Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

martedì 30 giugno 2020

Raimondo Lullo, precursore del dialogo interreligioso

Nel 1315 termina la sua lunga e feconda parabola terrena l'erudito catalano Raimondo Lullo.
Nato in una famiglia nobile dell'isola di Maiorca, terra di incontri ma anche di scontri frequenti nel XIII secolo fra ebrei, cristiani e musulmani, Raimondo Lullo trascorse tutta la sua vita cercando di conoscere e comprendere in profondità l'alterità della cultura musulmana per portare ad essa il messaggio vitale del vangelo.

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Raimondo Lullo (1232-1316)

In un'epoca di contrapposizioni cruente, di espulsioni e di massacri, egli seppe cercare sempre la via del dialogo, studiando da solo le lingue orientali e la tradizione filosofica araba, e compiendo ripetuti viaggi sulle coste dell'Africa settentrionale, armato soltanto della propria fede e della propria intelligenza.
Divenuto teologo e filosofo di fama internazionale, egli ricevette sul finire della vita una parziale ricompensa alle umiliazioni patite ad opera dei saraceni, ma anche dei correligionari cristiani, che poco lo avevano compreso, quando gli fu permesso di esporre il suo originale metodo teologico nelle grandi università dell'epoca.
Lullo morì in circostanze imprecisate, di ritorno dall'ennesimo viaggio in terra saracena, dopo aver lasciato una vastissima produzione letteraria (circa 300 opere), alla quale attingeranno uomini di grande levatura come Nicolò di Cusa, Pico della Mirandola e Giordano Bruno.
Secondo alcune tradizioni, negli ultimi anni della sua vita sarebbe stato accolto dall'Ordine francescano e sarebbe morto martire. La data odierna è quella in cui lo ricordano i francescani.

Tracce di lettura

All'uscita da una certa città s'incontrarono tre Savi: l'uno era ebreo, l'altro cristiano e l'altro saraceno. Appena si scorsero, essi si salutarono, s'abbracciarono l'un l'altro gioiosamente, decidendo di comune accordo di tenersi per un poco compagnia. Ciascuno s'informò delle condizioni, della salute e dei desideri altrui; quindi convennero di camminare insieme, per riposare i loro spiriti affaticati dagli studi ... Quand'ebbero terminato di conversare, presero congedo l'uno dall'altro assai amabilmente: ciascuno domandò agli altri di volerlo perdonare nel caso egli avesse detto alcunché di irriguardoso nei confronti della loro legge; e ciascuno perdonò. Sul punto ormai di separarsi, uno di loro disse: «Signori, quale profitto trarremo dall'avventura che ci è capitato di vivere? Non potremo forse discutere un po', ogni giorno, rispettando sempre le norme che ci ha illustrato madonna Intelligenza? E non potremo forse impegnarci a renderci ogni onore e servizio, al fine di giungere ancor prima ad un accordo? Sono infatti proprio la guerra, la sofferenza, la malevolenza e il continuo infliggersi l'un l'altro onte e danni che impediscono agli uomini d'unirsi in una stessa fede».
(Raimondo Lullo, Il libro del Gentile e dei tre Savi)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 29 giugno 2020

Pietro e Paolo, pilastri della fede

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, nella data in cui, secondo un'antica tradizione, sarebbe avvenuto nel 64 il loro martirio a Roma.
Pietro «nostro padre», come lo definisce la liturgia copta, era un pescatore originario di Betsaida di Galilea e fratello di Andrea, il quale lo presentò a Gesù. Testimone privilegiato della Trasfigurazione e del Getsemani, ricevette da Gesù il compito di riconfermare i fratelli dopo aver lui stesso conosciuto la misericordia di Dio nel perdono del suo rinnegamento. Egli che per rivelazione del Padre aveva confessato Gesù come il Cristo, il Figlio del Dio vivente, guidò la prima comunità nella testimonianza del Risorto, accolse i pagani nella chiesa e annunciò il vangelo fino a Roma, dove morì martire. Origene testimonia che morì come uno schiavo, crocifisso con la testa all'ingiù.

Pietro e Paolo, per la Chiesa sempre insieme ma in realtà si ...
I Santi Pietro e Paolo sorreggono la Chiesa
Paolo, che dalla liturgia copta è chiamato «nostro maestro», era originario di Tarso, in Cilicia, ed era stato istruito nella fede ebraica secondo la tradizione dei farisei. Dopo aver riconosciuto in Gesù il Messia, egli divenne l'annunciatore del vangelo alle genti e percorse le regioni dell'Asia Minore e della Grecia, affrontando pericoli e fatiche e portando in sé la sollecitudine per tutte le chiese. Cittadino romano, egli fu, secondo la tradizione, decapitato a Roma presso la via Ostiense.
La festa di Pietro e Paolo apostoli era celebrata a Roma nella data del 29 giugno già attorno alla metà del IV secolo.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità Monastica di Bose

venerdì 26 giugno 2020

Mari, disseminatore di comunità cristiane in oriente

Il secondo venerdì d'estate, la chiesa caldea e quella assira ricordano mar Mari, apostolo della Siria, della Mesopotamia e della Persia.
Le fonti che narrano la vita di Mari, discepolo di Addai, che sarebbe stato il primo dei settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, sono tardive e contraddittorie. Con esse ciò che si vuole tuttavia ricordare e affermare è l'origine antichissima delle chiese siro-orientali.
Secondo la tradizione, Mari fu scelto da Addai per continuare la sua missione evangelizzatrice nell'oriente, risalente all'apostolo Tommaso. Ricevuto tale mandato, egli percorse la Mesopotamia orientale, spingendosi a predicare sino ai contrafforti dell'altopiano dell'Iran e fondando oltre 300 comunità cristiane.
A lui si deve la fondazione delle sedi episcopali di Nisibi, di Kaškar e l'evangelizzazione della regione di Seleucia-Ctesifonte.
Ad Addai e Mari è attribuita una delle più antiche anafore eucaristiche, tuttora in uso nelle liturgie siro-orientali.
I due apostoli sono ricordati insieme in varie regioni orientali, in date che variano da una zona all'altra; la festa più importante è forse quella che si celebra in Iraq e in Kurdistan il 5 di agosto, con una ricca liturgia propria.

L'Anafora di Addai e Mari

L'anafora di Addai e Mari è un'antica preghiera eucaristica cristiana, caratteristica della Chiesa d'Oriente.

Attribuita dalla tradizione a Taddeo di Edessa e Mari, discepoli di san Tommaso apostolo e santi del I secolo, risale al III secolo secondo la maggioranza degli studiosi.

Ha la peculiarità di non contenere in modo coerente e ad litteram le parole dell'istituzione dell'eucaristia da parte di Gesù Cristo ("Questo è il mio corpo", "questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza..."). Sono presenti invece "in modo eucologico disseminato, ossia integrate nelle preghiere di rendimento di grazie, di lode e di intercessione". Si riportano tre passaggi interessanti: "[...] abbiamo ricevuto per tradizione l'esempio che viene da te, rallegrandoci, glorificando, esaltando, facendo memoria e celebrando questo mistero grande e terribile [...] nella memoria del corpo e del sangue del tuo Cristo, che noi offriamo a te sull'altare puro e santo, come tu ci hai insegnato, [...] sacramento vivificante e divino che io posso amministrare al tuo popolo, il gregge del tuo pascolo".

Nel 2001 la Chiesa cattolica ha riconosciuto la validità dell'anafora di Addai e Mari - sostenuta da una tradizione ininterrotta risalente all'epoca post-apostolica - nel contesto della possibilità di intercomunione, in caso di necessità pastorale, tra i fedeli della Chiesa assira d'Oriente e la Chiesa cattolica caldea.

Monastero di Bose - Preghiera - Page #176
Addai e Mari (I-II sec.)

giovedì 25 giugno 2020

La Confessione di Augusta e la tentata ricomposizione tra cattolici e luterani

Il 25 giugno del 1530 venne presentata all'imperatore Carlo V nel corso della dieta imperiale di Augusta (Augsburg) una confessione di fede sottoscritta dai rappresentanti di diverse città schierate a favore della Riforma protestante. Si trattò del più serio tentativo di recuperare un accordo tra riformatori e cattolici, a pochi anni dalla scomunica di Martin Lutero.
Accusati da più parti di eresia, alcuni riformatori accettarono di rispondere, sotto la guida di Filippo Melantone, ai giudizi dei principali controversisti cattolici cercando di evidenziare l'accordo di fondo sulla fede, e il disaccordo sugli abusi e sulle pratiche religiose che aveva dato vita alla Riforma.

Confessione augustana - Wikipedia
La Confessione di Augusta (25 giugno 1530)

La Confessione di Augusta, alla quale sempre faranno riferimento le chiese di tradizione luterana, fu redatta perciò in due parti: una prima di natura dottrinale e una seconda concentrata sulle prassi in vigore nella chiesa. Essa fu riconosciuta come fedele espressione del vangelo da Lutero, ma non bastò a porre fine a una divisione tra cristiani ormai giunta alle dimensioni di una vera e propria rottura.
In modo molto significativo, è ad Augsburg che nel 1999 cattolici e luterani hanno voluto firmare l'accordo sulla Giustificazione, con il quale è stato risolto il motivo di maggiore divisione tra le due anime cristiane dell'occidente.

Tracce di lettura

In questa Dieta ci impegneremo attivamente ad ascoltare, comprendere ed esaminare tra di noi, con carità e benevolenza, le idee e le opinioni di ciascuno, per poterle rendere concordi e per ricondurle all'unità della verità cristiana; per mettere da parte tutto ciò che, dall'una e dall'altra parte, risulterà essere stato interpretato o trattato in modo scorretto, e per far adottare e osservare da parte di noi tutti una sola e vera religione; così noi tutti, essendo e lottando sotto un solo Cristo, vivremo in una sola comunione, in una sola chiesa e in una sola concordia
(Dall'Editto imperiale di Augusta).

- Dal martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Massimo di Torino. Nessuno diceva propria qualche cosa

La Chiesa cattolica d'Occidente celebra oggi la memoria liturgica di Massimo di Torino, vescovo e padre della Chiesa. Di lui si hanno scarsissime notizie. Nato sicuramente nel IV secolo in un'imprecisata provincia settentrionale italiana dell'impero romano, viene storicamente considerato il fondatore della Archidiocesis Taurinensis. Già discepolo di sant'Eusebio di Vercelli e di sant'Ambrogio da Milano, guidò la diocesi della allora Julia Augusta Taurinorum tra il 390 e il 420, nel difficile periodo delle invasioni barbariche.
Il suo impegno si concentrò prevalentemente sulla lotta contro la pratica della simonìa e del paganesimo. A tal proposito è ricordato per aver fatto erigere, probabilmente sui resti di un precedente tempio pagano, una piccola chiesa dedicata a Sant'Andrea dai cui resti, nel XII secolo, sorse la celebre chiesa della Consolata.
Massimo divenne inoltre conosciuto per i suoi numerosi sermoni, oggi raggruppati in un'edizione critica curata da A. Mutzenbecher. Nelle sue omelìe, tra l'altro, accennò sovente ai primi martiri di Torino, i santi Avventore, Ottavio e Solutore le cui reliquie sono conservate a Torino. La data della morte è incerta: viene fissata intorno al 420. Secondo la cronotassi dell'Arcidiocesi di Torino il suo successore fu il vescovo Massimo II.
Alcune sue reliquie sono conservate nella basilica di San Massimo a Collegno, alle porte di Torino, una delle più antiche chiese cristiane del Piemonte che, molto probabilmente, fu sede vescovile dello stesso Massimo. Per lungo tempo si è creduto che la chiesa ospitasse anche la tomba del protovescovo ma ripetuti scavi archeologici effettuati nel XIX secolo hanno smentito questa ipotesi. Sempre nel XIX secolo la municipalità di Torino gli intitolò una via del centro storico e l'arcidiocesi gli dedicò una chiesa, in essa ubicata e consacrata nel 1853.
A lui è dedicata la chiesa ortodossa di San Massimo ai piedi della collina torinese.

Tracce di lettura

Al tempo degli apostoli fu così grande la dedizione del popolo cristiano, che nessuno diceva sua la propria casa, nessuno rivendicava come propria qualche cosa, come afferma san Luca quando dice: «E nessuno diceva suo proprio qualcosa di ciò che possedeva, ma tutto era loro comune. Nessuno tra essi era nel bisogno». Beato dunque il popolo, che mentre ha molti ricchi in Cristo, non ha alcun bisognoso nel mondo e che, mentre pensa alle ricchezze eterne, allontana dai fratelli la povertà temporale.
(Massimo di Torino,  Sermoni 17).

- Fonti: Wikipedia; Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

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Massimo di Torino (?-420)

mercoledì 24 giugno 2020

San Giovanni Battista, la voce che grida nel deserto

Le chiese d'oriente e d'occidente celebrano oggi la natività di Giovanni il Battista, profeta e precursore del Signore.
Figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta Giovanni è frutto della promessa di Dio e annuncia i tempi messianici in cui la sterile diventa madre gioiosa di figli e la lingua dei muti si scioglie nella lode profetica. Con lui rivive la profezia e si fa più urgente il richiamo alla conversione rivolto da Dio al suo popolo.

San Giovanni Battista, Basilica di Santa Sofia, Istanbul

Secondo la parola dell'angelo, Giovanni venne con lo spirito e la forza di Elia per preparare al Signore un popolo ben disposto. Egli visse nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele e lì, nella solitudine e nel silenzio, nell'ascesi e nella preghiera, si preparò alla sua missione.
Insieme a Gesù, il Battista è l'unico personaggio di cui il Nuovo Testamento narri la nascita, ed è l'unico santo celebrato dalla chiesa antica con più feste durante l'anno.
Quando nel IV secolo la nascita di Gesù venne fissata nel solstizio d'inverno, quella di Giovanni venne posta nel solstizio d'estate per rispettare la lettera del racconto evangelico. La coincidenza con il solstizio d'estate e l'inizio dell'accorciarsi delle giornate è stata vista dai padri come una conferma delle parole di Giovanni e della sua testimonianza al Cristo: «Egli deve crescere e io invece diminuire».
Asceta vissuto nel deserto, Giovanni è diventato ben presto il modello del monachesimo nascente ed è sempre stato venerato con particolare amore dai monaci, che nell'ascesi, nel silenzio, nella preghiera e nell'assiduità alle Scritture cercano di predisporre ogni cosa per poter accogliere Dio nelle loro vite.

Tracce di lettura

Annunciazione, concepimento, santificazione e nascita di Giovanni ci sono presentate in parallelo ad annunciazione, nascita, consacrazione di Gesù, e con questi dittici dei capitoli 1 e 2 del suo vangelo, con questi eventi della preistoria di Giovanni e di Gesù, Luca ci mostra che anche nell'infanzia Giovanni è stato il precursore del Messia ... Poi il silenzio del vangelo su Giovanni come su Gesù: Giovanni vivrà nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele, Gesù vivrà soggetto a Maria e Giuseppe a Nazaret. Per entrambi è il nascondimento, la crescita, la preparazione alla missione, al dies ostensionis ad Israel.
(E. Bianchi, Amici del Signore).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

martedì 23 giugno 2020

Maria di Oignies. Unica Regola il Vangelo

Le antiche biografie di Maria di Oignies sono fondamentali per comprendere e studiare il rinnovamento religioso dei Paesi Bassi nei secoli XII e XIII. La santa in particolare ispirò il movimento delle beghine: donne che vivevano in comunità, dirette spiritualmente da un sacerdote. Non erano suore, anche se nella maggior parte dei casi facevano voto privato di castità, e traevano sostentamento da attività lavorative senza chiedere la carità.

Beata Maria di Oignies (ca 1177-1213)

Maria nacque nel 1177 a Nivelles, nel Brabante, antico ducato compreso oggi nello stato del Belgio. Apparteneva ad una famiglia benestante, era molto religiosa e appena raggiunse i quattordici anni, per distoglierla dal pensiero di farsi monaca, i genitori combinarono il matrimonio con un pio giovane di nome Giovanni. Dopo alcuni anni di felice unione matrimoniale, tra lo sconcerto dei parenti, i due bravi coniugi decisero, di comune accordo, di dare i propri beni ai poveri per ritirarsi in un lebbrosario, a Willambroux, per servire i malati. Si formò una piccola comunità la cui fama si diffuse presto, soprattutto grazie a Maria, cui molti fedeli chiedevano preghiere e consigli. Raggiunti i trent’anni, la santa, col consenso del marito e del cognato sacerdote, suo confessore, decise di ritirarsi nel monastero agostiniano di Oignies. Visse in una cella accanto al coro della chiesa facendo la sacrestana. Nel 1207 conobbe Giacomo di Vitry, un canonico di Parigi. La donna gli chiese di stabilirsi in città e di dedicarsi alla predicazione. Erano tempi complessi, la cristianità era lacerata dalle lotte contro le eresie dei catari e degli albigesi. Maria, sebbene vivesse quasi in clausura, seguiva con trepidazione questi avvenimenti. Giacomo ne divenne il direttore spirituale e trasmetteva ai numerosi devoti i suoi insegnamenti. Maria e Giacomo, penitente e confessore, erano guide uno dell’altra. La santa trascorreva molte ore, anche notturne, davanti all’Eucaristia. Un giorno ebbe la premonizione che sarebbe stata istituita la festa del Corpus Domini.
Nel 1212 Maria di Oignies conobbe s. Folco, vescovo di Tolosa, quando gli albigesi lo cacciarono dalla sua diocesi. Il santo si rifugiò a Liegi e rimase impressionato dalla santità di vita delle beghine. In quell’anno Maria ebbe le stimmate. L’anno successivo, dopo numerose e speciali grazie, morì, all’età di circa trentasei anni. Sul letto di morte predisse che sarebbe sorto un ordine di predicatori che, per il bene della Chiesa, avrebbe contrastato le eresie. Folco di Tolosa, insieme a s. Domenico, lottò contro i catari e assistette alla fondazione dei primi monasteri domenicani.
Nel 1216, su richiesta di Folco, Giacomo scrisse la vita di Maria con un lungo prologo in cui illustrava le vicende della nascita del movimento religioso. Per ottenere l’approvazione delle beghine e dei begardi, la corrispondente comunità maschile, andò a Perugia, sede temporanea del papato. Giacomo era un predicatore illustre, teologo e storico; divenne in seguito vescovo di S. Giovanni d’Acri, in Palestina. Nel 1228 fu nominato vescovo di Frascati e poi cardinale. Si prodigò molto perché venisse conosciuta la vita della sua penitente e la santità delle beghine. Diede il suo scritto anche all’amico cardinale Ugolino, futuro papa Gregorio IX. Nel 1230-31 Tommaso Cantimprè aggiunse all’opera un supplemento. Maria si consacrò con gioia al Signore rinunciando alla vita benestante, guardando a Colui che si era incarnato per salvare l’umanità. Maria, ancella di Cristo al servizio della Chiesa, esercitò un apostolato di preghiera e penitenza per la salvezza delle anime. 
Le beghine, non avendo regole, al di là del Vangelo, che ne definissero le caratteristiche, ebbero un appoggio informale dalla Santa Sede. Le caratteristiche inusuali del movimento, nei periodi storici più difficili e confusi, causarono accuse di eresie. Ancora oggi in Belgio e Olanda esistono alcune comunità eredi del loro carisma.

- Daniele Bolognini

lunedì 22 giugno 2020

John Fisher e Thomas More, martiri riabilitati dalla Chiesa d'Inghilterra

In questo giorno, nel 1535, muore decapitato dopo essere stato rinchiuso nella torre di Londra John Fisher, professore all'università di Cambridge e vescovo di Rochester.
Nato nel 1469, Fisher fu un umanista e un teologo molto apprezzato. Di lui Erasmo diceva: «Non c'è uomo più colto né vescovo più santo». Pastore in una delle più piccole e povere diocesi d'Inghilterra, Fisher amò e servì con ogni cura il piccolo gregge che gli era stato affidato.

John Fisher - Wikipedia
John Fisher (1469-1535)

Sempre a Londra, due settimane dopo John Fisher, il 6 luglio 1535 sale sul patibolo sir Thomas More.
Nato nella capitale inglese il 6 febbraio 1478, dopo gli studi di diritto e un periodo di discernimento di quattro anni trascorso in una certosa, Thomas si era avviato alla carriera politica, fino a diventare deputato nel 1504. Grande amico di Erasmo, che lo definì «modello per l'Europa cristiana», Thomas, un gradino dopo l'altro, era asceso fino alla carica di Gran cancelliere del sovrano d'Inghilterra.

Thomas More (1478-1535)

La fedeltà di More e Fisher al re trovò però un ostacolo nei passi intrapresi da quest'ultimo per divorziare e trasmettere i diritti di successione ai figli della seconda moglie, Anna Bolena. L'atto decisivo, tuttavia, al quale entrambi rifiutarono di sottomettersi e che pagarono con il martirio, è l'Atto di supremazia, nel quale il re veniva riconosciuto come capo supremo sulla terra della chiesa d'Inghilterra.
Gli scritti dal carcere dei due martiri inglesi, soprattutto le lettere di Thomas More, sono tra le più alte testimonianze della spiritualità cristiana. Nutriti da un dialogo costante con il Signore nell'intimo della coscienza, More e Fisher mostrarono fino all'ultimo grande carità e misericordia verso i loro persecutori.
La testimonianza estrema al vangelo resa da More e Fisher è ricordata anche dalla Chiesa d'Inghilterra, che ne celebra la memoria il 6 di luglio.

Tracce di lettura

Finché sarò su questa terra, la mia condotta non potrà che dar modo al re di persuadersi a pensare il contrario di quel che pensa ora: di più non posso, se non rimettere tutto nelle mani di Colui, nel timore del cui sfavore, nella difesa dell'anima mia guidata dalla mia coscienza (senza rimproveri o biasimi per quella di nessun altro) io soffro e sopporto questo tormento. Io lo supplico di condurmi, quando a Lui piacerà, lontano dall'afflizione del tempo presente nella sua felicità eterna del cielo, e nel frattempo di dare a me e a voi a me cari la grazia di rifugiarci, devotamente prostrati, nel ricordo di quell'amara agonia che il nostro Salvatore patì sul monte degli Ulivi prima della sua passione. E se faremo questo con amore, credo proprio che vi troveremo gran conforto e consolazione.
(Thomas More, Lettera 59 a Margaret Roper)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 21 giugno 2020

Se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore

 COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA SECONDA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ

Colletta

O Dio, che non manchi mai di aiutare e governare coloro che conduci nel tuo timore e nel tuo amore; mantienici, ti supplichiamo, sotto la protezione della tua buona provvidenza, affinché abbiamo un timore e un amore perpetuo del tuo santo Nome. Per Cristo nostro Signore.

Letture

1 Gv 3,13-24; Lc 14,16-24

Commento

“Non vi meravigliate se il mondo vi odia” afferma l’evangelista Giovanni, riprendendo le parole di Gesù: “Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi”. L’odio del mondo si manifesta come il rifiuto della luce da parte delle tenebre: “la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa” (Gv 1,5).

Del rifiuto da parte del mondo nei confronti della luce, cioè di Cristo, abbiamo un esempio nella parabola del gran convito. Gesù offre questa narrazione in risposta a ciò che esclama un uomo che lo stava ascoltando predicare: “Beato chi mangerà del pane nel regno di Dio”. Questa beatitudine, ci insegna il Signore, non è compresa da molti. Dio ci invita gratuitamente al suo banchetto, ma l’ossessione per il possesso, il commercio, l’attaccamento disordinato alle cose e alle persone possono diventare un ostacolo alla comunione con lui. 

Così i protagonisti di questa parabola evangelica: il primo ha appena comprato un podere e deve andare a vederlo; il secondo ha comprato un paio di buoi e vuole provarlo; il terzo ha appena preso moglie. Ma Gesù ci ammonisce: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26), mentre nel Vangelo di Matteo, sempre Gesù afferma: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37).  

Certo Dio, che ha comandato di amare il padre e la madre (Es 20,12), non ci chiede di ripudiarli. Ma Gesù mette radicalmente in discussione l’antica Legge per portarla a compimento: le relazioni umane devono essere organizzate sotto il principio ordinatore dell’amore di Dio.

Le letture di oggi ci ricordano i due grandi comandamenti per il cristiano: l’amore del prossimo, soprattutto del fratello nel bisogno, e l’amore di Dio, al di sopra di ogni altra cosa. E la parabola del gran convito esprime la dimensione comunitaria e liturgica dell’essere cristiani: la partecipazione al culto domenicale non è un qualcosa di accessorio nella vita del credente. Molti cristiani pensano di poter coltivare un rapporto individualistico con Cristo. Gli affari, gli impegni familiari, sono le scuse più frequenti che molti trovano per non santificare il giorno del Signore. E a costoro Gesù dice: “nessuno di quegli uomini gusterà la mia cena” (Lc 14,24).

Molti si considerano membri di un popolo eletto per un'appartenenza alla Chiesa puramente nominale. Non dimentichiamo che Dio è pronto, in ogni momento, a rivolgere il suo invito alla festa a chi è lontano, a popoli considerati "ai margini" del mondo ma che si mostrano pronti ad accogliere con entusiasmo il vangelo. Dio può far nascere figli di Abramo, veri credenti, anche dalle pietre (Lc 3,8).  Facciamo nostra l'esortazione del salmista: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Sal 95,8).

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 19 giugno 2020

Romualdo e il monachesimo integrale

La singolarissima vicenda umana e spirituale di Romualdo, animatore dell'eremitismo nell'Italia centrale e settentrionale all'alba del secondo millennio, è stata tramandata dalla Vita dei cinque fratelli del suo amico Bruno di Querfurt, ma soprattutto dalla Vita del beato Romualdo scritta pochi anni dopo la morte di Romualdo da Pier Damiani.
Romualdo nacque a Ravenna verso la metà del X secolo, da una famiglia nobile. Dopo tre anni di vita benedettina abbandonò il monastero ravennate di Sant'Apollinare in Classe con il proposito di ritrovare la solitudine e il rigore del monachesimo egiziano testimoniato dalle Vite dei padri e dalle Conferenze di Cassiano. Ispirandosi a questi testi, con alcuni compagni egli cercò di mettere in pratica i principi di un'ascesi più ordinata rispetto a quella dei solitari del suo tempo, basandola sul lavoro manuale, il totale distacco dal mondo, la stabilità nella cella, la familiarità con la Scrittura, le veglie e il digiuno.
Uomo di lacrime e di preghiera, Romualdo unì al rigore dell'insegnamento un'anima appassionata, capace di grande calore umano e di intenso affetto. Egli visse circa dieci anni nei pressi del monastero di San Michele di Cuxa, nei Pirenei, dando vita ad una colonia di eremiti. Tornato in Italia, Romualdo fu chiamato a riformare la vita monastica e a fondare numerosi eremi, incontrando incomprensioni e ostilità.
Delle sue numerose fondazioni sono sopravvissute fino a oggi con alterne vicende quelle di Camaldoli e di Fonte Avellana.
La congregazione camaldolese coniuga la dimensione comunitaria e quella solitaria, espressa, architettonicamente, dalla presenza sia dell'eremo sia del monastero. Questa comunione di vita comunitaria ed eremitica è espressa anche nello stemma, formato da due colombe che si abbeverano a un solo calice. Il cenobio, dotato di una sua autonomia, può costituire una tappa di preparazione alla vita eremitica. L'Ordine prevede anche, per chi ne senta la vocazione, l'aspetto missionario di evangelizzazione presso le genti. Quest'ultimo aspetto conferisce oggi all'Ordine camaldolese una grande apertura al dialogo ecumenico e interreligioso.
Romualdo morì nel silenzio e nella solitudine con Dio, cui aveva sempre anelato e che aveva inseguito attraverso mille peripezie, nel monastero di Val di Castro, il 19 giugno del 1027.

Tracce di lettura

Siedi nella tua cella come in paradiso; scaccia dalla memoria il mondo intero e gettalo dietro le spalle, vigila sui tuoi pensieri come il buon pescatore vigila sui pesci. Unica via, il salterio: non distaccartene mai. Se non puoi giungere a tutto, dato che sei qui pieno di fervore novizio, cerca di penetrarne il senso spirituale almeno in alcuni punti, e quando leggendo comincerai a distrarti non smettere, ma correggiti subito cercando il senso di quel che hai davanti.
Poniti anzitutto alla presenza di Dio con timore e tremore; annullati totalmente e siedi come un pulcino contento solo della grazia di Dio e incapace, se non è la madre stessa a donargli il nutrimento, di sentire il sapore del cibo nonché di procurarsene.
(parole di Romualdo in Bruno di Querfurt, Vita dei cinque fratelli 32)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Icona di GIOVANNI MEZZALIRA, tempera all’uovo su tavola telata e gessata, cm 30 x 40
San Romualdo (+ 1027)

martedì 16 giugno 2020

Giovanni Taulero e l'abisso dell'anima

Nel 1361 muore a Strasburgo, dov'era nato agli inizi del secolo, Johannes Tauler, frate domenicano e testimone fra i più amati nel medioevo occidentale.
Di famiglia benestante, Johannes era entrato nel convento domenicano di Strasburgo non ancora quindicenne, e vi aveva ricevuto una tradizionale educazione scientifica, teologica e spirituale. Ma la vera spinta a ripensare in profondità la sua fede gli venne dal fatto di vivere un tempo di grandi conflitti e contraddizioni al vangelo, anche in seno al suo Ordine, che avevano provocato a più riprese gli interventi diretti del capitolo generale dei Predicatori.

Johannes Tauler - Wikiquote
Johannes Tauler (ca 1300-1361)

Per rispondere alla decadenza nella vita spirituale dei religiosi e del popolo cristiano, Tauler diede vita ai cosiddetti «amici di Dio», ossia a gruppi di cristiani impegnati a vivere una vita di fede maggiormente fondata sull'ascolto del vangelo e sulla preghiera personale.
In anni di intenso apostolato in seno ai conventi domenicani dell'Alsazia e presso i beghinaggi della regione, Tauler insegnò un modo di vivere l'esperienza dell'incontro con Dio ispirato alla visione teologica dei padri della chiesa e nel contempo alla mistica di Meister Eckhart. Egli formò così intere generazioni di credenti a una spiritualità capace di sostenere un impegno concreto e coerente con il vangelo nella vita di tutti i giorni.
Alla sua morte, Tauler lasciò una collezione di Sermoni che rimangono fra le espressioni più sobrie ed evangeliche della letteratura mistica medievale.

Tracce di lettura

L'autentica preghiera è una vera ascensione in Dio, che eleva completamente lo spirito, cosicché Dio può in verità entrare nel fondo più puro, più intimo, più nobile, più interiore, dove solo c'è vera unità, riguardo al quale Agostino dice che l'anima ha in sé un abisso nascosto che non ha nulla a che fare con il tempo e con tutto questo mondo.
In questo nobile, delizioso abisso, in questo regno celeste, là s'immerge la dolcezza, è là eternamente il suo posto, e là l'uomo diventa tanto silenzioso, essenziale e assennato, e sempre più distaccato, più interiorizzato e più elevato in una maggior purità e passività, e sempre più abbandonato in ogni cosa, perché Dio stesso è venuto di presenza in questo nobile regno, e vi opera, vi dimora e vi regna.
Allora l'uomo acquista una vita tutta divina, e lo spirito si fonde qui completamente, s'infiamma in ogni cosa ed è attirato nel fuoco ardente della carità che è essenzialmente per natura Dio stesso. Da tale stato, gli uomini ridiscendono poi a tutte le necessità del santo popolo cristiano, si volgono con una preghiera e un desiderio santi verso tutto ciò per cui Dio vuole essere pregato, e a vantaggio dei loro amici, vanno ai peccatori e si adoperano in tutta carità a trovare rimedio per i bisogni di ciascun uomo.
(J. Tauler, Sermoni 24,7)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 15 giugno 2020

Evelyn Underhill. La vita mistica è per ogni cristiano

Il 15 giugno del 1941 muore a Londra Evelyn Underhill, scrittrice, guida spirituale e predicatrice tra le più feconde nella recente storia inglese.

Evelyn nacque nel 1875 a Wolverhampton, in una famiglia agiata. Poté in tal modo compiere gli studi universitari al King's College di Londra e completare la propria istruzione viaggiando per l'Europa e per il mondo.

Evelyn Underhill (1875-1941)

Decisivo per la sua vita spirituale fu l'incontro con il barone von Hügel, padre spirituale di un'intera generazione di anglicani. Sotto la sua guida, Evelyn apprese l'importanza di rimanere fedeli alla propria tradizione religiosa, alimentando tuttavia i contatti con le altre confessioni cristiane a livello della preghiera e delle intense amicizie personali.
Sposatasi con un amico d'infanzia, Stuart Moore, la Underhill si dedicò intensamente a un ministero di predicazione e di maternità spirituale del tutto inusuali nella chiesa inglese d'inizio secolo per una donna. Persona di grande equilibrio, Evelyn fu la prima oratrice invitata a tenere una conferenza teologica pubblica a Oxford. Ricevette quindi la laurea honoris causa in teologia e divenne fellow al King's College di Londra.
Evelyn impiegò il resto dei suoi giorni a far conoscere con scritti di grande qualità umana e spirituale l'importanza della vita interiore e mistica nella vita di ogni cristiano.

Tracce di lettura

Signore, penetra gli oscuri recessi
in cui celiamo ricordi e inclinazioni
su cui non ci diamo pena di vegliare,
ma che mai noi oseremmo riesumare
per portarli liberamente fino a te
perché siano purificati e trasformati:
il rancore ostinatamente sotterrato;
l'inimicizia solo in parte confessata
che ancora cova sotto la cenere;
l'amarezza per questa o quella perdita
che ancora non abbiamo volto in sacrificio;
il benessere privato a cui noi ci aggrappiamo;
la segreta paura di perdere che svuota ogni nostra iniziativa
e che di fatto non è che orgoglio capovolto;
il pessimismo che insulta la tua gioia, Signore.
A te portiamo tutte queste cose,
prendendone coscienza con vergogna e pentimento
davanti alla tua salda luce.
(E. Underhill, Preghiera).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 14 giugno 2020

L'amore fraterno, principio della comunione con Dio

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PRIMA DOMENICA DOPO LA TRINITÀ


Colletta

O Dio, che sei la forza di tutti coloro che ripongono la loro fiducia in te; accetta misericordioso le nostre preghiere; e poiché per la debolezza della nostra natura umana, non possiamo compiere nessuna cosa buona senza di te, concedici l’aiuto della tua grazia, affinché conservando i tuoi comandamenti, possiamo compiacerti con i nostri desideri e la nostra volontà. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

Letture

1 Gv 4,7-21; Lc 16,19-31

Commento

“Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio” (1 Gv 4,7) afferma l’apostolo Giovanni. L’amore ci fa rinascere da Dio, ripristina la nostra immagine e somiglianza con lui; ci rende possibile di conoscerlo, non con l’intelletto, ma per esperienza diretta della sua stessa natura.

A volte pensiamo che Dio sia un enigma da risolvere; per lungo tempo, in passato, si è intavolata una affascinante discussione circa le “prove” sull’esistenza di Dio. Ma anche quando saremo riusciti a dimostrare la sua esistenza, a cosa ci gioverà se non ne comprendiamo l’essenza e non condividiamo la comunione con la sua natura divina?

Dio non è una conclusione, una costruzione della nostra mente. Nessuno lo ha mai visto (1 Gv 4,12) ma l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre, è colui che l’ha fatto conoscere (Gv 1,18). È Cristo il libro aperto, la parola vivente che ci parla di Dio, con tutta la sua vita. “Mosè […] ha scritto di me” (Gv 5,46) afferma Gesù, e questa fu la fede degli apostoli: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti” (Gv 1,45). 

L’esperienza di Dio non è nemmeno ricerca del prodigio a tutti i costi. Taluni sono portati a credere che la fede debba scaturire dall’irrompere di fenomeni straordinari nelle nostre vite. Ma l’ammonizione di Abramo al ricco, che si è privato della fonte di ogni bene, è chiara: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti” (Lc 16,31). Anche il Risorto, sulla via di Emmaus, rimprovera ai discepoli di essere insensati e tardi di cuore nel credere a tutte le cose che i profeti hanno detto (Lc 24,25).

L’ascolto delle Scritture è dunque il primo passo per conoscere Dio e riconoscere Gesù come il Signore. Ma non sono sufficienti l’ascolto e la professione di fede fatta con le labbra. Giovanni ci dice che chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio (1 Gv 4,15). Confessare è qualcosa di più che credere o professare. Significa riflettere con le nostre azioni, testimoniare con la vita, ciò in cui crediamo. Chissà quante volte il ricco alle cui porte stava Lazzaro aveva ascoltato le Scritture. Eppure la sua coscienza non fu scalfita dai numerosi richiami a soccorrere il povero che si trovano nella legge mosaica, nei salmi e nei libri profetici.

La carità fraterna è ciò che fa realmente la differenza. Giovanni è molto chiaro nel dire che risiede proprio in essa ciò che realizza la comunione con Dio: “chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1 Gv 4,16). Senza la fede, che diventa sequela di Cristo, è inutile illuderci di possedere la comunione con Dio, quasi come un automatismo della partecipazione ai sacramenti. Scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “chiunque mangia di questo pane o beve del calice indegnamente sarà colpevole del corpo e del sangue del Signore […] poiché chi ne mangia e beve indegnamente mangia e beve un giudizio contro se stesso, non discernendo il corpo del Signore” (1 Cor 11,27.29). Il corpo mistico del Signore è la sua Chiesa, e chi trascura il fratello nel bisogno trascura le membra stesse del corpo del Signore.

Nel racconto del povero Lazzaro vediamo che i cani randagi hanno più pietà di lui di quanta ne mostri il ricco, il quale banchetta senza nemmeno accorgersi della sua presenza. Ma l’abisso di indifferenza che quest’uomo crea nel proprio cuore nel corso della sua vita terrena, sarà lo stesso che lo separerà dalla sorte beata di Lazzaro nella vita ultraterrena: “tra noi e voi è posto un grande baratro” (Lc 16,26).

Il salmo 49 paragona “l’uomo che vive nell’onore senza avere intendimento” alle bestie che si avviano, ignare, al macello (Sal 49,12.14.20). L’avidità, l’indifferenza, scavano un abisso nel cuore dell’uomo. Al contrario, l’amore fraterno dilata il cuore e lo riempie dello spirito di Dio. E l’amore caccia anche via la paura (1 Gv 4,18): paura del gudizio di Dio, paura della morte, paura delle nostre cadute. Il discepolo di Gesù, infatti, ama non per accumulare meriti, né per paura del castigo; il suo non è l’amore del servo per il padrone, né quello del mercenario per colui che lo ha ingaggiato. È la risposta all’amore che Dio ci ha donato per primo (1 Gv 4,19). Ed è il tratto distintivo del vero dal falso discepolo: “da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’autorità e la credibilità nella Chiesa risiedono nella fede in Cristo, e questa è espressa dal principio della carità fraterna.

- Rev. Dr. Luca Vona

giovedì 11 giugno 2020

Barnaba, "il tredicesimo apostolo"

Le chiese d'oriente e d'occidente ricordano oggi l'apostolo Barnaba.
Pur non essendo uno dei Dodici, Barnaba ricevette il titolo di apostolo a motivo del ruolo importante che ebbe nella chiesa primitiva.
Originario di Cipro e appartenente alla tribù di Levi, Giuseppe chiamato Barnaba, ovvero «figlio della consolazione», vendette il campo che possedeva e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli. Con questo gesto, Barnaba mostrò di aver capito che soltanto chi si spoglia di tutto si pone realmente alla sequela di Cristo, il cui fine è la koinonia, la comunione nell'amore, segno eminente che distingue le autentiche comunità cristiane.
Barnaba è ricordato inoltre per essere stato il tramite tra Saulo di Tarso e il gruppo degli apostoli. Fu infatti lui a presentare loro Paolo, al quale si affiancò, accompagnandolo ad Antiochia e poi nel primo viaggio missionario. In seguito, per dissensi con l'apostolo degli incirconcisi, si separò da lui e tornò a Cipro con suo cugino Giovanni Marco.
Secondo la tradizione, dopo aver predicato il vangelo a Roma e a Milano, Barnaba si recò a Salamina dove morì martire, lapidato attorno all'anno 63.

San Barnaba Apostolo | Messa del Papa
Barnaba apostolo (+ 61)

Tracce di lettura

Nessuno tra di loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno. Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio della consolazione», un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi degli apostoli.
(At 4,34-37)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 10 giugno 2020

Abramo di al-Fayyūm, pastore della Chiesa alla mensa dei poveri

Il 10 giugno del 1914, all'età di ottantacinque anni, dopo trentatré anni di ministero episcopale e quasi settanta di vita monastica, si spegne Abramo, vescovo di al-Fayyūm.
Nativo della provincia copta di al-Minyā e battezzato con il nome di Giuseppe, egli era entrato diciottenne nel monastero della Vergine di al-Muḥarraq, nei pressi di Asyūṭ. Distintosi soprattutto per il suo straordinario impegno in favore dei poveri, che sarà il vero e proprio filo rosso evangelico di tutta la sua vita, Giuseppe divenne a trentasette anni abate del monastero. Da quel momento, moltissimi monaci si fecero suoi discepoli, e la comunità si sviluppò in modo rilevante. Ma con il numero dei discepoli crebbero anche le tensioni all'interno di al-Muḥarraq, e Giuseppe fu costretto ad abbandonare il monastero perché accusato di dissipare i beni della casa a favore dei poveri.
Assieme a quattro compagni, egli fu accolto nel monastero di al-Barāmūs, nel Wādī al-Naṭrūn. L'abate locale, divenuto patriarca, vista la grande qualità spirituale di Giuseppe e dei suoi compagni, li ordinò tutti e cinque vescovi. Giuseppe divenne così nel 1881 il vescovo Abramo di al-Fayyūm. Come pastore, si sentì chiamato innanzitutto a servire i poveri, senza discriminare tra cristiani e non cristiani. A tale servizio egli unì un cammino di spoliazione personale: non volle mai sedere in una mensa differente da quella dei piccoli e degli emarginati, e rifiutò tutti i segni di distinzione esteriori e mondani che pure spettano per tradizione in quasi tutte le chiese a chi è rivestito della dignità episcopale.
Alla sua morte, una folla immensa di cristiani e musulmani accorse a dargli l'ultimo saluto.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

Abramo di al-Fayyūm (1829-1914)

martedì 9 giugno 2020

Efrem il Siro, la poesia come teologia

Anglicani, Cattolici, Veterocattolici e Luterani celebrano oggi la memoria di Efrem il Siro.
Efrem ci consegna un quadro molto importante della Chiesa orientale del IV secolo, una comunità cristiana costretta a vivere tra l’impero di Roma (prima accanito persecutore della fede cristiana, poi convertito superficialmente alla fede in Gesù Cristo) e il suo nemico di sempre: la Persia. La vita del Diacono Efrem testimonia una Chiesa viva e capace di produrre in lingua siriaca opere importanti caratterizzate da un’attenzione del tutto particolare per la liturgia e la figura di Maria che rendono le opere di Efrem ancora molto apprezzate.
Fu autore prolifico. Nei suoi testi emerge con evidenza la sua capacità di declinare il piano teologico e dottrinale con la poetica. In qualità di predicatore, capì l’importanza della musica e della poesia come strumenti per difendere l’ortodossia della fede cristiana.

Sant' Efrem il Siro, Diacono e dottore della Chiesa – Francesco ...
Efrem il Siro (+ 373)

Pur non coinvolto direttamente nelle dispute teologiche del IV secolo (per alcuni, tuttavia, appena battezzato seguì il vescovo Giacomo nel 325 al I Concilio Ecumenico celebrato a Nicea), fece sua e perfezionò la pedagogia chi, invece, fu protagonista di quella stagione così tormentata. Ario, i Padri Cappadoci, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano e soprattutto Bardesane, gnostico che predicava ad Edessa, si servivano delle poesie e degli inni per diffondere il loro pensiero teologico.
Le opere di Efrem, in prosa come in poesia, siano esse le Omelie oppure gli Inni non rimasero confinate negli scaffali della biblioteca che arricchiva la scuola di teologia di Giacomo di Nisibi: divennero liturgia esse stesse. Lo attestarono Basilio di Cesarea, che incontrò verso il 370, e Girolamo di Stridone che riporta nel suo De viris illustribus “che in certe Chiese, dopo la lettura della Bibbia, si leggevano pubblicamente le sue opere” (CXV). Non meraviglia che tra i titoli a lui attribuiti si trovi “arpa [cetra] dello Spirito Santo” per i meriti acquisiti soprattutto nei Carmina nisibena.
Efrem si distinse sempre per il servizio che rese alla Chiesa non solo in campo liturgico e teologico. Negli ultimi anni della sua vita organizzò gli aiuti umanitari resi indispensabili dalla grave carestia che aveva colpito la zona di Edessa: la sua autorevolezza fu garanzia di un’equa distribuzione dei viveri e dei soccorsi alle popolazioni colpite. (Massimo Salani)

Tracce di lettura

«Fu chiudendo
con la spada del cherubino,
che fu chiuso
il cammino dell’albero della vita.
Ma per i popoli,
il Signore di quest’albero
si è dato come cibo
lui stesso nell’oblazione (eucaristica).
Gli alberi dell’Eden
furono dati come alimento
al primo Adamo.
Per noi, il giardiniere
del Giardino in persona
si è fatto alimento
per le nostre anime.
Infatti tutti noi eravamo usciti
dal Paradiso assieme con Adamo,
che lo lasciò indietro.
Adesso che la spada è stata tolta
laggiù (sulla croce) dalla lancia
noi possiamo ritornarvi»
(Inno 49,9-11).

Columba (Colombano ) di Iona, santo della chiesa celtica

Il 9 giugno dell'anno 597, poco dopo la mezzanotte, si spegne nella chiesa del suo monastero Columba di Iona, monaco, uomo di cultura e pellegrino per Cristo.
Egli nacque in una potente famiglia irlandese della contea di Donegal, ma riconobbe presto di essere chiamato alla vita monastica piuttosto che a quella di capo e condottiero del suo clan.
Educato alla scuola di alcuni tra i più celebri monaci irlandesi, egli fu presto soprannominato Columcille, «colomba della chiesa», da cui il nome latino di Columba. Columba fu un uomo di grande cultura, molto versato nelle arti monastiche celtiche: egli fondò infatti i monasteri di Derry e Durrow, forse anche quello di Kells, dai quali ci sono giunti i più grandi capolavori della miniatura irlandese; ma seppe apprezzare anche le arti profane, e difese i bardi e i musici del suo tempo da quei monaci che volevano sopprimerne l'attività.
Columba, come molti monaci irlandesi, a un certo punto della sua vita si fece pellegrino per Cristo e divenne un predicatore itinerante assieme ad alcuni compagni. Ovunque lasciò un ricordo straordinario, e il suo ruolo di paciere nelle controversie politiche ed ecclesiali fu unanimemente apprezzato.
Egli finì la sua vita sull'isola di Iona, di fronte alla costa sudoccidentale della Scozia, dove dedicò gran parte del suo tempo alla guida del monastero da lui stesso fondato e alla composizione di inni e carmi di notevole qualità poetica e spirituale.
Columba è considerato assieme a Patrizio di Armagh e a Brigida di Kildare il più importante santo della chiesa celtica.
Columba di Iona (+597)

Tracce di lettura

Columba diede le ultime disposizioni ai suoi discepoli: «Amatevi gli uni gli altri senza finzioni. Siate nella pace. Se seguirete questa via sull'esempio dei santi padri, Dio, che dà forza al buono, vi aiuterà, e io intercederò per voi mentre dimorerò con lui».
La campana suonò per l'ufficio di mezzanotte. Il santo si alzò di corsa e si recò per primo in chiesa, inginocchiandosi in preghiera nei pressi dell'altare. Il fedele servo Diarmait lo seguiva da vicino, e vide l'intera chiesa ricolma di luce che irradiava dal santo. Quando i fratelli raggiunsero la soglia della chiesa, la luce svanì. Camminando nel buio, Diarmait trovò Columba che giaceva davanti all'altare. I monaci gli vennero intorno con le lampade, e cominciarono il lamento sul loro padre morente. Il santo, allora, aprì gli occhi e si guardò intorno. Vi era una meravigliosa gioia sul suo volto. Diarmait gli sostenne la destra per aiutarlo a benedire il coro dei fratelli, ed egli consegnò lo spirito.
(Adomnan, Vita di Columba 3,23).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

lunedì 8 giugno 2020

Il contemplativo, al centro della mischia

Nel mondo agitato di oggi non si comprende tutta l'economia del piano divino: si comprende l'azione, ma ben poco la contemplazione. Si sa, si vede, si crede che sia necessario agire; si stima colui che agisce, si apprezza quasi soltanto colui che agisce... e si agita. L'azione è certo necessaria, e non si può che apprezzarla; ma non è sufficiente. Se è sufficiente all'attività umana, non basta però alla vita cristiana, che è l'unione del divino e dell'umano.
In questo nostro tempo, in cui la fede sembra illanguidita, quando si vede un'anima generosa allontanarsi dal mondo e seppellirsi nella solitudine del chiostro, la si accusa facilmente, chiamando la sua condotta "egoistico anacronismo". (...) Nei tempi moderni in cui è necessario, metro per metro, difendere il terreno che si perde ogni giorno, sembrano indispensabili solo coloro che agiscono. (...)
Si parla di battaglie e non si sa cosa sia questa battaglia; si parla di campo di battaglia e si ignora dove si trovi il centro della mischia; si accusano le anime più generose di disertare la lotta, proprio quando esse si portano al centro di essa
(...) C'è molto lavoro, si deve dunque pregare molto: ecco il ragionamento divino.

- François Pollien, Valore apostolico della vita contemplativa, cc. III.IV.VI

Salvador Dalì, La tentazione di Sant'Antonio, 1946, Museo delle Belle Arti di Bruxelles

Thomas Ken. La pace è superiore ai canoni ecclesiastici

Gli anglicani ricordano oggi Thomas Ken, vescovo di Bath e Wells e innografo della Chiesa d'Inghilterra.
In un'epoca di continui rivolgimenti in seno alla politica e all'episcopato inglesi, Thomas emerse per la mitezza evangelica con cui seppe esercitare il proprio servizio di pastore, e per l'irreprensibilità della sua coscienza, che gli permise di non venir meno alla fedeltà nei riguardi anzitutto del vangelo ma anche delle istituzioni civili del suo paese.
Nato a Berkhamstead nel 1637, Thomas Ken studiò al New College di Oxford. Apprezzato per la sua generosità e il suo equilibrio, egli divenne cappellano reale di re Carlo II e fu quindi consacrato vescovo di Bath e Wells. Il suo rapporto con il sovrano non gli impedì di riprenderlo con franchezza e libertà quando questi si trovò a contraddire la propria fede.
Con l'ascesa al trono del re cattolico Giacomo II, la situazione di Ken divenne precaria; nel 1688 egli fu rinchiuso, in questo stesso giorno, nella torre di Londra, per essersi rifiutato di pubblicare nella propria diocesi l'atto con cui il nuovo sovrano ripristinava le indulgenze. Avendo tuttavia prestato giuramento di fedeltà al re, Thomas si rifiutò in seguito di riconoscere come re il protestante Guglielmo di Orange, a suo avviso illegittimamente asceso al trono d'Inghilterra. Privato della sede episcopale, Thomas visse in povertà e semplicità il resto dei suoi giorni, ritirato nella campagna inglese, dove compose inni tra i più celebri della liturgia anglicana e dove si impegnò per portare la pace fra le molteplici anime della cristianità britannica.
Thomas Ken morì il 19 marzo del 1711.

Tracce di lettura

Se non sarà giudicato opportuno che io e altri vescovi rinunciamo a rivendicare i nostri diritti canonici, suggerirei allora di procedere alla stesura di una lettera circolare da diffondere fra la gente, per sostenere umilmente ma al tempo stesso risolutamente la causa per la quale soffriamo, e dichiarare che la nostra opinione non è cambiata; almeno potremmo far comprendere che rimarremmo nei nostri pubblici uffici solo per obbedienza, e anzitutto perché abbiamo il dovere di ripristinare la pace nella chiesa. La pace è così importante da far passare in secondo piano anche i canoni ecclesiastici, che del resto sono di autorità umana e non divina.
Propongo questa soluzione con sottomissione, e mosso da sincero zelo per il bene della chiesa, chiedendo alla misericordia divina che ci guidi nelle vie della pace, perché possiamo glorificare Dio con un'anima sola e un'unica bocca.
(T. Ken, Lettera a Georges Hickes).

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

domenica 7 giugno 2020

Il vento soffia dove vuole

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLA TRINITÀ

Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai donato a noi, tuoi servi, la grazia di riconoscere, mediante la confessione della vera fede, la gloria dell’eterna Trinità e di adorare la sua unità nel potere della Maestà Divina; ti supplichiamo di custodirci in questa fede e di difenderci da ogni avversità; tu che vivi e regni, unico Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

Letture

Ap 4,1-11; Gv 3,1-15

Commento

Nella conversazione notturna con l’amico Nicodemo Gesù ci lascia un insegnamento sul suo modo di intendere l’impegno religioso, lontano dal semplice senso di appartenenza o dalla fedeltà legalistica alla lettera dei testi sacri. Il vento soffia (Gv 3,8), ma occorre dispiegare le vele della fede per lasciarci guidare dallo Spirito.

La direzione dalla quale e verso la quale si muove lo Spirito non è prevedibile, è capace di sorprenderci sempre. Per questo occorre essere dei navigatori attenti alle sue sollecitazioni, in modo da sapere da quale direzione prendere il vento. La nostra traversata si compie sotto la spinta di una fonte di energia che non può essere accumulata e conservata. È dunque necessaria una nostra apertura allo Spirito qui ed ora, in ogni momento, che si manifesta nella meditazione assidua della Parola di Dio. La nostra docilità alla sua azione non può venire meno, se non vogliamo esporci alle correnti e andare alla deriva.

Nel lungo periodo liturgico che dalla domenica dopo Pentecoste fino all'Avvento viene chiamato, secondo una antica tradizione, "tempo della Trinità" viene riassunto il principio e al tempo stesso il fine ultimo della creazione, la ragione per cui siamo stati creati e ciò che costituirà la nostra vita quando avremo combattuto la buona battaglia e preservato la fede fino alla fine: la vita nella Trinità, la partecipazione al mistero di un Dio unico ma non solitario, un Dio in tre persone, che chiama l'uomo a partecipare a quest'intima relazione.

Ma occorre rinascere dall'alto, dall'acqua e dallo Spirito Santo. Occorre lasciarsi rigenerare da Dio, per vedere il mondo con occhi sempre nuovi, per ascoltare e gustare tutte le cose con la meraviglia di un bambino da poco venuto alla luce.

Tutto è straordinario per chi accoglie il dono dello Spirito. La vita del cristiano non ha mai nulla di ordinario nel senso peggiorativo del termine. La noia, la monotonia, il vuoto, sono sensazioni lontane dalla vita di chi possiede Cristo e, in lui, l'intera Trinità divina. Chi ha fede non ha bisogno di stordire i sensi con emozioni sempre nuove. La fede rende la vita quotidiana luogo di incontro con Dio, in cui diventiamo destinatari e al tempo stesso dispensatori delle sue benedizioni.

- Rev. Dr. Luca Vona

venerdì 5 giugno 2020

Bonifacio, monaco evangelizzatore

Nel 755, mentre sta compiendo l'ennesimo viaggio missionario, cade in un'imboscata tesagli da un gruppo di briganti il vescovo Bonifacio, passato alla storia come l'apostolo delle genti germaniche.
Nativo di Crediton, nel regno del Wessex, Vinfrido era stato affidato come oblato al monastero di Exeter. Lì egli ricevette un'educazione ragguardevole sia nelle materie classiche che nelle discipline teologiche.

5 giugno, San Bonifacio vescovo di Magonza e martire
Bonifacio (ca 675-755)
Passato al monastero di Nursling, Vinfrido divenne un maestro famoso e attirò a sé numerosi allievi. All'età di 40 anni, poco dopo la sua elezione ad abate, seguendo un'antica tradizione dei monaci celti e poi di quelli britannici, Vinfrido lasciò Nursling, e ottenne dopo diverse peripezie il mandato papale per evangelizzare le genti germaniche. Assunto il nome di Bonifacio, egli ebbe contatti con Willibrord e svolse il proprio ministero itinerante in Turingia, Frisia, Assia, Baviera e Sassonia, fino a essere nominato arcivescovo, prima senza una precisa sede episcopale, e infine assumendo quella di Magonza.
Nella sua instancabile opera di evangelizzatore Bonifacio fondò diversi monasteri, alcuni dei quali diverranno tra i più celebri d'Europa in epoca carolingia, mantenendosi fedele alla propria vocazione di monaco e di padre spirituale fino alla fine dei suoi giorni.
È ricordato come martire, anche se in senso stretto non si può dire che sia stato ucciso in odium fidei. Il vero martirio fu la dedizione di tutta la sua vita alla causa del vangelo e ai propri fratelli.
Il suo corpo riposa nel monastero di Fulda, da lui stesso fondato nel 744.

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose

mercoledì 3 giugno 2020

La contemplazione che non sai

Sono numerose più che non si creda, anche in mezzo all'umile popolo cristiano, le anime che, sotto l'impulso dello Spirito Santo, praticano un'orazione vitale, che diventa per loro un'abitudine facile quanto le loro abitudini comuni. Ne fanno frequenti atti che sono la gioia più bella dei loro giorni; e questi atti, così semplicemente ripetuti, le innalzano, a loro insaputa, fino ad uno stato interiore, in cui non perdono più il sentimento intimo della presenza di Dio. Vivono con lui, in lui. Un mistero divino, il ricordo di una lettura, di una predica, la vista della natura e l'opera di Dio in loro, che so io?, le occuperanno dappertutto nel lavoro, nel riposo, perfino nelle conversazioni.
E questo stato sembra loro così naturale, che non sospettano neppure che sia contemplazione; le lascia così libere, le rende tanto sorridenti che nessuno può supporre la loro occupazione intima. Se voi diceste loro che sono contemplative, non lo crederebbero affatto e sarebbero molto meravigliate del vostro apprezzamento.
Ogni cristiano può dunque arrivare ad essere contemplativo; non c'è bisogno di alcun dono speciale di natura né di alcun favore eccezionale di grazia; nessuno stato fisico o spirituale vi si oppone, quando c'è una volontà seria di avvicinarsi a Dio e di unirsi a lui. Non occorre nemmeno usare mezzi difficili poiché le anime più semplici, nelle circostanze più ordinarie, vi arrivano attraverso vie comunissime. E questa contemplazione basta a condurre alle vette dell'unità. Sii certo che con questo mezzo tu puoi salire tutta la scala delle ascensioni fino alla più grande perfezione.

- Augustin Guillerand, certosino, La pianta di Dio, nn. 1188-1189, pp. 800-801

Contemplazione | La Civiltà Cattolica


Carlo Lwanga e i martiri ugandesi. Una fonte che ha molte sorgenti

Il 3 giugno, sulla collina di Namugongo, vengono arsi vivi 31 cristiani: oltre ad alcuni anglicani, il gruppo di tredici cattolici che fa capo a Carlo Lwanga, il quale aveva promesso al giovanissimo Kizito: “Io ti prenderò per mano, se dobbiamo morire per Gesù moriremo insieme, mano nella mano”. Il gruppo di questi martiri è costituito inoltre da: Luca Baanabakintu, Gyaviira Musoke e Mbaga Tuzinde, tutti del clan Mmamba; Giacomo Buuzabalyawo, figlio del tessitore reale e appartenente al clan Ngeye; Ambrogio Kibuuka, del clan Lugane e Anatolio Kiriggwajjo, guardiano delle mandrie del re; dal cameriere del re, Mukasa Kiriwawanvu e dal guardiano delle mandrie del re, Adolofo Mukasa Ludico, del clan Ba’Toro; dal sarto reale Mugagga Lubowa, del clan Ngo, da Achilleo Kiwanuka (clan Lugave) e da Bruno Sserunkuuma (clan Ndiga).

Il Coraggio della Castità: SANTI CARLO LWANGA E COMPAGNI MARTIRI
Carlo Lwanga (1865-1886)
Chi assiste all’esecuzione è impressionato dal sentirli pregare fino alla fine, senza un gemito. E’ un martirio che non spegne la fede in Uganda, anzi diventa seme di tantissime conversioni, come profeticamente aveva intuito Bruno Sserunkuuma poco prima di subire il martirio “Una fonte che ha molte sorgenti non si inaridirà mai; quando noi non ci saremo più altri verranno dopo di noi”.
Carlo Lwanga con i suoi 21 giovani compagni è stato canonizzato da Paolo VI nel 1964 e sul luogo del suo martirio oggi è stato edificato un magnifico santuario; a poca distanza, un altro santuario protestante ricorda i cristiani dell’altra confessione, martirizzati insieme a Carlo Lwanga. Da ricordare che insieme ai cristiani furono martirizzati anche alcuni musulmani: gli uni e gli altri avevano riconosciuto e testimoniato con il sangue che “Katonda” (cioè il Dio supremo dei loro antenati) era lo stesso Dio al quale si riferiscono sia la Bibbia che il Corano.

martedì 2 giugno 2020

La preghiera continua: uno sguardo reciproco

Non si tratta di recitare lunghe formule né di esercizi di pietà da compiere. Si tratta di uno stato d'animo. Si prega scopando le scale (cosa che spesso dimentico di fare), segando la legna e mettendola nella stufa, accostando al tubo le mani screpolate dal freddo, e assaporando gli ultimi pensieri su qualche ricamo della fantasia. Si offre tutto questo a Dio di tanto in tanto; si rimane, senza pensarci, in questa intenzione e in questo sguardo reciproco: ed è la preghiera, quella vera, quella che parte dal cuore e diviene vita; quella che unisce la formula del mattino a quella della sera e riempi la giornata; è essa che rende pieni i giorni e li rende dolci quando si presentano con delle spine in mano.

- Augustin Guillerand, certosino, Valore apostolico della vita contemplativa, t. 2, p. 183

certosino

Niceforo e lo scontro sulle immagini sacre

La chiesa Cattolica e le Chiese ortodosse celebrano oggi la memoria di Niceforo, I, Patriarca di Costantinopoli.
Niceforo è un santo che fu patriarca di Costantinopoli nell’epoca di quel rigurgito di iconoclastia che si ripresentò nel IX secolo, benché la questione fosse stata dogmaticamente risolta già nel II Concilio Ecumenico di Nicea del 787.
Niceforo nacque intorno al 758 da una famiglia agiata. Partecipò come segretario al secondo concilio di Nicea del 787. Dopo la caduta dell’imperatrice Irene (802), Niceforo ritornò nella capitale gestendo una casa per i poveri.
Alla morte del patriarca Tarasio (806), l'Imperatore Niceforo I decise di nominare patriarca Niceforo, benché fosse un semplice laico.

SANTO DEL GIORNO/ Il 2 giugno si celebra San Niceforo, patriarca ...
Niceforo, Patriarca di Costantinopoli (758-828)
Non sappiamo molto dei primi anni del ministero episcopale di Nioceforo. Le notizie aumentano con il sorgere dei problemi, allorquando il patriarca si oppose alla politica religiosa imperiale. Sotto l’impero di Leone V l’Armeno (813-820), infatti, esattamente nel dicembre 814, ci fu uno scontro tra l’imperatore e il patriarca, dovuto al fatto che Leone aveva ripreso la tendeza iconoclasta. San Niceforo, sostenuto da un’ampia schiera di vescovi e teologi iconòduli (tra cui san Teodoro Studita), invece, si poneva sulla linea della tradizione che non solo promuoveva la venerazione delle immagini sacre, ma ne affermava anche la liceità dogmatica. Per il suo strenuo coraggio di non sottomettersi ai compromessi imperiali, san Niceforo fu deposto e costretto all’esilio.
Niceforo dovette ritirarsi nel monastero di San Teodoro, a nord di Crisopoli (località poi distrutta, attualmente corrispondente al quartiere Üsküdar di Istanbul). Tra l’814 e l’820 ebbe modo di comporre, tra le sue opere religiose e storiche, scritti che riguardano la controversia iconoclastica.
Sotto Michele II ricevette la proposta di tornare patriarca a condizione che non si immischiasse nella controversia iconoclastica, ma il santo vescovo rifiutò. Rimase in quel monastero fino alla sua morte, che avvenne nell’828.
Morto in esilio, il suo corpo fu solennemente riportato a Costantinopoli dall’imperatrice Teodora, il 13 marzo 846.
E' venerato sia dalla Chiesa Cattolica che dalle Chiese Ortodosse il giorno 2 giugno. Gli ortodossi ricordano anche la traslazione del suo corpo il 13 marzo.

- Ruggiero Lattanzio

lunedì 1 giugno 2020

Giustino martire e i "semi del Verbo"

Cattolici, ortodossi, anglicani, luterani e veterocattolici celebrano oggi la memoria di Giustino.

Attorno all'anno 165, sotto l'imperatore Marco Aurelio, muore martire assieme a sei compagni Giustino, ricordato nella tradizione antica come «il Filosofo».
Nativo di Flavia Neapolis, l'antica Sichem, Giustino era di famiglia pagana. Egli ricevette un'educazione raffinata nell'ambiente ellenistico del suo tempo, e cercò la risposta ai suoi più profondi interrogativi esistenziali aderendo a diverse scuole filosofiche, senza tuttavia trovare la pace a cui anelava.

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Giustino (+ 165 ca)

La sua vita cominciò a cambiare quando incontrò gli scritti dell'Antico Testamento, verosimilmente nell'interpretazione datane dai maestri ebrei di quell'epoca. Attraverso le Scritture ebraiche, Giustino approdò al cristianesimo, probabilmente a Efeso. Decisiva per la sua adesione alla fede cristiana fu la testimonianza di tutti coloro che per Cristo erano disposti a dare la vita fino al martirio.
A Efeso egli decise di vestire il pallio dei filosofi e di iniziare un ministero di predicazione itinerante di quella che era ormai per lui «la vera filosofia». Giunto a Roma sotto Antonino Pio, vi fondò una scuola per diffondere il cristianesimo.
Giustino passò alla storia per la passione e la coerenza con cui difese la fede cristiana dalle accuse dei detrattori. Ciò non gli impedì tuttavia di riconoscere i semi del Verbo presenti al di là dei confini della chiesa visibile, e in tal modo radicò l'annuncio della novità cristiana nella sapienza dei filosofi pagani e dei profeti di Israele.
Giustino morì in un luogo imprecisato, per essersi rifiutato di sacrificare agli dei, dopo aver raggiunto, non senza affrontare molte prove, quella serenità che era stata il fine di tutta la sua ricerca filosofica.

Tracce di lettura

Noi affermiamo che Cristo è nato centocinquant'anni fa sotto Cirino, e ci insegnò quello che noi diciamo, qualche tempo dopo, sotto Ponzio Pilato. Nessuno obietti che tutti gli uomini che vissero prima sarebbero irresponsabili.
Ci è stato insegnato che Cristo è il primogenito di Dio, e abbiamo dimostrato che egli è il Verbo di cui fu partecipe tutto il genere umano. Coloro che vissero secondo il Verbo sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come tra i greci Socrate ed Eraclito, e tra i barbari Abramo, Anania, Azaria e Misaele e molti altri. Quanti sono vissuti e vivono secondo il Verbo, sono cristiani, e sono impavidi e imperturbabili.
(Giustino, Apologie 1,46,1-4)

- Dal Martirologio ecumenico della Comunità monastica di Bose