Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 9 settembre 2025

Assidui e concordi nella preghiera. Commento al Salterio - Salmo 34

Lettura

Salmi 34

1 Di Davide.

Signore, giudica chi mi accusa,
combatti chi mi combatte.
2 Afferra i tuoi scudi
e sorgi in mio aiuto.
3 Vibra la lancia e la scure
contro chi mi insegue,
dimmi: «Sono io la tua salvezza».
4 Siano confusi e coperti di ignominia
quelli che attentano alla mia vita;
retrocedano e siano umiliati
quelli che tramano la mia sventura.
5 Siano come pula al vento
e l'angelo del Signore li incalzi;
6 la loro strada sia buia e scivolosa
quando li insegue l'angelo del Signore.
7 Poiché senza motivo mi hanno teso una rete,
senza motivo mi hanno scavato una fossa.
8 Li colga la bufera improvvisa,
li catturi la rete che hanno tesa,
siano travolti dalla tempesta.
9 Io invece esulterò nel Signore
per la gioia della sua salvezza.
10 Tutte le mie ossa dicano:
«Chi è come te, Signore,
che liberi il debole dal più forte,
il misero e il povero dal predatore?».
11 Sorgevano testimoni violenti,
mi interrogavano su ciò che ignoravo,
12 mi rendevano male per bene:
una desolazione per la mia vita.
13 Io, quand'erano malati, vestivo di sacco,
mi affliggevo col digiuno,
riecheggiava nel mio petto la mia preghiera.
14 Mi angustiavo come per l'amico, per il fratello,
come in lutto per la madre mi prostravo nel dolore.
15 Ma essi godono della mia caduta, si radunano,
si radunano contro di me per colpirmi all'improvviso.
Mi dilaniano senza posa,
16 mi mettono alla prova, scherno su scherno,
contro di me digrignano i denti.
17 Fino a quando, Signore, starai a guardare?
Libera la mia vita dalla loro violenza,
dalle zanne dei leoni l'unico mio bene.
18 Ti loderò nella grande assemblea,
ti celebrerò in mezzo a un popolo numeroso.
19 Non esultino su di me i nemici bugiardi,
non strizzi l'occhio chi mi odia senza motivo.
20 Poiché essi non parlano di pace,
contro gli umili della terra tramano inganni.
21 Spalancano contro di me la loro bocca;
dicono con scherno: «Abbiamo visto con i nostri occhi!».
22 Signore, tu hai visto, non tacere;
Dio, da me non stare lontano.
23 Dèstati, svègliati per il mio giudizio,
per la mia causa, Signore mio Dio.
24 Giudicami secondo la tua giustizia, Signore mio Dio,
e di me non abbiano a gioire.
25 Non pensino in cuor loro: «Siamo soddisfatti!».
Non dicano: «Lo abbiamo divorato».
26 Sia confuso e svergognato chi gode della mia sventura,
sia coperto di vergogna e d'ignominia chi mi insulta.
27 Esulti e gioisca chi ama il mio diritto,
dica sempre: «Grande è il Signore
che vuole la pace del suo servo».
28 La mia lingua celebrerà la tua giustizia,
canterà la tua lode per sempre.

Commento

Il Salmo 34 rappresenta una delle più intense preghiere di supplica dell'Antico Testamento, dove Davide si rivolge a Dio come ultimo giudice e difensore contro l'ingiustizia umana. L'invocazione iniziale "Signore, giudica chi mi accusa" rivela la profonda fiducia del salmista nella giustizia divina, quando quella terrena sembra vacillare.

Il testo biblico presenta una struttura drammatica: l'orante si trova circondato da nemici che "senza motivo mi tendono la fossa" e "tramano contro la mia vita". Questa condizione di vulnerabilità estrema spinge il fedele a cercare rifugio nell'unica istanza superiore capace di ristabilire la verità. Non si tratta di vendetta, ma di un appello alla giustizia cosmica che governa l'universo.

La metafora militare pervade tutto il salmo: Dio viene invocato come guerriero che "impugna scudo e corazza", "brandisce lancia e scure" contro gli oppressori. Questa immagine, lontana dalla sensibilità moderna, esprime tuttavia una verità profonda: l'esistenza di un ordine morale che non può essere impunemente violato.

Particolarmente significativo è il contrasto tra la malvagità gratuita dei nemici e l'innocenza del giusto che "ricambiava il bene con il male". Il salmista aveva mostrato compassione verso i suoi futuri persecutori, pregando per loro nelle loro malattie, digiunando e vestendo il sacco in segno di lutto. Questa sproporzione tra bene offerto e male ricevuto grida verso il cielo, invocando l'intervento divino.

Il salmo culmina nella promessa di lode e ringraziamento: "Ti loderò nella grande assemblea". La preghiera di supplica si trasforma già in anticipo in canto di vittoria, esprimendo una fede incrollabile nella giustizia di Dio. Questo movimento dal lamento alla lode caratterizza molti salmi e rivela la dinamica profonda della fede biblica: anche nell'oscurità più fitta, il credente mantiene viva la speranza nella liberazione divina.

Il Salmo narra il dramma dell'accanimento del male contro il bene, che culmina, ma non si esaurisce nel mistero della passione di Cristo e si perpetua nella sua Chiesa. Dramma che in chiave biblica ed evangelica si risolve sempre - attraverso un'esperienza storica di fede - in un inno di lode a Dio e alla sua giustizia che si innalza dalla grande assemblea dei redenti.

Per il lettore contemporaneo, questo salmo offre consolazione nelle situazioni di ingiustizia subita e calunnia immeritata, ricordando che esiste un tribunale superiore dove la verità emergerà pienamente.

- Rev. Dr. Luca Vona



Fermati 1 minuti. Li chiamò apostoli

Lettura

Lc 6,12-19

12 In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. 13 Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: 14 Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15 Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, 16 Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore. 17 Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18 che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. 19 Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti.

Commento

Gesù scelse come apostoli chi volle, ma non scelse arbitrariamente, né superficialmente. Scelse dopo aver a lungo pregato, tutta la notte. L'evangelista Luca presenta spesso Gesù in preghiera prima dei momenti importanti della sua vita. 

La Chiesa nasce dopo quella notte di preghiera di Gesù e mediante la nostra preghiera può crescere e prosperare. I Dodici ricevono una missione nella missione; non uno status di privilegiati, ma una speciale chiamata a servire con maggiore sollecitudine. Questo sarà il senso di un'altra chiamata da parte di Gesù, poco prima della sua passione: "Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti»" (Mc 10,42-43).

Gesù sceglie i suoi chiamandoli per nome. L'evangelista non aggiunge alcuna loro descrizione; ma il chiamare per nome è certamente testimonianza del fatto che egli si rivolse alla persona nelle sue qualità distintive, i suoi pregi e le sue debolezze, così come nelle differenze, spesso enormi, che incorrevano tra i chiamati. 

Diversi, ma tutti tenuti insieme, ad eccezione di Giuda "il traditore", dall'amore di Cristo. Il chiamare per nome, fin dalla Genesi - quando Dio invita Adamo a dare un nome a ogni creatura - indica l'autorità su di essi e un'intima relazione spirituale. Gesù li chiamò "apostoli", ovvero "inviati", perché erano destinati non a creare delle scuole rabbiniche o filosofiche ma a predicare il vangelo a tutte le nazioni. 

Dopo essere salito al monte per attirare a sé gli apostoli Gesù discende subito "in un luogo pianeggiante" (v. 17) e in questo abbassamento si fa loro maestro, non temendo di toccare e di farsi toccare dalle moltitudini bisognose di salvezza e di guarigione.

Eppure questo loro compito non inizierà prima di avere accompagnato Gesù nella sua missione terrena ed essere stati confermati dal Risorto. Allora diventeranno capaci di portare l'annuncio della grazia fino agli estremi confini della terra.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, tu ci chiami per nome per salvarci e farci annunciatori della salvezza. Concedici di ricercare sempre la volontà del Padre nella preghiera fervente e prolungata. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Poemen e la conoscenza della propria fragilità

La Chiesa copta fa oggi memoria di abba Poemen, monaco del deserto egiziano vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo. L'esatta ricostruzione della sua figura storica costituisce uno dei puzzle più intricati dell'agiografia moderna. Quel che è certo, tuttavia, è che Poemen fu ritenuto portatore di insegnamenti talmente importanti da attribuire a lui oltre un ottavo di tutto il corpo dei Detti dei padri del deserto. 
Secondo la letteratura apoftegmatica, egli nacque attorno al 350, visse nell'insediamento monastico di Scete dove si era recato assieme a sei fratelli, ed entrò in contatto con le più grandi figure spirituali di quel tempo. Di lui si ricordano parole assai significative sul tema del discernimento spirituale, che per Poemen nasce dalla conoscenza della propria e dell'altrui fragilità. Soltanto l'umiltà, quindi, il non giudicare, il non fare paragoni, possono condurre un uomo a conoscere ciò che è possibile conoscere di se stesso e del fratello che gli sta accanto. Da ciò scaturiscono quella condiscendenza e quella misericordia che sole pongono il credente in cammino sulle tracce del Dio rivelato da Gesù Cristo. Poemen è ricordato anche da diversi calendari bizantini e orientali, e il Baronio ne introdusse il nome nel Martirologio Romano del 1573.

Tracce di lettura

Il padre Poemen disse: «Il vigilare, lo stare attenti a se stessi, e il discernimento, queste tre virtù sono guide dell'anima».
Disse ancora: «Da qualsiasi pena tu sia colto, la vittoria è il tacere».
Disse abba Poemen: «Vi è un uomo che sembra tacere e il suo cuore giudica gli altri; costui parla sempre; e ve ne è un altro che parla da mane a sera e conserva il silenzio; non dice cioè niente che non sia di edificazione».
Un fratello chiese al padre Poemen: «Se vedo la caduta di un fratello, è bene nasconderla?». L'anziano gli rispose: «Nell'ora in cui copriremo la caduta del fratello, anche Dio coprirà la nostra; nell'ora in cui la sveleremo, anche Dio svelerà la nostra»
(Detti dei padri del deserto, Poemen 35, 37, 27 e 64)

- Dal Martirologio ecumenico della comunità monastica di Bose

Detti dei Padri del Deserto – San Poemen Abate – “Ipocrita è chi insegna al  suo prossimo una cosa a cui egli non è ancora arrivato” – Francesco, va',  ripara la mia casa
Poemen (ca 350-450)

lunedì 8 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Dio agisce nella storia

Lettura

Matteo 1,1-23

1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2 Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3 Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, 4 Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6 Iesse generò il re Davide.
Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, 7 Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, 8 Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9 Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10 Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11 Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.
12 Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, 13 Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, 14 Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15 Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16 Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.
17 La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici.
18 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19 Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 20 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 21 Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
23 Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio
che sarà chiamato Emmanuele,
che significa Dio con noi.

Commento

Il riferimento agli antenati di Gesù si trova sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Luca. Matteo, aprendo la sua narrazione proprio con la genealogia su Gesù dalla parte di Giuseppe, evidenzia una netta cesura nella storia dell'umanità, dall'èra del patto e della legge a quella della grazia.

Il nome "Gesù" deriva dall'ebraico e significa "il Signore salva", mentre i titoli di "Cristo" e "Figlio di Davide", sono attributi che indicano rispettivamente "colui che è stato unto", ovvero il Messia atteso, e la dignità regale di Gesù. Il richiamo ad Abramo fa riferimento al padre di Israele, e al patto che Dio stringe con lui, promettendogli una discendenza più ampia della sabbia del mare. In ciò è indicata la missione universale di Gesù.

Non solo questi versi di apertura del Vangelo di Matteo forniscono un'accurata "carta di identità" su Gesù e ci spiegano chi egli è. Troviamo in questa genealogia tre donne straniere, che si erano macchiate anche di peccati gravi secondo la legge di Israele. Tamar era una cananea che agì come prostituta per sedurre Giuda (Gn 38,13-30); Racab era una straniera e una prostituta (Gs 2,1); la moglie di Uria, Betsabea, commise adulterio con Davide, il quale ne fece uccidere il marito (2 Sam 11).

Questa genealogia mostra la grazia di Dio che passa di generazione in generazione, nonostante il peccato, fino al compimento della salvezza: "così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata." (Is 55,11). Matteo vede chiaramente un piano divino nella storia, anche nel numerare le generazioni prima e dopo Davide, prima e dopo l'esilio in babilonia, sebbene ne salti qualcuna. Saper leggere l'azione di Dio nella storia, anche nella nostra personale storia, è frutto della fede nella grazia del Signore, che non ci abbandona, ma si mostra misericordioso e non ci imputa le nostre infedeltà.

L'immagine umana della misericordia in questo racconto spetta a Giuseppe, che pensa di licenziare in segreto Maria. L'adulterio infatti era considerato tale anche se commesso durante il periodo di fidanzamento precedente al matrimonio e prevedeva la lapidazione (Dt 22,23-24). Forse Giuseppe sentiva che c'era davvero la mano di Dio nella gravidanza di quella donna, la cui pietà religiosa doveva conoscere bene. Sarà un angelo a dargli conferma in sogno che quanto è in lei è frutto dello Spirito Santo. 

Lo Spirito di Dio è insieme a Gesù il vero protagonista del Nuovo Testamento e viene nominato 92 volte, contro le 3 dell'Antico Testamento. Con l'avvento di Gesù abbiamo ricevuto non solo il nuovo Adamo, capace di ristabilire l'immagine divina nell'uomo, ma anche lo Spirito, che accompagna l'opera dei discepoli di Cristo, per l'avvento del suo regno. 

Gesù, erede legittimo di Davide secondo la discendenza di Giuseppe, viene generato dallo Spirito Santo. Tutta la nostra pietà religiosa deve tenere conto di questo: niente di per sé - preghiere, sacramenti, letture bibliche - è in grado di generare Cristo se non è alimentato dal fuoco dello Spirito, scaturito dalla fede. Solo lo Spirito può adempiere la promessa di un "Dio con noi" (v. 23)

Preghiera

Padre celeste, la cui grazia ha sovrabbondato nella nostra miseria, donaci di accogliere nella fede i prodigi del tuo amore e genera in noi il tuo Verbo eterno mediante lo Spirito Santo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Maria, terra del cielo

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la nascita di Maria, la madre del Signore.
Come era avvenuto per il Battista, la cui natività fu celebrata in occidente sin dalla fine del IV secolo, anche di Maria la chiesa antica volle ricordare in modo solenne la venuta al mondo. La data dell' 8 settembre è quella della dedicazione della basilica di Sant'Anna a Gerusalemme, sorta sul luogo in cui, secondo un'antica tradizione, avevano risieduto Gioacchino e Anna, genitori di Maria. La festa si estese nel V secolo a Costantinopoli, e fu introdotta in occidente da papa Sergio I, che era di origine siriaca, nel 701. La festa della Natività di Maria, molto amata dalle chiese ortodosse e orientali, ricorda la nascita di colei che sarà «terra del cielo», ovvero il grembo offerto dall'umanità perché si compia l'incarnazione del Verbo nella storia degli uomini, compimento dell'economia salvifica di Dio.

Tracce di lettura

Santa Maria,
Madre del Signore,
la tua fede ci guida.
Volgi lo sguardo
verso i tuoi figli,
Terra del cielo.
La strada è lunga e su di noi la notte scende:
intercedi presso il Cristo,
Terra del cielo.
(Canto bizantino-slavo alla Madre di Dio)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Guglielmo di Saint-Thierry. Volere ciò che Dio vuole, per essere simili a lui

L'8 settembre 1148 muore a Signy Guglielmo di Saint-Thierry, monaco cistercense.
Nato a Liegi attorno al 1070 da famiglia nobile, Guglielmo fu avviato allo studio delle lettere nel nord della Francia, dove apprese il tradizionale metodo esegetico della quaestio. Convintosi però che per trovare la parola di Dio contenuta nelle Scritture era necessario liberarsi dagli approcci eruditi e intellettualistici prevalenti nelle scuole, nel 1113 Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise a Reims. Egli comprese che Dio, mediante lo Spirito, è presente nell'intimo dell'uomo, e dunque precede le dotte ricerche degli uomini; iniziò così un cammino monastico che lo porterà, grazie anche al rigore del metodo acquisito nelle accademie, ad essere uno dei maggiori spirituali e forse il più grande cantore dell'amore di Dio di tutto il medioevo. Attorno al 1120 fu eletto abate del monastero benedettino di Saint-Thierry, ma egli non nascondeva la sua ammirazione per lo stile di vita dei cistercensi, anche grazie a Bernardo di Clairvaux, che aveva incontrato qualche tempo prima e al quale era legato da un profondo rapporto di amicizia e di reciproca collaborazione. Dissuaso dallo stesso Bernardo dall'abbandonare Saint-Thierry per passare ai cistercensi, egli lavorò allora per riformare la vita del proprio monastero. Ma, nel 1135, ruppe gli indugi e divenne semplice monaco cistercense a Signy, dove poté dedicarsi maggiormente alla stesura delle sue opere teologiche e spirituali, che avrebbero conosciuto un'ampia diffusione.
Seppur molto debole, come ultimo atto d'amore verso l'amico di Clairvaux, Guglielmo volle porre mano alla stesura della Vita di Bernardo; ma non riuscì a terminarla per il sopraggiungere della morte, avvenuta l'8 settembre del 1148.

Tracce di lettura

Quando pensiamo alle cose di Dio o che conducono a lui e la volontà progredisce fino a diventare amore, subito, nella via dell'amore, lo Spirito santo, che è spirito di vita, vi si infonde e vivifica tutto, venendo in aiuto alla debolezza di colui che pensa, sia nella preghiera, sia nella meditazione, sia nello studio. Allora la memoria diventa sapienza, e l'intelligenza di chi pensa diventa contemplazione dell'amante.
Se ciò che l'animo vuole totalmente è Dio, esso deve esaminare in che misura e in che modo lo vuole; e questo non soltanto secondo il giudizio della ragione, ma anche secondo l'affetto della mente, in modo che la volontà più che volontà sia amore, dilezione, carità, unità di spirito. È così infatti che Dio va amato, poiché l'amore è una grande volontà tesa verso Dio; la dilezione è l'adesione e l'unione; la carità è la fruizione.
Quanto poi all'unità dello spirito con Dio, per l'uomo che ha levato in alto il proprio cuore è la perfezione della volontà di chi avanza verso Dio.
Volere ciò che Dio vuole: questo è ormai essere simili a Dio; non poter volere se non ciò che Dio vuole: questo è ormai essere ciò che Dio è. Per cui si dice bene che solo allora lo vedremo così com'è, quando cioè saremo simili a lui, quando saremo ciò che egli è.
(Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d'oro 249, 256, 258)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

sabato 6 settembre 2025

Il Signore tocca con mano la nostra infermità

COMMENTO AL VANGELO DELLA TREDICESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che sei più pronto ad ascoltare di quanto siamo noi a pregare, e che desideri donarci di più di quel che desideriamo o meritiamo; effondi su di noi l'abbondanza della tua misericordia; perdona ciò che turba la nostra coscienza e donaci quelle buone cose che non meritiamo di chiederti. Per i meriti e la mediazione di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore. Amen.

Letture

2 Cor 3,4-9; Mc 7,31-37

Commento

Solo Marco, l'evangelista che si rivolge principalmente ai non ebrei, riferisce questo miracolo di guarigione compiuto da Gesù tra i pagani. L'episodio diviene, dunque, simbolo della loro conversione al Vangelo. Il modo in cui Gesù compie questa guarigione è piuttosto inusuale, perché mentre di solito è sufficiente la sua parola, solo in questo caso e in quello del cieco nato (Gv 9,6) egli mette in pratica una serie di azioni, toccando con la sua saliva il malato. 

Il sordomuto è impossibilitato ad ascoltare la parola salvifica di Cristo; il cieco nato è incapace di contemplare il volto della Verità incarnata. In entrambi i casi è Gesù che viene incontro a chi abbisogna della sua grazia; se la donna affetta da emorragia si fece strada tra la folla prendendo essa stessa l'iniziativa per toccare un lembo del mantello di Gesù, nella convinzione di poter essere guarita, qui è Gesù stesso a toccare il sordomuto, dopo averlo tratto in disparte dalla folla. 

Il Signore sa di cosa abbiamo bisogno, ci conduce in un luogo tranquillo, non disdegna di toccare con mano la nostra infermità e intercede per noi presso il Padre: "guardando quindi verso il cielo emise un sospiro" (Mc 7,34). Il suo sospiro sembra anticipare la fatica sotto il peso della croce, carico di quel peccato che ha reso l'umanità soggetta alla malattia e al dolore; il suo Effatà, "apriti!" richiama l'imperativo con cui egli risuscita l'amico Lazzaro, agendo con l'autorità propria del Figlio di Dio. Nella sua passione Gesù renderà l'ultimo suo sospiro al Padre e sarà il Padre stesso ad aprire il suo sepolcro con la resurrezione. 

Ma il Padre non tiene lo Spirito per sé. Lo dona ai suoi discepoli per annunciare il vangelo. Il sordomuto apre gli orecchi alla voce del Verbo e la sua lingua si scioglie nella lode. Così anche le folle, sebbene ammonite da Gesù a non dire nulla di quanto accaduto, suscitano discepoli, che riconoscono la missione salvifica di Gesù. 

Giustamente Paolo afferma nella sua seconda lettera ai Corinzi: "Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2 Cor 3,5-6). Quello Spirito che dà la vita, apre le nostre orecchie all'ascolto della Parola di Dio e scioglie le nostre lingue a proclamare quanto rivelato dall'angelo ai pastori: «vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10).

- Rev. Dr. Luca Vona

Pitri Paksha: il periodo sacro degli antenati nella tradizione induista

Introduzione

Pitri Paksha rappresenta uno dei periodi più significativi e spiritualmente intensi del calendario induista, dedicato interamente alla venerazione e al ricordo degli antenati defunti. Questo ciclo di quindici giorni, che cade durante la quindicina scura (krishna paksha) del mese di bhadrapada o ashwin (tra settembre e ottobre), costituisce un momento di profonda riflessione sulla continuità della vita, sui legami familiari che trascendono la morte e sull'importanza del ricordo nella cultura indiana.

Il termine stesso Pitri Paksha deriva dal sanscrito, dove pitri significa antenati o padri e paksha indica una quindicina lunare. Durante questo periodo, si crede che le anime degli antenati visitino la Terra per ricevere le offerte e le preghiere dei loro discendenti viventi, creando un ponte temporaneo ma significativo tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Le radici storiche e scritturali

Le origini di Pitri Paksha affondano nelle più antiche tradizioni vediche, trovando menzione nei testi sacri come i Purana, il Mahabharata e i Grihya Sutra. Secondo la mitologia induista, questa pratica fu istituita da Karna, l'eroe del Mahabharata, che dopo la sua morte scoprì di non aver mai onorato i suoi antenati durante la vita terrena. Gli fu concesso di tornare sulla Terra per quindici giorni per compiere questi rituali, stabilendo così il precedente per le generazioni future.

I testi antichi descrivono dettagliatamente l'importanza di questi rituali non solo per il benessere spirituale degli antenati nell'aldilà, ma anche per la prosperità e l'armonia delle famiglie viventi. La tradizione sostiene che gli antenati non onorati possano causare difficoltà e ostacoli nella vita dei discendenti, mentre quelli adeguatamente venerati conferiscono benedizioni e protezione.

I rituali e le cerimonie

Il cuore di Pitri Paksha risiede nei rituali chiamati shraddha o pinda daan, cerimonie elaborate che coinvolgono offerte di cibo, acqua e preghiere. I rituali più importanti includono la preparazione di pinda, piccole sfere di riso e farina mista ad acqua e semi di sesamo, che rappresentano simbolicamente il corpo dell'antenato defunto.

Le cerimonie tradizionali richiedono la presenza di un brahmano che funga da intermediario spirituale, ricevendo le offerte a nome degli antenati. Tuttavia, nelle pratiche moderne, molte famiglie conducono versioni semplificate di questi rituali nelle proprie case, mantenendo comunque l'essenza spirituale della tradizione.

Durante questi giorni, le famiglie preparano anche kheer (budino di riso dolce), puri (pane fritto) e altri piatti tradizionali che vengono offerti agli antenati prima di essere consumati dalla famiglia. L'acqua viene offerta insieme al til (semi di sesamo) e ai fiori, mentre si recitano mantra specifici e si pronunciano i nomi degli antenati defunti.

Il significato spirituale e filosofico

Pitri Paksha rappresenta molto più di una semplice commemorazione dei morti; incarna una filosofia profonda sulla continuità dell'esistenza e sull'interconnessione tra le generazioni. Secondo la filosofia induista, l'anima attraversa diversi piani di esistenza dopo la morte, e i rituali di Pitri Paksha aiutano le anime degli antenati nel loro viaggio spirituale verso la liberazione finale (moksha).

Questo periodo insegna anche l'importanza della gratitudine verso coloro che ci hanno preceduto, riconoscendo che la nostra esistenza attuale è il risultato dei sacrifici e degli sforzi delle generazioni passate. È un momento per riflettere sui valori tramandati, sulle tradizioni ereditate e sul debito spirituale che abbiamo verso i nostri antenati.

La pratica enfatizza inoltre il concetto di pitri rina, il debito verso gli antenati, che secondo la tradizione induista è uno dei tre debiti fondamentali che ogni individuo deve saldare durante la propria vita, insieme al debito verso gli dei (deva rina) e verso i saggi (rishi rina).

Le pratiche regionali e le variazioni

Mentre i principi fondamentali di Pitri Paksha rimangono coerenti in tutta l'India, esistono significative variazioni regionali nelle modalità di osservanza. Nel Bengala, per esempio, il periodo è noto come Pitri Paksha o Mahalaya, e inizia con la recitazione del Chandipath, un testo sacro dedicato alla dea Durga.

In alcune regioni del sud dell'India, le famiglie si recano in pellegrinaggio a luoghi sacri come Gaya nel Bihar o Rameshwaram nel Tamil Nadu, ritenuti particolarmente efficaci per i rituali ancestrali. In Gujarat e Maharashtra, molte famiglie osservano digiuni parziali e si astengono dal consumare certi alimenti durante questi giorni.

Le comunità moderne hanno anche adattato alcune pratiche, con alcune famiglie che organizzano riunioni familiari per condividere storie e ricordi degli antenati, combinando la tradizione spirituale con il rafforzamento dei legami familiari contemporanei.

L'impatto nella società contemporanea

Nell'India moderna, Pitri Paksha continua a svolgere un ruolo importante nella vita di milioni di persone, anche se la sua osservanza ha subito alcune trasformazioni. Nelle aree urbane, molte famiglie hanno semplificato i rituali per adattarli agli stili di vita contemporanei, mantenendo però l'essenza spirituale della tradizione.

La globalizzazione e la diaspora indiana hanno portato queste pratiche in tutto il mondo, dove le comunità indiane all'estero continuano a osservare Pitri Paksha, spesso adattando i rituali alle circostanze locali. Questo ha contribuito a preservare e diffondere la tradizione, dimostrando la sua rilevanza duratura.

Inoltre, Pitri Paksha ha assunto nuovi significati nel contesto contemporaneo, servendo come momento di riflessione sulla storia familiare, sulla genealogia e sull'importanza di mantenere vive le tradizioni culturali in un mondo in rapida trasformazione.

Riflessioni filosofiche e significato universale

Pitri Paksha trascende i confini specifici della religione induista per toccare temi universali dell'esperienza umana: il ricordo, la gratitudine, la continuità generazionale e la ricerca di significato di fronte alla mortalità. In un'epoca caratterizzata da rapidi cambiamenti sociali e dalla perdita di molte tradizioni, questo periodo offre un'opportunità preziosa per riconnettersi con le proprie radici e riflettere sui valori fondamentali.

La tradizione insegna che onorare gli antenati non significa semplicemente guardare al passato, ma utilizzare la saggezza e l'esperienza delle generazioni precedenti come guida per il presente e il futuro. È un richiamo alla responsabilità intergenerazionale e all'importanza di costruire ponti tra il passato, il presente e il futuro.

Conclusione

Pitri Paksha rimane una delle tradizioni più significative e durature della cultura induista, offrendo un modello unico di come una società possa mantenere vivo il legame con le proprie radici ancestrali. Questo periodo sacro non solo onora la memoria dei defunti, ma rafforza anche i legami familiari, promuove la riflessione spirituale e perpetua valori culturali fondamentali.

In un mondo sempre più globalizzato e secolarizzato, Pitri Paksha offre lezioni preziose sull'importanza della memoria, della gratitudine e della continuità culturale. La sua capacità di adattarsi ai tempi moderni mantenendo intatta la sua essenza spirituale dimostra la vitalità e la rilevanza duratura di questa antica tradizione.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 5 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Un abito completamente nuovo

Lettura

Luca 5,33-39

33 Allora gli dissero: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». 34 Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro? 35 Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno». 36 Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. 37 E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. 38 Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. 39 Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!».

Commento

La legge ebraica prevedeva il digiuno solo una volta l'anno per la celebrazione dello Yom Kippur, ovvero il Giorno dell'espiazione. Tutti gli altri digiuni erano iniziative volontarie e diventavano spesso, al tempo di Gesù, un'occasione per ostentare la propria religiosità. L'unico digiuno del Signore menzionato nei Vangeli è quello compiuto nel suo ritiro di quaranta giorni nel deserto, prima di dare avvio al suo ministero. Tale digiuno è compiuto in forma privata, lontano dagli occhi del mondo, come d'altra parte egli inviterà a fare durante la sua predicazione (Mt 6,16-18).

Il richiamo dell'immagine delle nozze rimanda al nuovo rapporto sponsale di Dio con il suo popolo, nella persona e nella missione di Gesù. Non comprendendo la portata dell'evento nella storia di Israele e dell'umanità tutta, questi discepoli di Giovanni e il gruppo di farisei non riescono ad apprezzare, possiamo dire a "gustare", il vino nuovo del vangelo.

L'insegnamento di Gesù non è un "rattoppo" del giudaismo, né il vangelo può essere semplicemente un adattamento alla Legge mosaica. Vi è in esso un fermento tale da far scoppiare gli otri dell'antica religiosità ebraica; la stoffa pregiata e di nuova tessitura rappresentata dal Figlio di Dio può solo lacerare la stoffa vecchia se cucita a forza su di essa.

Gesù stesso verrà "lacerato", "strappato" ai suoi discepoli, dai dottori della vecchia legge: questo il senso della parola greca apairomai, che preannuncia la fine violenta del Messia.
Anche i cristiani rischiano di accontentarsi del vino vecchio, ignorando la novità che il vangelo porta sempre con sé nella vita personale, nelle comunità, nell'"oggi". 

Nessun vero credente cercherà di essere la copia - brutta o bella che sia - di un credente del passato, per quanto la memoria dei testimoni della fede possa essere un utile stimolo alla crescita spirituale. Il Signore vuole che la sua parola fermenti in noi producendo un vino unico e vuole intessere con le nostre vite un abito completamente nuovo.

Preghiera

Tu ci hai intessuti nel seno materno Signore; la tua grazia porti in noi a compimento ciò che hai stabilito per i nostri giorni quando ancora non ne esisteva uno. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Sorella Maria, fondatrice dell'Eremo di Campello

Il 5 settembre 1961 passa da questo mondo al Padre, all'età di 86 anni sorella Maria, fondatrice della comunità dell'Eremo di Campello. Nata nel 1875 a Torino, Valeria Paola Pignetti fu una donna di salute malferma, dotata di grande forza interiore e di dolcezza; fin da giovane mostrò una propensione alla solitudine contemplativa e all'apertura verso gli altri.
Entrata nel 1901 nell'istituto delle Francescane Missionarie di Maria, per diciotto anni accolse con obbedienza i servizi sempre più impegnativi che le venivano affidati. Terminata la prima guerra mondiale durante la quale aveva assistito i feriti, lasciò con il permesso dei superiori l'istituto, in cerca di «un più largo respiro».
Dopo tre anni, essa diede vita nei pressi di Campello sul Clitumno in Umbria, a una delle esperienze più limpide di vita evangelica del xx secolo, dapprima nel Rifugio San Francesco, e dal 1926 nell'Eremo francescano, sopra le fonti del Clitumno. Restaurato questo antico eremo, sorella Maria vi visse fino alla morte, assieme ad alcune compagne, con un programma fatto soltanto di preghiera, lavoro e accoglienza degli ospiti, in una tensione via via crescente alla comunione con ogni creatura.
Sorella Maria ebbe rapporti epistolari con Gandhi, Albert Schweitzer, Friedrich Heiler, Primo Mazzolari, Evelyn Underhill, Giovanni Vannucci e molti altri. A motivo della sua amicizia con Ernesto Buonaiuti, e poiché presto erano entrate a far parte della sua comunità alcune sorelle non appartenenti alla chiesa cattolica, essa fu a lungo osteggiata dall'autorità ecclesiastica, e dovette rinunciare per quasi trent'anni alla celebrazione della messa nell'Eremo di Campello.
Quando si profilò la fine dell'interdetto, Maria, secondo le sue stesse parole, era ormai oltre, prossima a quella comunione cosmica cui aveva a lungo anelato, e che poté raggiungere nel 1961, al termine di una vita di grandi sofferenze, ma all'insegna di una grande pace interiore.

Tracce di lettura

Cara Amata, occorre che io ti spieghi per quanto posso la mia attitudine verso i fratelli; affinché io ti sia chiara, in questo, come voglio essere chiara in tutto. Ogni credenza o professione religiosa d'ogni fratello m'ispira rispetto e interessamento, non in se stessa, ma perché è del fratello, ed è come una risultante del suo temperamento, delle sue esperienze, del suo ambiente, del suo tempo.
Del tenermi lontana o vicina ai fratelli di diversa credenza, non mi sono mai preoccupata. A me preoccupa solo il debito di amore che ho verso ogni fratello.
(Sorella Maria, Lettere a Amy Turton)

Per me la chiesa è la società dei credenti. Ogni credente sincero fa parte dell'anima della chiesa; è il concerto cattolico per eccellenza. Dunque non solo con un fratello cristiano, ma con un fratello israelita o pagano, io mi sento in comunione spirituale, se egli crede e spera e ama. Con quelli poi tra i fratelli che cercano Cristo con sincerità e desiderio, io sento che «siamo un solo pane in Lui» e credo che tanto più siamo cristiani, quanto più siamo uniti; anzi è una condizione indispensabile. Ne vengono di conseguenza il rispetto scambievole, il «prevenirci con l'onore» e tutte le altre cose.
(Sorella Maria, Lettere)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Sorella Maria di Campello

Il Buddha che sei sempre stato: la rivoluzione spirituale di Hui-neng

Introduzione: la figura rivoluzionaria del sesto patriarca

Il pensiero di Hui-neng (慧能, 638-713), il venerato Sesto Patriarca del Buddhismo Chan cinese, rappresenta una delle figure più rivoluzionarie nella storia del pensiero buddhista. La sua vita, quella di un taglialegna analfabeta proveniente dal sud della Cina che superò monaci colti per diventare successore del Quinto Patriarca Hongren, incarna perfettamente il paradosso centrale dei suoi insegnamenti.

La sua eredità è immortalata nel Sutra della Piattaforma del Sesto Patriarca (六祖壇經, Liuzu Tanjing), l'unico testo attribuito a un maestro cinese a essere classificato come "sutra" nel canone buddhista, sebbene la sua autenticità testuale sia talvolta discussa dagli studiosi, che suggeriscono una composizione da parte di discepoli posteriori per legittimare la Scuola del Sud. Il pensiero di Hui-neng ha rivoluzionato il Buddhismo Chan introducendo concetti che sfidavano le pratiche tradizionali, plasmando le tradizioni Zen giapponesi e le correnti spirituali di tutta l'Asia orientale.

La natura di buddha come patrimonio universale e l'illuminazione immediata

Il principio fondamentale degli insegnamenti di Hui-neng è la profonda convinzione che la saggezza dell'illuminazione sia intrinseca a ogni essere senziente. Questa concezione, radicata nella dottrina della Buddha-natura (Buddhata o buddha-dhātu), afferma che non esiste alcuna distinzione ontologica tra una persona illuminata e una non illuminata. L'illuminazione, secondo Hui-neng, non è qualcosa da acquisire ma da riconoscere, un "ritorno" alla propria natura originaria. Egli proclamava che "le persone più umili possono possedere la saggezza più alta, mentre quelle di alto rango possono esserne prive", democratizzando così il percorso spirituale e rendendolo accessibile indipendentemente dall'istruzione, dallo status sociale o dall'appartenenza monastica.

Il confronto con la scuola settentrionale: gradualismo versus illuminazione immediata

Questa prospettiva si contrapponeva drasticamente all'approccio gradualista della Scuola Settentrionale di Shenxiu. Mentre Shenxiu proponeva una pratica continua di "pulizia" della mente, come uno specchio da spolverare, Hui-neng rispondeva con la sua celebre poesia:

  • Versi di Shenxiu: "Il vero albero della Bodhi è il corpo, la mente è il suo specchio lucente. Lascialo sempre perfettamente chiaro, che non vi sia un solo granello di polvere".
  • Risposta di Hui-neng: "Non vi fu mai l'albero della Bodhi, e neppure il suo specchio lucente. Tutto è fin dall'inizio immacolato, dove cadrà la polvere?".

Questa risposta evidenzia la sua dottrina dell'illuminazione immediata (dunwu), che non richiede una purificazione graduale, ma può avvenire in qualsiasi momento e luogo.

La visione non-dualistica e il ruolo della mente

La rivoluzione filosofica di Hui-neng risiede nella sua comprensione radicalmente non-dualistica della realtà. Per lui, tutte le distinzioni che normalmente facciamo - bene e male, purezza e impurità, illuminazione e ignoranza - sono costruzioni mentali che non riflettono la vera natura delle cose. Questa prospettiva sfida alla radice il modo comune di pensare, che opera sempre attraverso opposizioni e categorie separate.

Il punto cruciale è che perfino l'idea spirituale di "purificare" la mente crea una falsa dualità: presuppone l'esistenza di qualcuno che pulisce (il praticante) e qualcosa che deve essere pulito (la mente impura). Ma se la natura di Buddha è già presente e perfetta, cosa c'è da purificare? Hui-neng demolisce questa logica mostrando che meditazione e saggezza non sono due cose diverse - una che conduce all'altra - ma due aspetti della stessa realtà: "la meditazione è il corpo della saggezza, e la saggezza è la funzione della meditazione... Sono una cosa sola, non due".

L'episodio della bandiera e del vento rappresenta un insegnamento magistrale sulla natura della percezione. Due monaci stavano discutendo se fosse la bandiera o il vento a muoversi, quando Hui-neng intervenne: "Non è il vento a muoversi, non è la bandiera a muoversi; è la vostra mente che si muove". Questa affermazione non nega la realtà fisica del movimento, ma rivela che ciò che sperimentiamo come "realtà" è sempre mediato dalla nostra mente. La distinzione tra soggetto percepente e oggetto percepito è essa stessa una costruzione mentale.

Quando Hui-neng afferma che "tutte le cose o fenomeni sono produzione della nostra stessa mente", non sta proponendo un idealismo filosofico che nega l'esistenza del mondo esterno. Piuttosto, sta indicando che il modo in cui categorizziamo, interpretiamo e reagiamo all'esperienza è ciò che crea il nostro mondo vissuto. La mente non è un contenitore passivo che riceve impressioni dall'esterno, ma la facoltà attiva che determina la qualità e il significato della nostra esperienza. Riconoscere questo significa rendersi conto che la sofferenza e la liberazione non dipendono dalle circostanze esterne, ma dal modo in cui la mente si relaziona ad esse.

La Maha Prajna Paramita e la vacuità

Il termine sanscrito "Maha Prajna Paramita" rappresenta uno dei concetti centrali del Buddhismo Mahāyāna, che Hui-neng reinterpreta attraverso la sua lente non-dualistica. Per comprendere la sua rivoluzione concettuale, è necessario analizzare ciascun elemento:

  • Maha (grande) non indica una vastità quantitativa, ma la capacità illimitata della mente di abbracciare tutti i fenomeni senza esserne condizionata. La mente è "grande come lo spazio cosmico: infinita, priva di caratteristiche fisse, senza forma, dimensione o colore determinati".
  • Prajna (saggezza) non è conoscenza intellettuale o erudizione libresca, ma la capacità di vedere direttamente la vera natura delle cose, oltre le apparenze e le costruzioni concettuali. È quella saggezza intuitiva che riconosce immediatamente l'illusorietà delle distinzioni che normalmente facciamo. Per Hui-neng, prajna è la facoltà innata di ogni essere senziente - la stessa natura di Buddha che permette di "vedere" senza essere condizionati da ciò che si vede.

    Paramita (perfezione o "andare oltre") indica il superamento completo delle limitazioni ordinarie. Non si tratta di perfezionare qualità che già possediamo, ma di trascendere la stessa idea di qualcosa da perfezionare. È il "paradosso della perfezione": raggiungere lo stato in cui non c'è più nessuno che raggiunge e nulla da raggiungere.

Il concetto di vuoto (śūnyatā) riceve forse la reinterpretazione più sottile. Hui-neng parla di "vuoto della non-vacuità", un'espressione apparentemente paradossale che indica uno stato privo di essenza fissa ma ricco di infinite potenzialità. Il vuoto non è assenza o negazione, ma la condizione che rende possibile ogni manifestazione. Hui-neng ammoniva energicamente contro l'interpretazione nichilista del vuoto come uno stato indifferente, stagnante o di mera negazione.

La vacuità nel Buddhismo Mahāyāna, come intesa da Hui-neng, rivela che tutti i fenomeni sono privi di una natura intrinseca e indipendente. Questo principio, noto come codipendenza originaria o coproduzione condizionata (pratityasamutpada), significa che tutto esiste solo in relazione ad altro, senza un'essenza separata e autonoma. Pertanto, tutte le cose sono "vuote" di esistenza indipendente.

Ma questa "vacuità" è paradossalmente pienezza di inter-essere: essere "vuoto" di un sé separato significa essere "pieno di ogni cosa". Come una goccia d'acqua nell'oceano, che perde la sua identità separata ma guadagna la vastità dell'intero oceano, così la realizzazione della vacuità non impoverisce ma arricchisce infinitamente l'esperienza. È la scoperta che la nostra vera natura non è l'ego limitato, ma la stessa consapevolezza aperta che pervade tutto l'universo.

La libertà dal pensiero e la vera meditazione

Hui-neng ridefinisce radicalmente la pratica meditativa tradizionale. Per lui:

  • "Sedere" (zuò) significa ottenere libertà assoluta e rimanere mentalmente imperturbabili in tutte le circostanze esterne.
  • "Meditare" (chán) significa realizzare interiormente l'imperturbabilità dell'essenza della mente.

Questa comprensione trascende la mera meditazione formale seduta, enfatizzando uno stato di presenza consapevole continua. La vera pratica è "meditazione nell'azione", mantenendo la consapevolezza in ogni attività quotidiana. L'illuminazione si manifesta nel tagliare legna, pestare riso, o in qualunque attività ordinaria, come la sua stessa vita testimonia.

Il concetto di libertà dal pensiero (wúniàn)

Il contributo forse più sottile di Hui-neng è il concetto di libertà dal pensiero (wúniàn). Egli chiarisce che non si tratta di sopprimere tutti i pensieri, il che sarebbe una forma di schiavitù. La vera libertà dal pensiero significa "vedere e conoscere tutti i fenomeni con una mente libera da attaccamento". Una mente così liberata pervade ovunque senza limitazioni, non si attacca a nulla e rimane pura in ogni circostanza, "come lo spazio", capace di contenere tutto senza identificarsi con nulla.

Illuminazione e impegno nel mondo

Contrariamente a interpretazioni che vedono l'illuminazione come fuga dal mondo, Hui-neng insegna che "vedere la propria natura è diventare un Buddha; ma un Buddha non cerca di sfuggire al mondo—agisce per il bene di tutti gli esseri". Il non-attaccamento non porta all'apatia, ma a un impegno compassionevole più autentico e libero da egoismi. L'illuminazione non è un ritiro dalla realtà, ma una partecipazione più genuina alla vita.

L'insegnamento culminante afferma che "conoscere Buddha non significa altro che conoscere gli esseri senzienti", poiché questi ignorano di essere Buddha in potenza. All'interno della nostra mente c'è un Buddha, e questo Buddha interiore è il vero Buddha. Questo principio stabilisce una responsabilità universale: riconoscere la natura di Buddha in se stessi significa simultaneamente riconoscerla in tutti gli esseri e agire per il loro risveglio.

Eredità e impatto storico

Il pensiero di Hui-neng ha operato una vera e propria rivoluzione nel Buddhismo Chan. La sua "vittoria poetico-filosofica" su Shenxiu consolidò la Scuola del Sud (illuminazione immediata) come ortodossa, marginalizzando l'approccio gradualista. Tuttavia, la fama e la legittimazione del suo lignaggio sono state in gran parte opera di Shénhuì (神會, 668-760), un suo discepolo, che promosse vigorosamente la superiorità della scuola meridionale dell'illuminazione repentina sulla scuola settentrionale "gradualista" di Shenxiu.

Gli insegnamenti di Hui-neng hanno influenzato tutte le scuole Zen successive, inclusi il Rinzai e il Sōtō in Giappone, sottolineando l'importanza dei koan e della trasmissione "da mente a mente". La sua enfasi sull'illuminazione accessibile a tutti ha reso il Buddhismo più inclusivo, ponendo le basi per la sua diffusione popolare e democratica.

Convergenze con la mistica cristiana

Gli insegnamenti di Hui-neng presentano convergenze straordinarie con la tradizione mistica cristiana, rivelando archetipi universali dell'esperienza spirituale che trascendono i confini culturali e dottrinali. Queste similitudini non sono mere coincidenze, ma testimoniano percorsi comuni verso la realizzazione della dimensione più profonda dell'essere umano.

La presenza divina interiore rappresenta forse la convergenza più sorprendente. Quando Hui-neng proclama che "all'interno della nostra mente c'è un Buddha, e questo Buddha interiore è il vero Buddha", echeggia direttamente l'insegnamento di Meister Eckhart: "Dio è più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso". Entrambi i maestri indicano che ciò che cerchiamo è già presente nel cuore dell'essere umano. Sant'Agostino nelle Confessioni arriva alla stessa intuizione: "Tu eri dentro di me, più intimo del mio intimo", mentre Giovanni della Croce parla del "centro dell'anima" dove Dio dimora stabilmente.

Il distacco dalle identificazioni mentali trova paralleli profondi tra il concetto di "libertà dal pensiero" (wúniàn) di Hui-neng e il "distacco" (gelassenheit) della mistica renana. Eckhart insegna il "lasciare essere" che permette alla realtà divina di manifestarsi spontaneamente, proprio come Hui-neng descrive una mente che "non si attacca a nulla e rimane pura in ogni circostanza". La "notte oscura dell'anima" di San Giovanni della Croce descrive un processo di purificazione attraverso il distacco da ogni sostegno mentale ed emotivo, conducendo a uno stato di "nudità spirituale" che risuona con il "vuoto della non-vacuità" di Hui-neng.

L'illuminazione istantanea trova eco nella tradizione delle conversioni fulminee cristiane. L'esperienza di Paolo sulla via di Damasco, la "fiamma viva d'amore" che può accendersi improvvisamente nell'anima secondo San Giovanni della Croce, o i momenti di "unione mistica" descritti da Santa Teresa d'Avila richiamano l'illuminazione immediata (dunwu) insegnata da Hui-neng. Entrambe le tradizioni riconoscono che la grazia o la realizzazione possono manifestarsi istantaneamente, al di là di ogni preparazione graduale.

La povertà spirituale rappresenta un'altra convergenza notevole. La "povertà di spirito" delle beatitudini evangeliche e la "povertà spirituale" di Eckhart - che afferma "Beato l'uomo che non possiede nulla, non sa nulla, non vuole nulla" - risuonano profondamente con l'insegnamento di Hui-neng secondo cui la vera ricchezza spirituale emerge dal riconoscere di non aver mai avuto bisogno di acquisire nulla.

Le differenze ontologiche fondamentali tuttavia rimangono decisive. Mentre il cristianesimo mantiene la distinzione tra Creatore e creato - anche nell'unione mistica più profonda l'anima conserva la sua identità creaturale - Hui-neng dissolve completamente ogni dualità ontologica. Per lui non esiste distinzione reale tra Buddha e essere senziente, mentre per i mistici cristiani permane sempre il rapporto Io-Tu con il divino. Inoltre, dove il cristianesimo vede l'unione con Dio come grazia divina che trascende le capacità umane, Hui-neng insegna che la natura di Buddha è l'essenza stessa dell'essere umano.

Il paradosso dell'azione nel mondo trova espressioni diverse ma parallele. Come Hui-neng insegna che "un Buddha non cerca di sfuggire al mondo ma agisce per il bene di tutti gli esseri", così la mistica cristiana parla di "contemplazione nell'azione". Santa Teresa d'Avila descrive le anime più elevate come quelle che uniscono perfettamente contemplazione e servizio, mentre Eckhart insegna che "se un uomo fosse in estasi come San Paolo e sapesse di un malato che ha bisogno di una minestra, farebbe meglio a uscire dall'estasi e servire il malato per amore".

Queste convergenze suggeriscono che, al di là delle differenze dottrinali, esiste un territorio comune dell'esperienza spirituale dove le distinzioni confessionali si assottigliano, rivelando l'universalità della ricerca umana verso la propria natura più profonda e autentica.

La rilevanza contemporanea e l'invito finale

La rilevanza del messaggio di Hui-neng rimane profonda nell'era contemporanea: la sua chiamata a "vedere la propria mente" offre un percorso di liberazione senza bisogno di dogmi o pratiche complicate in un mondo di distrazioni. La sua enfasi sulla non-dualità ricorda che la pace non si trova fuggendo dal mondo, ma abbracciandolo con una mente libera da attaccamenti. La sua domanda finale risuona ancora oggi come un potente richiamo alla libertà interiore: "Quando non ci sono pensieri di bene o male, in questo stesso istante, qual è il tuo volto originale?".

Sintesi conclusiva

In sintesi, l'insegnamento di Hui-neng rappresenta una sintesi unica di rivoluzione spirituale e saggezza pratica. La sua eredità non risiede solo nell'aver democratizzato l'accesso all'illuminazione, ma nell'aver mostrato che la realizzazione spirituale più profonda è compatibile con la vita ordinaria più semplice. La chiave dei suoi insegnamenti è la comprensione che l'illuminazione non è qualcosa da raggiungere, ma qualcosa da riconoscere; non uno stato da acquisire attraverso pratiche complesse, ma la propria natura autentica da realizzare nella semplicità del momento presente. Come egli stesso affermava, "La natura buddhica non dipende da parole o lettere. I sutra sono solo mappe, non la destinazione". L'invito di Hui-neng è a riconoscere, qui e ora, il Buddha che siamo sempre stati.

Bibliografia

Fonti primarie e traduzioni

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  • Cleary, T. (trad.), The Sutra of Hui-neng, Grand Master of Zen, Shambhala Publications, Boston 1998

Studi specialistici su Hui-neng e il Chan/Zen

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  • McRae, J.R., Seeing through Zen: Encounter, Transformation, and Genealogy in Chinese Chan Buddhism, University of California Press, Berkeley 2003
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  • Sharf, R.H., Coming to Terms with Chinese Buddhism: A Reading of the Treasure Store Treatise, University of Hawaii Press, Honolulu 2002

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  • Suzuki, D.T., Saggi sul Buddhismo Zen, 3 voll., Mediterranee, Roma 1975-1986
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  • Zürcher, E., The Buddhist Conquest of China, Brill, Leiden 1972

La mummia di Hui-neng

giovedì 4 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Prendi il largo

Lettura

Luca 5,1-11

1 Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret 2 e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3 Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca. 4 Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». 5 Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6 E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. 7 Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. 8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». 9 Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; 10 così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini». 11 Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Commento

La scena si svolge in un importante luogo di commercio e approvvigionamento idrico della Galilea, presso il lago di Genèsaret, oltre duecento metri sotto il livello del mare, lago detto anche mare di Galilea; sulle sue sponde sorgeva la città di Cafarnao, dove Gesù aveva compiuto molti miracoli, come attesta l'episodio dell'insegnamento nella sinagoga di Nazaret («Quanto abbiamo udito che hai compiuto a Cafàrnao fallo anche qui, nella tua patria!»; Lc 4,23).

L'interesse che Gesù riscuote fin dagli inizi del suo ministero è testimoniato dalla grande folla che "gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio" (v. 1). Su questo sfondo intravediamo in disparte la figura dei pescatori, tra cui Simon Pietro, affaccendati nel pulire le reti e delusi per non aver pescato nulla. 

L'incontro con Gesù rappresenta una svolta radicale nella vita di Pietro e dei suoi compagni, che seguiranno il Cristo nel discepolato. Il prodigio della pesca miracolosa passa attraverso il riconoscimento in Gesù del Maestro, qui e in diversi passaggi neotestamentari definito tale con la parola greca epistatès, che a differenza del più comune didaskalos, indicava non un semplice insegnante, ma una persona rivestita di autorità verso i discepoli e direttamente responsabile nei loro confronti, proprio come il buon pastore è responsabile delle sue pecore (Gv 10,11). 

La professione di fede di Pietro, nonostante l'iniziale incredulità, manifestata al principio della sua risposta a Gesù, è ciò che rende possibile l'evento miracoloso; a questo segue la confessione di peccato per la propria incredulità. La risposta di Gesù sta a significare che il miracolo appena compiuto è solo un segno - come d'altra parte tutti i suoi prodigi nei Vangeli e nella nostra vita - di una realtà più grande, della chiamata a una prospettiva esistenziale più ampia: nel caso di Pietro, quella di diventare "pescatore di uomini" (v. 10). 

Gesù non stravolge del tutto la vita di Pietro, ma lo fa passare "da un livello a un altro", da pescatore di pesci a pescatore di uomini. La personalità di Pietro, le sue peculiarità e i suoi talenti, per quanto poveri, vengono rispettati. Così accade anche quando Cristo interpella le nostre vite chiamandoci "a qualcosa di più alto". La conversione evangelica è conversione dal peccato, ma rispetta la nostra individualità, la nostra identità profonda, pur sanandola dalle ferite che le impediscono di esprimersi in pienezza.

Preghiera

Libera i nostri occhi, Signore, dal velo dell'incredulità affinché possiamo riconoscere e accogliere con gratitudine i segni che compi nella nostra vita e seguirti fedelmente per proclamare la tua parola. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Mosè, colui che parlava con Dio faccia a faccia

Oggi negli antichi calendari delle chiese d'oriente e d'occidente si ricorda Mosè,
amico del Signore e profeta.
Mosè, che la Torah chiama «amico del Signore» e «profeta», visse probabilmente nel XIII secolo a.C., e morì alle soglie della terra promessa. La Torah si chiude con il racconto della sua morte: « Mosè, servo del Signore, morì sul monte Nebo, nel paese di Moab, sulla bocca del Signore» (Dt 34,5), e commenta: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia, come un uomo parla con l'amico» (Dt 34,10).
Poiché, prima di morire, Mosè aveva annunciato a Israele: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15), i cristiani hanno riconosciuto in Gesù il nuovo Mosè, ovvero il profeta che ha inaugurato i tempi ultimi dando l'interpretazione messianica e definitiva della Torah.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 3 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Dio si china sulle nostre infermità

Lettura

Luca 4,38-44

38 Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39 Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all'istante, la donna cominciò a servirli.
40 Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41 Da molti uscivano demòni gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
42 Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro. 43 Egli però disse: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44 E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.

Commento

Mentre nell'episodio parallelo di Marco (Mc 1,31) è il contatto fisico con Gesù che provoca la guarigione, qui è la sua parola. Luca usa lo stesso verbo (gr. epitimao, vincere con un comando, intimare) usato in riferimento al precedente esorcismo sull'indemoniato nella sinagoga di Cafarnao (Mc 4,35). 

Da questa narrazione apprendiamo che Pietro è sposato, come attesta anche Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi (1 Cor 9,5), sebbene non venga dato mai alcun dettaglio su sua moglie. La febbre della suocera di Simone è ricondotta a una forza demoniaca. Gesù si dimostra un ospite che non viene "a mani vuote", la sua visita nella nostra vita porta guarigione e liberazione dal potere del male.

Anche tra i malati che al calar del sole vengono condotti a Gesù affinche imponga loro le mani, ve ne sono molti vittima di demòni (v. 41) che riconoscono la l'investitura messianica di Cristo, ma lungi dall'accoglierlo reagisoscono fuggendo e gridando. Ai demòni Gesù intima di tacere, probabilmente perché in questa fase del suo ministero non vuole che si accresca l'ostilità dei capi religiosi, con la rivelazione della sua messianicità.

Gesù non cura i malati innalzando le braccia al cielo in preghiera ma imponendole su di loro, dimostrando di agire con autorità e con un pieno mandato divino. Nel passo parallelo di Matteo (Mt 8,16-17) la citazione di Isaia "Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie" (Is 53,4) ricollega le guarigioni al ruolo espiatorio del Messia sofferente.

Dopo aver esercitato le numerose guarigioni, Gesù si ritira nel deserto, luogo di riposo e di preghiera, ma, cercato dalle folle, riprende presto il suo ministero.

L'itinerario che Gesù sta percorrendo è stabilito da Dio; egli deve evangelizzare anche le altre città (v. 43). L'importanza di questo annuncio è sottolineata dalla frequenza con cui Luca usa il verbo greco euangelizo (annunciare), sia nel suo Vangelo (dieci volte) che negli Atti (quindici volte), mentre lo si trova solo una volta in Matteo e non è presente negli altri Vangeli.

Con la guarigione della suocera di Pietro e dei malati della città di Cafarnao Gesù si mostra medico delle anime e dei corpi; un medico che prende su di sé il nostro dolore e per questo lo redime, investendolo di senso. Ciò che guarisce l'uomo non è evitare la sofferenza, che attraversa necessariamente ogni vita, ma metterla nelle mani di Dio che si china su di noi (v. 39), permettere che sia toccata dal suo amore.

Preghiera

Concedici, Signore, di scoprire, al di là delle sofferenze di questa vita terrena la beatitudine dell'incontro con te, che può realizzarsi fin da ora mediante la fede. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona