La presenza di Cristo trasforma un luogo desolato in un prato rigoglioso, irrorato dallo Spirito di Dio. 

Tutti i presenti vengono completamente saziati (v. 42) e avanzano dodici ceste di pani e di pesci (v. 43): non solo "chi cerca il Signore non manca di nulla" (Sal 33,10), ma la sua grazia è sovrabbondante, oltre ogni aspettativa. Chiedendo ai discepoli di dare essi stessi da mangiare alla folla Gesù li investe di responsabilità, chiamandoli a partecipare al suo ministero. La prima reazione dei discepoli è di pensare che Gesù gli stia chiedendo di sfamare la folla comprando del cibo con i pochi denari che hanno; affermano, dunque, l'impossibilità di adempiere a un tale compito. Ma Gesù non sta chiedendo loro di agire senza di lui. Li invita a donare generosamente il poco cibo che hanno portato con sé, e con la sua benedizione quelle risorse, per quanto povere, diventano una ricchezza per una moltitudine di persone.

Quando l'uomo pensa di dover soddisfare le proprie necessità o quelle del prossimo unicamente con le proprie forze, non potrà che sperimentare un senso di impotenza. Ma Cristo ci chiama a confidare in lui, e ci invita a sollevare gli occhi al cielo, verso il Padre di ogni misericordia. 

I gesti con cui Gesù benedice i pani e i pesci ricordano quelli compiuti durante l'ultima cena, ma essendo abituali ad ogni pasto dell'ebreo devoto, non hanno necessariamente un significato eucaristico. Tuttavia è importante notare che facendo partecipare i suoi discepoli a questo miracolo è Gesù stesso a pronunciare la benedizione. È lui l'autore dal quale procede ogni grazia. Siamo chiamati ad agire come se tutto dipendesse da noi, ma nella ferma convizione che tutto proviene da Dio.

Preghiera

Benedici, Signore, la nostra povertà, affinché mediante la tua grazia possa diventare dono sovrabbondante e dare lode a te, che sei l'autore di ogni bene. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 7 gennaio 2025

Fermati 1 minuto. Una luce che si leva da lontano

Lettura

Matteo 4,12-17.23-25

12 Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea 13 e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:

15 Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali,
sulla via del mare, al di là del Giordano,
Galilea delle genti;
16 il popolo immerso nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte
una luce si è levata.

17 Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
23 Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. 24 La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. 25 E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano.

Commento

All'inizio del ministero pubblico di Gesù il suo messaggio di conversione è un'eco di quello di Giovanni il Battista, ma assume un significato ulteriore perché il "regno dei cieli" già comincia a essere presente (v. 17). L'invito al pentimento è un  motivo costante nella predicazione di Gesù e sarà lo stesso incarico da lui trasmesso agli apostoli (Lc 24,46-48). 

Nell' itinerario attorno alla Galilea Gesù mostra subito le tre attività cardine del suo ministero: "insegnando... predicando... e curando" (v. 23). La Decapoli era una confederazione di dieci città ellenizzate a sud della Galilea. La regione in cui Gesù inizia la sua predicazione è a stretto contatto con le genti pagane e piuttosto distante sia da Gerusalemme che da Nazaret. La luce che si leva da lontano sulle genti, secondo la profezia di Isaia (Is 8,23-9,1), qui richiamata da Matteo, è una "grande luce" (v. 16): paragonata alla luce della ragione o a quella della Legge la luce del vangelo è capace di far mutare la notte in giorno, di dissipare le tenebre dell'errore e del timore. 

L'alba sorge inaspettata, non sono gli uomini ad andare a cercare la luce, ma è la luce che viene nel mondo (Gv 1,9) prendendo l'iniziativa e risplendendo gratuitamente sull'umanità, perché il Padre «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,45). A volte la luce della grazia, anche per noi, si leva "da lontano", sorge dalle zone periferiche della nostra esistenza quando meno ce lo aspettiamo, quando la notte è al suo culmine, capovolgendo le nostre vite. 

Il Figlio di Dio, che dimora nel seno del Padre, avrebbe potuto predicare i misteri celesti più profondi, ma egli non si abbandona a una teologia scolastica annunciata con parole dotte; l'essenza del suo messaggio è schietta e pragmatica: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Sebbene sia legittimo che la fede interroghi la ragione e che l'uomo impieghi tutte le sue forze, per quanto limitate, per ricercare le ragioni della fede, non dobbiamo mai perdere di vista l'essenza del messaggio evangelico, la sua dimensione esperienziale, l'esortazione a intraprendere una vita nuova, in Cristo, rigenerati dallo Spirito. 

I miracoli di Gesù hanno lo scopo di mostrare che la fine dei tempi è vicina, sono un invito al ravvedimento e alla lode di Dio, alla conversione delle anime, non solo alla guarigione degli infermi. Testimoniano che egli è il Messia atteso da Israele. 

Curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo (v. 23) Gesù mostra la sua sovranità sull'anima e sul corpo e l'instaurazione del regno, nel quale Dio "asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno" (Ap 21,4).

Preghiera

Sorgi, Signore, e irradia su di noi la tua grazia; affinché possiamo servirti in novità di vita, nell'attesa dei cieli nuovi e di una nuova terra. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 6 gennaio 2025

Epifania del Signore. Un re senza corona

Lettura

Matteo 2,1-12

1 Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: 2 «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo». 3 Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. 4 Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere. 5 Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta: 6 "E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele"». 7 Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; 8 e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch'io vada ad adorarlo». 9 Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra. 10 Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. 11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. 12 Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un'altra via.

Commento

Nominata per la prima volta nella Bibbia a proposito della morte di Rachele (Gn 35,19), con il nome di Efrata (la fruttifera), Betlemme di Giudea viene così citata per distinguerla da una omonima località della Galilea. Betlemme è il luogo della continuità messianica: paese natale di Davide, paese natale di Gesù. La profezia menzionata in questo brano del Vangelo di Matteo si richiama al libro di Michea (Mi 5,2) ed era associata dagli scribi alla nascita del Messia a Betlemme. Il re Erode menzionato in questo passo evangelico è Erode il Grande. Nato nel 73 a.C., governò la Palestina dal 37 a.C. fino alla morte (4 a.C.). 

Erode chiama a sé i sommi sacerdoti e gli scribi. I primi erano i membri più influenti delle famiglie sacerdotali di Gerusalemme; i secondi gli interpreti accreditati della Legge. La sua dissimulazione con i Magi dimostra che la più grande malvagità spesso si ammanta di pietà religiosa. Egli, pur consultandosi con i sapienti di Israele non comprende la particolare regalità di Gesù, un re sena corona, il cui regno non è di questo mondo (Gv 18,36), ma al quale è stato donato dal Padre ogni potere nei cieli e sulla terra. Erode vuole conoscere il luogo in cui è nato il bambino, non per adorarlo ma per ucciderlo, perché lo vede come una minaccia al suo trono. 

I magi, membri della casta sacerdotale persiana, giungono dall'Oriente scrutando il cielo e comprendono ciò che Israele non ha compreso pur possedendo le Scritture. Prefigurano così i pagani, che a differenza degli ebrei, riconoscono da subito Gesù come quella "luce per illuminare le genti", cantata da Simeone (Lc 2,32). Il loro numero non è menzionato, la nozione tradizionale che fossero tre deriva dai tre tipi di doni portati. Si è supposto che fossero re in base ad alcuni passi profetici dell'Antico Testamento (Is 60,6; Sal 72,10.15), ma non c'è alcuna informazione esplicita al riguardo. 

Cercando il re dei giudei i magi rendono innanzitutto omaggio alla regalità di Gesù. Gli antichi ritenevano che al nascere di un nuovo re sorgesse una nuova stella. La luminosità insolita della stella che annuncia la nascita di Gesù testimonia l'origine regale del bambino. Sebbene alcuni critici moderni suggeriscano nel fenomeno celeste un evento astronomico, questa ipotesi è da escludere poiché la stella vista dai magi li guida muovendosi fino alla cittadina in cui si trova il bambino Gesù e lì si arresta. Possiamo pensare a una realtà soprannaturale, come la nube luminosa che guidò gli israeliti nel deserto. 

Gesù è venuto tra i suoi ma non è stato riconosciuto (Gv 1,11). I Magi non trovano una moltitudine adorante intorno al re dei Giudei, ma sono costretti a chiedere, porta a porta, dove egli si trovi. Spesso proprio coloro che dovrebbero condurre a Gesù sono a lui forestieri, mentre passano avanti coloro che sono lontani, guidati dalla luce della grazia, quella luce che illumina ogni uomo (Gv 1,9). 

Betlemme, letteralmente "la casa del pane", accoglie la vera manna, il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51), donato per la vita del mondo. La manifestazione di Cristo alle genti, l'Epifania, ci invita a leggere gli eventi della nostra vita e a scrutare le Scritture alla ricerca di Dio, che spiazza le nostre aspettative e i nostri timori, rivelandosi attraverso le sembianze umili di un bambino.

Preghiera

O Dio, che attraverso la guida di una stella hai manifestato il tuo unico figlio alle genti, concedici misericordioso di conoscerti mediante la fede, affinché dopo questa vita possiamo godere della tua divinità. Per il tuo stesso Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Amen. (The Book of Common Prayer)

- Rev. Dr. Luca Vona