Il Rev. Dr. Luca Vona
Un evangelico nel Deserto

Ministro della Christian Universalist Association

sabato 10 marzo 2018

Che cos'è questo per tanta gente?


COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA IV DOMENICA DI QUARESIMA


Colletta

Dio Onnipotente, ti supplichiamo, sebbene meritevoli della tua punizione per i nostri peccati, di essere risollevati dal conforto della tua grazia. Per il nostro Signore gesù Cristo. Amen


Letture:

Gal 4,21-31; Gv 6,1-15

C’è una contesa in corso tra il figlio della schiava e il figlio della libera, ci spiega Paolo nella sua lettera ai Galati, con una acuta esegesi del racconto della Genesi sui figli di Abramo. Il figlio della schiava è la Gerusalemme di quaggiù dice Paolo, ma il figlio della libera è la Gerusalemme celeste, che è “libera” e “la madre di tutti noi” (Gal 4,26).
Questa lotta è al tempo stesso, dentro e fuori di noi. Fuori di noi, tra coloro che sono stati rigenerati nella Fede e coloro che operano contro l’affermazione del messaggio evangelico. Dentro di noi, fra la nostra umanità segnata dal peccato, dalla sua fragilità, dai suoi limiti, e la Grazia che ci è stata donata in Cristo, la quale opera incenssantemente, per dare alla luce l’uomo nuovo e realizzare quella “rinascita dall’alto” di cui parla Gesù nel dialogo notturno con Nicodemo (Gv 3,1-21).
La povertà delle nostre risorse e la fallacia dell’essere umano è fin troppo evidente, nelle piccole e grandi sconfitte che subiamo ogni giorno come cristiani che cercano di conformare la propria vita al Vangelo e nella barbarie che dilaga nel mondo. Al punto tale che è costantemente in agguato la tentazione di lasciarsi andare allo sconforto e alla rinuncia nella ricerca della santità cristiana e del bene comune.
Ma noi come credenti siamo chiamati a credere e sperare, oltre ogni speranza, che Colui il quale ci ha dato la promessa della nostra salvezza, sarà capace anche di portarla a compimento; dobbiamo credere che Egli ci sarà fedele, al di là di ogni nostra infedeltà. Dio infatti, sa prendere la nostra povertà e trasformarla in abbondanza.
È questo il senso del miracolo dei pani e dei pesci, che ci propone oggi il Vangelo di Giovanni. Uno dei prodigi più sorprendenti tra quelli compiuti da Gesù, ha come suo scopo un insegnamento teologico profondo, non certo la meraviglia delle folle fine a se stessa. Il Signore, infatti, dopo averlo compiuto, torna a rifugiarsi nella solitudine del monte, per sottrarsi al desiderio del popolo di “prenderlo per farlo re”. Come testimonierà più avanti, Gesù, di fronte a Pilato “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).
Gesù in realtà fugge sul monte già nelle prime scene di questo racconto evangelico. Poco prima si era dichiarato Figlio di Dio, signore persino del sabato e della legge mosaica. Di fronte ai Gudei che lo accusano di operare di sabato, perché aveva appena guarito un paralitico, Gesù afferma che Mosè ha scritto di lui. Dopo questa dichiarazione così grande, Gesù fugge sul monte, forse per paura di essere ucciso, ma in realtà vi è una polarità continua nel suo ministero, tra il desiderio di manifestarsi nella sua natura divina e un desiderio di nascondimento da quel mondo nel quale è venuta la luce, ma le tenebre non l’hanno accolta (Gv 1).
È sempre il principio della carità ad avere il primato nella vita di Cristo, che ci chiama a imitare il suo esempio. Per questo il riposo del sabato può essere violato, se si tratta di restituire la salute a un malato. E per lo stesso motivo, viste le folle che cercano di seguirlo anche sul monte, Gesù non riesce a restare indifferente e la sua prima preoccupazione è di sfamarle. Ciò che gli apostoli hanno a disposizione è davvero poco, come afferma Filippo, con parole che sembrano velate di ironia: “Duecento denari di pane non basterebbero per loro, perché ognuno possa averne un pezzetto” (Gv 6,7). Andrea, pragmatico, si da da fare, e trova un ragazzo con “cinque pani d’orzo e due piccoli pesci”; ma deve riconoscere sconfortato: “che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6,9).
Ma la bontà di Dio è capace di moltiplicare i nostri miseri talenti, consentendo agli uomini di saziarsi e di tornare a casa addirittura con una riserva più abbondante di ciò che avevano in partenza: “riempirono dodici cesti con i pezzi di quei cinque pani d’orzo avanzati a coloro che avevano mangiato” (Gv 6, 13).
Se dunque il figlio della schiava, ovvero la nostra umanità soggetta al peccato, tenta di prevaricarci, come individui e come comunità, non disperiamo della nostra capacità di reagire; finché non abbia la meglio il figlio della libera, quel seme divino che è stato posto nei nostri cuori. Rallegriamoci, dunque anche se a volte, siamo come una sterile che non partorisce nulla; “perché i figli dell’abbandonata saranno più numerosi di quelli di colei che aveva marito” (Gal 4,27). Noi infatti siamo “i figli della promessa” (Gal 4,28). Preghiamo affinché colui che ha promesso, porti anche a compimento la sua opera in noi. Amen.

Rev. Luca Vona
Missione Anglicana Tradizionalista Carlo I Stuart



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