COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA IV DOMENICA DI QUARESIMA
Colletta
Dio
Onnipotente, ti supplichiamo, sebbene meritevoli della tua punizione per i
nostri peccati, di essere risollevati dal conforto della tua grazia. Per il
nostro Signore gesù Cristo. Amen
Letture:
Gal 4,21-31; Gv 6,1-15
C’è una contesa in corso tra il figlio della
schiava e il figlio della libera, ci spiega Paolo nella sua lettera ai Galati,
con una acuta esegesi del racconto della Genesi sui figli di Abramo. Il figlio
della schiava è la Gerusalemme di quaggiù dice Paolo, ma il figlio della libera
è la Gerusalemme celeste, che è “libera” e “la madre di tutti noi” (Gal 4,26).
Questa lotta è al tempo stesso, dentro e fuori di
noi. Fuori di noi, tra coloro che sono stati rigenerati nella Fede e coloro che
operano contro l’affermazione del messaggio evangelico. Dentro di noi, fra la
nostra umanità segnata dal peccato, dalla sua fragilità, dai suoi limiti, e la
Grazia che ci è stata donata in Cristo, la quale opera incenssantemente, per
dare alla luce l’uomo nuovo e realizzare quella “rinascita dall’alto” di cui
parla Gesù nel dialogo notturno con Nicodemo (Gv 3,1-21).
La povertà delle nostre risorse e la fallacia
dell’essere umano è fin troppo evidente, nelle piccole e grandi sconfitte che
subiamo ogni giorno come cristiani che cercano di conformare la propria vita al
Vangelo e nella barbarie che dilaga nel mondo. Al punto tale che è
costantemente in agguato la tentazione di lasciarsi andare allo sconforto e
alla rinuncia nella ricerca della santità cristiana e del bene comune.
Ma noi come credenti siamo chiamati a credere e
sperare, oltre ogni speranza, che Colui il quale ci ha dato la promessa della
nostra salvezza, sarà capace anche di portarla a compimento; dobbiamo credere
che Egli ci sarà fedele, al di là di ogni nostra infedeltà. Dio infatti, sa
prendere la nostra povertà e trasformarla in abbondanza.
È questo il senso del miracolo dei pani e dei
pesci, che ci propone oggi il Vangelo di Giovanni. Uno dei prodigi più
sorprendenti tra quelli compiuti da Gesù, ha come suo scopo un insegnamento
teologico profondo, non certo la meraviglia delle folle fine a se stessa. Il
Signore, infatti, dopo averlo compiuto, torna a rifugiarsi nella solitudine del
monte, per sottrarsi al desiderio del popolo di “prenderlo per farlo re”. Come
testimonierà più avanti, Gesù, di fronte a Pilato “Il mio regno non è di questo
mondo” (Gv 18,36).
Gesù in realtà fugge sul monte già nelle prime
scene di questo racconto evangelico. Poco prima si era dichiarato Figlio di
Dio, signore persino del sabato e della legge mosaica. Di fronte ai Gudei che
lo accusano di operare di sabato, perché aveva appena guarito un paralitico,
Gesù afferma che Mosè ha scritto di lui. Dopo questa dichiarazione così grande,
Gesù fugge sul monte, forse per paura di essere ucciso, ma in realtà vi è una
polarità continua nel suo ministero, tra il desiderio di manifestarsi nella sua
natura divina e un desiderio di nascondimento da quel mondo nel quale è venuta la
luce, ma le tenebre non l’hanno accolta (Gv 1).
È sempre il principio della carità ad avere il
primato nella vita di Cristo, che ci chiama a imitare il suo esempio. Per
questo il riposo del sabato può essere violato, se si tratta di restituire la
salute a un malato. E per lo stesso motivo, viste le folle che cercano di
seguirlo anche sul monte, Gesù non riesce a restare indifferente e la sua prima
preoccupazione è di sfamarle. Ciò che gli apostoli hanno a disposizione è
davvero poco, come afferma Filippo, con parole che sembrano velate di ironia:
“Duecento denari di pane non basterebbero per loro, perché ognuno possa averne
un pezzetto” (Gv 6,7). Andrea, pragmatico, si da da fare, e trova un ragazzo
con “cinque pani d’orzo e due piccoli pesci”; ma deve riconoscere sconfortato:
“che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6,9).
Ma la bontà di Dio è capace di moltiplicare i
nostri miseri talenti, consentendo agli uomini di saziarsi e di tornare a casa
addirittura con una riserva più abbondante di ciò che avevano in partenza:
“riempirono dodici cesti con i pezzi di quei cinque pani d’orzo avanzati a
coloro che avevano mangiato” (Gv 6, 13).
Se dunque il figlio della schiava, ovvero la
nostra umanità soggetta al peccato, tenta di prevaricarci, come individui e
come comunità, non disperiamo della nostra capacità di reagire; finché non
abbia la meglio il figlio della libera, quel seme divino che è stato posto nei
nostri cuori. Rallegriamoci, dunque anche se a volte, siamo come una sterile
che non partorisce nulla; “perché i figli dell’abbandonata saranno più numerosi
di quelli di colei che aveva marito” (Gal 4,27). Noi infatti siamo “i figli
della promessa” (Gal 4,28). Preghiamo affinché colui che ha promesso, porti
anche a compimento la sua opera in noi. Amen.
Rev. Luca Vona
Missione Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
Chiesa Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart
Rettore Rev. Luca Vona
Venerabile Arcidiacono per l'Italia - Diocesi Anglicana Cattolica di Cristo Redentore
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