Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 30 settembre 2025

Diwali: la Festa induista delle luci

Ottobre è il mese in cui la comunità induista di tutto il mondo celebra la Dipavali (o Diwali), la Festa delle Luci, una delle ricorrenze più amate e cariche di significato spirituale della tradizione induista. Quando la luna nuova di Kartika avvolge il subcontinente indiano nell'oscurità più profonda, milioni di luci si accendono simultaneamente, trasformando la notte in un mare scintillante di speranza e devozione. Il nome deriva dal sanscrito "dipavali", che significa letteralmente "fila di lampade", e cattura perfettamente l'essenza di questa celebrazione millenaria.

Il Significato Profondo

Questa festa segna la vittoria della luce sull'oscurità, del Dharma sull'Adharma, della conoscenza sull'ignoranza. Al di là del suo splendore visivo, Diwali incarna un messaggio spirituale universale profondamente radicato negli insegnamenti vedantici: la luce interiore che risiede in ogni essere umano può dissipare le tenebre dell'ego, dell'avidità e dell'odio. È il tempo in cui le case vengono accuratamente purificate e illuminate dai diya - piccole lampade a olio in terracotta - mentre i cuori si rinnovano attraverso preghiera, condivisione e offerta. Le lampade rappresentano quella scintilla divina che può guidare l'individuo dal buio alla luce, dall'irreale al reale, verso una consapevolezza più elevata.

Le Radici Mitologiche

La Dipavali richiama alla memoria il glorioso ritorno di Rāma ad Ayodhya dopo quattordici anni di esilio nella foresta e la vittoria su Rāvana, il demone re di Lanka che aveva rapito Sita. Secondo il Ramayana, gli abitanti di Ayodhya, traboccanti di gioia per il ritorno del loro amato principe, illuminarono l'intera città con file di lampade per guidarlo attraverso l'oscurità verso casa. Contemporaneamente, la festa celebra la benevolenza della Dea Lakṣmī, consorte di Vishnu e personificazione della ricchezza spirituale e materiale, che porta prosperità e armonia nelle nostre vite. In diverse regioni dell'India, Diwali assume significati complementari: nel nord celebra la dea Kali, in Gujarat coincide con il capodanno, mentre per i jainisti commemora il nirvana di Mahavira.

I Cinque Giorni di Celebrazione

Tradizionalmente, Diwali si estende su cinque giorni, ciascuno con rituali specifici. Dhanteras inaugura le celebrazioni con l'acquisto di metalli preziosi e la prima lampada accesa. Choti Diwali commemora le vittorie divine con bagni rituali purificatori. Lakshmi Puja, il terzo giorno, rappresenta il cuore della festa: nella notte di luna nuova, le famiglie accendono innumerevoli lampade e pregano la dea affinché entri nelle loro case portando prosperità, lasciando porte e finestre aperte in segno di accoglienza. Govardhan Puja celebra la protezione divina con offerte abbondanti, mentre Bhai Dooj conclude le festività onorando il sacro legame tra fratelli e sorelle.

Tradizioni e Rituali

La preparazione inizia settimane prima con una pulizia profonda delle abitazioni, non solo per ragioni estetiche ma anche spirituali: si crede che Lakshmi visiti solo case pure e ordinate. L'arte del rangoli trasforma gli ingressi in opere d'arte effimere: intricati disegni geometrici e floreali creati con polveri colorate, fiori o riso, che rappresentano l'invito simbolico alle divinità. Le famiglie si riuniscono per preparare montagne di dolci tradizionali - ladoo, barfi, jalebi - che vengono consumati e scambiati con parenti e vicini, rafforzando i legami comunitari. I fuochi d'artificio illuminano il cielo notturno, simboleggiando la celebrazione della vittoria del bene.

Dimensione Sociale e Contemporanea

Diwali ha un impatto profondo sulla vita economica e sociale: le imprese chiudono i vecchi bilanci e ne aprono di nuovi, le famiglie fanno acquisti importanti, i datori di lavoro offrono bonus. È anche tempo di riconciliazione: si sanano vecchie dispute, si chiede perdono e si rinnovano le relazioni. Nel ventunesimo secolo, la festa ha trasceso i confini dell'India, diventando una celebrazione globale riconosciuta da Londra a New York, da Singapore a Toronto, dove la diaspora indiana mantiene vive queste tradizioni.

Un Messaggio Universale

In un mondo spesso segnato da divisioni e conflitti, Diwali ci ricorda che una singola piccola lampada può iniziare a dissipare l'oscurità, e quando milioni di queste luci si uniscono, possono illuminare il mondo intero. Come recita l'antico mantra sanscrito: Tamaso ma jyotir gamaya - guidami dall'oscurità alla luce. Questo è il dono eterno che Diwali offre all'umanità: la speranza che la luce prevarrà sempre e che dentro ciascuno di noi risiede il potere di illuminare il mondo.

Fermati 1 minuto. Sottrarsi alle logiche del mondo

Lettura

Luca 9,51-56

51 Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme 52 e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. 53 Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55 Ma Gesù si voltò e li rimproverò. 56 E si avviarono verso un altro villaggio.

Commento

Come già all'inizio del ministero in Galilea, anche il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che conclude la sua parabola terrena, comincia con un rifiuto, da parte dei Samaritani.

Ma si tratta solo in apparenza di una parabola discendente, perché il rifiuto, la passione e la morte di Gesù segnano il principio della sua "assunzione", come suggerisce il verbo greco analèmpis (sollevamento, innalzamento), utilizzato per indicare il suo "essere tolto" dal mondo.

La risolutezza con cui Gesù si dirige verso Gerusalemme, letteralmente "indurendo il suo volto" (gr. prosòpon estèrisen) richiama la stessa espressione semitica utilizzata nel libro di Isaia per descrivere l'atteggiamento del servo sofferente: "rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,7).

I messaggeri inviati da Gesù hanno il compito di trovare un posto per dormire e qualcosa da mangiare a Gerusalemme, dove Gesù celebrerà la Pasqua. Il rifiuto espresso dai samaritani è motivato dal fatto che Gesù "era diretto verso Gerusalemme", città per la quale essi nutrivano un'antica ostilità. I samaritani, abitanti di una regione centrale della Palestina, si erano mescolati in tempi lontani con le popolazioni importate in quella terra dagli assiri e avevano elaborato un culto ibrido tra giudaismo e paganesimo, con un suo tempio nel monte Gerizim; per questo, al ritorno degli ebrei dall'esilio babilonese (VI sec. a. C.) furono da questi respinti come "impuri".

Il linguaggio di Giacomo e Giovanni (v. 55) richiama il secondo libro dei Re, in cui Elia per due volte invoca il fuoco dal cielo per distruggere i suoi avversari (2 Re 1,10.12). Il rimprovero di Gesù è reso con la parola greca epitìmesen, che indica il "vincere con un comando", minacciare, richiamando i suoi esorcismi, in quanto i due discepoli si oppongono al suo cammino verso la croce proponendogli una visione trionfalistica del messianismo. 

Di fronte al rifiuto dei samaritani Gesù sceglie semplicemente di cambiare strada. A volte la migliore testimonianza nei confronti dell'ostilità del mondo al messaggio evangelico è di sottrarsi alle sue logiche, alla sua influenza - evèrtere, più che sovvertire -, perseverando sulla via che conduce al compimento della volontà del Padre.

Preghiera

Guidaci, Signore, sulle vie della mitezza, affinché anche i tuoi nemici possano diventare per noi campo di missione, mediante la predicazione del tuo vangelo con le parole e con la testimonianza di vita. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Gregorio l'Illuminatore. Padre del cristianesimo armeno

Gli antichi calendari d'oriente e d'occidente ricordano il 30 settembre Gregorio l'Illuminatore, apostolo degli armeni.

Gregorio era figlio di un principe parto, Anak, e nacque in Armenia perché il padre vi si era trasferito attorno alla metà del III secolo. In Armenia la sua famiglia, coinvolta nella congiura ordita dal re sassanide Artaserse per eliminare il re di Armenia Cosroe, fu sterminata dai figli di quest'ultimo, e Gregorio sfuggì alla morte riparando a Cesarea di Cappadocia. A Cesarea ricevette il battesimo cristiano, si sposò, ed entrò alla corte del re Tiridate, figlio di Cosroe. A motivo della sua fede cristiana e dell'appartenenza alla famiglia di Anak egli conobbe dure persecuzioni, fino a essere recluso nel carcere di Artaxata per quindici anni, dal 298 al 313.

Secondo i più antichi racconti agiografici, Gregorio guarì il re Tiridate da una grave malattia, e questi si convertì al cristianesimo. Per questo motivo, a Gregorio è attribuita tradizionalmente la conversione di gran parte dell'Armenia al cristianesimo.

Sul piano storico, è certo che Gregorio, una volta ottenuta la libertà, fu ordinato vescovo a Cesarea nel 314 dal vescovo Leonzio, e grazie all'aiuto delle chiese cappadocie riuscì a riorganizzare profondamente la vita dei cristiani armeni, portando il vangelo in territori dove non era ancora stato predicato.

Sempre secondo la tradizione, egli morì solitario, dopo essersi ritirato in una grotta vicino al villaggio di Thordan. Gli armeni ne ricordano in tre date differenti l'inizio della prigionia, la fine della prigionia e il ritrovamento delle spoglie mortali.

Tracce di lettura

L' inconoscibile venne nella carne e fu toccato e conosciuto nella carne; ed egli assunse liberamente su di sé tutte le passioni della carne, e soffrì nell'umiliazione, trovandosi in mezzo a stranieri. E senza esservi costretto da nessuno, ma per sua stessa indipendente volontà, egli portò tutto ciò, come sta scritto: «Io ho il potere di deporre la mia vita secondo il mio beneplacito, per poi riprenderla di nuovo». E nacque da una vergine e volontariamente adempì la volontà di colui che l'aveva inviato. Dice infatti: «Sono venuto a compiere la volontà del Padre mio», così da mostrare l'unica, indissolubile e indivisibile unità che regna tra di loro. (Gli insegnamenti di san Gregorio 379-380)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Gregorio l'Illuminatore (ca 260-328)


Girolamo. Le Scritture hanno le radici piantate in cielo

Nel 420 muore a Betlemme Girolamo, padre della chiesa e monaco. Nato in Dalmazia negli anni '40 del IV secolo, Girolamo si recò a Roma per studiare i classici latini. Nella capitale dell'impero egli conobbe la vita ascetica dell'occidente, e si recò poi in oriente per conoscere la tradizione monastica del deserto siriaco. Giunto ad Antiochia, fu ordinato presbitero, suo malgrado, dal vescovo Paolino. Tornato a Roma, Girolamo fondò sull'Aventino un luogo di preghiera frequentato dalle donne dell'aristocrazia romana, tre delle quali, Marcella, Paola ed Eustochio, lo seguiranno in Palestina nel 385. A Roma Girolamo acquisì un profondo amore per le Scritture, che non lo abbandonerà più fino alla morte. Uomo dal carattere passionale, egli ebbe amicizie intense, come quella con Rufino di Aquileia, che non tardarono a diventare contrapposizioni altrettanto profonde quando questioni di principio si frapposero tra lui e i suoi interlocutori. Alla morte di papa Damaso, deluso da molti di coloro che aveva amato sino ad allora, Girolamo lasciò tutto e ripartì per l'oriente, alla volta di Betlemme, dove, fondato un monastero maschile e uno femminile, si dedicò alla traduzione e al commento dei libri della Scrittura. È a lui che si deve la Vulgata, il testo latino della Bibbia che fu adottato in tutto l'occidente. Ma neppure nella solitudine monastica trovò pace, poiché venne coinvolto, per la sua conoscenza allora ineguagliabile delle Scritture, nelle grandi controversie teologiche del tempo. Nei suoi scritti, e in particolare nel suo vasto epistolario, Girolamo ha lasciato alla chiesa un tesoro monumentale di insegnamenti e intuizioni sulla vita cristiana e sull'ascesi monastica, ed è ricordato giustamente come uno dei più grandi dottori della chiesa indivisa.

Tracce di lettura

Ora ti domando, carissimo fratello, se non ti pare di abitare, già qui sulla terra, nel regno dei cieli, quando si vive fra i testi della Scrittura, li si medita, non si conosce o non si cerca di conoscere nessun'altra cosa.

Non vorrei che ti fosse di danno, nella sacra Scrittura, la semplicità e - vorrei dire - la banalità delle parole. Può essere che questa stesura dipenda da difetto d'interpretazione, oppure che sia stata fatta appositamente per renderne più facile la comprensione al pubblico, per far sì che in un'unica e medesima frase, tanto l'uomo di cultura quanto l'ignorante potessero coglierne il senso secondo la propria capacità.

Da parte mia non sono così superficiale e stupido da farmi passare per uno che tutte queste cose le conosce, o che vuol cogliere in terra i frutti di quelle radici che sono piantate in cielo. Confesso però che ne ho il desiderio e che ho pure voglia di impegnarmi con tutte le mie forze per intraprendere il cammino verso tale meta.

(Girolamo, Lettera 53,10)

Girolamo (ca 342-420), le icone di Bose

lunedì 29 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Un ordine meraviglioso

Lettura

Giovanni 1,47-51

47 Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». 48 Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». 49 Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!». 50 Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!». 51 Poi gli disse: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo».

Commento

Gli angeli, "messaggeri" (gr. anghelos; ebr. malak) celesti, sono presenti in diverse pagine dell'Antico Testamento e li troviamo anche in alcuni momenti cruciali della vita di Gesù; in particolare, nel deserto, dopo che egli ha vinto le tentazioni del demonio - "gli angeli lo servivano" (Mc 1,13) - e prima della sua passione, durante la preghiera nell'orto degli ulivi - "gli apparve un angelo dal cielo a confortarlo"(Lc 22,43). Successivamente, fanno da custodi alla sua tomba, annunciando alle donne del seguito di Gesù la sua risurrezione. 

Nel passo evangelico in cui Giovanni riporta il dialogo tra Gesù e Natanaèle viene richiamata la visione della scala di Giacobbe (Gen 28,10-22). In quel frangente il patriarca stava fuggendo dal fratello Esaù, per andarsi a rifugiare dallo zio Labano; Giacobbe sognò una scala che dalla terra si protendeva fino al cielo e gli angeli salivano e scendevano sopra di essa; Dio gli parlava, promettendogli la terra sulla quale stava dormendo, una discendenza numerosa come la sabbia del mare, la benedizione in lui di tutte le famiglie della terra. Tale benedizione si realizza in Cristo, il quale è il vero mediatore tra Dio e gli uomini, egli stesso "scala" attraverso la quale gli angeli discendono ad amministrare la grazia di Dio sulla terra e risalgono a Dio, portando le suppliche della Chiesa. 

Gli angeli nelle Scritture sono esseri spirituali creati da Dio, posti al suo servizio e a servizio dell'uomo. La loro azione di messaggeri è attestata nel Nuovo Testamento nel racconto dell'annunciazione a Maria, nell'invito ai pastori ad andare ad adorare il Messia appena nato a Betlemme, nell'avvertimento in sogno a Giuseppe di fuggire in Egitto per salvare il bambino Gesù da Erode. Negli Atti degli apostoli assistiamo alla liberazione di Pietro dalla prigione per opera di un angelo. 

Il culto ebraico e quello cristiano della chiesa primitiva non prevedono l'adorazione degli angeli, come leggiamo nel libro dell'Apocalisse: "Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell'angelo che me le aveva mostrate. Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. È Dio che devi adorare»" (Ap 22,8-9). Ma nel momento in cui ci affidiamo a Dio siamo certi che egli ci assiste mediante intelligenze e potenze spirituali, che lo servono e gli danno lode in cielo e ci soccorrono e difendono sulla terra, nel nome di Gesù Cristo. Per questo, con il salmista, innalziamo a lui la nostra lode: "Lodatelo, voi tutti, suoi angeli, lodatelo, voi tutte, sue schiere" (Sal 148, 2).

Preghiera

Dio onnipotente, che hai ordinato e stabilito il servizio degli angeli e degli uomini in un ordine meraviglioso; concedi misericordioso che così come gli angeli ti servono sempre in Cielo, possano, per tuo incarico, soccorrerci e difenderci sulla terra. Per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Festa di San Michele arcangelo e di tutti gli angeli

Le chiese d'occidente fanno oggi memoria di Michele arcangelo e di tutti gli angeli, messaggeri del Signore.
Gli angeli, secondo tutta la tradizione biblica, riassunta nella Lettera agli Ebrei, «sono spiriti inviati da Dio al servizio di coloro che devono ereditare la salvezza» (Eb 1,14). A loro, nella prima come nella nuova alleanza, Dio affida il compito di trasmettere la sua volontà al popolo d'Israele o a uomini da lui prescelti per una missione particolare. Certo, Paolo ricorda che «uno solo è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini: l'uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5), tuttavia le chiese cristiane hanno fin da principio riconosciuto un ruolo ai messaggeri di Dio nell'economia del Verbo: nel Nuovo Testamento è agli angeli che viene affidato l'incarico di annunciare l'incarnazione del Figlio di Dio, di custodirne il cammino terreno, di proclamarne la resurrezione, di spiegame l'ascensione, di accompagnarne il ritorno glorioso. Secondo la testimonianza degli antichi testi eucaristici d'oriente e d'occidente, i messaggeri di Dio celebrano alla presenza del Signore un'ininterrotta liturgia celeste, alla quale la liturgia della chiesa sulla terra non fa che unirsi per proclamare Dio tre volte Santo.

Tracce di lettura

La mediazione non è sostanzialmente più necessaria, là dove il Figlio ha il Padre presso di sé e dimora anzi nel seno del Padre e agisce a partire dal proprio vedere, ascoltare e toccare il Padre, in forza della propria potestà ricevuta direttamente dal Padre. E tuttavia gli angeli non possono mancare, in primo luogo perché fanno parte della gloria celeste del Figlio dell'uomo, ma in secondo luogo e soprattutto perché devono rendere visibile il carattere sociale del regno dei cieli, nel quale il cosmo dev'essere trasformato. Non deve sorgere l'impressione che il regno che il Figlio è venuto a fondare e che certamente incarna nella sua totalità (come autobasileía), sia un luogo solitario nell'assoluto. Piuttosto questo luogo in Dio, al quale devono essere condotti i redenti della terra, è fin dall'inizio «la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste», con le sue innumerevoli schiere di angeli, la comunità festosa dei primi nati. (H. U. von Balthasar,  Gloria I. La percezione della forma)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Preghiera

Dio onnipotente ed eterno che hai e costituito il servizio degli angeli e degli uomini in un ordine meraviglioso, concedici, ti supplichiamo, che come gli Angeli santi ti offrono un perpetuo servizio nei cieli, allo stesso, modo, secondo l'incarico che gli hai affidato, possano soccorrerci e difenderci sulla terra. Per Gesù Cristo, nostro Signore. (The Book of Common prayer)




Chiesa di San Michele arcangelo, Amburgo

domenica 28 settembre 2025

L'ansia per il mondo e quella per il Regno

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SEDICESIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Custodisci, ti supplichiamo, Signore, la tua Chiesa con la tua misericordia; e, poiché per la fragilità umana senza di te non possiamo che cadere, mantienici sempre al riparo da ciò che è dannoso e guidaci verso ciò che è profittevole per la nostra salvezza; per Gesù Cristo, nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 6,11-18; Mt 6,24-34

Commento

Gesù ci raccomanda di non avere ansia per le ricchezze o per il nostro domani, ma è giusto avere ansia per la nostra salvezza e per la salvezza del prossimo; il cristiano e la Chiesa non devono mai venir meno a tale sollecitudine.

La vita del cristiano non è spensierata e concentrata sul cogliere edonisticamente l'attimo presente. Preghiamo invocando il Regno di Dio e il compimento della sua volontà, sospiriamo come le anime davanti al trono dell'agnello e come il salmista, dicendo "Fino a quando Signore?" (Sal 13,1; Sal 79,5; Ap 6,10).

Il messaggio evangelico non ci chiede di essere anestetizzati, di fuggire il senso di limitatezza e imprevedibilità che caratterizza la nostra esistenza umana in questo mondo. C'è un'ansia da curare e c'è un'ansia che non necessita di cure, perché è semplicemente un richiamo della retta coscienza a lavorare nella vigna che il Signore ci ha affidato, in prossimità del suo ritorno.

Esiste poi un'ansia religiosa contraria alla volontà di Dio. L'apostolo Paolo ci parla nella sua Lettera ai Galati, di coloro che vogliono fare bella figura nella carne e costringono gli altri a farsi circoncidere per non essere perseguitati per la croce di Cristo (Gal 6,12). Costoro sono anche ipocriti, perché "neppure quelli stessi che sono circoncisi osservano la legge, ma vogliono che siate circoncisi per potersi vantare nella propria carne" (Gal 6,13). 

Anche le chiese cristiane rischiano di adottare segni esteriori, atteggiamenti etici e pastorali, nell'ottica del conformismo e alla ricerca del consenso, per evitare le persecuzioni del mondo. Viene persa, così, quella sollecitudine positiva, per l'evangelizzazione, per l'annuncio coraggioso del vangelo.

Gesù ci vuole liberare da queste ansie sbagliate, che esprimono un ripiegamento egocentrico e, in definitiva, una vita meschina e sofferente. Ci chiede di spostare il baricentro da noi stessi, liberandoci dalla schiavitù che caratterizza il timore della perdita, l'avversione per ciò che disturba i nostri interessi, il senso di incertezza che paralizza la nostra volontà.

La vita nella grazia è un'esperienza di liberazione da tutte quelle sollecitudini vane, perché legate a ciò che è transitorio, impermanente, imponderabile. Da tutto ciò che è rassicurazione illusoria di essere salvati, come la circoncisione, le questioni di cibo o di bevanda (Rm 14,17), o qualsiasi altro segno "esteriore" di appartenenza religiosa. 

È la riscoperta di un'esistenza centrata in Dio, alimentata dalla fiducia nel Padre, che con amore si prende cura delle sue creature. Egli stesso infatti ci rivestirà di un abito nuovo e splendente, come e più dei gigli del campo; ci donerà un abito di santità, perché “né la circoncisione né l'incirconcisione hanno alcun valore, ma l'essere una nuova creatura” (Gal 6,15).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 26 settembre 2025

Fermati 1 minuto. L'alterità e la prossimità di Cristo

Lettura

Luca 9,18-22

18 Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda: «Chi sono io secondo la gente?». 19 Essi risposero: «Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20 Allora domandò: «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro, prendendo la parola, rispose: «Il Cristo di Dio». 21 Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno. 22 «Il Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno».

Meditazione

Gesù cerca la solitudine per pregare, ma pur trovando "un luogo appartato" (v. 18) è con i suoi discepoli. Questa contemporanea distanza e prossimità sembra testimoniare la necessità di una ricerca personale e intima con il Padre e al contempo la dimensione comunitaria, "ecclesiale" della preghiera.

Poco prima nel suo Vangelo, Luca ci ha riferito la curiosità di Erode di vedere Gesù, ma sappiamo dal racconto della passione che il tetrarca lo considerava niente di più che un uomo capace di compiere prodigi, ricercandolo per soddisfare la propria curiosità.

Gesù termina questo suo momento di preghiera ponendo una domanda ai discepoli, forse afflitto dalle incomprensioni trovate durante la sua predicazione e richiedendo un'aperta attestazione di fede. I discepoli gli riferiscono chi pensa la gente che egli sia: Giovanni il Battista, Elia, uno degli antichi profeti. Insomma, "nulla di nuovo". Le folle - contrapposte a pochi uomini e donne che venono guariti e lo riconosco per chi egli è - relegano la sua identità a un retaggio del passato, non riescono a cogliere la totale alterità della sua persona rispetto all'uomo, in quanto Figlio di Dio, e al contempo la sua totale prossimità al genere umano in quanto Dio incarnato. 

A rispondere a nome dei discepoli è Pietro, che riconosce in Gesù il Cristo di Dio (v. 20), il Messia atteso da Israele. Questa affermazione non gli viene da una deduzione intellettuale ma gli è rivelata dal Padre, messa in bocca dallo Spirito. 

Matteo nel suo Vangelo riporta la risposta di Gesù alla professione di fede di Pietro: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17), evidenziando che la fede stessa è un dono della grazia. Gesù ordina di non riferire ciò a nessuno. Egli si aspetta una risposta personale da ciascuno di noi alla sua domanda: «Chi sono io?»: nessuna autorità religiosa potrà costringere la nostra coscienza a professare ciò che Dio chiede da noi come un atto di libertà, capace di accogliere la luce della grazia. 

Ma Gesù dice anche che egli "deve soffrire molto" (v. 22); si tratta di un imperativo: egli sa che il suo destino è la croce e gli va incontro senza esitazioni, perché sarà proprio la croce a rivelare pienamente chi egli veramente è: colui che dona la sua vita per i peccatori. La croce sarà lo scandalo più grande, ma al contempo anche la più alta rivelazione del Dio di misericordia all'umanità. Su questa verrà posto il sigillo della risurrezione.

Preghiera

Noi ti confessiamo, Signore, come il Cristo, salvatore dell'umanità e di ciascuno di noi individualmente. La preghiera, rivolta al Padre, vicino a te, ci aiuti a comprendere sempre più a fondo la tua misericordia e lo Spirito santo ci conforti nelle prove della vita presente. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 24 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Come riconoscere il vero apostolo di Cristo

Lettura

Luca 9,1-6

1 Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. 2 E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. 3 Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno. 4 In qualunque casa entriate, là rimanete e di là poi riprendete il cammino. 5 Quanto a coloro che non vi accolgono, nell'uscire dalla loro città, scuotete la polvere dai vostri piedi, a testimonianza contro di essi». 6 Allora essi partirono e giravano di villaggio in villaggio, annunziando dovunque la buona novella e operando guarigioni.

Commento

Gesù comunica la sua stessa potenza ai dodici apostoli che si è scelto e li manda - questo il significato del termine apostoli: "inviati" - ad annunciare il regno di Dio, a cacciare i demòni e a curare tutte le malattie. Non c'è altro di cui debba occuparsi un apostolo: annunciare il vangelo e confortare gli infermi nell'anima e nel corpo. L'instaurazione del regno di Dio non è opera umana, per questo Gesù chiede ai Dodici di non preoccuparsi di nulla, neanche di ciò che sembra indispensabile, come il pane o un cambio di vestiti.

All'apostolo è richiesta una radicale semplicità di vita e un totale affidamento alla provvidenza di Dio. Da ciò deriva anche il dovere della "stabilità": lungi dal girare di casa in casa, magari per cercare beni e ricompense, gli apostoli dovranno stabilirsi presso una sola casa in ogni città; ma tale stabilità non deve portare a un attaccamento contrario al dovere della predicazione itinerante. 

Essi, dunque, ripartiranno di là, dopo aver proclamato il vangelo a quella città, e andranno altrove a portare il lieto annuncio, liberare e sanare. Se non saranno accolti andranno oltre, rifiutando di portare con sé persino la polvere di quella città; non pronunceranno maledizioni ma compiranno il gesto di una rottura completa con coloro che non credono. 

Da tutti questi segni riconosceremo il vero apostolo: l'annuncio fedele del vangelo, la sobrietà di vita, il disinteresse verso qualsiasi ricompensa per il suo ministero, il sedersi alla mensa di chiunque lo accolga (come fece Gesù anche con i pubblicani e i peccatori), la capacità di un distacco per andare oltre ad annunciare la parola di Dio, la mitezza e al contempo la radicalità di fronte al rifiuto della sua missione.

Preghiera

Donaci, Signore, la gioia dell'anuncio del vangelo, la coerenza espressa nella semplicità di vita e una salda fiducia nella tua misericordia. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Silvano del Monte Athos e la docilità all'azione dello Spirito

Nel 1938 muore al monte Athos lo starec Silvano. Semën (Simeone) Ivanovič Antonov era nato nel 1866 a Šovsk, in Russia, da una famiglia di poveri contadini, ed era entrato nel 1892 nel monastero athonita di San Panteleimon. La sua parabola monastica fu una straordinaria ricerca di docilità all'azione dello Spirito santo. Silvano aveva infatti cominciato ad avvertire da giovane la presenza dello Spirito nel suo cuore, e aveva deciso di dedicarsi interamente a custodire mediante la preghiera il dono ricevuto. Nominato economo del monastero, egli continuò a riservare ogni giorno un tempo ragguardevole per la preghiera, pur avendo ormai più di 200 monaci a cui provvedere. Ammaestrato dallo Spirito a riconoscere Gesù e in Gesù la misericordia del Padre, Silvano intraprese un cammino di assimilazione al suo Signore. Egli capì che solo nell'umiltà, nel riconoscersi «terra desolata», «carne di peccato», avrebbe potuto raggiungere la piena comunione con Cristo disceso agli inferi per amore di tutti gli uomini. Ebbe la grazia della preghiera continua ed ebbe la visione del Cristo oltre a soffrire molto da parte di demoni. Ma l'esperienza mistica che più lo marcò, avvenne attorno all'anno 1906, quando in preda a grande sconforto per non riuscire a estirpare i suoi sentimenti di orgoglio, così si rivolse a Dio: «Signore, tu vedi che cerco di pregarti con spirito puro, ma il demonio me lo impedisce.» Ricevette allora nel suo cuore questa risposta: «Gli orgogliosi devono sempre soffrire da parte dei demoni.» Silvano rispose: «Allora, Signore, dimmi cosa devo fare perché la mia anima diventi pura.» Di nuovo ricevette la risposta: «Tieni il tuo spirito in inferno e non disperare mai». In realtà, proprio per essersi accusato, lui stesso di essere un orgoglioso, e aver pregato Dio di estirpargli questo sentimento, ha mostrato un grande spirito di umiltà. Nonostante non avesse ricevuto una istruzione superiore, assunse grande fama presso i pellegrini che lo cercavano per i suoi utili consigli, tra essi anche altri prelati, vescovi e cattedratici. Passò gli ultimi anni della sua vita a ricevere migliaia di persone che venivano dai luoghi più lontani per chiedere una parola o una preghiera: colui che ormai era noto a tutti semplicemente come lo «starec Silvano».

Tracce di lettura

Spirito santo, non abbandonarci! Quando tu sei in noi, l'anima avverte la tua presenza, trova in Dio la sua beatitudine: tu ci doni l'amore ardente per Dio. Spirito santo, non mi abbandonare! Quando ti allontani da me, i pensieri malvagi assalgono il mio cuore: l'anima mia piange lacrime amare. 

(dagli Scritti di Silvano dell'Athos).

Abba Paisio pregava per un proprio discepolo che aveva rinnegato Cristo. Mentre pregava, gli apparve Cristo e gli disse: « Paisio, per chi stai pregando? Non mi ha forse rinnegato?». Ma il santo continuò ad aver compassione del proprio discepolo. Allora il Signore gli disse: «Paisio, tu mi sei divenuto simile mediante l'amore»

(Detto dei padri che Silvano amava ripetere)

- Fonti: Martirologio ecumenico della Comunità monstica di Bose; Wikipedia

Silvano del Monte Athos (1866-1938)

martedì 23 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Quale famiglia cristiana?

Lettura

Luca 8,19-21

19 Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20 Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». 21 Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».

Commento

Non sappiamo se i "fratelli" di Gesù menzionati in questo brano fossero figli di Maria o, come accadeva secondo una usanza semitica, il termine greco adelphos (f. adelphe) va inteso come "cugini", "nipoti", "fratellastri" (vedi ad es. Gn 14,16; 29,15; Lv 10,4). Una antica e diffusa tradizione patristica afferma la verginità di Maria anche dopo aver partorito Gesù. 

Tutto ciò poco conta ai fini dell'interpretazione del racconto di Luca. Ciò che esso ci trasmette è che, senza disprezzare la famiglia naturale, Gesù pone al di sopra di essa la famiglia che egli "si è scelto", quella di coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (v. 21). Il passo evangelico, "ingentilito" rispetto al parallelo di Marco (Mc 3,31-35) - in cui Gesù afferma «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». (Mc 3,33) - riferisce che "non potevano avvicinarlo", "stavano fuori" e "desideravano vederlo", ma tutto ciò gli era impedito dalla folla. 

Vi è una distanza, una barriera impenetrabile che si frappone tra Gesù e i suoi familiari. In un passo ancor più "duro" di Marco ci viene riferito che i familiari di Gesù, in altra occasione "uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé» (Mc 3,21)". Altrove Gesù afferma: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,4). 

Gesù relativizza l'istituto familiare; non ne fa "una gabbia", un contesto chiuso e autoreferenziale, ma lo pone in secondo piano rispetto al senso di appartenenza alla famiglia dei credenti. In questo senso, «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Altrove Gesù afferma: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. (Mt 10,34-35)». 

Ma se la parola di Dio è una spada che può recidere i legami familiari è anche un vincolo che può rafforzarli, arricchirli di una forza di unione soprannaturale. Allora la famiglia diventa qualcosa di più di una sorta di "clan"; diviene il focolare della Parola di Dio, laddove due o tre riuniti nel nome di Gesù lo rendono presente in mezzo a loro; diventa nucleo fecondo per l'evangelizzazione al di fuori di essa.

Preghiera

Custodisci le nostre famiglie Signore, affinché la tua parola possa rendersi presente in mezzo a noi, per vivificare le nostre relazioni e renderci apostoli del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 21 settembre 2025

Un maestro che si prende cura

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUINDICESIMA DOMENICA
DOPO LA PENTECOSTE

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità; affinché possiamo ottenere ciò che hai promesso, compiendo ciò che hai comandato. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Gal 5,16-24; Lc 17,11-19

Commento

Gesù si trova ai limiti di Israele, tra la Samaria e la Giudea, in un territorio a popolazione mista, in parte di etnia ebraica, in parte di etnie straniere. I samaritani, oltre che provenire da diverse nazionalità, praticavano un culto sincretico in un tempio sul Monte Gherizim; la loro religiosità teneva in gran considerazione il Pantateuco ma affiancava al timore per il Dio biblico il culto di idoli pagani. Per tali ragioni erano grandemente disprezzati dal popolo di Israele.

La comune sorte della malattia aveva unito i lebbrosi protagonisti di questo episodio evangelico, in parte ebrei e in parte samaritani, nella vita al di fuori della società. I lebbrosi infatti dovevano seguire precise disposizioni della legge levitica (Lv 13), abitare fuori dalle città e mantenersi ad ampia distanza da chi avrebbero incontrato, annunciando a gran voce la propria impurità.

Alla vista di Gesù il loro grido di dolore si volge verso di lui, che viene riconosciuto non come semplice didàskalos, "insegnante", ma come "maestro", epistàta (cfr. Lc 5,5), cioè come colui che si prende cura dei suoi allievi; questo titolo nel Vangelo di Luca gli è attribuito normalmente dai discepoli.

Gesù compie la guarigione ma chiede ai lebbrosi di andare prima a mostrarsi ai sacerdoti. La legge infatti non è stata ancora abolita, il velo del tempio non è stato ancora squarciato dalla sua morte. I lebbrosi guariscono strada facendo, ma solo uno torna indietro a ringraziare Gesù e, prostratosi, ne riconosce la natura divina. 

Gli altri nove, perché non sono tornati a glorificare colui dal quale avevano implorato la guarigione? Forse la ritenevano come dovuta, attribuivano ai propri meriti il miracolo compiuto da Gesù. Si mostrano come coloro che scampato il pericolo, mancano di gratitudine. 

Anche noi rischiamo di essere pronti a ricorrere a Dio con fede nelle difficoltà, ma spesso ci dimentichiamo di ringraziarlo quando le nostre preghiere vengono esaudite. Quanto spazio vi è nella nostra preghiera per la supplica e quanto per la lode?

Gesù invita il samaritano ad alzarsi e ne proclama la salvezza per fede. Questi non solo è guarito da un male che lo teneva al di fuori della società civile, ma è stato illuminato spiritualmente dalla grazia riconoscendo Gesù come Signore.

Cristo ci purifica da quei peccati e da quelle ferite che ci tengono separati dalla comunione fraterna, non guarda alla nostra storia passata e non fa distinzioni. D'altronde, come nota Paolo nella sua lettera ai Galati: "le promesse furono fatte ad Abrahamo e alla sua discendenza: non dice «E alle discendenze» come se si trattasse di molte, ma come di una sola: «E alla tua discendenza», cioè Cristo" (Gal 3,16). In Cristo siamo salvati, non mediante la legge, ma mediante la promessa fatta ad Abramo, patriarca di un'eredità numerosa come la sabbia del mare.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 20 settembre 2025

Navaratri: La celebrazione dei nove giorni della Dea Madre

Introduzione

Navaratri, letteralmente "nove notti" in sanscrito, rappresenta una delle festività più significative e diffuse del calendario hindu. Questa celebrazione, che onora la Dea Madre nelle sue molteplici manifestazioni, incarna profondamente la spiritualità indiana e la devozione verso il principio femminile divino, conosciuto come Shakti. Nel corso di nove giorni e dieci notti, milioni di fedeli in India e nel mondo si immergono in un intenso periodo di preghiera, digiuno, danza e riflessione spirituale.

Le origini e il significato religioso

Le radici di Navaratri affondano nelle antiche tradizioni vediche e purianiche, dove la Dea è venerata come la forza creatrice e distruttrice dell'universo. La festività celebra principalmente tre aspetti della Dea Madre: Durga, Lakshmi e Saraswati, che rappresentano rispettivamente la forza spirituale, la prosperità materiale e la saggezza. Secondo la mitologia hindu, durante questi nove giorni la Dea combatte e sconfigge il demone Mahishasura, simboleggiando il trionfo del bene sul male, della luce sulle tenebre, della conoscenza sull'ignoranza.

La divisione dei nove giorni riflette un percorso spirituale progressivo: i primi tre giorni sono dedicati a Durga, che distrugge le impurità e le tendenze negative; i successivi tre giorni onorano Lakshmi, che benedice i devoti con prosperità e abbondanza; gli ultimi tre giorni celebrano Saraswati, che conferisce saggezza e conoscenza spirituale. Il decimo giorno, chiamato Vijayadashami o Dussehra, segna la vittoria finale del bene sul male.

Le quattro celebrazioni annuali

Sebbene Navaratri sia celebrato quattro volte l'anno secondo il calendario hindu, due occasioni assumono particolare rilevanza. Sharad Navaratri, che cade in autunno (settembre-ottobre), è la celebrazione più importante e diffusa, coincidendo con il periodo post-monsone quando la natura si prepara per l'inverno. Chaitra Navaratri, celebrato in primavera (marzo-aprile), segna l'inizio del nuovo anno hindu in molte regioni.

Le due celebrazioni minori, Magha Navaratri (inverno) e Ashadha Navaratri (estate), sono osservate principalmente da devoti particolarmente religiosi e in specifiche comunità regionali. Questa ciclicità riflette la concezione hindu del tempo come eterno ritorno e della necessità di rinnovare periodicamente la connessione spirituale con il divino.

Aspetti spirituali e pratiche devozionali

Dal punto di vista spirituale, Navaratri rappresenta un periodo di purificazione interiore e crescita spirituale. Molti devoti osservano il digiuno, variando dalle forme più rigorose che permettono solo acqua e frutta, a versioni più moderate che escludono cereali e cibi non vegetariani. Il digiuno non è considerato una privazione, ma un mezzo per purificare il corpo e la mente, rendendo il praticante più ricettivo alle influenze spirituali.

La recitazione di mantra, in particolare il Durga Saptashati (700 versi in lode della Dea, anche conosciuto come Devi Mahatmya o Chandi Path), costituisce una pratica centrale. Questi antichi testi non sono solo preghiere, ma sono considerati formule vibrazionali che armonizzano le energie sottili del praticante con quelle cosmiche. La tradizione sostiene che la recitazione sincera di questi mantra durante Navaratri possa portare alla realizzazione spirituale e alla liberazione da ostacoli materiali e spirituali.

La meditazione assume forme particolari durante questo periodo, spesso concentrandosi sulla visualizzazione delle varie forme della Dea. Ogni giorno è dedicato a una specifica manifestazione divina, permettendo al devoto di esplorare diversi aspetti del principio femminile cosmico e di sviluppare qualità corrispondenti nella propria personalità.

Il ruolo delle donne e l'emancipazione femminile

Navaratri riveste un significato particolare per le donne, che durante questo periodo sono venerate come manifestazioni terrene della Dea. In molte tradizioni, le giovani ragazze sono adorate come Kumari (vergini divine) e ricevono offerte e benedizioni. Questa pratica riflette il profondo rispetto che l'hinduismo nutre verso il principio femminile e riconosce il potere creativo e nutrice delle donne.

La festività ha assunto negli anni recenti anche connotazioni di emancipazione femminile, con molte organizzazioni che utilizzano questo periodo per promuovere i diritti delle donne e celebrare i loro contributi alla società. Le danze tradizionali, in particolare, offrono uno spazio di espressione libera e gioiosa per le donne, rompendo temporaneamente alcune barriere sociali tradizionali.

Significato filosofico e universale

A livello filosofico, Navaratri rappresenta molto più di una celebrazione religiosa. Incarna il concetto hindu di equilibrio cosmico tra forze creative e distruttive, tra ordine e caos, tra manifestato e non-manifestato. La vittoria della Dea sui demoni simboleggia la possibilità di trascendenza per ogni individuo, la capacità di superare le proprie limitazioni e tendenze negative attraverso la devozione e la pratica spirituale.

Il messaggio universale di Navaratri risiede nella celebrazione dell'energia femminile come forza creativa fondamentale dell'universo. In un'epoca in cui molte società stanno rivalutando il ruolo e il contributo delle donne, questa antica celebrazione offre spunti di riflessione profonda sull'importanza dell'equilibrio tra principi maschili e femminili, sia nell'individuo che nella società.

La festività insegna anche l'importanza della ciclicità e del rinnovamento, concetti particolarmente rilevanti in un mondo che spesso privilegia il progresso lineare dimenticando la necessità di pause, riflessione e rigenerazione spirituale.

Conclusioni

Navaratri rappresenta una delle manifestazioni più complete e complesse della spiritualità hindu, integrando aspetti devozionali, culturali, sociali e filosofici in un unico grande evento celebrativo. La sua capacità di adattarsi ai tempi moderni mantenendo intatta la sua essenza spirituale testimonia la vitalità e la resilienza delle tradizioni indiane.

Attraverso i suoi rituali, le sue danze, le sue preghiere e le sue celebrazioni, Navaratri continua a offrire a milioni di persone un'opportunità di connessione spirituale, crescita personale e partecipazione comunitaria. In un mondo sempre più frammentato e materialista, questa celebrazione della Dea Madre ricorda l'importanza dei valori spirituali, della bellezza artistica e della solidarietà umana.

Il messaggio di Navaratri trascende i confini religiosi e culturali, offrendo a chiunque sia disposto ad ascoltare una lezione di equilibrio, compassione e celebrazione della vita in tutte le sue manifestazioni. È questo carattere universale che rende Navaratri non solo una festività hindu, ma un patrimonio spirituale e culturale dell'umanità intera.

- Rev. Dr. Luca Vona



venerdì 19 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Gesù non ha paura delle donne

Lettura

Luca 8,1-3

1 In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. 2 C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, 3 Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni.

Commento

La predicazione del regno di Dio è un'attività itinerante, che Gesù non compie da solo, ma insieme ai suoi discepoli. Egli si sposta di città in città, perché «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Insieme a lui troviamo i Dodici, ma anche un piccolo gruppo di donne, cosa del tutto inconsueta per la cultura religiosa dell'epoca. I rabbini, infatti, non avevano donne come discepoli. Questa ritrosia è evidente nel racconto giovanneo dell'incontro tra Gesù e la samaritana, dove appunto i discepoli di Gesù si stupirono nel vederlo discorrere con una donna presso il pozzo (Gv 4,27). 

«Signore, gli disse la donna, dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete» (Gv 4,15) esclama la samaritana al pozzo; e di quell'acqua sembrano essersi dissetate le tre discepole che seguono Gesù nel suo ministero. Maria, proveniente dalla città di Màgdala, è identificata da una tradizione senza alcun riscontro oggettivo con la donna che in un passo precedente versa il profumo sui piedi di Gesù e ne versa sul suo capo prima della passione; qui si dice semplicemente che fu liberata da sette demòni, ma un'altra tradizione, sempre senza alcun fondamento, ne fa una prostituta. Giovanna e Susanna sono menzionate solo qui. 

Saranno delle donne a seguire Gesù nella sua passione e a sostare sotto la croce, con Maria, la madre di Gesù e Giovanni, il discepolo che egli amava. E sempre delle donne sono le prime testimoni della risurrezione, annunciatrici della lieta notizia ai Dodici stessi. 

Le Scritture presentano un atteggiamento ambivalente sulla donna, a partire dalla progenitrice Eva, mediante la quale il peccato è entrato nel mondo, ai numerosi ammonimenti contenuti nel libro dei Proverbi, in cui l'uomo viene messo in guardia dalla capacità femminile di circuire e far cadere nel peccato. 

Eppure, tutta la storia della salvezza è costellata da figure di donne esemplari e benedette da Dio, a partire da Sara, che concepisce Isacco nella sua vecchiaia e diviene partecipe della promessa, fatta da Dio ad Abramo, di una discendenza più numerosa della sabbia del mare e, dunque, di una redenzione che si estende oltre i confini stessi di Israele; e poi Rachele, sposa di Giacobbe e madre di Giuseppe, che "piange i suoi figli", figura di colei che per Israele intercede presso Dio (Ger 31,15, ripreso da Mt 2,18). Per mezzo di una donna il Verbo di Dio decide di venire in mezzo a noi: Maria, nuova Eva, è lo strumento mediante il quale giungono a compimento le promesse messianiche. 

Sono figure per lo più silenziose le donne dell'Antico e del Nuovo Testamento, ma significative nella storia della salvezza. Il loro silenzio è sempre fecondo.

Preghiera

Concedicci Signore, di essere associati a te nella predicazione della salvezza e il nostro agire, guidato dal tuo Spirito, sia sempre più eloquente delle nostre parole. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Teodoro di Tarso, un monaco alla guida della chiesa inglese

Il 19 settembre 690 muore Teodoro, arcivescovo di Canterbury. Teodoro era nato a Tarso, in Cilicia; aveva compiuto gli studi ad Atene e si era fatto monaco in terra ellenica. Giunto a Roma all'età di sessantasei anni forse per motivi di studio, egli fu in breve tempo ordinato diacono e poi vescovo da papa Vitaliano, che gli assegnò la sede vacante di Canterbury. Aiutato dall'ottima salute, malgrado l'età avanzata, Teodoro si diede anima e corpo al ministero episcopale, iniziando anzitutto a viaggiare per tutto il territorio inglese, al fine di conoscere in prima persona la terra e la gente di cui era stato eletto pastore. Egli riorganizzò in profondità la vita della chiesa inglese, indicendo il primo concilio della storia britannica a Hertford nel 673, ricucendo le molte divisioni tra i cristiani di origine celtica e quelli di origine anglosassone, e aprendo a Canterbury una scuola di studi superiori dove vennero insegnate le discipline classiche dell'antichità. Dalla sua scuola usciranno i principali vescovi e rinnovatori del cristianesimo occidentale precarolingio. Teodoro morì a Canterbury quasi novantenne, dopo aver posto le basi della nuova chiesa anglosassone.

Tracce di lettura

Teodoro giunse nella sua chiesa nel secondo anno dopo la consacrazione, e vi trascorse ventun anni, tre mesi e ventisei giorni. Intraprese subito a visitare tutta l'isola, dovunque vi fossero degli Angli, e da tutti era accolto e ascoltato molto volentieri. E poiché era istruito a fondo nelle lettere sia sacre sia profane, diffondeva ogni giorno fiumi di dottrina salutare per irrigare i loro cuori. Le aspirazioni di tutti erano infatti rivolte alle gioie del regno celeste, di cui da poco avevano sentito parlare, e chiunque desiderava essere istruito nella sacra Scrittura aveva a disposizione maestri pronti a insegnare a interpretarla. (Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli 4,2)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Teodoro di Tarso (ca 602-690)

giovedì 18 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Un grande perdono genera un grande amore

Lettura

Luca 7,36-50

36 Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37 Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; 38 e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. 39 A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sé. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». 40 Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, di' pure». 41 «Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. 42 Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». 43 Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44 E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45 Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. 47 Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». 48 Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». 49 Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?». 50 Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».

Commento

Siamo davanti a un fariseo che mostra verso Gesù un importante gesto di accoglienza, invitandolo a condividere un pasto. L'ingresso in casa della donna durante il convito attesta che si trattava di un grande banchetto, perché in questo caso era consentito, in oriente entrare in casa a curiosare. 

Questo racconto è più un dipinto che una narrazione, per il suo svolgersi quasi completamente in silenzio. Dipinto dai colori contrastanti se confrontiamo il fariseo, che siede a mensa con Gesù e si pone dunque sul suo stesso piano e la donna, accovacciata dietro i suoi piedi; questa non dice una parola, ma mette in atto una serie di gesti, che richiamano le antiche usanze orientali verso gli ospiti: accogliere l'invitato con un bacio, lavargli i piedi, ungergli il capo con olio profumato. 

La tradizione che identifica questa donna con Maria di Magdala è tardiva e priva di fondamento, così come quella secondo la quale si tratterebbe di una prostituta. Il termine usato (gr. hamartolos) indica infatti semplicemente una condizione di peccato sia al maschile che al femminile. Il "lasciar fare" di Gesù nei confronti della donna è occasione di scandalo per il fariseo, che dentro di sé dubita di avere di fronte a sé un profeta: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice» (v. 39). 

Chiaramente il fariseo si considera di "una specie" del tutto differente, degno di stare a tavola con un profeta. La sua sicurezza di sé è in pieno contrasto con l'atteggiamento della peccatrice, che non smette di piangere. 

Contrariamente a quel che pensa il fariseo, Gesù sa benissimo chi è quella donna e sebbene quell'uomo, che si sentiva giusto per la pratica della legge, non abbia il coraggio di esprimere ad alta voce le proprie perplessità, lo anticipa facendogli una domanda. Chi sarà più felice: un uomo a cui vengono condonati cinquanta denari o uno a cui ne vengono condonati cinquecento? Il fariseo dà la risposta giusta, ma la sua giustizia rimane su un piano puramente teorico, legalistico; è lui a non sapere chi ha di fronte, scandalizzandosi, insieme ai commensali, di colui che riconosce semplicemente come Maestro, ma che dichiara di poter rimettere i peccati (v. 49).

La grande fede e l'amore della peccatrice hanno generato il perdono e questo, a sua volta, ha generato un grande amore. Il fariseo si pone al di fuori di questo circolo di fede e di amore, considerandosi giusto davanti a Gesù.

Senza l'umiltà la nostra religiosità è una pratica sterile. Non importa quanto "intimo" possiamo considerare il nostro rapporto con Dio. Chi si mette a tavola con il Signore aspettandosi di essere lodato come giusto o per vantarsi di aver familiarità con lui ne rimarrà deluso, perché non saprà comprendere la vera natura di colui che è venuto a salvare i peccatori e che afferma alla nostra anima «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».


Preghiera

Signore, donaci la pace che il mondo non conosce; noi non confidiamo nella nostra giustizia ma nella tua grande misericordia e ti adoriamo come il Figlio di Dio, venuto nel mondo per salvare i peccatori. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 17 settembre 2025

Fermati 1 minuto. Generati dalla Sapienza

Lettura

Luca 7,31-35

31 A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? 32 Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato;
vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!
33 È venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. 34 È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. 35 Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli».

Commento

Un giudizio duro quello di Gesù sulla sua - e sulla nostra - generazione. Che sarà ribadito, in forma ancora più drastica, poco più avanti nel Vangelo di Luca: «O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò?»; parole che scuotono, queste ultime se pensiamo che furono rivolte ai discepoli che non erano riusciti a guarire il figlio indemoniato di un uomo che era ricorso a loro.

Gesù si lamenta con gli scribi e i farisei che non hanno accolto né il ministero ascetico di Giovanni il Battista, né il ministero gioioso di colui che "mangia e beve con i peccatori", annunciando il perdono  e la grazia, "promulgando l'anno di misericordia del Signore" (Is 61,2; Lc 4,19). 

L'atteggiamento di incredulità è considerato un atteggiamento infantile, una mancanza di maturità nella fede. Tale rischio riguarda anche i cristiani quando da un lato ricercano esempi di rigore e di ascetismo, ma non hanno la capacità di comprenderne il richiamo alla conversione; dall'altro faticano ad accettare l'idea di una misericordia "troppo larga di maniche" e mostrano sentimenti di contrarietà, perché il Padre ha cucinato il vitello grasso per festeggiare il ritorno a casa del figliol prodigo, del nostro fratello o della nostra sorella convertiti. Ogni scusa diventa  buona per rifiutare il vangelo.

Così facendo siamo ingiusti, questa la parola che usa Gesù. Perché non riconosciamo con gratitudine quanto amore Dio ha donato a noi per primo e non siamo capaci, dunque, di rispondere con altrettanto amore, si manifesti esso nella forma di un distacco dal mondo per cercare le cose di lassù (Col 3,1) o nella predicazione della gioia evangelica.

Ma la sapienza, che è il Logos eterno, non è sterile. Essa genera in ogni tempo i suoi figli che le rendono lode e giustizia. Noi saremo generati da lei nella misura in cui essa sarà generata in noi, mediante lo Spirito di Dio.

Preghiera

Signore, noi ci rallegriamo per la tua grazia; aiutaci a maturare frutti di conversione, per annunciare il vangelo della salvezza. Amen.

- Rev Dr. Luca Vona

Ildegarda di Bingen e il fuoco del Paraclito

Nel 1179 muore nel monastero di Rupertsberg, presso Bingen, Ildegarda, monaca e mistica.

Nata ottantun anni prima a Bermersheim, nella Renania, Ildegarda fu affidata a otto anni a Jutta di Sponheim, un'anacoreta che viveva legata alle benedettine di Disibodenberg. Intorno alle due donne la comunità crebbe, e alla morte di Jutta, Ildegarda ne assunse la responsabilità.

Essa seppe fare tesoro della propria estrema sensibilità e fragilità fisica per comprendere in profondità le forze fisiche e biologiche della natura e per affinare la propria arte farmacologica e medica, da cui molti trassero grandi benefici.

Attenta lettrice e ruminatrice delle Scritture, fu una donna di temperamento straordinario: predicò il vangelo in modo itinerante, quasi un secolo prima di Francesco d'Assisi, seguendo unicamente la voce interiore che la spingeva a farlo; promosse il rinnovamento spirituale nel monachesimo del suo tempo, e fu sempre pronta a servire i malati e a lenire le loro sofferenze.

In tutto questo, Ildegarda non dimenticò mai le proprie figlie spirituali, ma continuò sino alla fine a seguire a una a una tutte le monache dei monasteri che aveva fondato, con una dolcezza e una sensibilità pari alla forza e alla fermezza che aveva saputo mostrare quando si era trovata ad ammonire e a consigliare i potenti del suo tempo.

Su indicazione di Bernardo di Clairvaux, Ildegarda mise per iscritto il frutto della sua contemplazione visionaria del mondo, lasciando così ai posteri almeno un poco della sapienza che aveva saputo vivere e incarnare nel suo lungo itinerario umano e monastico.

Tracce di lettura

O fuoco dello Spirito Paraclito, vita della vita di ogni creatura, sei santo, tu che vivifichi le forme.

Sei santo, tu che copri con balsami le fratture doloranti, santo, tu che fasci le ferite incancrenite. Soffio di santità, fuoco di amore, dolce gusto nei cuori e pioggia nelle anime, profumato di virtù.

Fontana purissima nella quale si vede Dio, intento a radunare gli stranieri e a cercare gli smarriti.

Corazza della vita, speranza dell'unione di tutti gli uomini, crogiolo della bellezza, salva le tue creature!

Grazie a te le nubi corrono, l'aria plana, le pietre si coprono di umidità, le acque diventano ruscelli e la terra trasuda la linfa verdeggiante.

E sei ancora tu a guidare incessantemente i dotti e a colmarli di gioia mediante l'ispirazione della tua sapienza.

Lode dunque a te, che fai risuonare le lodi e rallegri la via: a te la speranza, l'onore e la forza.

Lode a te che porti a noi la luce. (Ildegarda di Bingen, O fuoco dello Spirito Paraclito)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Ildegarda di Bingen (1098-1179)

martedì 16 settembre 2025

Fermati 1 minuto. L'incontro tra la morte e la vita

Lettura

Luca 7,11-17

11 In seguito si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. 12 Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. 13 Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». 14 E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». 15 Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. 16 Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». 17 La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione.

Commento

Alla porta del villaggio di Nain si incontrano due cortei che provengono da direzioni opposte: uno esce dall'abitato per condurre a sepoltura un morto, l'altro viene da lontano per entrarvi. Si incrociano un corteo di morte e un corteo di vita. Gesù, i suoi discepoli e la folla si trovano di fronte a una scena straziante: una donna vedova che piange il figlio unico, accompagnata da molta gente nel suo dolore.

Quello spettacolo sconvolge Gesù. Il pianto di quella madre smuove e commuove le sue viscere: "Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione" (Lc 7,13). È un partecipare e condividere il patire che coinvolge tutto il suo essere, che dice no a una situazione insostenibile. La compassione di Cristo non è distacco divino, ma profonda umanità che si manifesta attraverso gesti concreti: occhi che vedono, piedi che si avvicinano, mani che toccano la bara, una bocca che consola con "Non piangere" e che comanda la vita: "Ragazzo, dico a te, alzati".

Con Gesù irrompe il nuovo del Regno di Dio. Nain diventa luogo di "delizie", il giovane preda della morte all'"alzati" di Gesù si mette a sedere sulla bara, vittorioso. La Vita ha incrociato la morte e l'ha vinta.

Questo racconto, che riecheggia le resurrezioni operate da Elia ed Eliseo, ci pone al cuore del cristianesimo come narrazione di Gesù venuto a generare l'uomo nuovo. Ma oggi, più che sottolineare la divinità di Cristo, è importante evidenziare la sua umanità, per non vederlo come un essere distante ma come qualcuno che può ispirarci fiducia come un buon amico.

I cristiani devono saper imitare Gesù, chiedendo a Dio la grazia di essere Cristo per gli altri. Qui e ora siamo costituiti viventi se il nostro cuore diventa dimora della parola che fa nascere a vita eterna: facciamo spazio in noi a Dio amore, al comandamento di amare l'altro come amati da Dio. La nostra società ha bisogno di santi, e ciascuno può esserlo nel proprio ambiente, portando quella compassione che trasforma la morte in vita.

Preghiera

Signore Gesù, tocca il nostro cuore con la tua compassione. Donaci occhi che vedano il dolore, mani che consolino, parole che ridestino speranza. Fa' che portiamo la tua vita ovunque regni la morte. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

Cipriano e Cornelio. La difesa dell'autonomia e dell'unità della Chiesa

Nel 258 nel corso delle persecuzioni dell'imperatore Valeriano, muore martire a Cartagine il vescovo Cipriano. Nato intorno al 210, Cipriano era un retore pagano che si convertì al cristianesimo dopo aver distribuito tutti i suoi beni ai poveri. A tre anni soltanto dalla conversione fu eletto vescovo di Cartagine. Vissuto in un periodo di grandi divisioni nella chiesa, suscitate dalle diverse posizioni assunte dai cristiani di fronte alla pressione ad apostatare esercitata su di loro dai persecutori, Cipriano optò sempre per un atteggiamento misericordioso verso chi era caduto nell'apostasia. Convinto infatti che il ministero episcopale fosse uno e indivisibile, e che fosse stato lasciato da Cristo alla chiesa per custodirne l'unità attraverso la remissione dei peccati, egli difese l'autorità episcopale sia contro le intromissioni dell'impero sia contro quei cristiani che minavano l'unità della chiesa pretendendo di costituire delle chiese parallele di uomini impeccabili. Anche per questo motivo, Cipriano sostenne contro l'antipapa Novaziano, eletto dalla fazione più rigorista del clero romano, il legittimo papa di Roma Cornelio. Il comune atteggiamento di Cornelio e Cipriano verso chi aveva ceduto di fronte alle violenze dei persecutori e la loro comune morte nel martirio, hanno fatto sì che la chiesa d'occidente li ricordi assieme in questo giorno.

Tracce di lettura

Fratelli, vi sono alcuni che invece di proporre la speranza, insinuano la disperazione e la mancanza di fede sotto il pretesto di offrire la fede. Ma il Signore dice a Pietro: «Io ti dico che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell'inferno non la vinceranno. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli».
Il Signore edifica la sua chiesa sopra uno solo; anche se dopo la sua resurrezione egli conferisce un'eguale potestà a tutti gli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi. Ricevete lo Spirito santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; saranno ritenuti a chi li riterrete». Tuttavia per evidenziare l'unità dispose che l'origine della medesima procedesse da uno solo. Come può credere allora di possedere la fede chi non mantiene l'unità della chiesa?
(Cipriano, L'unità della chiesa cattolica 3-4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Cipriano e Cornelio (+258), Catacombe di san Callisto

domenica 14 settembre 2025

I quattro scopi della vita nell'Induismo: i Purushartha

Introduzione

L'induismo, una delle tradizioni religiose e filosofiche più antiche del mondo, offre una visione complessa e articolata dell'esistenza umana attraverso il concetto dei Purushartha, letteralmente "gli scopi dell'uomo" o "ciò che è perseguito dall'essere umano". Questa dottrina rappresenta uno dei pilastri fondamentali del pensiero hindu, fornendo un quadro sistematico per comprendere e organizzare gli obiettivi legittimi dell'esistenza umana in un equilibrio armonioso tra dimensione materiale e spirituale.

I quattro Purushartha - Dharma (dovere etico), Artha (prosperità materiale), Kama (piacere e desiderio) e Moksha (liberazione spirituale) - non sono semplicemente categorie filosofiche astratte, ma rappresentano una guida pratica per vivere una vita completa e significativa. Questa concezione riflette la profonda saggezza dell'induismo nel riconoscere che l'essere umano è un'entità multidimensionale con bisogni e aspirazioni che spaziano dal fisico al metafisico.

Dharma: Il fondamento etico dell'esistenza

Il Dharma costituisce il primo e più fondamentale dei Purushartha, rappresentando il principio dell'ordine cosmico e sociale che governa l'universo e la condotta umana. Derivato dalla radice sanscrita dhr che significa "sostenere" o "mantenere", il Dharma è ciò che sostiene l'armonia del cosmo e della società.

Nel contesto individuale, il Dharma si manifesta come il dovere personale di ciascuno, determinato dalla propria posizione sociale (varna), fase della vita (ashrama), capacità naturali e circostanze specifiche. Questa concezione dinamica del dovere etico riconosce che non esiste un codice morale universale rigido, ma che i doveri etici si adattano alle specifiche condizioni di vita di ogni individuo.

La Bhagavad Gita illustra magistralmente questo principio attraverso il dilemma di Arjuna, che deve confrontarsi con il conflitto tra il suo dovere di guerriero (kshatriya dharma) e i suoi sentimenti personali. Krishna insegna che seguire il proprio dharma, anche quando è difficile, è preferibile al tentativo di assumere il dharma di un altro, per quanto possa sembrare più nobile.

Il Dharma si manifesta anche come dharma universale (sanatana dharma), che include principi etici fondamentali come la non violenza (ahimsa), la veridicità (satya), la purezza (saucha), l'autocontrollo (brahmacharya) e la compassione (karuna). Questi principi trascendono le divisioni sociali e rappresentano il fondamento etico comune a tutta l'umanità.

L'importanza del Dharma è sottolineata dal fatto che esso è considerato la base su cui poggiano gli altri tre Purushartha. Senza il fondamento etico del Dharma, la ricerca di Artha e Kama degenera in avidità e lussuria, mentre Moksha diventa irraggiungibile.

Artha: la prosperità materiale e il benessere sociale

Artha, il secondo Purushartha, rappresenta la legittima aspirazione alla sicurezza materiale, alla prosperità economica e al benessere sociale. Lungi dall'essere una mera accumulazione di ricchezza, Artha comprende tutto ciò che è necessario per mantenere la vita fisica e sociale: mezzi di sussistenza, sicurezza, status sociale, potere politico e risorse materiali.

L'inclusione di Artha tra i Purushartha riflette il realismo dell'induismo nel riconoscere che gli esseri umani hanno bisogni materiali legittimi e che la rinuncia ascetica non è l'unica via spirituale valida. La tradizione riconosce che per la maggior parte delle persone, una base materiale sicura è necessaria per perseguire efficacemente gli obiettivi spirituali superiori.

Il Kautilya Arthashastra, antico trattato di scienza politica ed economica, elabora dettagliatamente i principi per acquisire e mantenere Artha a livello sia individuale che statale. Questo testo sottolinea l'importanza dell'organizzazione sociale, del commercio equo, della giustizia amministrativa e della protezione dei cittadini come componenti essenziali di una società prospera.

Tuttavia, la ricerca di Artha deve sempre rimanere subordinata al Dharma. La prosperità acquisita attraverso mezzi non etici è considerata controproducente e destinata alla distruzione. La ricchezza deve essere guadagnata attraverso mezzi legittimi, utilizzata per scopi nobili e condivisa con coloro che ne hanno bisogno.

L'equilibrio tra Artha e Dharma è particolarmente evidente nel concetto di grihastha (capofamiglia), dove l'individuo ha il dovere di provvedere economicamente alla propria famiglia e di contribuire al benessere sociale, pur mantenendo sempre l'orientamento etico nelle proprie attività.

Kama: il piacere e la realizzazione del desiderio

Kama, il terzo Purushartha, rappresenta la legittimità del piacere, del desiderio e della realizzazione estetica nella vita umana. Questo concetto va ben oltre la mera gratificazione sessuale, includendo tutti i piaceri sensoriali, estetici, emotivi e intellettuali che arricchiscono l'esperienza umana.

Il Kamasutra di Vatsyayana, spesso frainteso in Occidente come un semplice manuale sessuale, è in realtà un trattato completo sulla raffinata arte di vivere, che include l'apprezzamento della bellezza, delle arti, della musica, della poesia e delle relazioni umane armoniose. Questa opera illustra come il piacere possa essere coltivato in modo etico e raffinato, contribuendo alla crescita personale e sociale.

L'inclusione di Kama tra i Purushartha riflette una visione olistica della natura umana che non vede il corpo e i sensi come ostacoli alla spiritualità, ma come aspetti integranti dell'esperienza umana che possono essere trasformati e sublimati. Questa prospettiva si distingue nettamente da tradizioni religiose che considerano il piacere intrinsecamente peccaminoso o spiritualmente dannoso.

Tuttavia, come per Artha, anche Kama deve essere perseguito nel rispetto del Dharma. Il piacere etico è quello che non causa danno a se stessi o agli altri, che rispetta i diritti e la dignità di tutte le persone coinvolte, e che contribuisce all'armonia sociale piuttosto che alla discordia.

La tradizione distingue tra sattvika kama (piacere puro e elevato), rajasika kama (piacere passionale ma non dannoso) e tamasika kama (piacere degradato e distruttivo). L'obiettivo è coltivare forme sempre più raffinate di piacere che nutrano l'anima oltre che i sensi.

Moksha: la liberazione spirituale suprema

Moksha rappresenta il culmine e l'obiettivo ultimo dei Purushartha, costituendo la liberazione definitiva dal ciclo delle rinascite (samsara) e la realizzazione della propria vera natura divina. Questo concetto centrale della spiritualità hindu rappresenta la trascendenza di tutte le limitazioni, la cessazione della sofferenza e l'unione con l'Assoluto.

Le Upanishad descrivono Moksha come la realizzazione dell'identità fondamentale tra l'anima individuale (Atman) e la Realtà Ultima (Brahman). Questa realizzazione non è semplicemente intellettuale, ma rappresenta una trasformazione completa dell'essere che elimina l'ignoranza (avidya) che è la radice di tutta la sofferenza.

La tradizione hindu riconosce diverse vie (yoga) per raggiungere Moksha: il karma yoga (via dell'azione disinteressata), il bhakti yoga (via della devozione), il jnana yoga (via della conoscenza) e il raja yoga (via della meditazione). Questa molteplicità di approcci riflette la comprensione che diversi temperamenti e inclinazioni richiedono metodi diversi per la realizzazione spirituale.

Moksha non è necessariamente uno stato da raggiungere solo dopo la morte, ma può essere realizzato in questa vita stessa (jivanmukti). Il jivanmukta, l'essere liberato vivente, continua a vivere nel mondo ma è completamente libero dall'identificazione con il corpo-mente e dalle reazioni karmiche delle proprie azioni.

La relazione di Moksha con gli altri tre Purushartha è complessa e dinamica. Per alcuni, Moksha rappresenta la trascendenza e l'abbandono degli altri obiettivi mondani. Per altri, la ricerca di Moksha trasforma e purifica la ricerca di Dharma, Artha e Kama, rendendoli strumenti di crescita spirituale piuttosto che fini in se stessi.

L'integrazione dinamica dei quattro Purushartha

La genialità del sistema dei Purushartha risiede non nella separazione rigida di questi quattro obiettivi, ma nella loro integrazione dinamica e mutualmente supportiva. Questa concezione olistica riconosce che l'essere umano evolve attraverso diverse fasi della vita e che le priorità possono cambiare mantenendo sempre un orientamento verso la crescita integrale.

Durante la fase dello studente (brahmacharya ashrama), l'enfasi è posta sul Dharma attraverso l'educazione e la formazione del carattere. Nella fase del capofamiglia (grihastha ashrama), tutti e quattro i Purushartha sono attivamente perseguiti in equilibrio dinamico. Durante la fase del ritiro graduale (vanaprastha ashrama), l'enfasi si sposta verso Moksha pur mantenendo i doveri sociali. Nella fase della rinuncia (sannyasa ashrama), Moksha diventa l'obiettivo predominante.

Questa progressione non è rigida o obbligatoria, ma rappresenta un modello naturale di sviluppo che rispetta tanto le esigenze pratiche della vita quanto le aspirazioni spirituali superiori. L'importante è mantenere sempre l'orientamento etico del Dharma come fondamento di tutte le altre ricerche.

Rilevanza contemporanea e sfide moderne

Nel mondo contemporaneo, il sistema dei Purushartha offre una prospettiva preziosa per affrontare le sfide della vita moderna. In un'epoca caratterizzata da materialismo estremo da un lato e fondamentalismo religioso dall'altro, questa concezione equilibrata fornisce una terza via che onora tanto le esigenze materiali quanto quelle spirituali.

La crisi ecologica contemporanea può essere vista come il risultato di una ricerca di Artha scollegata dal Dharma, dove la prosperità materiale è perseguita senza considerazione per l'etica ambientale e la sostenibilità. I Purushartha suggeriscono che vera prosperità deve essere ecologicamente sostenibile e socialmente equa.

Similarmente, molte delle tensioni sociali contemporanee derivano dalla mancanza di una visione integrata che rispetti tanto i bisogni materiali quanto quelli spirituali delle persone. Il sistema dei Purushartha offre un modello per politiche pubbliche che promuovano il benessere materiale senza trascurare i valori etici e le aspirazioni spirituali.

Conclusione

I quattro Purushartha rappresentano una delle più sofisticate concezioni dell'esistenza umana mai elaborate, offrendo un modello di vita che è tanto pratico quanto profondo, tanto realistico quanto idealistico. Questo sistema riconosce la complessità della natura umana e fornisce una guida per navigare le sfide dell'esistenza mantenendo sempre l'orientamento verso la crescita integrale.

La saggezza dei Purushartha risiede nel loro rifiuto di false dicotomie tra materiale e spirituale, tra dovere e piacere, tra individuo e società. Invece, essi propongono una visione olistica dove tutti gli aspetti legittimi dell'esistenza umana trovano il loro posto appropriato in un'armonia dinamica orientata verso la realizzazione ultima.

In un mondo sempre più frammentato, il messaggio dei Purushartha rimane straordinariamente rilevante: una vita veramente significativa richiede l'integrazione equilibrata di dovere etico, benessere materiale, piacere raffinato e aspirazione spirituale. Solo attraverso questa integrazione l'essere umano può realizzare pienamente il proprio potenziale e contribuire all'armonia cosmica che è l'obiettivo ultimo di tutta l'esistenza.

- Rev. Dr. Luca Vona