Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

mercoledì 31 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Beata colei che ha creduto

Lettura

Luca 1,39-56

39 In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42 ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43 A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44 Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. 45 E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».
46 Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49 Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
50 di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre».
56 Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Commento

Ricevuto l'annuncio dell'angelo Maria si mette in viaggio "in fretta" (v. 39) verso la casa delle cugina Elisabetta. La fretta di Maria indica la sua pronta disponibilità al disegno di Dio e il suo farsi annunciatrice di salvezza, lei che per prima ha ricevuto l'annuncio del vangelo. 

Maria, divenuta dimora di Dio, compie un viaggio verso la montagna che ricorda quello dell'arca dell'alleanza (2 Sam 6,1-15) e le parole che Davide pronunciò davanti a questa riecheggiano in quelle di Elisabetta: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (v. 43). Elisabetta riconosce Gesù come Signore prima ancora della sua nascita, sorpresa dal sussulto del bambino che porta nel grembo alla voce del saluto di Maria. 

Nel racconto della visitazione Maria appare come vera teòfora, portatrice di Dio, capace di raggiungere coloro che attendono la salvezza e di comunicare il Cristo. Elisabetta è invece il modello, tra i figli di Israele, di chi sa scorgere l'adempimento delle promesse messianiche. Così, dopo il saluto di Maria, Elisabetta viene colmata dallo Spirito santo e benedice la cugina e il frutto del suo grembo. 

La comprensione, da parte di Elisabetta, degli eventi divini che si stanno compiendo, è straordinaria e solo la grazia illuminante può permetterle di oltrepassare la cortina di mistero che li custodisce. La sua dichiarazione di umiltà dimostra che coloro che sono ricolmi dello Spirito Santo non hanno considerazione dei propri "meriti", ma una grande stima del favore ricevuto da Dio. 

Il viaggio di Maria ci insegna che quando la grazia opera nei nostri cuori desideriamo prontamente condividerla. La missionarietà del credente può assumere svariate forme, ma è sempre il segno di una fede autentica. Nell'attesa del Signore che viene siamo chiamati dallo Spirito a farci annunciatori del vangelo, solerti, anche quando il viaggio verso la montagna è faticoso.

L'inno di lode noto dalla sua prima parola della versione latina come Magnificat utilizza ampiamente il cantico che Anna innalzò a Dio per aver ricevuto in dono il figlio Samuele, nonostante la sua sterilità.(1 Sam 2,1-10) e per tre quinti riprende altri passi dell'Antico Testamento. Può essere stato un inno giudeo-cristiano ritenuto da Luca adatto alla situazione e in sintonia con altri motivi reperibili nel suo Vangelo: la gioia nel Signore, la scelta dei poveri, le sorti rovesciate della fortuna umana, il compimento delle promesse messianiche. 

Maria esulta in Dio, riconoscendosi non solo madre del Salvatore (questo il significato del nome "Gesù": "Dio salva"), ma essa stessa salvata da Dio, nostra sorella nella fede, mediante la quale è stata toccata dalla grazia. 

La misericordia è un tema caratteristico del Vangelo di Luca: Dio, per mezzo del Figlio si mette al servizio dell'uomo. L'amore di Dio salva il peccatore chiedendogli soltanto di lasciarsi amare. Gli umili (v. 52) sono i poveri di beni e posizione sociale, che ripongono la propria fiducia in Dio, coloro che nella letteratura biblica vengono definiti in ebraico anawim, e che Gesù proclama beati (Mt 5,3). 

Anche Paolo afferma che "quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti" (1 Cor 1,27). Elisabetta ha proclamato benedetta Maria in occasione della visitazione; ma qui Maria, consapevole del favore straordinario che le è stato concesso, cioè di concepire verginalmente il salvatore dell'umanità, proclama che tutte le generazioni, i giudei e le genti, la chiameranno "beata". 

Dio è glorificato nel cantico per le sue promesse come se queste si fossero già compiute. Egli spiega la potenza del suo braccio (v. 51) non per soggiogare l'umanità ma per raggiungerla con il suo amore. Questo è il senso del Magnificat: il Signore è fedele e copre con la sua misericordia le infedeltà del suo popolo e di tutti quelli che lo temono (v. 50). Per sempre.

Preghiera

O Dio, noi esultiamo per la tua salvezza; come ombra la tua misericordia copre i nostri peccati e la tua mano viene in nostro aiuto. Sia glorificato il tuo Figlio, che viene a compiere le promesse antiche. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 30 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Un cuore libero per ricevere il centuplo

Lettura

Marco 10,28-31

28 Pietro allora gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29 Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, 30 che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. 31 E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».

Commento

Nel pensiero giudaico il benessere terreno è considerato una benedizione di Dio, un premio per i giusti. Lo stesso Giobbe, che viene privato di tutto ciò che gli è più caro (i propri figli, i propri possedimenti, la propria salute) vede benedetti i suoi ultimi anni da Dio (Gb 42,12) e arrivando a centoquarant'anni, "morì vecchio e sazio di giorni" (Gb 42,17).

Ma cosa giova a coloro che hanno seguito il consiglio dato da Gesù al giovane ricco, di lasciare tutto per seguirlo? «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19:27) chiede Pietro a Gesù con la sua ruvida franchezza.

Gesù promette di donare il centuplo fin da questa vita e la vita eterna nel tempo della "rigenerazione". Le sue parole non sono un invito ad abbandonare amici e parenti nelle loro necessità, ma a porre le esigenze del Regno al primo posto, per guadagnare ogni uomo alla fede e vivere il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Egli ci esorta a vivere con libertà il nostro rapporto con i beni terreni per godere dei frutti dello Spirito.

Le persecuzioni accompagneranno le benedizioni del Signore per i suoi fedeli (v. 30). Ma i problemi e le difficoltà incontrati nel mondo a causa del vangelo possono diventare essi stessi fonte di benedizione, aiuto a maturare nella fede; saremo come rami potati nella giusta stagione, per portare frutti più abbondanti.

Preghiera

Tutto quello che abbiamo, Signore, appartiene a te; ma tu ci chiedi di non presentarci alla tua presenza a mani vuote. Donaci un cuore libero per ricevere in abbondanza le tue benedizioni. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 28 maggio 2023

Se uno mi ama... noi verremo a lui

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DI PENTECOSTE

Colletta

O Dio, che in questo tempo hai istruito i cuori dei tuoi fedeli, inviando loro la luce dello Spirito Santo; concedici, attraverso lo stesso Spirito di avere un retto giudizio in tutte le cose, e di rallegrarci sempre del suo conforto; per i meriti di Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

At 2,1-11; Gv 14,15-31

Nel racconto della Pentecoste riportato dagli Atti degli Apostoli vediamo che il luogo in cui viene donato lo Spirito Santo è l'assemblea dei credenti riunita in preghiera, primizia della Chiesa. Gesù lo aveva promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20). 

La preghiera che ci apre al dono dello Spirito è dunque preghiera comunitaria; e la preghiera più importante compiuta nel nome di Gesù è l'azione liturgica. 

Gesù ci esorta a chiedere con coraggio il dono più grande: Dio stesso, la sua potenza - ("come vento impetuoso" (At 2,2) -, la sua sapienza - "vi insegnerà ogni cosa" (Gv 14,26) -, la sua eloquenza - "li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue!" (At 2,11).

Il Padre avrebbe potuto effondere il suo Spirito su un solo credente, su un solo profeta, ma decide di dividerlo in diverse lingue di fuoco, conferendo a ciascun discepolo un carisma differente.
Nessuno, tra i credenti, può insuperbirsi, pensando di essere l'unico indispensabile: chi opera, infatti, è Dio, e ogni carisma conferito dallo Spirito, non è che un "ministero", un ufficio per il bene dell'intero corpo ecclesiale.

L'eloquenza conferita dallo Spirito non è la tendenza a parlarci addosso, ad essere sordi verso le culture che si esprimono in una lingua differente dalla nostra. Riconosciamo che è lo Spirito che opera nella Chiesa quando anche "quelli di fuori" comprendono la nostra predicazione su Cristo: "E tutti stupivano e si meravigliavano, e si dicevano l'un l'altro: 'Come mai li udiamo parlare nella nostra lingua natìa?'" (At 2,7-8). La Chiesa è realtà sacramentale aperta al mondo.

Se è vero che il dono dello Spirito Santo è fatto per il bene dell'intero corpo di Cristo è anche vero che si tratta di una epifania che investe la persona del credente, una esperienza intima e diretta del Dio trinitario; è Dio stesso che viene a inabitare la nostra anima: "Conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me, e io in voi" (Gv 14,20); "Se uno mi ama... noi verremo a lui" (Gv 14,23).

L'incontro con Cristo, nelle Scritture e nei sacramenti, ci trasforma, per grazia, a sua immagine, cosicché quando il Padre si china su di noi, non vede più noi ma il suo Figlio, e ci dona lo Spirito senza misura: "furono tutti ripieni dello Spirito Santo" (At 2,4).

Per ricevere tale dono Gesù ci esorta a osservare i suoi comandamenti: "Se mi amate, osservate i miei comandamenti" (Gv 14,15); "Chi ha i miei comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manfesterò a lui" (Gv 14,21).
Non deve mai venir meno, dunque, al di là delle nostre miserie, il desiderio della santificazione, intesa come obbedienza al vangelo, per opera della grazia di Dio.

"Perciò vi dico: chiedete" (Lc 11,9), esorta Gesù. Non lasciamoci vincere dal torpore, dalla rassegnazione, dalla mediocrità. Osiamo chiedere il dono più grande: una nuova Pentecoste per noi, per la Chiesa e per l'intera umanità.

- Rev. Dr. Luca Vona

sabato 27 maggio 2023

Agostino di Canterbury e l'evangelizzazione degli Angli

La Chiesa Anglicana, i veterocattolici e i luterani celebrano oggi la memoria Sant'Agostino di Canterbury, primo arcivescovo d'Inghilterra (morto a Canterbury tra il 604 e il 609). 
Nel 604, dopo aver portato a termine la sua missione in Inghilterra ed essersi assicurato un successore alla sede primaziale, muore Agostino, monaco e primo arcivescovo di Canterbury.
Fino al momento del suo invio da parte di Gregorio Magno, avvenuto nell'anno 596, di lui sappiamo soltanto che era priore del monastero romano di Sant'Andrea al Celio. La missione romana capeggiata da Agostino per evangelizzare il territorio inglese divenne possibile quando il re del Kent Etelberto sposò una principessa franca cristiana. Il papa di Roma Gregorio organizzò allora un primo gruppo di quaranta monaci per condurre l'Inghilterra alla fede in Cristo.
Agostino, non senza qualche esitazione lungo il cammino - per cui venne rimproverato da Gregorio -, alla fine obbedì, e gli fu concesso di stabilirsi nella città reale di Canterbury. In essa Agostino e compagni annunciarono il vangelo anzitutto con la testimonianza di una vita fraterna ispirata all'esempio delle comunità apostoliche.
Consacrato arcivescovo di Canterbury e primate della chiesa inglese, Agostino si adoperò, con l'aiuto di Gregorio, per dare basi solide alla comunità ecclesiale, edificando nuove chiese o restaurando le antiche chiese britanniche che erano state abbandonate dopo la prima evangelizzazione di quelle terre.
Alla dolcezza e al rispetto che Agostino mostrò verso i pagani, nella convinzione che l'adesione autentica al vangelo potesse avvenire soltanto nella piena libertà, Agostino non seppe unire un'analoga pazienza verso i problematici gruppi di cristiani già presenti nei territori occidentali dell'Inghilterra. Di conseguenza, pur avendo istituito le diocesi di York, di Londra e di Rochester, egli non riuscì a ottenere la piena unità dei cristiani britannici.
Agostino morì a Canterbury nel 604.

Statua di AGOSTINO, Cattedrale di Canterbury
Statua di Agostino, Cattedrale di Canterbury
Tracce di lettura

Appena Agostino e i suoi compagni ebbero messo piede nella sede loro concessa, cominciarono a imitare la vita apostolica della chiesa primitiva: si consacravano a preghiere continue, veglie, digiuni, predicavano le parole di vita a quelli che potevano, disprezzavano tutte le cose di questo mondo come estranee; da quelli ai quali insegnavano prendevano solo quel poco che reputavano necessario al loro sostentamento; essi stessi vivevano seguendo in tutto quei precetti che insegnavano agli altri, con l'animo sempre pronto a sopportare qualsiasi avversità, e anche a morire per la verità che annunciavano.
(Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli 1,26)

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

venerdì 26 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Dal voler bene al dono di sé

Lettura

Giovanni 21,15-19

15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». 19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

Commento

Nell'epilogo del Vangelo di Giovanni assistiamo alla riabilitazione della figura di Pietro. Gesù gli chiede una triplice professione di amore, a riparazione del suo triplice rinnegamento. La sezione presenta l'utilizzo di due sinonimi del verbo "amare": filéo agapáo; la prima indica il voler bene di Pietro a Gesù; la seconda esprime il dono totale di sé.

Il nome che Gesù utilizza per riferirsi a Pietro non è Cefa ("roccia") ma «Simone, figlio di Giona»; l'attenzione è posta non sul carisma che gli era stato affidato, ma sulla sua fallibile umanità. Gesù interpella la nostra debolezza perché l'umiltà è il primo passo per trovare la riconciliazione.

Gesù non chiede a Pietro quanto ha pianto il suo rinnegamento, quanto ha fatto penitenza, ma quanto egli lo ama. Solo l'amore rende accettabile ogni espressione di pentimento. A chi ha molto amato sarà molto perdonato (Lc 7,47).

Gesù accompagna la triplice domanda a Pietro con l'esortazione a occuparsi dei suoi agnelli e delle sue pecore. 

Il ruolo di nutrire il gregge era affidato usualmente a un sottoposto del pastore, in questo caso viene a indicare la devozione nel servizio al Signore. Il primo dovere di coloro che Gesù pone a guida della sua Chiesa è di insegnare la parola di Dio. L'amore verso Cristo si dimostra prendendosi cura del popolo che egli si è acquistato per mezzo del suo sangue.

Due volte Gesù chiede a Pietro se lo ama (con il verbo agapáo), se è capace del dono totale di sé. Ma egli, memore della sua caduta, non se la sente di promettere qualcosa che va oltre le proprie capacità e professa semplicemente la sua filìa, il suo umano voler bene a Gesù. La terza volta Gesù si pone al suo livello e gli chiede proprio se gli vuole bene (con il verbo filéo ); è allora che lo accoglie per quello che egli è, con i suoi limiti, le sue fragilità confessate apertamente. Proprio su di queste si innesterà la grazia soprannaturale rendendo capace Pietro di compiere il suo ministero, fino alla testimonianza estrema con il dono della vita.

Gesù rinnova a Pietro l'esortazione che fu rivolta agli apostoli al principio della loro chiamata: «Seguimi!» (v. 19). Pietro non è respinto per essere venuto meno alla sua fedeltà durante la passione, ma è riconfermato nella fede e nell'amore, affinché anch'egli possa confermare a sua volta i suoi fratelli. Solo l'umile consapevolezza di essere peccatori riconciliati può renderci buoni ministri del vangelo.

Preghiera

Vieni in soccorso, Signore, alla fragilità del nostro amore, per renderci capaci di donare generosamente le nostre vite nella testimonianza del vangelo. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 25 maggio 2023

Fermati 1 minuto. "Voglio che siano con me"

Lettura

Giovanni 17,20-26

20 Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; 21 perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
22 E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. 23 Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
24 Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.
25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. 26 E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Commento

Gesù non prega solo per i Dodici, o per i settantadue discepoli, per gli uomini e le donne che lo hanno seguito durante la sua vita terrena, ma la sua intercessione abbraccia i credenti di ogni tempo (v. 20), tutti coloro che crederanno per la parola trasmessa dai suoi discepoli. Le Scritture del Nuovo Testamento e il ministero della predicazione sono stati stabiliti nella Chiesa per generare gli uomini alla fede.

L'unità per la quale prega Gesù è la comunione dei santi, di coloro che sono santificati dallo Spirito, in cielo e sulla terra, in ogni tempo e in ogni latitudine.

La pienezza dell'unità richiesta da Gesù al Padre per la sua Chiesa è segno visibile della verità della testimonianza: «perché il mondo creda» (v. 21). Se i credenti sono divisi la loro testimonianza non è credibile. 

La testimonianza data al mondo è fondata anche sul privilegio dei credenti di essere amati dal Padre come egli ha amato Gesù («il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me»; v. 23). Apparirà al mondo che Dio ci ha amati se ci ameremo gli uni gli altri, perché quando l'amore di Dio è effuso nei cuori li trasforma a propria immagine. La nostra capacità di amare è proporzionale alla consapevolezza dell'amore di Dio per noi.

La "preghiera sacerdotale" di Gesù insiste sull'unione del Padre e del Figlio come modello per l'unione tra i discepoli («perché siano come noi una cosa sola»; v. 22). Le divisioni tra i cristiani frantumano il riflesso dell'immagine di Dio nel mondo. Dio è comunione e la comunione tra i credenti è la via che conduce a lui.

Se inizialmente Gesù prega (erotao) per i discepoli e per chi crederà in lui (v. 20), di seguito utilizza il verbo «voglio» (thelo), esprimendo sovranamente la sua volontà, che è anche quella del Padre: «voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (v. 24).

La preghiera che Gesù innalza per ogni credente è la nostra forza nell'adempimento del mandato apostolico, fonte di fermezza e coraggio in mezzo alle difficoltà e ai pericoli che il mondo pone innanzi ai testimoni del vangelo.

Preghiera

Il tuo Spirito, Signore, infonda in noi il desiderio della comunione fraterna e il coraggio di renderti testimonianza, affinché il mondo possa conoscere il tuo nome. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

mercoledì 24 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Consacrati nella verità

Lettura

Giovanni 17,11-19

11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
12 Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. 13 Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14 Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
15 Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18 Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; 19 per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità.

Commento

La morte di Gesù esporrà i discepoli alla tentazione e all'odio del mondo, ma essi saranno custoditi da Dio e potranno sperimentare la stessa unità che rappresenta la vita trinitaria (v. 11).

Gesù chiede al Padre per i suoi discepoli la pienezza della gioia (v. 13). Il credente gioisce in Cristo di una gioia duratura, che non appassice come la gioia che dà il mondo.

Vi è una chiara somiglianza tra la richiesta di Gesù al Padre, in questa preghiera, di custodire i discepoli dal maligno (v. 15) e l'ultima petizione del Padre nostro.

L'idea della consacrazione (v. 17) rappresenta il mettere a parte qualcosa per un uso specifico. I credenti sono messi a parte da Dio per diventare annunciatori del vangelo. La santificazione non comporta l'isolamento dei discepoli dal mondo ma la loro missione verso il mondo. Gesù santifica se stesso (v. 19) compiendo totalmente la volontà del Padre.

I ministri dell'antico patto, i sacerdoti leviti, erano santificati con il sangue di tori e di capri, ma i ministri del vangelo sono consacrati dal sacrificio di Cristo (Ap 5,9-10).

Sapere che Gesù intercede per noi, che siamo presenti nella sua preghiera, ci fa vivere con la consapevolezza di essere custoditi dal suo amore. Custodire è diverso da possedere. Dio non soffoca la nostra libertà, ma ci accompagna, tra le difficoltà del mondo, in una relazione di amore, ponendo il nostro agire nella quotidianità sotto la sua benedizione.

Preghiera

Signore Gesù, incorporati per fede nel tuo sacrificio di salvezza, ci hai resi sacerdoti per il nostro Dio; la nostra vita sia trasformata in un dono prezioso mediante la tua benedizione. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

martedì 23 maggio 2023

Vincent Van Gogh. "Ora vorrei tornare. Perché creare ci difende dal male."

Alessandro D’Avenia
Corriere della Sera
22 maggio 2023

Era l’inizio del 1890 quando Vincent Van Gogh, ricoverato nel manicomio di Saint-Rémy, in Provenza, ricevette una lettera dal fratello Theo che gli annunciava la nascita del figlio a cui avevano dato il nome dello zio: Vincent. Il pittore, felice, dipinse allora un quadro per il neonato: Rami di mandorlo in fiore. Con questa tela sulla nascita di “un altro Vincent” si chiude attualmente il percorso del Van Gogh Museum ad Amsterdam, che ho visitato qualche settimana fa.

La bellezza del quadro dipinto in manicomio nasce proprio per dominare la malattia che lo porterà, nel luglio di quello stesso anno, a spararsi all’addome in circostanze non del tutto chiare, morendo due giorni dopo tra le braccia dell’amato fratello. Aveva una forma di psicosi d’origine incerta (schizofrenia, epilessia, sifilide?), con crisi di durata variabile (da due settimane a un mese) accompagnate da allucinazioni e deliri, e seguite da profonda prostrazione.

Il mandorlo, albero i cui fiori per primi annunciano la primavera, dipinto su uno sfondo azzurro quasi laccato, in quelle condizioni di dolore ribadiva quanto il pittore scrisse al fratello: «L’infinito e il miracoloso ci sono necessari ed è giusto che l’uomo non si accontenti di qualcosa di meno e che non sia felice finché non li ha conquistati. Questo è il credo espresso nell’opera di tutti gli uomini buoni, di tutti coloro che hanno scavato più a fondo, cercato di più e amato più degli altri, scandagliato il fondo del mare della vita». Questo credo, «messo in opera», è ciò a cui siamo chiamati tutti per rispondere ai mali della vita. Come?

Chi visita il museo dedicato a Van Gogh all’inizio lo incontra nei molteplici autoritratti: un uomo diverso (cambia persino il colore degli occhi) in ogni tela, ma che, come scrive al fratello, ha la sua costante nello scavare, per scoprire se al di sotto del dolore c’è una nascita, come il mandorlo dopo il rigore invernale.

L’atto creativo è per lui, immerso nella natura sino a sfinirsi, incontro appassionato con la realtà, per trovare l’infinito perché, come dice lui stesso, l’uomo non può essere felice se vi rinuncia: chi cerca e ama di più «mette al mondo» qualcosa che prima non c’era, non rassegnandosi al decadere di tutte le cose. Il verbo più umano non è morire, ma (far) nascere. Tutti siamo chiamati a trasformare la ferita della finitezza in creazione e amore, Van Gogh lo scriveva così al professore di latino: «Voglio riconciliare gli uomini con il loro destino terreno».

Lo ispirava l’amore, non la malattia. Il ramo fiorito su sfondo azzurro, ispirato da una nascita, assomiglia alle parole che ho sentito da diverse amiche divenute madri: «Ora lui/lei c’è». Sembra lapalissiano ma «mettere al mondo» è l’arte della gioia, artisti e madri lo rendono più evidente, ma vale per ogni pro-creazione: dal preparare una cena a scrivere una pagina, dall’arredare una stanza al decidere come vestirsi...

Tutto ciò che cerca bellezza salva il mondo, perché creare è la vocazione umana alla gioia: creando noi attingiamo a un livello di realtà da cui abitualmente ci escludiamo per la paura di esser finiti, creare ci fa invece scoprire che siamo in-finiti. Si dirà forse che è l’illusione creata dall’istinto di conservazione da un essere vivente consapevole della morte, ma chi ha esperienza di questo creare sa che il mandorlo in fiore di Van Gogh dice la verità: il fine della vita è la bellezza. Mettere al mondo un bambino o un quadro non ci evita che la vita finisca, ma che la vita non abbia senso, e il senso della vita è creare nella e per la bellezza. Noi non siamo guidati solo dall’istinto di sopravvivenza, conservarci, ma da quello d’infinito, donarci. Creare è il modo in cui assecondiamo l’istinto d’infinito, perché creare è prendere posizione di fronte alla vita finita con l’intento di aumentarla per gioirne e farne gioire gli altri.

Creare è immettere energie nuove in una materia che decade, attingere a energie capaci di fare l’essere, «ora lui/lei c’è», è questo il miracolo a cui tutti siamo chiamati: fare un mondo nuovo, far venire al mondo il mondo. Per questo lotto per una scuola che aiuti gli studenti a scoprire la propria originalità creativa, perché l’impegno creativo dà il coraggio di venire sempre più al mondo. Più creiamo, più cresciamo, più gioiamo, come il mandorlo in fiore. Questo vince radicalmente il male, come scriveva il pittore: «Essere vicino alla realtà è un modo per combattere il male che continua sempre a tenermi inquieto».

Me lo conferma la natura, che non sappiamo più ascoltare come faceva Van Gogh: ho infatti scoperto il fenomeno del «microchimerismo fetale-materno». Durante la gravidanza il bambino dona delle cellule alla madre, che le garantiscono per anni un sistema immunitario più forte e un legame fortissimo anche se il figlio è ormai fuori di lei. Il «messo al mondo» contemporaneamente «mette al mondo».

Questo accade tutte le volte che (pro)creiamo, l’opera che mettiamo al mondo ci dona «cellule»: migliora la nostra salute (salvezza) e ci lega alla vita. La cultura dominante ci invita invece a rispondere alla fame di vivere con il consumo delle cose e degli altri: sacrificare invece di creare. Consumare cibo, oggetti, video non dà gioia ma eccitazione, è passività, mentre la gioia è uno stato attivo dell’essere: ogni giorno dovremmo chiederci come «creare» nel modo a noi proprio, perché nella vita c’è gioia nella misura in cui creiamo. Più creazione significa più gioia.

Van Gogh non dipinse «perché» era malato, dipinse perché amava la vita più di quanto ne soffrisse, non fece della malattia o dell’insuccesso un alibi per smettere di creare: «Io so che la guarigione viene dal di dentro... mi piace dipingere, mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita». Prima di spirare disse al fratello: «La tristezza durerà comunque tutta la vita. Ora desidererei ritornare». Non si illudeva: La vita è ferita dal male, ma creare è curarla, e per lui creare era tornare. Dove? In quel regno a cui «credeva» e che «metteva al mondo»: il regno in cui tutto diventa bellezza, perché tutto è ricerca e amore. A noi che siamo qui a lottare l’artista ricorda di cercare di più, amare di più, creare di più. La malattia ebbe la meglio sulla sua psiche ma non su di lui, sapeva bene qual era il senso della sua vita, come scrisse proprio nell’ultima lettera a Theo, il giorno prima dello sparo: «Noi possiamo far parlare solo i nostri quadri». E loro ci parlano e ci invitano a «tornare» alla vita, ri-creandola, come fa il mandorlo con i suoi rami fioriti su uno sfondo di cielo.

Fermati 1 minuto. Riflesso della comunione divina

Lettura

Giovanni 17,1-11

1 Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. 2 Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3 Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4 Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. 5 E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse.
6 Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. 10 Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.

Commento

Culmine degli ultimi discorsi, questo capitolo è stato definito la "preghiera sacerdotale" di  Gesù, che prega per se stesso (vv. 1-5), per i discepoli (vv. 6-19), per la Chiesa (vv. 20-26). Esistono alcune analogie tra questa preghiera e il Padre nostro: la supplica rivolta a Dio come "Padre"; l'adempimento della volontà di Dio (v. 4); la richiesta di essere liberati dal male (v. 15).

I Vangeli riportano poco delle frequenti preghiere di Gesù con il Padre; vero e proprio "faccia a faccia" con lui, questa preghiera segna come il compimento del suo ministero terreno e l'inizio del ministero di intercessione in cielo.

L'ora che "è giunta" (v. 1) è quella della morte di Gesù, mediante la quale egli sarà glorificato, come segno supremo di amore. Il Padre, sarà a sua volta glorificato dal compimento del piano di redenzione del Figlio.

La vita eterna è definita come conoscenza personale di Dio e di Gesù come Messia (v. 3). Non si tratta di una conoscenza meramente intellettuale, ma di una esperienza trasformante che si reaizza nel dono dello Spirito Santo.

La morte e il ritorno di Gesù al Padre sono così certi che egli ne parla come se fossero già compiuti: "Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare" (v. 4). Se noi veniamo meno nel mantenere le buone risoluzioni nei confronti di Dio, la fedeltà di Gesù è incrollabile: "Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse" (Eb 10,23).

I discepoli e i credenti sono un dono del padre al Figlio (v. 2), il quale li pone spiritualmente al di fuori del mondo. Questi rispondono conservando la propria fede ("essi hanno osservato la tua parola", v. 6; "le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte... e hanno creduto che tu mi hai mandato"; v. 8). Sono così espressi il lato divino e quello umano della salvezza, la promessa di Dio e la fede dell'uomo.

Gesù professa la comunione della natura divina tra lui e il Padre con le parole "Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie" (v. 10); per mezzo di lui possiamo accedere ai tesori della grazia.

Con la morte di Gesù la fede degli apostoli sarà messa duramente alla prova; per questo egli chiede al Padre di custodirli nel suo nome (v. 11), ovvero di mantenere tra di loro la verità che il Figlio ha rivelato riguardo al Padre. La comunione tra gli apostoli è un riflesso di quella tra il Padre e il Figlio ("perchè essi siano una cosa sola, come noi").

Nel vincolo della comunione fraterna siamo chiamati a diventare motivo di gloria per Dio. La fede si esprime nel com-patire con Cristo l'urgenza per la salvezza dell'umanità; e al contempo mette in azione tutte le nostre facoltà per rendere Dio e il suo regno presenti nella storia. Figli nel Figlio, fatti uno dalla carità, diventiamo un solo corpo vivificato dallo Spirito Santo, per rivelare il volto del Padre al mondo intero.

Preghiera

Signore Gesù Cristo, che intercedi senza sosta per la nostra salvezza, vivifica la tua Chiesa con il dono dello Spirito, affinché possa essere sacramento di unità tra gli uomini, rendendo presente la tua grazia con la predicazione della Parola e l'amministrazione dei tuoi sacramenti. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 21 maggio 2023

Eccellere nella carità

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DOPO L'ASCENSIONE

Colletta

O Dio, re della gloria, che hai esaltato il tuo unico figlio Gesù Cristo con grande trionfo nel regno dei cieli; ti supplichiamo di non lasciarci senza conforto, ma di mandare il tuo Santo Spirito a consolarci e ad esaltarci nello stesso posto in cui ci ha preceduti il nostro Salvatore Gesù Cristo, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Letture

1 Pt 4,7-11; Gv 15,26-27;16,1-4

Commento

Nell'attesa del suo ritorno, come Signore del tempo che porta a compimento tutte le cose Gesù non ci lascia soli ma ci promette il Consolatore. 

I credenti ne hanno bisogno, perché lo Spirito di verità, sarà con loro mentre imperverseranno la violenza e la menzogna: "chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio" (Gv 16,2). 

Questa è "la loro ora", in cui le forze ostili al vangelo, che hanno messo a morte colui che ha vinto la morte, crederanno di poter ancora cambiare la storia, che invece è ormai stata orientata verso la liberazione finale nel Cristo veniente. 

Tutto l'odio che si era riversato contro Gesù durante la sua vita ora si scatena contro i credenti, ma il Consolatore proclamerà la giustizia di Cristo e assicurerà la condanna della potenza demoniaca che ora domina il mondo.

In questa travagliata attesa i cristiani sono chiamati a distinguersi - come esorta Pietro nella sua prima lettera - per moderazione e sobrietà. La loro vita è proiettata verso Dio e verso le necessità del prossimo, nella dedizione alla preghiera (1 Pt 4,7) e all'ospitalità (1 Pt 4,9), all'accoglienza, al servizio degli altri, secondo la grazia ricevuta dallo Spirito. 

Due sono i grandi ministeri che distinguono gli apostoli: "chi parla... con parole di Dio", dedicandosi alla predicazione e "chi esercita un ufficio", ovvero chi esercita la diakonìa, che si esplica nel servizio ai poveri.

Gesù ci chiama a rendergli testimonianza (Gv 15,26-27) in una laboriosa attesa; possiamo farlo nei tempi, nei luoghi, nei modi che appartengono al nostro specifico stato di vita nel mondo, che è poi il carisma che ci è stato assegnato. Tutti siamo chiamati, in modo diverso, a eccellere nella carità (1 Pt 4,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 19 maggio 2023

Dunstan di Canterbury e la bellezza di Dio

La Chiesa anglicana celebra oggi la memoria di Dunstan di Canterbury, monaco e arcivescovo primate della chiesa d'Inghilterra. Dunstan era nato nei pressi di Glastonbury, forse nel 910. Dalle sue biografie non traspare in modo del tutto chiaro se la sua famiglia fosse nobile, o se invece egli sia entrato dopo la sua nascita a far parte dell'importante casata del vescovo di Winchester. Ad ogni modo, fu quest'ultimo ad avviarlo alla vita monastica, spingendolo a entrare nell'abbazia benedettina di Glastonbury. Uomo di grande cultura e amante della bellezza, Dunstan si dedicò da monaco a diverse attività artistiche come la decorazione di manoscritti, la composizione di musica sacra e la lavorazione dei metalli preziosi. Nel 943 il nuovo re del Wessex lo nominò abate di Glastonbury e si avvalse della sua grande cultura per avviare la rinascita del monachesimo in tutto il paese. Da abate Dunstan promosse lo studio e l'amore per l'arte in diversi monasteri, organizzando una riforma che sarà portata a compimento quando egli verrà eletto arcivescovo di Canterbury sotto il re Edgardo. Anche se a partire dal 970 Dunstan perderà l'appoggio del re, non verrà comunque meno il suo impegno di predicatore, di maestro e di animatore del monachesimo, ed egli è ricordato dagli agiografi per il discernimento e l'energia con cui guidò sino alla fine la diocesi di cui era stato fatto pastore.


05 19 dustan
Dunstan di Canterbury (ca 910-988)

Tracce di lettura

Dunstan studiò con diligenza i libri degli antichi pellegrini irlandesi giunti a Glastonbury, meditando sulle vie della vera fede, e sempre esaminò con attenzione i libri di altri sapienti che egli, grazie alla visione profonda del suo cuore, aveva percepito essere confermati dagli insegnamenti dei santi padri.
Egli vigilava sulla propria condotta ricorrendo ogni volta che poteva all'esame delle sante Scritture, ed era come se Dio in esse gli parlasse. E veramente, ogni volta che poteva essere sollevato dalle sollecitudini terrene per deliziarsi nella preghiera, sembrava che fosse lui a parlare a Dio.
(Vita di Dunstan 11)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Fermati 1 minuto. L'ora che genera la vita

Lettura

Giovanni 16,20-23

20 In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.
21 La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. 22 Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e 23 nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla.
In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà.

Commento

La sofferenza dei santi è gioia per i peccatori, ma l'esperienza dolorosa dei discepoli non è uno stato definitivo, perché Cristo risorto si renderà presente e allora sboccerà la gioia. Per descrivere questo ribaltamento del dolore in felicità, Gesù ricorre all'immagine della madre che partorisce, applicata nell'Antico Testamento all'èra messianica (Is 66,7-9). Alla prova che ora attanaglia i discepoli - "la sua ora" (v. 21) della partoriente fa da parallelo all'ora della passione (Gv 2,4; 13,1) - subentrerà una gioia incorruttibile, legata alla nuova presenza di Gesù dopo la sua glorificazione.

Anziché la parola greca odin, che indica specificamente le doglie del parto, l'evangelista riporta il termine lype, che si riferisce non solo al dolore fisico, ma a quella particolare trepidazione che dà sofferenza intima. La gioia della donna non è motivata solo dall'aver dato alla luce un bambino (gr. paidion), ma un essere umano (gr. anthropos): come Eva gioì esclamando "'Ho acquistato un uomo dal Signore'" (Gn 4,1) i credenti gioiranno per aver acquistato Cristo risorto, culmine della nuova creazione. La loro gioia non potrà essere tolta perché supportata dalle evidenze della risurrezione e suscitata dallo Spirito.

Dopo la risurrezione Gesù apparirà in diverse occasioni ai suoi discepoli (Gv 20,19-29; 21,1-23; 1 Cor 15,1-8). Per quaranta giorni si mostrerà ad essi vivo (At 1,3) e successivamente alla sua ascesa al cielo, resterà presente nella Chiesa con il suo Spirito, fino al suo ritorno, come aveva promesso: "'Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre... Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi'" (Gv 14,16.18). I discepoli potranno indirizzare le loro richieste direttamente al Padre, per mezzo dello Spirito, nel nome di Gesù (v. 23).

Gli Atti riportano che nella chiesa primitiva "i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo" (At 13,52) e "Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore" (At 2,46).

Se le gioie che ci dà il mondo possono esserci tolte da numerose avversità, niente e nessuno potrà separarci dalla gioia che viene dall'amore di Cristo (Rm 8,35-39), tesoro ben custodito in cielo (Mt 6,19-20).

Preghiera

Signore Dio, fonte della gioia, sostienici nelle sofferenze del momento presente, affinché possa manifestarsi in noi la tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 18 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Ancora un poco

Lettura

Giovanni 16,16-20

16 Ancora un poco e non mi vedrete; un po' ancora e mi vedrete». 17 Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: «Che cos'è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po' ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?». 18 Dicevano perciò: «Che cos'è mai questo "un poco" di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire». 19 Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un po' ancora e mi vedrete? 20 In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.

Commento

Gesù si riferisce alla sua ascensione ("non mi vedrete") e alla discesa dello Spirito Santo ("mi vedrete"), perché lo Spirito renderà presente il Risorto nel cuore dei discepoli.

Lo stesso evento che porterà il mondo a rallegrarsi e i discepoli, privati della presenza fisica di Gesù, a rattristarsi, si muterà in gioia perché comporterà il dono dello Spirito, la cui assistenza continua sarà assicurata alla comunità dei credenti.

Quell'inquietudine di restare "aggrappati" a Cristo, la diligente ricerca del senso delle sue parole (v. 18) e l'umile desiderio di interrogarlo (v. 19), che furono dei discepoli, in virtù dello Spirito diventano in noi, come fu per loro a partire dalla Pentecoste, partecipazione anticipata al suo mistero, primizia delle cose future.

La grazia ci dona la capacità di tramutare la tristezza in gioia, di colmare il vuoto di senso, di bellezza, di bontà di un mondo immerso nelle tenebre dell'ignoranza e della malvagità, che si rallegra illudendosi di aver "tagliato fuori" il suo Salvatore. Ma il tralcio reciso diventa occasione per un innesto della nostra vita in Cristo, da cui possiamo attingere la linfa della vita eterna. "Ancora un poco" e saremo una cosa sola con lui.

Preghiera

Assicura la tua presenza, Signore, nel cuore dei credenti; affinché confortati e illuminati dal tuo Spirito possano portare gioia dove c'è tristezza, pace dove c'è inquietudine; a lode della tua gloria. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 14 maggio 2023

Siate facitori della parola

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUINTA DOMENICA DOPO PASQUA

comunemente chiamata Rogation sunday (Domenica delle petizioni)

Colletta

O Signore, dal quale proviene ogni cosa buona; concedi a noi, tuoi umili servi, di desiderare, mediante la tua santa ispirazione, ciò che è buono, e di perseguirlo mediante la tua guida misericordiosa. Per il nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

Letture

Gc 1,22-27; Gv 16, 23-33

Commento

Nella Parola incarnata, che è Gesù Cristo, noi possiamo trovare la nostra vera natura, a immagine e somiglianza di Dio; ma l’apostolo Giacomo ci esorta a non limitarci a un compiacimento momentaneo: il nostro sguardo interiore deve restare fisso in essa, affinché lo Spirito ci trasformi, restaurando in noi la bellezza divina.

Il Signore non cerca semplicemente uditori della sua parola, ma persone che la mettano in pratica, "facitori della parola" (Gc 1,22): per il cristiano, l'essere, il fare, devono predominare sull'apparire.

In passato, in questo giorno di festa chiamato Rogation Sunday "Domenica delle petizioni", venivano presentate a Dio preghiere particolari per il raccolto della terra e per coloro che la lavoravano. Oggi continuiamo a riconoscere che attraverso la benedizione di Dio il nostro lavoro può portare frutti di carità in abbondanza.

La festività è occasione per domandare a Dio di insegnarci a svolgere il nostro lavoro con impegno e dedizione, quale contributo al bene della comunità umana; ma anche a coltivare con perseveranza i territori ancora aridi del nostro cuore, affinché possano produrre frutti di conversione.

Gesù esorta i suoi discepoli a chiedere, a chiedere nel suo nome, direttamente al Padre. E tutto ciò che chiederanno nel suo nome, il Padre lo concederà; la garanzia è data dal fatto che il Padre li ama perché loro hanno amato Gesù e hanno creduto che egli è venuto da Dio.

Chiedere nel nome di Gesù significa che le nostre richieste devono muoversi nel perimetro tracciato dal vangelo, dall'esempio stesso che Gesù ci ha dato con la sua vita. Nessun discepolo è più grande del maestro, così a volte non otteniamo ciò che chiediamo perché chiediamo la cosa sbagliata, qualcosa che ci allontana dalla vera sequela di Cristo.

Chiediamo dunque a Dio di insegnarci a "esaminare attentamente la legge perfetta" (Gc 1,25), che non è semplicemente un elenco di precetti, ma il Figlio di Dio che si è fatto uomo. E così, ascoltando attentamente, contemplando assiduamente, lo Spirito ci trasformi in lui, "di gloria in gloria". (2 Cor 3,18).

- Rev. Dr. Luca Vona

domenica 7 maggio 2023

Ricevete con mansuetudine la parola che è stata piantata in voi

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA QUARTA DOMENICA DOPO PASQUA

Colletta

Dio Onnipotente, che solo puoi governare la volontà e le affezioni disordinate degli uomini peccatori; concedi al tuo popolo, di amare ciò che comandi e desiderare quanto hai promesso; affinché attraverso i molteplici rivolgimenti del mondo, i nostri cuori possano restare fissi laddove la vera gioia può essere trovata. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

Gc 1,17-21; Gv 16,5-15

Commento

Il dono dello Spirito è il soggetto delle letture proposte dalla liturgia di oggi, che precede le festività dell'Ascensione e della Pentecoste.

Le parole di Gesù indicano che il suo sottrarsi a noi non è privo di frutti. Egli ci lascia, per un breve tempo, per fare ritorno al Padre, affinché possa donarci lo Spirito che ci guiderà alla verità tutta intera (Gv 16,13). Per questo l'apostolo Giacomo, nella sua lettera ci dice che "ogni buona donazione e ogni dono perfetto vengono dall'alto" (Gc 1,17).

La parola di Dio, che troviamo nelle Scritture, deve essere al centro della vita cristiana. Ma la parola di Dio non è lettera morta, la nostra non è la religione del libro. L'ascolto delle Scritture passa innanzitutto attraverso la liturgia, dove Gesù è presente in mezzo a noi e ci parla, non da un lontano passato ma con parole vive che si confrontano con la realtà di oggi. 

Quando ci parla Dio ci dà sempre del “tu”. Così la Parola di Dio trascende la vicenda del Gesù storico e si presenta come Logos eterno, ma non distaccato dalla nostra vicenda terrena; capace, anzi, di trascendere gli inevitabili limiti spaziali e temporali cui è stata soggettà la predicazione di Gesù.

L'immagine evocata dalla colletta della liturgia odierna - che chiede a Dio di tenerci saldi tra i rivolgimenti del mondo - sembra mutuata diretamente dal motto dell'ordine certosino: "Stat crux dum volvitur orbis" ("La croce resta salda mentre il mondo gira"). Non è improbabile, perché l'Arcivescovo Thomas Cranmer, che è l'autore diretto di questa preghiera, possedeva nella sua biblioteca una vita di San Bruno, fondatore dell'Ordine certosino, nonché un commento ai Salmi del certosino Ludolfo di Sassonia.

Anche Giacomo nella sua lettera ci ricorda che nel Padre "non vi è mutamento né ombra di rivolgimento" (Gc 1,17). È questo il dono dello Spirito: una parola capace di governare le nostre anime, che diversamente sarebbero come imbarcazioni prive di timone e in balìa della tempesta. Sono immagini che richiamano alla mente l'episodio evangelico in cui Gesù sgrida i venti e comanda le acque, riportando la bonaccia, dopo che i discepoli avevano temuto il naufragio.

Accostiamoci dunque con fede alla parola di Dio affinché lo Spirito ci conduca al porto sicuro della vita nella grazia.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 5 maggio 2023

Fermati 1 minuto. La verità è un cammino

Lettura

Giovanni 14,1-6

1 «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».
5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.

Commento

Con questo discorso di commiato, che si svolge nella stanza in cui si è consumata l'ultima cena, mentre Giuda si è già allontanato, Gesù incoraggia i discepoli in vista della sua passione che sta per compiersi.

Al turbamento dei discepoli espresso dal verbo greco tarasso - lo stesso usato da Gesù alla morte di Lazzaro - viene contrapposta la fede che vince il mondo (1 Gv 5,4). Uniti a Gesù i discepoli ricevono la forza per sconfiggere la paura e perseverare con coraggio nelle prove fino alla vittoria finale.

Gesù non chiede ai discepoli di anestetizzare le proprie emozioni, di non provare tristezza o dolore per quanto sta per accadere, ma di non lasciarsi "travolgere" da esse. La fede rappresenta un'àncora nelle tempeste del mondo. Se anche l'esteriorità dell'anima è provata, il suo fondo resta nella quiete.

La "casa del Padre" è nell'Antico Testamento il Tempio, ma successivamente venne a rappresentare nella cultura ebraica la casa stabilita nei cieli, nella quale si trovano le dimore dei giusti.

Gesù annuncia chiaramente il suo ritorno alla fine dei tempi per portare in cielo i giusti, insegnamento presente anche in Matteo (Mt 24,36-44) e ripreso da Paolo (1 Cor 15,51-54; 1 Ts 4,13-18).

La "via" cui si riferisce Gesù, è egli stesso, il vangelo impartito con le sue parole e con la sua vita. Il termine "la via" verrà a contraddistinguere lo stesso cristianesimo nell'età apostolica, come testimoniato dal libro degli Atti (At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22).

Gesù non è semplicemente una guida che conduce alla salvezza ma è la verità e la vita (v. 6), Parola che procede dal Padre, per mezzo della quale tutte le cose sono state create (Gv 1,3) e che ha il potere di far diventare figli di Dio quanti la accolgono (Gv 1 12).

L'essere "via" di Gesù implica che la verità e la vita rappresentano un cammino, prima ancora che una mèta. Il viaggio stesso della vita del credente è crescita nell'esperienza di Dio.

C'è una dimora in cielo che attende coloro che in questa vita "hanno lasciato casa a causa del vangelo" (Mc 10,29). Il Risorto non solo prepara una casa per noi ma prepara anche noi per questa casa, assistendoci con la sua grazia nel percorso che conduce al Padre.

Preghiera

Signore, che hai avuto misericordia del peregrinare dell'uomo su questa terra, tu hai tracciato per noi la strada che conduce alla pienezza della vita. Il tuo Spirito ci assista affinché possiamo essere trovati da te sul retto cammino quando ci verrai incontro. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 4 maggio 2023

I martiri inglesi dell'epoca della Riforma (XIV-XVII sec.)

La Chiesa d'Inghilterra fu insanguinata tra il XIV e il XVII secolo da una lunga serie di conflitti intestini. Sia le lotte di natura ecclesiale, sia quelle motivate dall'inestricabile connubio tra potere politico e religione, furono una grave contraddizione all'insegnamento di Gesù su come si debba esercitare l'autorità nelle comunità cristiane.
La violenza esplose soprattutto nel corso del XVI secolo: la fazione ecclesiale che di volta in volta deteneva il potere non risparmiò a chiunque la pensasse diversamente ogni sorta di angheria e persecuzione. Con il sangue pagarono Thomas More, John Fisher, Thomas Cranmer, Edmund Campion e moltissimi altri che non conobbero l'onore degli altari, ma che furono vittime della convinzione che l'intera verità fosse appannaggio di un solo gruppo sociale o ecclesiale.
Per questa ragione, nel mutato clima tra le chiese e per non dimenticare a quali contraddizioni all'Evangelo può portare il connubio tra l'intolleranza verso il diverso e la confusione fra autorità religiosa e potere politico, gli anglicani ricordano oggi tutti i martiri, di ogni confessione cristiana, che in tale periodo subirono il martirio in odio a quella fede che ciascuno riteneva nella propria coscienza pienamente conforme agli insegnamenti di Cristo.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Why are so many Catholics embarrassed by the English martyrs ...

Fermati 1 minuto. Un cuore grande per donare e ricevere

Lettura

Giovanni 13,16-20

16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. 18 Non parlo di tutti voi; io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno. 19 Ve lo dico fin d'ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono. 20 In verità, in verità vi dico: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato».

Commento

Gesù ha appena lavato i piedi ai suoi discepoli, mentre si approssima l'ora della sua passione. Quel chinarsi di fronte a coloro che ha amato fino alla fine prefigura l'abbassamento di Dio nel profondo della miseria e della sofferenza umana, il suo rendersi presente nella nostra fragile natura.

Come uno schiavo non ha maggiori privilegi del padrone e un ambasciatore non ha maggiore importanza di colui che l'ha inviato, i discepoli sono chiamati all'umiltà, per obbedire alla parola di Dio e porsi a servizio del prossimo. Ma lungi dalla mortificazione fine a se stessa, troveranno in questo atteggiamento la vera beatitudine. Perché quando siamo una cosa sola con l'altro la sua gioia è la nostra gioia.

Gesù parla del suo tradimento imminente utilizzando le parole del Salmo 41: "colui che mangiava il mio pane alza contro di me il calcagno" (Sal 40,10). Mostrare a qualcuno il calcagno era un segno di disprezzo e ostilità. Nel contesto del Salmo è richiamato il tradimento di Davide da parte di Achitofel, che finì con l'impiccarsi, prefigurando il triste esito del tradimento del "grande Davide" - Gesù - da parte di Giuda (cfr. 2 Sam 16,20-22; 17,23). Il richiamo alle Scritture da parte di Gesù indica che ciò che sta per accadere si situa all'interno del progetto di salvezza del Signore e che la sua divinità si rivela anche nell'umiliazione della croce. "Io sono" (v. 19), infatti è un rimando al nome con cui Dio rivela se stesso (Es 3,14).

La profezia di Gesù ha come scopo quello di accrescere la fede dei discepoli nella sua divinità, sovranità e onniscenza una volta che si sarà adempiuta (v. 19). Questo essere confermati nella fede si realizzerà non mediante il semplice sforzo umano, ma per il Consolatore, lo Spirito che Gesù invierà dopo la sua ascensione, affinché guidi i suoi discepoli verso la verità tutta intera (Gv 16,13). L'autorità degli apostoli risiede in colui che li ha mandati e confermati; di conseguenza, chiunque riceve coloro che che Cristo ha inviato riceve Cristo stesso.

Con le parole che accompagnano il gesto della lavanda dei piedi Gesù ci invita a liberarci dalla logica del mondo, che porta l'uomo a considerare il prossimo come semplice strumento per raggiungere i propri scopi. Il risultato dell'egoismo è una felicità sterile, che impoverisce innanzitutto chi la persegue. Solo vivendo una spiritualità di comunione riusciremo a scoprirci dono per gli altri e a scoprire nel prossimo un dono per noi, al quale fare spazio. Un cuore grande è capace di donare tanto, ma riceve nella proporzione in cui si dona.

Preghiera

Purificaci nel lavacro della tua misericordia, Signore, e dilata il nostro cuore affinché possiamo accogliere ogni uomo e ogni donna come fratello e sorella da servire, nello spirito delle beatitudini che hai proclamato. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona


martedì 2 maggio 2023

Fermati 1 minuto. La cadenza perfetta

Lettura

Giovanni 10,22-30

22 Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. 23 Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. 24 Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25 Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; 26 ma voi non credete, perché non siete mie pecore. 27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28 Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. 29 Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola».

Commento

"Era d'inverno" (v. 22). C'è qualcosa di malinconico in questa immagine ritratta da Giovanni nel suo Vangelo. Gesù passeggia solitario sotto il portico del Tempio cercando riparo dal vento freddo che proveniva dal deserto.

Sono i giorni della festa della dedicazione (ebr. Hanukkah), all'incirca i primi di dicembre. Mancano circa tre mesi alla crocifissione.

La festa della dedicazione dura otto giorni e si celebra per ricordare la nuova dedicazione dell'altare e la purificazione del tempio da parte del condottiero Giuda Maccabeo nel 164 a.C., in seguito alla sconsacrazione operata dal dominatore siriano Antioco Epifane (Dn 8,13; 9,27), il quale nel 170 a.C. aveva conquistato Gerusalemme e posto un altare pagano al posto dell'altare di Dio.

Simbolicamente Gesù è colui che instaura il nuovo tempio e la vera guida di Israele. Eppure, quasi al termine della sua missione terrena l'incomprensione sulla sua persona è ancora diffusa tra i giudei.

Un gruppo di questi si avvicina e gli chiede "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso?" (v. 24). Vogliono che egli affermi o neghi apertamente se è il Cristo o no, come fece Giovanni Battista.

I giudei che interrogano Gesù non sono mossi da un sincero desiderio di conoscere chi egli sia, ma si attendono una sua professione messianica per contestarla e condannarlo.

Per la loro incredulità Gesù li annovera tra coloro che non fanno parte del suo gregge - "voi non credete, perché non siete mie pecore" ( 26), ma rivolgerà loro un ulteriore appello alla fede poco più avanti: "Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre»" (Gv 10,37-38).

La domanda dei giudei che si sentivano con l'animo sospeso di fronte alla figura di Gesù può attraversare anche le nostre coscienze. Egli ci invita a guardare le sue opere, ma siamo circondati dall'iniquità, dall'ingiustizia, dalla sofferenza. Eppure il vangelo ci annuncia una presenza di vita e di salvezza. La fede è capace di generare Dio nella nostra anima e nel mondo, come un fiore di loto che risplende immacolato su uno stagno. 

Credere alle opere di Dio significa farsi presenza di Cristo nel mondo. Credere, riconoscere le opere di Dio, non è una attività meramente intellettiva, ma implica il potere fecondo, generativo, della fede, che trova conferma nelle opere stesse che è capace di produrre.

Come il Padre ci ha posto nelle mani di Cristo facendo dipendere la nostra salvezza dal potere sovrano di Dio, al contempo si è messo nelle nostre mani, nella misura in cui, rinati in Cristo, condividiamo con lui la responsabilità per l'intero gregge.

Il termine utilizzato per proclamare l'unità di Gesù con il Padre è neutro e non al maschile: lui e il Padre non sono "uno", ma "una cosa sola". Gesù è pienamente Dio, ma una persona divina distinta dal Padre. L'unità di Gesù con il Padre è rappresentanta dalla perfetta sinergia nella parola e nell'azione.

Anche noi siamo chiamati a non restare con l'animo sospeso ma a entrare nel flusso benedetto di questa sinergia, trovando in Cristo la cadenza perfetta nella sinfonia della nostra vita.

Preghiera

Purifica il tempio del nostro cuore, Signore; affinché possiamo dedicarci al vero culto in spirito e verità, magnificando le tue opere e riconoscendoti come il nostro pastore. Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona

lunedì 1 maggio 2023

Fermati 1 minuto. Il paradosso del pastore

Lettura

Giovanni 10,11-18

11 Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12 Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13 egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. 17 Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».

Commento

La definizione che Gesù dà di se stesso, "io sono il buon pastore", può essere collocata tra le "formule di rivelazione", che il Vangelo di Giovanni introduce sempre con l'espressione "Io sono" (presente sette volte nel suo Vangelo). Il termine "buono" non indica semplicemente qualcuno abile a fare qualcosa, ma una persona nobile, esemplare. Cristo è il pastore più esperto, fedele e premuroso nel custodire le anime dei suoi fedeli.

L'immagine del pastore è radicata nella Bibbia e nel mondo antico, dove i re erano chiamati "pastori di popoli". Tuttavia nei libri biblici sono pochi i testi in cui a Dio viene dato questo titolo; è più frequente l'uso di verbi e di espressioni che applicano a Dio le prerogative del pastore: "guidare", "condurre", "radunare", "difendere", "dissetare" (vedi Sal 23; Ger 23,3-4; Ez 34; Zac 11,4-7).

Gesù ha acquistato le pecore con il proprio sangue, diversamente dai mercenari, ai quali le pecore non appartengono (v. 12) e che fuggono davanti al pericolo, perché amano il proprio guadagno più del proprio lavoro, la propria sicurezza più del proprio dovere. Gesù infatti "offre la vita" per le pecore, espressione tipicamente giovannea (Gv 13,37; 15,13; 1 Gv 3,16), corrispondente al "dare la vita" del Vangelo di Marco (Mc 10,45). Diversamente dai vangeli sinottici, in cui il Padre "consegna" il Figlio, in Giovanni è il Figlio stesso che si dona. Allo stesso modo, mentre nel libro degli Atti (At 2,24; 4,10) e nella Lettera ai Romani (Rm 1,4; 4,24) viene affermato che il Padre ha restituito la vita a Gesù qui è il Figlio stesso che ha il potere di riprenderla (v. 18). L'opera della redenzione è realizzata dalla trinità delle Persone divine.

Conoscere (gr. ginosko) le pecore (v. 14) significa qui curarsi di loro, amarle. Le "altre pecore" sono da intendersi come i pagani, ma è probabile una allusione anche alle "pecore perdute della casa di Israele" (Mt 15,24), riunite con i pagani convertiti in un'unica nazione: la Chiesa, corpo mistico dei salvati in Cristo.

Gesù non si accontenta di guidare il suo gregge con la voce, dà letteralmente la vita per i suoi, nella piena libertà dell'amore. In un paradosso che solo la fede in un amore senza misura può spiegare, Cristo da pastore si fa agnello sacrificale, mentre sul suo esempio, riunite in un solo gregge, le sue pecore si fanno sacramento di salvezza per il mondo.

Preghiera

Rendici docili alla tua parola, Signore, affinché possiamo venire a te; e se siamo troppo lontani vienici a cercare nel nostro errare per il mondo, affinché possiamo riposare in te Amen.

- Rev. Dr. Luca Vona