Alessandro D’Avenia
Corriere della Sera
22 maggio 2023
Era l’inizio del 1890 quando Vincent Van Gogh, ricoverato nel manicomio di Saint-Rémy, in Provenza, ricevette una lettera dal fratello Theo che gli annunciava la nascita del figlio a cui avevano dato il nome dello zio: Vincent. Il pittore, felice, dipinse allora un quadro per il neonato: Rami di mandorlo in fiore. Con questa tela sulla nascita di “un altro Vincent” si chiude attualmente il percorso del Van Gogh Museum ad Amsterdam, che ho visitato qualche settimana fa.
La bellezza del quadro dipinto in manicomio nasce proprio per dominare la malattia che lo porterà, nel luglio di quello stesso anno, a spararsi all’addome in circostanze non del tutto chiare, morendo due giorni dopo tra le braccia dell’amato fratello. Aveva una forma di psicosi d’origine incerta (schizofrenia, epilessia, sifilide?), con crisi di durata variabile (da due settimane a un mese) accompagnate da allucinazioni e deliri, e seguite da profonda prostrazione.
Il mandorlo, albero i cui fiori per primi annunciano la primavera, dipinto su uno sfondo azzurro quasi laccato, in quelle condizioni di dolore ribadiva quanto il pittore scrisse al fratello: «L’infinito e il miracoloso ci sono necessari ed è giusto che l’uomo non si accontenti di qualcosa di meno e che non sia felice finché non li ha conquistati. Questo è il credo espresso nell’opera di tutti gli uomini buoni, di tutti coloro che hanno scavato più a fondo, cercato di più e amato più degli altri, scandagliato il fondo del mare della vita». Questo credo, «messo in opera», è ciò a cui siamo chiamati tutti per rispondere ai mali della vita. Come?
Chi visita il museo dedicato a Van Gogh all’inizio lo incontra nei molteplici autoritratti: un uomo diverso (cambia persino il colore degli occhi) in ogni tela, ma che, come scrive al fratello, ha la sua costante nello scavare, per scoprire se al di sotto del dolore c’è una nascita, come il mandorlo dopo il rigore invernale.
L’atto creativo è per lui, immerso nella natura sino a sfinirsi, incontro appassionato con la realtà, per trovare l’infinito perché, come dice lui stesso, l’uomo non può essere felice se vi rinuncia: chi cerca e ama di più «mette al mondo» qualcosa che prima non c’era, non rassegnandosi al decadere di tutte le cose. Il verbo più umano non è morire, ma (far) nascere. Tutti siamo chiamati a trasformare la ferita della finitezza in creazione e amore, Van Gogh lo scriveva così al professore di latino: «Voglio riconciliare gli uomini con il loro destino terreno».
Lo ispirava l’amore, non la malattia. Il ramo fiorito su sfondo azzurro, ispirato da una nascita, assomiglia alle parole che ho sentito da diverse amiche divenute madri: «Ora lui/lei c’è». Sembra lapalissiano ma «mettere al mondo» è l’arte della gioia, artisti e madri lo rendono più evidente, ma vale per ogni pro-creazione: dal preparare una cena a scrivere una pagina, dall’arredare una stanza al decidere come vestirsi...
Tutto ciò che cerca bellezza salva il mondo, perché creare è la vocazione umana alla gioia: creando noi attingiamo a un livello di realtà da cui abitualmente ci escludiamo per la paura di esser finiti, creare ci fa invece scoprire che siamo in-finiti. Si dirà forse che è l’illusione creata dall’istinto di conservazione da un essere vivente consapevole della morte, ma chi ha esperienza di questo creare sa che il mandorlo in fiore di Van Gogh dice la verità: il fine della vita è la bellezza. Mettere al mondo un bambino o un quadro non ci evita che la vita finisca, ma che la vita non abbia senso, e il senso della vita è creare nella e per la bellezza. Noi non siamo guidati solo dall’istinto di sopravvivenza, conservarci, ma da quello d’infinito, donarci. Creare è il modo in cui assecondiamo l’istinto d’infinito, perché creare è prendere posizione di fronte alla vita finita con l’intento di aumentarla per gioirne e farne gioire gli altri.
Creare è immettere energie nuove in una materia che decade, attingere a energie capaci di fare l’essere, «ora lui/lei c’è», è questo il miracolo a cui tutti siamo chiamati: fare un mondo nuovo, far venire al mondo il mondo. Per questo lotto per una scuola che aiuti gli studenti a scoprire la propria originalità creativa, perché l’impegno creativo dà il coraggio di venire sempre più al mondo. Più creiamo, più cresciamo, più gioiamo, come il mandorlo in fiore. Questo vince radicalmente il male, come scriveva il pittore: «Essere vicino alla realtà è un modo per combattere il male che continua sempre a tenermi inquieto».
Me lo conferma la natura, che non sappiamo più ascoltare come faceva Van Gogh: ho infatti scoperto il fenomeno del «microchimerismo fetale-materno». Durante la gravidanza il bambino dona delle cellule alla madre, che le garantiscono per anni un sistema immunitario più forte e un legame fortissimo anche se il figlio è ormai fuori di lei. Il «messo al mondo» contemporaneamente «mette al mondo».
Questo accade tutte le volte che (pro)creiamo, l’opera che mettiamo al mondo ci dona «cellule»: migliora la nostra salute (salvezza) e ci lega alla vita. La cultura dominante ci invita invece a rispondere alla fame di vivere con il consumo delle cose e degli altri: sacrificare invece di creare. Consumare cibo, oggetti, video non dà gioia ma eccitazione, è passività, mentre la gioia è uno stato attivo dell’essere: ogni giorno dovremmo chiederci come «creare» nel modo a noi proprio, perché nella vita c’è gioia nella misura in cui creiamo. Più creazione significa più gioia.
Van Gogh non dipinse «perché» era malato, dipinse perché amava la vita più di quanto ne soffrisse, non fece della malattia o dell’insuccesso un alibi per smettere di creare: «Io so che la guarigione viene dal di dentro... mi piace dipingere, mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita». Prima di spirare disse al fratello: «La tristezza durerà comunque tutta la vita. Ora desidererei ritornare». Non si illudeva: La vita è ferita dal male, ma creare è curarla, e per lui creare era tornare. Dove? In quel regno a cui «credeva» e che «metteva al mondo»: il regno in cui tutto diventa bellezza, perché tutto è ricerca e amore. A noi che siamo qui a lottare l’artista ricorda di cercare di più, amare di più, creare di più. La malattia ebbe la meglio sulla sua psiche ma non su di lui, sapeva bene qual era il senso della sua vita, come scrisse proprio nell’ultima lettera a Theo, il giorno prima dello sparo: «Noi possiamo far parlare solo i nostri quadri». E loro ci parlano e ci invitano a «tornare» alla vita, ri-creandola, come fa il mandorlo con i suoi rami fioriti su uno sfondo di cielo.