Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

lunedì 30 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Accogliere un Dio che si fa bambino

Lettura

Luca 9,46-50

46 Frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. 47 Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: 48 «Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande». 49 Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci». 50 Ma Gesù gli rispose: «Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».

Commento

Gesù ha appena annunciato l'approssimarsi della sua passione, ma i discepoli non hanno compreso e sono impauriti. (Lc 9,44-45); non riescono a cogliere la grandezza del sacrificio che si sta per compiere e si mettono a discutere tra di loro su chi sia il più grande. 

Capita anche a noi credenti, come individui, e forse ancor più alle chiese, come istituzioni religiose: una tendenza all'autoreferenzialità, a sentirsi depositari della vera ortodossia e ortoprassi. Così l'unica Chiesa di Cristo si è frammentata nei secoli in numerose denominazioni, lacerando il suo Corpo mistico e rinnovando nella storia la sua passione. 

Proprio Giovanni, l'evangelista che più di tutti insiste sulla natura di Dio come amore, pone a Gesù il quesito se sia giusto che uno "che non è con noi tra i tuoi seguaci" scacci i demòni nel nome di Gesù. Ma il Signore, che aveva invitato a giudicare l'albero dai frutti, respinge ogni settarismo. 

Gesù prende un bambino, se lo mette vicino (v. 47) e lo addita come esempio per chi vuole essere grande tra i discepoli. Un bambino è totalmente dipendente dai genitori e così il vero discepolo deve tenere a mente che nulla può fare senza la grazia che opera in lui. 

Gesù, che non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio si è fatto obbediente fino alla morte (Fil 2,6-8), rivela lo stretto legame tra l'incarnazione e la passione, tra la culla e la croce. 

Il parallelo che egli pone tra la sua natura e quella di un fanciullo mostra un Dio che si fa bisognoso delle nostre cure, per non "scomparire" tra le malvagità del mondo e che ci chiama a custodire il dono fragile e prezioso che abbiamo ricevuto.

Preghiera

Donaci l'umiltà, Signore, per superare le divisioni e operare nel tuo nome contro il male. La tua grazia ci trovi sempre docili all'azione dello Spirito, affinché possiamo crescere in santità e giustizia davanti ai tuoi occhi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 29 settembre 2024

Fedele è Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DICIOTTESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo, concedi al tuo popolo la grazia di superare le tentazioni del mondo, della carne e del demonio; e di seguire con mente e cuore puri te, che sei l’unico Dio. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Cor 1,4-8; Mt 22,34-46

Commento

Amare Dio con tutto il cuore, l'anima e la mente e il prossimo come noi stessi. Così Gesù riassume i 613 precetti presenti nella Torah. Questo comandamento bipartito, che rappresenta le due facce della stessa medaglia, è non solo un sommario, ma il vertice stesso della Legge mosaica.

Dio va amato al di sopra di ogni altra cosa, e in tal modo è fugato il peccato più grande: quello dell'idolatria, che ci svilisce facendoci ripiegare su cose morte, incapaci di appagare completamente il nostro cuore. E proprio perché il nostro cuore può essere colmato solo da Dio, questi va amato con la nostra persona nella sua interezza, con tutte le nostre potenze e affetti. Il cuore, indica soprattutto la forza e la volontà dell'uomo. Dio ci chiede di amarlo perché i nostri cuori ne sono capaci; non ci impone una cosa che non possiamo fare, che non è alla nostra portata. Al tempo stesso la sua grazia opera in noi per portare a compimento il precetto, ma senza esercitare violenza sulla nostra libertà.

La seconda parte del comandamento è simile alla prima (Mt 22,39): Ama il tuo prossimo come te stesso. Se l'amore supremo verso Dio sintetizza la prima tavola della legge, l'amore verso il prossimo è un sommario della seconda tavola. Dio ama il mio prossimo: come posso amare Dio se anche io non amo il mio fratello? Così infatti ammonisce l'apostolo Giovanni: “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1 Gv 4,20-21).

Se l'amore per Dio deve essere al di sopra di ogni altra cosa, la norma che ci è posta dinnanzi per l'amore del prossimo è quella che è prescritta per l'amore di noi stessi. Amare noi stessi infinitamente ci è proibito perché non è compatibile con l'amore supremo dovuto a Dio. Ma anche amare il prossimo meno di noi stessi ci è proibito, perché rappresenterebbe un venir meno della fede nel corpo mistico di Cristo, del quale ciascuno di noi è membro.

Chi è il nostro prossimo? Nel passo parallelo del Vangelo di Luca, al capitolo 10, Gesù risponde alla domanda del fariseo con la parabola del buon samaritano. Il mio prossimo è colui che si trova nel bisogno e con il quale la mia strada si incrocia, al di là di ogni pregiudizio identitario o di false priorità.

Gesù non solo ci insegna a comprendere il senso ultimo della Legge, egli la porta a compimento sulla sua stessa carne, facendosi libro aperto sulla croce, per illuminare e guidare l'umanità verso la salvezza. E vi è un intimo legame tra il suo ruolo profetico e quello sacerdotale, nella misura in cui non solo egli ci mostra la strada da percorrere, ma ci guida e ci accompagna in essa, in quanto Figlio di Dio, il solo che possa riscattare l'umanità, rendendola capace di adempiere un comandamento così sublime.

Dio stesso, dunque, opera in noi, vivificando la sua Chiesa con il dono dello Spirito. Per questo Paolo coltiva un rapporto di intima comunione con Dio, in un continuo rendimento di grazie (1 Cor 1,4). Al di là dei difetti e delle mancanze, presenti in ogni comunità cristiana, Paolo sa discernere quanto di buono Dio opera in essa, riconoscendo l'abbondanza di doni e di carismi che Cristo stesso diffonde nel suo corpo mistico (1 Cor 1,5).

I frutti della grazia nella vita dei cristiani sono la migliore prova, per i credenti e per gli increduli, della verità del vangelo. Una vita consacrata a Dio è di per se stessa una testimonianza vivente dell'opera dello Spirito Santo.

Paolo descrive una tensione escatologica verso il ritorno di Cristo, che richiama il perfezionamento definitivo della Chiesa e la testimonianza ultima della fedeltà di Dio nei nostri confronti: "non vi manca alcun dono mentre aspettate la manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo, il quale vi confermerà fino alla fine, affinché siate irreprensibili nel giorno del nostro Signore Gesù Cristo" (1 Cor 1,8). È Dio che ci rende immacolati, che ci dona una veste nuova, per presentarci davanti a lui nell'ultimo giorno.  Così assicura l'Apostolo, proseguendo la sua lettera ai Corinzi: "Fedele è Dio dal quale siete stati chiamati" (1 Cor 1,9).

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 26 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Vediamo quel che cerchiamo

Lettura

Luca 9,7-9

7 Intanto il tetrarca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risuscitato dai morti», 8 altri: «È apparso Elia», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti». 9 Ma Erode diceva: «Giovanni l'ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose?». E cercava di vederlo.

Commento

La fama di Gesù si è diffusa dai suoi giorni terreni a oggi fino a ogni angolo della terra, ma quanti riescono davvero a riconoscerlo per quello che egli è? L'interesse di Erode verso Gesù narrato dall'evangelista Luca prepara quello che il tetrarca mostrerà durante la passione. Egli, che ha ucciso Giovanni il Battista, cercherà in seguito di uccidere anche Gesù (Lc 31,33), e quando questi verrà a lui inviato da Pilato per essere giudicato, Erode si rallegrerà "perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui" (Lc 23,8). 

Di fronte al silenzio di Gesù, che non accondiscende a tale richiesta, Erode reagirà facendolo insultare e schernire dai suoi soldati e rimandandolo da Pilato. Erode è confuso in merito all'identità di Gesù, perché la sua curiosità lo fa restare a un livello superficiale di comprensione; cerca di vederlo, ma unicamente per appagare il desiderio di assistere a qualche prodigio. 

A Erode non interessa niente della ricerca della verità, della bontà, della giustizia di Dio. Per questo la verità incarnata si sottrae a lui, non disvelando la propria natura e la propria potenza. Il rapporto tra Gesù ed Erode attesta il fatto che ciò che troveremo in Gesù dipende da ciò che stiamo cercando. 

Così Nicodemo trova in lui la verità che cercava nelle Scritture; gli scribi e i farisei che gli sono ostili credono di avere di fronte un impostore e un bestemmiatore; Pilato vede in lui un uomo innocente ma non riesce ad andare oltre; mentre il centurione che assiste alla sua morte escalama «Davvero costui era Figlio di Dio!» (Mt 27,54). 

L'idea che abbiamo di Gesù è fondamentale nella relazione che stabiliamo con lui, per questo egli domanda rivolto ai Dodici: «Ma voi chi dite che io sia?»; «Il Cristo di Dio» (Lc 9,20), risponde Pietro, prendendo la parola a nome dei discepoli, e di tutti coloro i cui occhi si aprono alla comprensione mediante la fede.

Preghiera

La conoscenza di te, Signore, possa appagare il nostro desiderio di verità e giustizia, per essere tuoi discepoli nel mondo, testimoniando il Figlio di Dio che si è incarnato, è morto e risorto per noi. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 25 settembre 2024

Lancelot Andrewes. Chiudi la tua porta dietro di te e prega nel segreto

Il 25 settembre 1626 muore all'età di 71 anni, nella pace e nella preghiera, Lancelot Andrewes, vescovo anglicano di Winchester.
Andrewes era nato a Londra nel 1555, ed era il primogenito di una ricca famiglia di mercanti. Egli mostrò presto una tale propensione allo studio e alla vita interiore che i suoi genitori gli consentirono di proseguire la formazione fino a diventare professore a Cambridge e a Oxford.
Uomo di enorme erudizione, Andrewes fu ordinato diacono e poi presbitero, e col passare degli anni seppe essere anche un notevole uomo di azione, capace di rimanere all'altezza dei numerosi incarichi affidatigli dalla chiesa e poi dal re d'Inghilterra, che lo volle come suo confessore personale.
Andrewes prese parte alla nuova traduzione inglese della Bibbia e, suo malgrado, alle controversie teologiche del tempo fra Roma e Canterbury; ma fu un accanito oppositore di ogni interpretazione dei canoni ecclesiastici non rispettosa delle persone coinvolte in giudizio dalla chiesa.
Eletto vescovo di Chichester nel 1605, e più tardi trasferito alla sede di Winchester, egli fu per tal motivo membro di diritto del Parlamento inglese. Andrewes in qualità di parlamentare cooperò con il governo ogni volta che all'ordine del giorno vi erano questioni inerenti alla chiesa ma si rifiutò sempre di compiere ingerenze in campi non strettamente collegati alla fede cristiana.
Alla sua morte, nel 1626, venne alla luce, grazie alla pubblicazione postuma dei suoi sermoni e delle sue Preces privatae, l'enorme ricchezza della sua vita spirituale; egli fu infatti, seppur nel nascondimento, uno dei più grandi uomini di preghiera della chiesa di ogni tempo.

Tracce di lettura

La mia preghiera sgorghi,
salga fino a te, entri,
compaia al tuo cospetto, trovi grazia,
si faccia prossima a te;
e non lasciare che torni a me sterile, ma,
poiché tue sono la scienza, la forza e la volontà,
ascolta, porgi l'orecchio,
sii attento e guarda,
comprendi,
ascolta,
esaudisci e agisci.
(L. Andrewes, Preces privatae)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Lancelot Andrewes (1555-1626)

Fermati 1 minuto. Come riconoscere il vero apostolo di Cristo

Lettura

Luca 9,1-6

1 Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. 2 E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. 3 Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno. 4 In qualunque casa entriate, là rimanete e di là poi riprendete il cammino. 5 Quanto a coloro che non vi accolgono, nell'uscire dalla loro città, scuotete la polvere dai vostri piedi, a testimonianza contro di essi». 6 Allora essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni.

Commento

Gesù comunica la sua stessa potenza ai dodici apostoli che si è scelto e li manda - questo il significato del termine apostoli: "inviati" - ad annunciare il regno di Dio, a cacciare i demòni e a curare tutte le malattie. Non c'è altro di cui debba occuparsi un apostolo: annunciare il vangelo e confortare gli infermi nell'anima e nel corpo. L'instaurazione del regno di Dio non è opera umana, per questo Gesù chiede ai Dodici di non preoccuparsi di nulla, neanche di ciò che sembra indispensabile, come il pane o un cambio di vestiti.

All'apostolo è richiesta una radicale semplicità di vita e un totale affidamento alla provvidenza di Dio. Da ciò deriva anche il dovere della "stabilità": lungi dal girare di casa in casa, magari per cercare beni e ricompense, gli apostoli dovranno stabilirsi presso una sola casa in ogni città; ma tale stabilità non deve portare a un attaccamento contrario al dovere della predicazione itinerante. 

Essi, dunque, ripartiranno di là, dopo aver proclamato il vangelo a quella città, e andranno altrove a portare il lieto annuncio, liberare e sanare. Se non saranno accolti andranno oltre, rifiutando di portare con sé persino la polvere di quella città; non pronunceranno maledizioni ma compiranno il gesto di una rottura completa con coloro che non credono. 

Da tutti questi segni riconosceremo il vero apostolo: l'annuncio fedele del vangelo, la sobrietà di vita, il disinteresse verso qualsiasi ricompensa per il suo ministero, il sedersi alla mensa di chiunque lo accolga (come fece Gesù anche con i pubblicani e i peccatori), la capacità di un distacco per andare oltre ad annunciare la parola di Dio, la mitezza e al contempo la radicalità di fronte al rifiuto della sua missione.

Preghiera

Donaci, Signore, la gioia dell'anuncio del vangelo, la coerenza espressa nella semplicità di vita e una salda fiducia nella tua misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 24 settembre 2024

Silvano del Monte Athos e la docilità all'azione dello Spirito

Nel 1938 muore al monte Athos lo starec Silvano. Semën (Simeone) Ivanovič Antonov era nato nel 1866 a Šovsk, in Russia, da una famiglia di poveri contadini, ed era entrato nel 1892 nel monastero athonita di San Panteleimon. La sua parabola monastica fu una straordinaria ricerca di docilità all'azione dello Spirito santo. Silvano aveva infatti cominciato ad avvertire da giovane la presenza dello Spirito nel suo cuore, e aveva deciso di dedicarsi interamente a custodire mediante la preghiera il dono ricevuto. Nominato economo del monastero, egli continuò a riservare ogni giorno un tempo ragguardevole per la preghiera, pur avendo ormai più di 200 monaci a cui provvedere. Ammaestrato dallo Spirito a riconoscere Gesù e in Gesù la misericordia del Padre, Silvano intraprese un cammino di assimilazione al suo Signore. Egli capì che solo nell'umiltà, nel riconoscersi «terra desolata», «carne di peccato», avrebbe potuto raggiungere la piena comunione con Cristo disceso agli inferi per amore di tutti gli uomini. Ebbe la grazia della preghiera continua ed ebbe la visione del Cristo oltre a soffrire molto da parte di demoni. Ma l'esperienza mistica che più lo marcò, avvenne attorno all'anno 1906, quando in preda a grande sconforto per non riuscire a estirpare i suoi sentimenti di orgoglio, così si rivolse a Dio: «Signore, tu vedi che cerco di pregarti con spirito puro, ma il demonio me lo impedisce.» Ricevette allora nel suo cuore questa risposta: «Gli orgogliosi devono sempre soffrire da parte dei demoni.» Silvano rispose: «Allora, Signore, dimmi cosa devo fare perché la mia anima diventi pura.» Di nuovo ricevette la risposta: «Tieni il tuo spirito in inferno e non disperare mai». In realtà, proprio per essersi accusato, lui stesso di essere un orgoglioso, e aver pregato Dio di estirpargli questo sentimento, ha mostrato un grande spirito di umiltà. Nonostante non avesse ricevuto una istruzione superiore, assunse grande fama presso i pellegrini che lo cercavano per i suoi utili consigli, tra essi anche altri prelati, vescovi e cattedratici. Passò gli ultimi anni della sua vita a ricevere migliaia di persone che venivano dai luoghi più lontani per chiedere una parola o una preghiera : colui che ormai era noto a tutti semplicemente come lo «starec Silvano».

Tracce di lettura

Spirito santo, non abbandonarci! Quando tu sei in noi, l'anima avverte la tua presenza, trova in Dio la sua beatitudine: tu ci doni l'amore ardente per Dio. Spirito santo, non mi abbandonare! Quando ti allontani da me, i pensieri malvagi assalgono il mio cuore: l'anima mia piange lacrime amare. 

(dagli Scritti di Silvano dell'Athos).

Abba Paisio pregava per un proprio discepolo che aveva rinnegato Cristo. Mentre pregava, gli apparve Cristo e gli disse: « Paisio, per chi stai pregando? Non mi ha forse rinnegato?». Ma il santo continuò ad aver compassione del proprio discepolo. Allora il Signore gli disse: «Paisio, tu mi sei divenuto simile mediante l'amore»

(Detto dei padri che Silvano amava ripetere)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monstica di Bose; Wikipedia

Silvano del Monte Athos (1866-1938)

Fermati 1 minuto. Quale famiglia cristiana?

Lettura

Luca 8,19-21

19 Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20 Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». 21 Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».

Commento

Non sappiamo se i "fratelli" di Gesù menzionati in questo brano fossero figli di Maria o, come accadeva secondo una usanza semitica, il termine greco adelphos (f. adelphe) va inteso come "cugini", "nipoti", "fratellastri" (vedi ad es. Gn 14,16; 29,15; Lv 10,4). Una antica e diffusa tradizione patristica afferma la verginità di Maria anche dopo aver partorito Gesù. 

Tutto ciò poco conta ai fini dell'interpretazione del racconto di Luca. Ciò che esso ci trasmette è che, senza disprezzare la famiglia naturale, Gesù pone al di sopra di essa la famiglia che egli "si è scelto", quella di coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (v. 21). Il passo evangelico, "ingentilito" rispetto al parallelo di Marco (Mc 3,31-35) - in cui Gesù afferma «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». (Mc 3,33) - riferisce che "non potevano avvicinarlo", "stavano fuori" e "desideravano vederlo", ma tutto ciò gli era impedito dalla folla. 

Vi è una distanza, una barriera impenetrabile che si frappone tra Gesù e i suoi familiari. In un passo ancor più "duro" di Marco ci viene riferito che i familiari di Gesù, in altra occasione "uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé» (Mc 3,21)". Altrove Gesù afferma: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,4). 

Gesù relativizza l'istituto familiare; non ne fa "una gabbia", un contesto chiuso e autoreferenziale, ma lo pone in secondo piano rispetto al senso di appartenenza alla famiglia dei credenti. In questo senso, «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Altrove Gesù afferma: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. (Mt 10,34-35)». 

Ma se la parola di Dio è una spada che può recidere i legami familiari è anche un vincolo che può rafforzarli, arricchirli di una forza di unione soprannaturale. Allora la famiglia diventa qualcosa di più di una sorta di "clan"; diviene il focolare della Parola di Dio, laddove due o tre riuniti nel nome di Gesù lo rendono presente in mezzo a loro; diventa nucleo fecondo per l'evangelizzazione al di fuori di essa.

Preghiera

Custodisci le nostre famiglie Signore, affinché la tua parola possa rendersi presente in mezzo a noi, per vivificare le nostre relazioni e renderci apostoli del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 23 settembre 2024

Fermati 1 minuto. La luce che si fa dono

Lettura

Luca 8,16-18

16 Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce. 17 Non c'è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce. 18 Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere».

Commento

La conoscenza dei misteri del regno non è esoterica o gnostica, riservata cioé solo ad una setta, ma dev'essere condivisa con gli altri. Cristo, infatti, è venuto nel mondo per far conoscere la verità, non per nasconderla.

Il fine per cui la luce deve farsi dono è spiegato nel passo parallelo del Vangelo di Matteo: "risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt 5,16).

L'efficacia della Parola non dipende esclusivamente dal suo valore intrinseco, ma anche dal modo in cui viene accolta. Dio dà maggiore intelligenza a chi accetta il mistero rivelato; mentre la toglie a quelli che non l'accolgono.

Proiettare la luce del vangelo sul mondo significa superare la distinzione fra "temporale" e "spirituale", consentire all'amore di Cristo di incarnarsi nella società. In questi termini, e non secondo la crescita meramente economica o tecnologica, si può parlare di reale sviluppo dell'umanità.

Preghiera

Illumina, Signore, l'umanità in attesa dell'alba del tuo regno, portatore di giustizia e di verità. Amen.

domenica 22 settembre 2024

Prigionieri della legge e prigionieri... nel Signore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DICIASSETTESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo affinché la tua grazia possa sempre prevenirci e sostenerci, rendendoci costantemente dediti a ogni opera buona. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 4,1-6; Lc 14,1-11

Commento

Guarendo l’idropico in giorno di sabato Gesù mette al centro del suo messaggio il primato della carità verso il prossimo, come legge suprema. Egli non controbatte ai farisei negando o sminuendo la legge mosaica. Chiede infatti loro di citare un passo della legge che vieti di guarire in giorno di sabato e domanda se non si affaticherebbero in giorno di sabato per salvare un asino o un bue, ovvero per proteggere le proprie ricchezze.

L'illusione che l'amore di Dio possa essere fatto coincidere semplicemente con l'amore della legge è una forma di riduzionismo idolatra: non si adorano delle divinità straniere, ma si cade nell'errore di credere che lo scrupoloso rispetto delle norme religiose possa di per sé costituire una garanzia di salvezza. Questa tentazione, molto diffusa nel giudaismo contemporaneo a Gesù, può costituire una minaccia anche per il cristianesimo, laddove si affermi la convinzione di potere accumulare meriti attraverso opere buone e preghiere. 

Si tratta di un atteggiamento spiritualmente egocentrico, lontano dall'amore disinteressato per Dio e per il prossimo, da quel senso di gratitudine verso il nostro Creatore e Salvatore, che da solo dovrebbe essere sufficiente per farci agire rettamente.

La seconda parte del racconto evangelico, in cui assistiamo alla disputa tra gli invitati per chi avrebbe dovuto occupare i posti più prestigiosi a tavola, testimonia proprio la difficoltà di superare l'accentramento su di sé, che dovrebbe invece caratterizzare la vera esperienza religiosa.

Paolo, dal canto suo, nella lettera agli Efesini, sottolinea il profondo legame tra la carità fraterna e la necessità di dare una risposta adeguata all'azione salvifica di Dio nei nostri confronti. Noi siamo stati amati e salvati per primi; è nostro dovere amare il prossimo come Dio ci ha amato. E questo dovere è ancora più vincolante nei confronti dei fratelli nella fede, con i quali condividiamo i doni che l'unico Cristo ha distribuito tra il suo popolo. Per questo l'apostolo ci esorta a mantenere la pace nella comunità cristiana.

Per rafforzare le sue parole Paolo fa leva sul suo essere "prigioniero nel Signore". Non vuole essere compatito, ma vuole sottolineare fino a che punto lo abbia spinto la sua abnegazione per la causa del vangelo. Il credente è capace di individuare anche nelle grandi prove della vita la mano di Dio, per questo Paolo è prigioniero, ma "nel Signore". Nulla accade per circostanze fortuite, e anche laddove ci trovassimo tra le mani di forze malvagie, possiamo avere la certezza che ogni causa seconda agisce perché Dio, la causa prima, glielo consente. 

E ancor più, dobbiamo essere assolutamente certi che qualsiasi cosa ci accada è assolutamente la più perfetta, la più profittevole, la migliore, qui ed ora, per noi, che possa accadere, secondo la sapienza imperscrutabile di Dio. Possiamo dunque ripetere col salmista, in ogni circostanza della nostra vita: "Nelle sue mani sono le profondità della terra e sue sono le alte vette dei monti" (Sal 95,4).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 20 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Gesù non ha paura delle donne

Lettura

Luca 8,1-3

1 In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. 2 C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, 3 Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni.

Commento

La predicazione del regno di Dio è un'attività itinerante, che Gesù non compie da solo, ma insieme ai suoi discepoli. Egli si sposta di città in città, perché «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Insieme a lui troviamo i Dodici, ma anche un piccolo gruppo di donne, cosa del tutto inconsueta per la cultura religiosa dell'epoca. I rabbini, infatti, non avevano donne come discepoli. Questa ritrosia è evidente nel racconto giovanneo dell'incontro tra Gesù e la samaritana, dove appunto i discepoli di Gesù si stupirono nel vederlo discorrere con una donna presso il pozzo (Gv 4,27). 

«Signore, gli disse la donna, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete» (Gv 4,15) esclama la samaritana al pozzo; e di quell'acqua sembrano essersi dissetate le tre discepole che seguono Gesù nel suo ministero. Maria, proveniente dalla città di Màgdala, è identificata da una tradizione senza alcun riscontro oggettivo con la donna che in un passo precedente versa il profumo sui piedi di Gesù e ne versa sul suo capo prima della passione; qui si dice semplicemente che fu liberata da sette demòni, ma un'altra tradizione, sempre senza alcun fondamento, ne fa una prostituta. Giovanna e Susanna sono menzionate solo qui. 

Saranno delle donne a seguire Gesù nella sua passione e a sostare sotto la croce, con Maria, la madre di Gesù e Giovanni, il discepolo che egli amava. E sempre delle donne sono le prime testimoni della risurrezione, annunciatrici della lieta notizia ai Dodici stessi. 

Le Scritture presentano un atteggiamento ambivalente sulla donna, a partire dalla progenitrice Eva, mediante la quale il peccato è entrato nel mondo, ai numerosi ammonimenti contenuti nel libro dei Proverbi, in cui l'uomo viene messo in guardia dalla capacità femminile di circuire e far cadere nel peccato. 

Eppure, tutta la storia della salvezza è costellata da figure di donne esemplari e benedette da Dio, a partire da Sara, che concepisce Isacco nella sua vecchiaia e diviene partecipe della promessa, fatta da Dio ad Abramo, di una discendenza più numerosa della sabbia del mare e, dunque, di una redenzione che si estende oltre i confini stessi di Israele; e poi Rachele, sposa di Giacobbe e madre di Giuseppe, che "piange i suoi figli", figura di colei che per Israele intercede presso Dio (Ger 31,15, ripreso da Mt 2,18). Per mezzo di una donna il Verbo incarnato decide di venire in mezzo a noi: Maria, nuova Eva, è lo strumento mediante il quale giungono a compimento le promesse messianiche. 

Sono figure per lo più silenziose le donne dell'Antico e del Nuovo Testamento, ma significative nella storia della salvezza. Il loro silenzio è sempre fecondo.

Preghiera

Concedicci Signore, di essere associati a te nella predicazione della salvezza e il nostro agire, guidato dal tuo Spirito, sia sempre più eloquente delle nostre parole. Amen.

giovedì 19 settembre 2024

Teodoro di Tarso, un monaco alla guida della chiesa inglese

Il 19 settembre 690 muore Teodoro, arcivescovo di Canterbury. Teodoro era nato a Tarso, in Cilicia; aveva compiuto gli studi ad Atene e si era fatto monaco in terra ellenica. Giunto a Roma all'età di sessantasei anni forse per motivi di studio, egli fu in breve tempo ordinato diacono e poi vescovo da papa Vitaliano, che gli assegnò la sede vacante di Canterbury. Aiutato dall'ottima salute, malgrado l'età avanzata, Teodoro si diede anima e corpo al ministero episcopale, iniziando anzitutto a viaggiare per tutto il territorio inglese, al fine di conoscere in prima persona la terra e la gente di cui era stato eletto pastore. Egli riorganizzò in profondità la vita della chiesa inglese, indicendo il primo concilio della storia britannica a Hertford nel 673, ricucendo le molte divisioni tra i cristiani di origine celtica e quelli di origine anglosassone, e aprendo a Canterbury una scuola di studi superiori dove vennero insegnate le discipline classiche dell'antichità. Dalla sua scuola usciranno i principali vescovi e rinnovatori del cristianesimo occidentale precarolingio. Teodoro morì a Canterbury quasi novantenne, dopo aver posto le basi della nuova chiesa anglosassone.

Tracce di lettura

Teodoro giunse nella sua chiesa nel secondo anno dopo la consacrazione, e vi trascorse ventun anni, tre mesi e ventisei giorni. Intraprese subito a visitare tutta l'isola, dovunque vi fossero degli Angli, e da tutti era accolto e ascoltato molto volentieri. E poiché era istruito a fondo nelle lettere sia sacre sia profane, diffondeva ogni giorno fiumi di dottrina salutare per irrigare i loro cuori. Le aspirazioni di tutti erano infatti rivolte alle gioie del regno celeste, di cui da poco avevano sentito parlare, e chiunque desiderava essere istruito nella sacra Scrittura aveva a disposizione maestri pronti a insegnare a interpretarla. (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli 4,2)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Teodoro di Tarso (ca 602-690)

Fermati 1 minuto. Un grande perdono genera un grande amore

Lettura

Luca 7,36-50

36 Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37 Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; 38 e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. 39 A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». 40 Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, di' pure». 41 «Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. 42 Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». 43 Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44 E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45 Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. 47 Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». 48 Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». 49 Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?». 50 Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».

Commento

Siamo davanti a un fariseo che mostra verso Gesù un importante gesto di accoglienza, invitandolo a condividere un pasto. L'ingresso in casa della donna durante il convito attesta che si trattava di un grande banchetto, perché in questo caso era consentito, in oriente entrare in casa a curiosare. 

Questo racconto è più un dipinto che una narrazione, per il suo svolgersi quasi completamente in silenzio. Dipinto dai colori contrastanti se confrontiamo il fariseo, che siede a mensa con Gesù e si pone dunque sul suo stesso piano e la donna, accovacciata dietro i suoi piedi; questa non dice una parola, ma mette in atto una serie di gesti, che richiamano le antiche usanze orientali verso gli ospiti: accogliere l'invitato con un bacio, lavargli i piedi, ungergli il capo con olio profumato. 

La tradizione che identifica questa donna con Maria di Magdala è tardiva e priva di fondamento, così come quella secondo la quale si tratterebbe di una prostituta. Il termine usato (gr. hamartolos) indica infatti semplicemente una condizione di peccato sia al maschile che al femminile. Il "lasciar fare" di Gesù nei confronti della donna è occasione di scandalo per il fariseo, che dentro di sé dubita di avere di fronte a sé un profeta: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice» (v. 39). 

Chiaramente il fariseo si considera di "una specie" del tutto differente, degno di stare a tavola con un profeta. La sua sicurezza di sé è in pieno contrasto con l'atteggiamento della peccatrice, che non smette di piangere. 

Contrariamente a quel che pensa il fariseo, Gesù sa benissimo chi è quella donna e sebbene quell'uomo, che si sentiva giusto per la pratica della legge, non abbia il coraggio di esprimere ad alta voce le proprie perplessità, lo anticipa facendogli una domanda. Chi sarà più felice: un uomo a cui vengono condonati cinquanta denari o uno a cui ne vengono condonati cinquecento? Il fariseo dà la risposta giusta, ma la sua giustizia rimane su un piano puramente teorico, legalistico; è lui a non sapere chi ha di fronte, scandalizzandosi, insieme ai commensali, di colui che riconosce semplicemente come Maestro, ma che dichiara di poter rimettere i peccati (v. 49).

La grande fede e l'amore della peccatrice hanno generato il perdono e questo, a sua volta, ha generato un grande amore. Il fariseo si pone al di fuori di questo circolo di fede e di amore, considerandosi giusto davanti a Gesù.

Senza l'umiltà la nostra religiosità è una pratica sterile. Non importa quanto "intimo" possiamo considerare il nostro rapporto con Dio. Chi si mette a tavola con il Signore aspettandosi di essere lodato come giusto o per vantarsi di aver familiarità con lui ne rimarrà deluso, perché non saprà comprendere la vera natura di colui che è venuto a salvare i peccatori e che afferma alla nostra anima «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».


Preghiera

Signore, donaci la pace che il mondo non conosce; noi non confidiamo nella nostra giustizia ma nella tua grande misericordia e ti adoriamo come il Figlio di Dio, venuto nel mondo per salvare i peccatori. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 17 settembre 2024

Ildegarda di Bingen e il fuoco del Paraclito

Nel 1179 muore nel monastero di Rupertsberg, presso Bingen, Ildegarda, monaca e mistica.

Nata ottantun anni prima a Bermersheim, nella Renania, Ildegarda fu affidata a otto anni a Jutta di Sponheim, un'anacoreta che viveva legata alle benedettine di Disibodenberg. Intorno alle due donne la comunità crebbe, e alla morte di Jutta, Ildegarda ne assunse la responsabilità.

Essa seppe fare tesoro della propria estrema sensibilità e fragilità fisica per comprendere in profondità le forze fisiche e biologiche della natura e per affinare la propria arte farmacologica e medica, da cui molti trassero grandi benefici.

Attenta lettrice e ruminatrice delle Scritture, fu una donna di temperamento straordinario: predicò il vangelo in modo itinerante, quasi un secolo prima di Francesco d'Assisi, seguendo unicamente la voce interiore che la spingeva a farlo; promosse il rinnovamento spirituale nel monachesimo del suo tempo, e fu sempre pronta a servire i malati e a lenire le loro sofferenze.

In tutto questo, Ildegarda non dimenticò mai le proprie figlie spirituali, ma continuò sino alla fine a seguire a una a una tutte le monache dei monasteri che aveva fondato, con una dolcezza e una sensibilità pari alla forza e alla fermezza che aveva saputo mostrare quando si era trovata ad ammonire e a consigliare i potenti del suo tempo.

Su indicazione di Bernardo di Clairvaux, Ildegarda mise per iscritto il frutto della sua contemplazione visionaria del mondo, lasciando così ai posteri almeno un poco della sapienza che aveva saputo vivere e incarnare nel suo lungo itinerario umano e monastico.

Tracce di lettura

O fuoco dello Spirito Paraclito, vita della vita di ogni creatura, sei santo, tu che vivifichi le forme.

Sei santo, tu che copri con balsami le fratture doloranti, santo, tu che fasci le ferite incancrenite. Soffio di santità, fuoco di amore, dolce gusto nei cuori e pioggia nelle anime, profumato di virtù.

Fontana purissima nella quale si vede Dio, intento a radunare gli stranieri e a cercare gli smarriti.

Corazza della vita, speranza dell'unione di tutti gli uomini, crogiolo della bellezza, salva le tue creature!

Grazie a te le nubi corrono, l'aria plana, le pietre si coprono di umidità, le acque diventano ruscelli e la terra trasuda la linfa verdeggiante.

E sei ancora tu a guidare incessantemente i dotti e a colmarli di gioia mediante l'ispirazione della tua sapienza.

Lode dunque a te, che fai risuonare le lodi e rallegri la via: a te la speranza, l'onore e la forza.

Lode a te che porti a noi la luce. (Ildegarda di Bingen, O fuoco dello Spirito Paraclito)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Ildegarda di Bingen (1098-1179)

lunedì 16 settembre 2024

Cipriano e Cornelio. La difesa dell'autonomia e dell'unità della Chiesa

Nel 258 nel corso delle persecuzioni dell'imperatore Valeriano, muore martire a Cartagine il vescovo Cipriano. Nato intorno al 210, Cipriano era un retore pagano che si convertì al cristianesimo dopo aver distribuito tutti i suoi beni ai poveri. A tre anni soltanto dalla conversione fu eletto vescovo di Cartagine. Vissuto in un periodo di grandi divisioni nella chiesa, suscitate dalle diverse posizioni assunte dai cristiani di fronte alla pressione ad apostatare esercitata su di loro dai persecutori, Cipriano optò sempre per un atteggiamento misericordioso verso chi era caduto nell'apostasia. Convinto infatti che il ministero episcopale fosse uno e indivisibile, e che fosse stato lasciato da Cristo alla chiesa per custodirne l'unità attraverso la remissione dei peccati, egli difese l'autorità episcopale sia contro le intromissioni dell'impero sia contro quei cristiani che minavano l'unità della chiesa pretendendo di costituire delle chiese parallele di uomini impeccabili. Anche per questo motivo, Cipriano sostenne contro l'antipapa Novaziano, eletto dalla fazione più rigorista del clero romano, il legittimo papa di Roma Cornelio. Il comune atteggiamento di Cornelio e Cipriano verso chi aveva ceduto di fronte alle violenze dei persecutori e la loro comune morte nel martirio, hanno fatto sì che la chiesa d'occidente li ricordi assieme in questo giorno.

Tracce di lettura

Fratelli, vi sono alcuni che invece di proporre la speranza, insinuano la disperazione e la mancanza di fede sotto il pretesto di offrire la fede. Ma il Signore dice a Pietro: «Io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell'inferno non la vinceranno. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli».
Il Signore edifica la sua chiesa sopra uno solo; anche se dopo la sua resurrezione egli conferisce un'eguale potestà a tutti gli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi. Ricevete lo Spirito santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; saranno ritenuti a chi li riterrete». Tuttavia per evidenziare l'unità dispose che l'origine della medesima procedesse da uno solo. Come può credere allora di possedere la fede chi non mantiene l'unità della chiesa?
(Cipriano, L'unità della chiesa cattolica 3-4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Cipriano e Cornelio (+258), Catacombe di san Callisto

Fermati 1 minuto. La fede che colma ogni distanza

Lettura

Luca 7,1-10

1 Quando ebbe terminato di rivolgere tutte queste parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafarnao. 2 Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l'aveva molto caro. 3 Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. 4 Costoro giunti da Gesù lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, 5 perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga». 6 Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; 7 per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. 8 Anch'io infatti sono uomo sottoposto a un'autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all'uno: Va' ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa». 9 All'udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». 10 E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

Commento

Accanto ai proseliti, che senza essere etnicamente ebrei abbracciavano il giudaismo, con tutti gli obblighi che ciò comportava, vi erano al tempo di Gesù gli "adoratori di Dio" o "timorati di Dio" (gr. sebomenoitheosebeis), Gentili che simpatizzavano per il giudaismo senza aderirvi pienamente, non osservando tutta la Legge ma soltanto i "comandamnti noachici" (Gn 9,1-11), intesi come una sorta di legge naturale richiesta da Dio a tutti gli esseri umani. Il centurione di questo brano del Vangelo di Luca (che ha un parallelo in Mt 8,5-13) apparteneva probabilmente a quest'ultimi.

Il rispetto del centurione per il popolo di Israele è attestato dal fatto che egli ha contribuito alla costruzione della sinagoga locale (v. 5); la preoccupazione per il suo servo è contraria alla reputazione che i soldati romani avevano presso Israele. 

Gli "anziani dei giudei" (v. 3) menzionati in questo passo del Vangelo di Luca, a differenza degli anziani di Gerusalemme non sono membri del sinedrio, ma semplici notabili del luogo. Il centurione si affida all'intercessione presso Gesù da parte di questi giudei, mostrando la sua umiltà.

Il valore delle parole del centurione davanti a Gesù (v. 6) è tale da essere conservate ancor oggi in diverse liturgie cristiane come parole che esprimono un atteggiamento di umiltà e di fede da parte di coloro che si accostano all'eucaristia. Il centurione si ritiene indegno di ricevere in casa propria Gesù poiché per un ebreo entrare in casa di un gentile era considerato un atto impuro.

Il centurione non considera Gesù uno dei tanti guaritori del suo tempo, ma crede nella sua parola investita della potenza di Dio (v. 7), per questo Gesù non solo lo esaudisce ma ne esalta la fede, più grande di quella trovata presso gli israeliti (v. 9); una fede che è capace di suscitare la misericordia di Dio e di far sì che essa colmi ogni distanza.

La fede del centurione ci assicura che il Signore non è lontano dalle nostre necessità e testimonia la potenza della preghiera di intercessione, espressione della carità fraterna. "Molto vale la preghiera del giusto" afferma l'apostolo Giacomo nella sua lettera (Gc 5,16).

La carità abbatte ogni differenza umana davanti a Dio e capovolge il "gioco delle parti" di questo mondo: un superiore si preoccupa per un suo subalterno; un dominatore romano si fa servo di un rabbi ebreo; i notabili del popolo di Dio si preoccupano per uno straniero. È la fiducia nel nome del Signore che segna l'inizio del mondo nuovo e dei cieli nuovi (Is 65,17), creati da colui che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5).

Preghiera

Accresci in noi, Signore, lo spirito di sollecitudine gli uni verso gli altri; il tuo Spirito renda fervente la nostra preghiera e la tua misericoria ci soccorra sempre. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 15 settembre 2024

Per mezzo della fede, radicati nell'amore

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SEDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Signore, ti supplichiamo, possa la tua continua pietà purificare e difendere la tua Chiesa; e poiché essa non può essere al sicuro senza il tuo soccorso, preservala sempre con il tuo aiuto e la tua bontà. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Ef 3,13-21; Lc 7,11-17

Commento

Due folle si incontrano: l'una è quella dei discepoli di Gesù e del suo vasto seguito, l'altra quella del funerale dell'unico figlio di una vedova. Nella società patriarcale di quel contesto storico-geografico le vedove erano una categoria particolarmente vulnerabile; possiamo immaginare, dunque, la tragedia per questa donna, di aver perso l'unico figlio maschio. 

Gesù "ne ebbe compassione"; con una traduzione più accurata del verbo greco splanchnizomai, possiamo dire "ne fu commosso nelle viscere". Lo stesso verbo è utilizzato da Luca nella parabola del buon samaritano e in quella del figliol prodigo. Gesù, che si commosse fino a prorompere in pianto davanti alla tomba dell'amico Lazzaro, comprende la nostra miseria di creature soggette alla morte a causa del peccato (cfr. Rm 5,12-14) e compie in questa occasione un gesto che per la legge ebraica rendeva impuri. 

Egli non solo non contrae alcuna impurità ma è anche in grado di ridonare la vita a ciò che si è avviato verso la corruzione. Un gesto semplice e una parola efficace: "Giovinetto, dico a te, alzati!" - quell'"alzati" che nel verbo originale greco egheiro descriverà nello stesso Vangelo di Luca il mistero pasquale. 

Gesù non teme di toccare con mano la nostra miseria. Troppe volte la religione inculca un senso di impurità in chi vorrebbe avvicinarsi ad essa, provocandone il rifiuto. Per paura di perdere consensi, d'altra parte, alcune chiese rimuovono la parola "peccato" dal proprio lessico, disconoscendo che nell'uomo vi è una tendenza al male, all'egoismo, alla prevaricazione. 

Il vangelo ci istruisce sul fatto che tutti abbiamo peccato ma la fede in Cristo ci consente di morire al peccato per risorgere nella grazia. Come i testimoni del giovane riportato in vita possiamo veramente dire "Dio ha visitato il suo popolo". 

"Per mezzo della fede... radicati nell'amore" conosceremo, afferma Paolo (Ef 3,17-19), la misura dell'amore di Cristo, e saremo "ripieni della pienezza di Dio". Dio che può fare molto di più di quel che possiamo immaginare (Ef 3,20) ha mandato il suo Figlio a restaurare l'immagine divina nell'uomo. Non ci concede solo di vincere la morte, ma di partecipare alla sua vita trinitaria.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 12 settembre 2024

Fermati 1 minuto. La carità come libertà

Lettura

Luca 6,27-38

27 Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, 28 benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. 29 A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. 30 Da' a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. 31 Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. 32 Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. 33 E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. 34 E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. 35 Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi.
36 Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. 37 Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; 38 date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Commento

"Amate...", "fate del bene...", "benedite...", "pregate..."; l'autorevolezza di Gesù, nel corrispettivo lucano del Discorso della montagna (Mt 5-7), si esprime in questi quattro imperativi. Il messaggio non è totalmente sconosciuto all'Antico Testamento e alla letteratura giudaica, ma nuova è la forza dell'insegnamento che viene impartito e il fatto che Gesù ne sia il modello fin sulla croce (Gesù diceva: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"; Lc 23,34).

Gesù enuncia i principi su cui si fonda la sua comunità: il perdono e l'amore dei nemici. Mentre in Matteo il riferimento negativo è ai "pagani" e ai "pubblicani" Luca propone semplicemente la parola "peccatori" (vv.32-33); i destinatari del suo vangelo sono infatti pagano-cristiani, che difficilmente avrebbero compreso i termini usati da Matteo.

Anche finito il tempo delle persecuzioni (Lc 27-29) sono questi i valori guida che devono ispirare il comportamento dei seguaci di Cristo. "Ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (v. 31) è la versione positiva della "regola d'oro", presente anche in scritti sapienziali giudaici e pagani.

Rispetto a Matteo ("Infatti se amate quelli che vi amano quale merito ne avete?"; Mt 5,46) all'idea giuridica di ricompensa Luca preferisce il concetto di "grazia" (charis), che richiama il favore divino.

L'invito a essere misericordiosi (oikotirmòn) figura soltanto in questo passo di Luca (v. 36) e nella lettera di Giacomo (Gc 5,11). Nel passo parallelo di Matteo (Mt 5,48) l'invito è ad essere "perfetti" (teleioi). La misericordia rappresenta, dunque, la perfezione della vita cristiana e la comunione con Dio, che si proclama misericordioso già davanti a Mosè (Es 34,6) e che "fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni" (Mt 5,45).

L'esortazione a non giudicare (v. 37) non implica l'assenza di discernimento ma condanna uno spirito che si fa forte giustificandosi da sé. Tale atteggiamento contraddirebbe il percorso di autospoliazione proposto da Gesù e ben rappresentato dal lasciare anche la tunica a chi ci porta via il mantello. Gesù ci invita alla libertà che deriva dal depotenziare i nostri nemici rinunciando a ogni tentativo di rivalsa; la libertà che solo chi non si lascia prendere al laccio da alcun bene, chi non ha nulla da perdere, può sperimentare.

C'è da domandarsi se il "Discorso della pianura" lucano, così come quello "della montagna" narrato da Matteo possano essere realmente applicati; se sia umanamente possibile amare i propri nemici, pregare per loro e benedirli. Guardando alle sole forze dell'uomo la risposta è certamente no. Solo lo Spirito santificante, donato ai credenti, può trasformare il cuore dell'uomo e renderlo simile al cuore di Dio. 

Preghiera

Insegnaci ad amare, Signore, come tu ci hai amato; affinché percorrendo la via stretta che hai tracciato per noi possiamo giungere alla piena comunione con te. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 11 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Il vangelo in quattro parole

Lettura

Luca 6,20-26

20 Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva:
«Beati voi poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
21 Beati voi che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi che ora piangete,
perché riderete.
22 Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti.
24 Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già la vostra consolazione.
25 Guai a voi che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e piangerete.
26 Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti.

Commento

Le beatitudini sono il sommario della legge di tutto l'evangelo, il suo cuore pulsante, che racchiude il senso dell'intera predicazione di Gesù. L'evangelista Luca le riassume in quattro rispetto alle nove di Matteo, e le controbilancia facendole seguire da quattro maledizioni. Gesù alza gli occhi verso i suoi discepoli prima di pronunciarle (v. 20); questo ci fa pensare che forse la narrazione di Luca si riferisce a un'occasione più intima rispetto al discorso riportato nel Vangelo di Matteo, dove Gesù "vedendo le folle salì sulla montagna" (Mt 5,1). 

L'oggetto delle quattro beatitudini sono rispettivamente: la povertà, la fame, il pianto e la persecuzione. Quello delle quattro maledizioni la ricchezza, la sazietà, il riso e la buona fama. Bisogna fare qui delle importanti precisazioni: Gesù non esalta la povertà di per sé; ma mostra una particolare predilezione per coloro che sono messi ai margini della società, fino a proclamare la beatitudine per coloro che "a causa del Figlio dell'uomo" (v. 22) incorrevano nella scomunica dalla sinagoga, venendo votati alla perdizione. Tante volte anche nella storia della chiesa sono stati messi al bando coloro che si sono opposti profeticamente al tradimento dei valori evangelici.

La prima maledizione riguarda un pericolo dal quale Gesù frequentemente mette in guardia nella sua predicazione: "non si può servire Dio e la ricchezza" (Mt 6,24). Accumulare e gestire la ricchezza richiede tempo e dispendio di energie, che inevitabilmente vengono sottratte alle prerogative del regno. 

La semplicità di vita, nell'attesa della paraklesis, ovvero della consolazione (v. 24) alla fine dei tempi è il tratto distintivo del vero discepolo, il quale fin d'ora, come afferma Paolo nella sua Prima lettera ai Corinti, vive come se non appartenesse più a questo mondo: "Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!" (1 Cor 7,29-31).

Sentirsi "ricchi", sentirsi "sazi", sentirsi "a posto con la coscienza" grazie al giudizio compiacente dei falsi profeti, determinano l'allontanamento dalla via della vita e dalla beatitudine nel regno dei cieli.
Gesù cerca persone "affamate" e "assetate" di verità, giustizia, consolazione, e della sua grazia: "Beato l'uomo che non indugia nella via dei peccatori, sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua" (Sal 1,1.3).

Preghiera

La tua grazia, Signore, ci assista nel cammino lungo le vie della giustizia, per giungere alla beatitudine che attende i tuoi discepoli nei cieli. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 9 settembre 2024

Poemen e la coscienza della propria fragilità

La Chiesa copta fa oggi memoria di abba Poemen, monaco del deserto egiziano vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo. L'esatta ricostruzione della sua figura storica costituisce uno dei puzzle più intricati dell'agiografia moderna. Quel che è certo, tuttavia, è che Poemen fu ritenuto portatore di insegnamenti talmente importanti da attribuire a lui oltre un ottavo di tutto il corpo dei Detti dei padri del deserto. 
Secondo la letteratura apoftegmatica, egli nacque attorno al 350, visse nell'insediamento monastico di Scete dove si era recato assieme a sei fratelli, ed entrò in contatto con le più grandi figure spirituali di quel tempo. Di lui si ricordano parole assai significative sul tema del discernimento spirituale, che per Poemen nasce dalla conoscenza della propria e dell'altrui fragilità. Soltanto l'umiltà, quindi, il non giudicare, il non fare paragoni, possono condurre un uomo a conoscere ciò che è possibile conoscere di se stesso e del fratello che gli sta accanto. Da ciò scaturiscono quella condiscendenza e quella misericordia che sole pongono il credente in cammino sulle tracce del Dio rivelato da Gesù Cristo. Poemen è ricordato anche da diversi calendari bizantini e orientali, e il Baronio ne introdusse il nome nel Martirologio Romano del 1573.

Tracce di lettura

Il padre Poemen disse: «Il vigilare, lo stare attenti a se stessi, e il discernimento, queste tre virtù sono guide dell'anima».
Disse ancora: «Da qualsiasi pena tu sia colto, la vittoria è il tacere».
Disse abba Poemen: «Vi è un uomo che sembra tacere e il suo cuore giudica gli altri; costui parla sempre; e ve ne è un altro che parla da mane a sera e conserva il silenzio; non dice cioè niente che non sia di edificazione».
Un fratello chiese al padre Poemen: «Se vedo la caduta di un fratello, è bene nasconderla?». L'anziano gli rispose: «Nell'ora in cui copriremo la caduta del fratello, anche Dio coprirà la nostra; nell'ora in cui la sveleremo, anche Dio svelerà la nostra»
(Detti dei padri del deserto, Poemen 35, 37, 27 e 64)

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

Detti dei Padri del Deserto – San Poemen Abate – “Ipocrita è chi insegna al  suo prossimo una cosa a cui egli non è ancora arrivato” – Francesco, va',  ripara la mia casa
Poemen (ca 350-450)

Fermati 1 minuto. Una incessante liturgia d'amore

Lettura

Luca 6,6-11

6 Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. Ora c'era là un uomo, che aveva la mano destra inaridita. 7 Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva di sabato, allo scopo di trovare un capo di accusa contro di lui. 8 Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». L'uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. 9 Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?». 10 E volgendo tutt'intorno lo sguardo su di loro, disse all'uomo: «Stendi la mano!». Egli lo fece e la mano guarì. 11 Ma essi furono pieni di rabbia e discutevano fra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.

Commento

Entrato nella sinagoga in giorno di sabato Gesù insegna, ma insegna non solo con la parola, bensì anche con i fatti. Il suo sguardo scorge un uomo con la mano destra paralizzata, ed ecco l'occasione non solo per compiere una guarigione, ma anche per rammentare lo spirito con cui deve essere vissuto il sabato.

Gesù invita l'uomo ad alzarsi e a porsi al centro dell'assemblea. Poi domanda agli scribi e ai farisei se è lecito fare del bene nel giorno di riposo prescritto dalla legge. Costoro restano in silenzio perché in fondo sperano che Gesù compia la guarigione in modo da accusarlo di aver violato il precetto religioso. La legge sul sabato in realtà vieta il lavoro finalizzato al profitto, i passatempi frivoli e l'astensione dal culto dovuto a Dio. Le opere necessarie alla preservazione della vita erano permesse.

Con la guarigione pubblica dell'uomo dalla mano inaridita Gesù vuole dimostrare la natura umana dei precetti farisaici, che pervertono il vero senso del sabato, sostituendo la fede con il legalismo.

Il sabato è certo giorno di riposo, in cui l'uomo fa memoria del riposo di Dio al termine della creazione. Ma il Padre non cessa di operare il bene durante questo giorno. Continua a offrire il cibo alle sue creature, a far germogliare il seme nei campi, a far scorrere le acque dai torrenti.

Dio opera incessantemente per amore dell'uomo e della creazione. Così anche il Figlio di Dio è Signore del sabato e l'uomo è chiamato a farsi suo imitatore, non cessando mai di fare il bene. Come la grazia di Dio non è mai "vacante" allo stesso modo la risposta d'amore dell'uomo verso Dio e la sollecitudine verso il prossimo non devono mai venir meno, ma devono acquistare nel culto, nella preghiera e nella meditazione delle Scritture, un vigore rinnovato, un maggiore slancio nella carità. La vita nella fede diventerà allora l'ingresso nel sabato eterno, una una incessante liturgia d'amore.

Preghiera

Signore, tu non cessi mai di prenderti cura con sollecitudine di noi e dell'intera creazione; rendici riconoscenti verso il tuo amore, predicando con le parole e con le opere il vangelo della grazia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 8 settembre 2024

L'ansia per il mondo e quella per il Regno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUINDICESIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

Custodisci, ti supplichiamo, Signore, la tua Chiesa con la tua misericordia; e, poiché per la fragilità umana senza di te non possiamo che cadere, mantienici sempre al riparo da ciò che è dannoso e guidaci verso ciò che è profittevole per la nostra salvezza; per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 6,11-18; Mt 6,24-34

Commento

Gesù ci raccomanda di non avere ansia per le ricchezze o per il nostro domani, ma è giusto avere ansia per la nostra salvezza e per la salvezza del prossimo; il cristiano e la Chiesa non devono mai venir meno a tale sollecitudine.

La vita del cristiano non è spensierata e concentrata sul cogliere edonisticamente l'attimo presente. Preghiamo invocando il Regno di Dio e il compimento della sua volontà, sospiriamo come le anime davanti al trono dell'agnello e come il salmista, dicendo "Fino a quando Signore?" (Sal 13,1; Sal 79,5; Ap 6,10).

Il messaggio evangelico non ci chiede di essere anestetizzati, di fuggire il senso di limitatezza e imprevedibilità che caratterizza la nostra esistenza umana in questo mondo. C'è un'ansia da curare e c'è un'ansia che non necessita di cure, perché è semplicemente un richiamo della retta coscienza a lavorare nella vigna che il Signore ci ha affidato, in prossimità del suo ritorno.

Esiste poi un'ansia religiosa contraria alla volontà di Dio. L'apostolo Paolo ci parla nella sua Lettera ai Galati, di coloro che vogliono fare bella figura nella carne e costringono gli altri a farsi circoncidere per non essere perseguitati per la croce di Cristo (Gal 6,12). Costoro sono anche ipocriti, perché "neppure quelli stessi che sono circoncisi osservano la legge, ma vogliono che siate circoncisi per potersi vantare nella propria carne" (Gal 6,13). 

Anche le chiese cristiane rischiano di adottare segni esteriori, atteggiamenti etici e pastorali, nell'ottica del conformismo e alla ricerca del consenso, per evitare le persecuzioni del mondo. Viene persa, così, quella sollecitudine positiva, per l'evangelizazione, per l'annuncio coraggioso del vangelo.

Gesù ci vuole liberare da queste ansie sbagliate, che esprimono un ripiegamento egocentrico e, in definitiva, una vita meschina e sofferente. Ci chiede di spostare il baricentro da noi stessi, liberandoci dalla schiavitù che caratterizza il timore della perdita, l'avversione per ciò che disturba i nostri interessi, il senso di incertezza che paralizza la nostra volontà.

La vita nella grazia è una esperienza di liberazione da tutte quelle sollecitudini vane, perché legate a ciò che è transitorio, impermanente, imponderabile. Da tutto ciò che è rassicurazione illusoria di essere salvati, come la circoncisione, le questioni di cibo o di bevanda (Rm 14,17), o qualsiasi altro segno "esteriore" di appartenenza religiosa. 

È la riscoperta di una esistenza centrata in Dio, alimentata dalla fiducia nel Padre, che con amore si prende cura delle sue creature. Egli stesso infatti ci rivestirà di un abito nuovo e splendente, come e più dei gigli del campo; ci donerà un abito di santità, perché “né la circoncisione né l'incirconcisione hanno alcun valore, ma l'essere una nuova creatura” (Gal 6,15).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 6 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Un abito completamente nuovo

Lettura

Luca 5,33-39

33 Allora gli dissero: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». 34 Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro? 35 Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno». 36 Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. 37 E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. 38 Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. 39 Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!».

Commento

La legge ebraica prevedeva il digiuno solo una volta l'anno per la celebrazione dello Yom Kippur, ovvero il Giorno dell'espiazione. Tutti gli altri digiuni erano iniziative volontarie e diventavano spesso, al tempo di Gesù, un'occasione per ostentare la propria religiosità. L'unico digiuno del Signore menzionato nei Vangeli è quello compiuto nel suo ritiro di quaranta giorni nel deserto, prima di dare avvio al suo ministero. Tale digiuno è compiuto in forma privata, lontano dagli occhi del mondo, come d'altra parte egli inviterà a fare durante la sua predicazione (Mt 6,16-18).

Il richiamo dell'immagine delle nozze rimanda al nuovo rapporto sponsale di Dio con il suo popolo, nella persona e nella missione di Gesù. Non comprendendo la portata dell'evento che Gesù, Figlio di Dio incarnato, rappresenta nella storia di Israele e dell'umanità tutta, questi discepoli di Giovanni e il gruppo di farisei non riescono ad apprezzare, possiamo dire a "gustare", il vino nuovo del vangelo.

L'insegnamento di Gesù non è un "rattoppo" del giudaismo, né il vangelo può essere semplicemente un adattamento alla Legge mosaica. Vi è in esso un fermento tale da far scoppiare gli otri dell'antica religiosità ebraica; la stoffa pregiata e di nuova tessitura rappresentata dal Figlio di Dio può solo lacerare la stoffa vecchia se cucita a forza su di essa.

Gesù stesso verrà "lacerato", "strappato" ai suoi discepoli, dai dottori della vecchia legge: questo il senso della parola greca apairomai, che preannuncia la fine violenta del Messia.
Anche i cristiani, rischiano di accontentarsi del vino vecchio, ignorando la novità che il vangelo porta sempre con sé nella vita personale, nelle comunità, nell'"oggi". 

Nessun vero credente cercherà di essere la copia - brutta o bella che sia - di un credente del passato, per quanto la memoria dei testimoni della fede possa essere un utile stimolo alla crescita spirituale. Il Signore vuole che la sua parola fermenti in noi producendo un vino unico e vuole intessere con le nostre vite un abito completamente nuovo.

Preghiera

Tu ci hai intessuti nel seno materno Signore; la tua grazia porti in noi a compimento ciò che hai stabilito per i nostri giorni quando ancora non ne esisteva uno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 5 settembre 2024

Fermati 1 minuto. Prendi il largo

Lettura

Luca 5,1-11

1 Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret 2 e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3 Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca. 4 Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». 5 Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6 E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. 7 Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. 8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». 9 Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; 10 così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini». 11 Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Commento

La scena si svolge in un importante luogo di commercio e approvvigionamento idrico della Galilea, presso il lago di Genèsaret, oltre duecento metri sotto il livello del mare, lago detto anche mare di Galilea; sulle sue sponde sorgeva la città di Cafarnao, dove Gesù aveva compiuto molti miracoli, come attesta l'episodio dell'insegnamento nella sinagoga di Nazaret («Quanto abbiamo udito che hai compiuto a Cafàrnao fallo anche qui, nella tua patria!»; Lc 4,23).

L'interesse che Gesù riscuote fin dagli inizi del suo ministero è testimoniato dalla grande folla che "gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio" (v. 1). Su questo sfondo intravediamo in disparte la figura dei pescatori, tra cui Simon Pietro, affaccendati nel pulire le reti e delusi per non aver pescato nulla. 

L'incontro con Gesù rappresenta una svolta radicale nella vita di Pietro e dei suoi compagni, che seguiranno il Cristo nel discepolato. Il prodigio della pesca miracolosa passa attraverso il riconoscimento in Gesù del Maestro, qui e in diversi passaggi neotestamentari definito tale con la parola greca epistatès, che a differenza del più comune didaskalos, indicava non un semplice insegnante, ma una persona rivestita di autorità verso i discepoli e direttamente responsabile nei loro confronti, proprio come il buon pastore è responsabile delle sue pecore (Gv 10,11). 

La professione di fede di Pietro, nonostante l'iniziale incredulità, manifestata al principio della sua risposta a Gesù, è ciò che rende possibile l'evento miracoloso; a questo segue la confessione di peccato per la propria incredulità. La risposta di Gesù sta a significare che il miracolo appena compiuto è solo un segno - come d'altra parte tutti i suoi prodigi nei Vangeli e nella nostra vita - di una realtà più grande, della chiamata a una prospettiva esistenziale più ampia: nel caso di Pietro, quella di diventare "pescatore di uomini" (v. 10). 

Gesù non stravolge del tutto la vita di Pietro, ma lo fa passare "da un livello a un altro", da pescatore di pesci a pescatore di uomini. La personalità di Pietro, le sue peculiarità e i suoi talenti, per quanto poveri, vengono rispettati. Così accade anche quando Cristo interpella le nostre vite chiamandoci "a qualcosa di più alto". La conversione evangelica è conversione dal peccato, ma rispetta la nostra individualità, la nostra identità profonda, pur sanandola dalle ferite che gli impediscono di esprimersi in pienezza.

Preghiera

Libera i nostri occhi, Signore, dal velo dell'incredulità affinché possiamo riconoscere e accogliere con gratitudine i segni che compi nella nostra vita e seguirti fedelmente per proclamare la tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona